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“Guardami, ora non mi fai più paura” Lucia incontra chi l’ha voluta sfregiare, di Jenner Meletti

«Niente». È niente quell’uomo che è a tre metri da lei, stesso banco, a sinistra. L’uomo che ha mandato due sicari a bruciarle la faccia con l’acido. Lucia Annibali guarda avanti, guarda la faccia del giudice. Non vale la pena guardare l’uomo che le diceva “hai il viso più bello del mondo” e poi l’ha fatta sfigurare. Meglio guardare avanti. Dietro ci sono i due albanesi che nella sera del 16 aprile l’aspettavano a casa sua con l’acido solforico. «Cosa stai provando?», le chiede sottovoce l’avvocato difensore, Francesco Coli. «Niente», risponde lei. «Tengo duro. La più forte sono io». Poi si gira un attimo, per guardare il volto di Rubin Talaban, arrivato da Shkoder in Albania, l’uomo che per lei era solo un passamontagna nero. Era l’ultima cosa che aveva visto, quella sera. Poi ci furono soltanto la mano che lanciava l’acido, l’urlo di dolore, il buio che le copriva gli occhi.
«Volevo vedere — dice Lucia — che faccia avessero, quei due. Non li avevo mai visti prima. Quello con il passamontagna è stato il mio incubo». In ospedale, le prime notti, quando sentiva dei passi e gli occhi ancora erano spenti, credeva che l’uomo che l’aveva rovinata venisse a finire il suo lavoro. Per un attimo ha cercato anche lo sguardo del suo ex fidanzato, stretto fra due guardie di custodia. «Volevo fargli vedere cosa mi ha fatto. Un attimo solo mi è bastato. Prima di arrivare in udienza ero agitata, sentivo dentro apprensione e anche paura. Poi in aula mi sono rilassata. Ho guardato quei tre e mi sono detta: Lucia, hai superato la prova. Quando ho guardato il mio ex ho capito una cosa importante: non mi fa più paura».
Cappotto rosso fuoco, cappello scuro e occhiali. Appena esce dall’auto dei carabinieri Lucia Annibali si toglie la maschera di silicone che deve portare almeno quattro ore al giorno. È scesa nel garage del tribunale, lontano da taccuini e telecamere. All’ingresso principale ci sono le donne dell’Udi con i cartelli: “Lucia potrei essere io”. Lei, per ora, vuole mostrare il suo volto solo a chi le ha fatto troppo male e al giudice che dovrà dare giustizia. L’udienza è breve, poche ore. Gli avvocati della difesa chiedono il rito abbreviato «subordinato però a integrazioni probatorie». Vogliono sentire altri testimoni e periti. Il giudice Maurizio Di Palma dice che l’istruttoria non ha bisogno di integrazioni. Fissa l’udienza per il 21 febbraio, il 22 ci sarà la sentenza. Non sarà passato nemmeno un anno dall’aggressione, a volte la giustizia riesce a essere veloce. «Sono contenta di questa decisione — dice Lucia Annibali, anche lei avvocato — Presto potrò avere giustizia e non è cosa da poco. Ho guardato gli accusati solo per un attimo perché io oggi non dovevo guardare loro ma guardare avanti, al mio futuro. È quel che ora conta davvero per me». Il suo avvocato, quando il giudice esce dall’aula, le chiede: «Lucia, cosa vuoi fare?». C’è sempre la porta secondaria che porta al garage, la macchina dei carabinieri è pronta al viaggio verso Urbino. Lucia non risponde, ma con la mano indica la porta principale. Sa che di là ci sono dieci telecamere pronte, ci sono i cronisti e i fotografi. «Senza dire una parola — dice l’avvocato Francesco Coli — con quella decisione Lucia ha spiegato tutto: la più forte sono io, sono uscita dal guscio e non ho paura a mostrare il mio volto ferito. Voglio rientrare nel mondo delle persone normali».
Flash, applausi e grida. «Lucia, Lucia…». Con il padre, la madre e il fratello la donna sale a salutare il procuratore capo Manfredi Palumbo. Dal garage partono invece i cellulari con Luca Varani e gli albanesi Altistin Precetaj e Eubin Talaban. L’uomo accusato di essere il mandante dell’oltraggio ancora una volta ha raccontato la sua verità. «Io volevo che con l’acido i due albanesi facessero danni all’auto di Lucia, non a lei. Oggi ho offerto un appartamento, come risarcimento. So che è un piccolo gesto ma è tutto quello che posso fare». Offerta respinta. Luca Varani ha avuto una figlia, due mesi fa, dalla fidanzata “ufficiale”, sempre nascosta a Lucia. Lui ha riconosciuto la figlia, la donna lo va a trovare in carcere.
Lucia Annibali esce dal portone centrale del palazzo di giustizia. Ci sono tante donne ad applaudirla. Sui loro cartelli hanno scritto “Siamo tutte parte lesa”, “Gli schiaffi sono schiaffi. Scambiarli per amore fa molto male”. Una troupe riesce a ripeterle la domanda: «Cos’ha provato, a rivedere Varani?». «Niente», risponde ancora. Lei deve guardare avanti, al suo futuro. Oggi sarà ancora all’ospedale di Parma per un controllo. Forse più serena. Gli incubi, quando hanno un volto e non sono soltanto un passamontagna, fanno meno paura.

La Repubblica 10.12.13

“Arriva un carabiniere per salvare Pompei”, di Salvatore Settis

Con la norma “Valore cultura” il governo Letta ha assegnato a se stesso un compito impossibile: trovare per Pompei un “direttore generale di progetto” preposto non solo all’area archeologica (compresi gli appalti).
Ma anche al rilancio economico- sociale e alla riqualificazione ambientale e urbanistica di un’enorme area «Grande Pompei», con relativo piano strategico, turistico e di gestione. Cucito questo vestito troppo grande per chiunque, era press’a poco impossibile trovare chi vi stesse dentro: donde la girandola di candidature dei giorni scorsi. Può far scalpore che le sorti di Pompei siano affidate ad un carabiniere: ma in terra di grande criminalità organizzata in realtà è una scelta che non deve stupire. La soluzione trovata è elegante, anche se ancora imperfetta. L’accoppiata del generale dei Carabinieri Giovani Nistri e del Direttore generale ai beni culturali per l’Abruzzo Fabrizio Magani ha l’indubbio vantaggio di riportare Pompei nell’ambito dovuto (il ministero dei Beni Culturali, che ha ora competenza anche sul turismo). Magani sta dirigendo assai bene in Abruzzo la difficilissima situazione post-terremoto, ed è riuscito con grande tenacia e competenza a far partire i cantieri per la ricostruzione del centro storico dell’Aquila. Quanto al generale Nistri, il suo lavoro per la tutela del patrimonio culturale, è stato di prim’ordine. Insomma, se Nistri e Magani sapranno coordinarsi e dividersi bene i compiti, legalità, sicurezza, efficienza e tempistica dei lavori di Pompei dovrebbero essere assicurate.
Per essere ottimisti però manca qualcosa. Il ministro Bray ha dichiarato che è imminente la nomina di un nuovo Soprintendente: il fatto che né il direttore di progetto né il suo vice siano archeologi impone di fare una scelta di alto profilo, per competenza e capacità decisionale. Solo quando l’accoppiata Nistri-Magani si sarà arricchita di questo terzo, cruciale tassello si potrà giudicare della bontà ed efficacia del disegno istituzionale complessivo. Infine: mentre si apre qualche speranza per Pompei, non dimentichiamo l’Abruzzo: chi sarà il successore di Magani all’Aquila? Insomma: predicando bene e razzolando male, il governo ha sbandierato l’estrema urgenza del problema Pompei, ma ha perso quattro mesi (dall’8 agosto ad oggi) per decidere se il direttore generale dovesse essere un diplomatico, un archeologo, un banchiere, un magistrato, un architetto, con evidenti contrasti fra la soluzione tecnica voluta da Bray e le opzioni politiche della Presidenza del Consiglio. Per fortuna ha vinto Bray; ma ora davvero non si può perdere più nemmeno un minuto.

La Repubblica 10.12.13

“Il Pd di Renzi un partito di centrosinistra”, di Carlo Buttaroni

Il Pd di Renzi sarà un partito «più di centro-sinistra». O, per lo meno, lo vede così la maggioranza degli intervistati. Il Pd sarebbe stato «più di sinistra» con Cuperlo e ancor più con Civati. Ma la collocazione politica del Pd nato ieri è solo un dettaglio rispetto alle attese che hanno trovato espressione in una partecipazione meno omogenea rispetto al passato e sicuramente più articolata nelle sue espressioni sociali e politiche.
Una partecipazione dove, di là dei numeri ufficiali, la contaminazione tra culture diverse si riflette nella variegata colorazione dei profili di quanti si sono recati alle urne. Solo il 70% è rappresentato, infatti, da elettori che alle politiche dello scorso febbraio avevano votato Pd, mentre il 30% arriva da altri partiti o dall’astensione. Una multiformità che segnala una corrispondenza più bassa, rispetto al passato, tra elettori delle politiche e «popolo delle primarie», ma dice molto delle aspettative che hanno caricato la vigilia di questa consultazione. Attese che vanno di là dell’elezione del segretario del Pd e riguardano, molto da vicino, tutta la politica. Perché tra le pieghe di questo voto c’è, prima di ogni altra cosa, una richiesta di cambiamento. Ed è questo sentimento diffuso che ha spinto una consistente quota di cittadini, anche non del Pd, a recarsi ai seggi per scegliere il segretario di un partito che potreb- be persino non essere quello che voteranno.
La partecipazione si è mantenuta alta. E già di per sé è una buona notizia, perché in questa lunga e sofferente stagione, dove la politica è riuscita spesso a esprimere il peggio di sé, ci si poteva aspettare un abbandono dalle forme di partecipazione militante. Così non è stato, e questo è forse il segnale più importante della giornata di ieri. Ciascuno dei tre candidati ha raccolto consensi da elettori con profili sociali molto diversi: Renzi è stato più trasversale, Cuperlo è andato meglio tra chi ha più di 45 anni, Civati ha ottenuto più consensi tra i giovani.
CONTRAPPOSIZIONE VERSO IL PASSATO
Le molte sfaccettature di queste primarie si riflettono nelle aspettative custodite in profili talvolta persino opposti, che hanno però come denominatore comune lo stesso desiderio di rifondazione della politica, il desiderio di esserci in prima per- sona, di non essere più lontani ed estranei da ciò che accade. Perché il dato più significativo delle primarie non è nei risultati dello scrutinio, ma nei gesti di quei cittadini che hanno depositato le proprie speranze in un’urna.Attese che rivelano una contrapposizione con il recente passato che non potrebbe essere più netta: da una parte l’individualismo egoista, disgregatore di più ampie e morali solidarietà, nu- trito nella culla dell’affermazione personale e del successo a tutti i costi; dall’altra, l’etica pubblica, cresciuta nell’alveo di una società civile che ha riscoperto il bisogno di riprendere il filo lacerato di una convivenza come base per la ricostruzione. Un’etica che è punto d’incontro dell’interesse convergente del bene comune, fondata sul valore intrinseco e intangibile della persona umana e della sua dignità, ma anche declinata su una solidarietà condivisa e incastonata tra le righe di nuovi diritti e nuovi doveri. Un ethos inteso non solo come capacità morale, ma anche come competenza e conoscenza, come stimolo e tensione interiore a operare pubblicamente nella giustizia e a favore dell’interesse di tutti.
Non è ancora un progetto ma sembra assomigliargli molto: la speranza di far tornare la politica a favore dell’uomo, di rifondare la società su scelte
che pongono la questione morale a fondamento di quella civile, di sapersi far carico dell’idea di bene comune per tornare a una dimensione naturale dell’uomo-sociale. Ma l’uomo non risponde a due chiamate diverse, una sociale e una individuale; non persegue due destini. E non può sopravvivere a se stesso se spogliato della sua completezza, perché qualsiasi ambito è stretto nel momento in cui compie lo sforzo di respirare al massimo. È questo il grande fallimento dei partiti in questi anni: aver creduto che ciascuno potesse bastare a se stesso e che la politica, contraddicendo se stessa, potesse svuotarsi di valori e dei grandi orizzonti, sostituendoli con leadership forti.
Così com’è stato alle elezioni politiche, anche nella variegata partecipazione alle primarie si riflette la domanda di un nuovo patto che chiama in causa la politica. Ed è questo l’«impegno» che è stato depositato nelle urne delle primarie anche da parte di chi non è elettore del Pd. Un impegno che chiede di dirigersi, senza equivoci, non più verso l’utile individuale, ma verso il bene della comunità, verso una libertà che si accresce e si rafforza in un sistema di valori e di solidarietà intelligente.
La partecipazione alle primarie esprime forme assai lontane dall’osservazione voyeuristica, pantofolaia e disincantata degli ultimi anni e, ancor più, prende le distanze dal sistema politico che ha caratterizzato questi ultimi anni. Un apparato sinora attento soprattutto a mettere insieme candidati capaci di raccogliere consenso, esaltando il ruolo e l’immagine del leader come unico medium della proiezione verso l’esterno e sempre più dipendente dalle risorse pubbliche, dando corpo a partiti orientati, prevalentemente, alla conquista di cariche elettive e svincolati da qualsiasi rappresentanza sociale e da qualsiasi orientamento valoriale.
I DIRITTI E I DOVERI DELLA POLITICA
E mentre l’Italia veniva messa in ginocchio dalla crisi più grave economica e sociale della sua storia, il sistema politico, anziché aprirsi e farsi interprete delle nuove istanze, è sembrato teso a preservare se stesso, inca- pace di rispondere ai bisogni e alle attese dei cittadini, allontanandosi sempre più dalla società, proprio mentre quest’ultima si avvicinava sempre più alla politica.
La sfida che ora attende il nuovo Partito democratico è la stessa che si pone a tutto il sistema politico. Non si tratta solo di affermare il primato di questo o di quell’altro modello economico, ma di favorire una riconversione della positività del sociale, innestata su un’idea sostantiva dei diritti e dei doveri. Perché anche i diritti, per essere effettiva- mente tutelati al pari dei doveri, devono essere affermati in una dinamica virtuosa, che ha come obiettivo lo sviluppo umano e sociale, medium sostanziale anche per lo sviluppo economico.

L’Unità 09.12.13

“Il convegno Chi ha paura della scienza?”, di Nicla Vassallo*

Dato che si evidenziano spesso i pericoli della scienza, confondendo la ricerca scientifica con le applicazioni cui dà adito, occorre ricordare che la prima in sé consiste, per lo più, in ricerca pura, motivata dall’esigenza di comprendere, mentre sono le applicazioni scientifiche a sollevare, per lo più, effettivi problemi di ordine etico. Certo, alcuni pericoli vengono ben rimarcati dai critici della scienza: c’è chi sostiene che la nostra società sarebbe migliore senza la bomba atomica, chi sottolinea che la scienza conduce in alcuni campi alla disumanizzazione del lavoro, chi incrimina la scienza per il fatto di minacciare la fede religiosa, chi vede nella scienza una manifestazione del solo pensiero occidentale e uno strumento deplorevole della dominio occidentale sulle culture “altre”, chi è convinto che la scienza venga confutata da troppi pregiudizi maschilisti che contiene. Non intendo tentare qui di capire se questi siano demeriti effettivi della scienza, o letture viziate di essa. Anche perché ritengo che ogni individuo colto e ragionevole non abbia difficoltà a riconoscere che la scienza spicca tra le imprese umane. Non è forse la scienza ad aver trasformato in modo radicale la nostra esistenza quotidiana? E non è forse la scienza a modificare costantemente la nostra visione del mondo e di noi stessi, conducendoci a nutrire credenze e ad acquisire conoscenze cui non saremmo altrimenti approdati?
In effetti, la scienza esercita uno straordinario influsso sul nostro quotidiano – basti, per esempio, immaginare a che ne sarebbe di noi senza le tante scoperte e applicazioni scientifiche, su cui facciamo conto in quasi ogni comune attività. Meno banale è, invece, il fatto che nella cultura contemporanea non vi sia altra disciplina prestigiosa e poco controversa quanto la scienza: viene allora spontaneo chiedersi «cos’è la scienza?». Oggi, specie nel nostro paese, è frequente la tendenza a rispondere crudamente: la scienza è «qualcosa» di cui dobbiamo diffidare. Tuttavia, quel «qualcosa» che la risposta contiene, e si rifiuta di precisare, è proprio quanto ci proponiamo di chiarire con «cos’è la scienza?», cosicché la risposta evade la domanda e non possiamo ritenerci soddisfatti da quanto afferma: prima di giungere a diffidare di qualcosa, dobbiamo sapere che cos’è di cui occorre diffidare.
Coloro che sollevano perplessità etiche contro la tecnologia si trovano in una posizione quasi contraddittoria: intendono proibire alcune ricerche scientifiche perché ne temono le future applicazioni tecnologiche e, al contempo, non rinunciano alla maggior parte delle applicazioni passate, che hanno alle loro spalle la scienza e che sono ormai intrinseche al nostro modo di modo di vivere contemporaneo: si pensi (solo per fare alcuni esempi) alle automobili, agli aerei, alle tecnologie audio-visive, al computer, all’elettricità, alla penicillina.
Ancorché ordinaria, la confusione tra scienza e tecnologia, al pari di ogni altra confusione, risulta poco giustificata. Una cosa è, infatti, la conoscenza scientifica, che è conoscenza proposizionale (sapere che una proposizione è vera), un’altra è la conoscenza tecnologica (sapere come fare certe cose). Certo, sussistono connessioni tra questi due tipi di conoscenza. Ma non è legittimo far collassare l’una nell’altra, né sostenere che la scienza si propone il «saper fare», quale principale obiettivo. Per di più, credere che l’obiettivo della ricerca scientifica consista nel saper fare serve solo a coloro che si propongono di arrestare (per ragioni a me incomprensibili, sempre che di ragioni si tratti) il progresso scientifico.
Per quanto risulti arduo negare che la conoscenza scientifica venga utilizzata per scopi tecnologici antitetici occorre aver ben presente che da ciò non segue che la conoscenza scientifica in sé sia eticamente obiettabile. Lo è solo l’impiego che la società fa di tale conoscenza. La domanda allora è: nell’ipotesi che occorrano considerazioni di tipo etico nei confronti della tecnologia (o meglio della società che utilizza una certa tecnologia, o che non la utilizza), ha qualche senso applicare l’etica alla scienza? Molti filosofi sostengono che non ha senso, dato che scopo della scienza consiste nel fornirci conoscenza a proposito del mondo fisico. Altra questione è il come la società decida di servirsi di questa conoscenza. Possiamo appellarci all’etica per valutare le decisioni della società (a favore o contro una qualche applicazione tecnologia. Non, però, con lo scopo di sbarrare la strada alla scienza, scienza che è, infatti e per lo più, neutrale rispetto alla sfera dei valori. Altri filosofi la pensano diversamente. Contro la neutralità oppongono ovvie constatazioni, la seguente per esempio: dato che i medesimi dati scientifici risultano spiegabili in diversi modi, le scelte teoriche degli scienziati non sono determinate solo dai dati, bensì anche da influenze politiche, interessi economici e morali, fedi religiose, aspirazioni personali. Per questi filosofi la scienza è «carica di valori» e che, come tale, deve chiamare in causa l’etica.
Da parte mia, ritengo che occorra isolare la scienza dalle influenze politiche, economiche, morali, religiose e personali. E che questo possa avvenire tenendo salda la classica distinzione tra «contesto della scoperta» e «contesto della giustificazione»: cioè tra il modo in cui si giunge di fatto a una scoperta scientifica e il modo in cui si dovrebbe giungere ad essa. A livello di contesto della scoperta, quando lo scienziato seleziona problemi e genera ipotesi, accade che alcune influenze culturali giochino un ruolo più o meno rilevante. Esse però vengono a cadere al momento della giustificazione, ove a contare sono i metodi scientifici e le verifiche empiriche. Dato che è a livello della giustificazione, non della scoperta, che è lecito parlare di scienza, quest’ultima risulta allora impregnata di valori (non conoscitivi) solo in un senso assai debole, non rilevante. Rimangono i fatti del mondo fisico. Fatti che non sono né giusti, né sbagliati, né etici, né antietici, e che la scienza continua a consentirci di conoscere. Permettendoci così (non è poco) di realizzare pienamente la nostra natura umana: «Tutti gli esseri umani aspirano per natura al sapere», afferma Aristotele.

*Professore Ordinario di Filosofia Teoretica

L’UNità 09.12.13

“La miseria della gogna”, di Michele Serra

Chissà se, giudicando a mia volta molto duramente la messa all’indice di Francesco Merlo, la terza nomination toccherà a me, e la quarta a chi proverà a difendermi dal diluvio di atroci insulti e minacce che le bande che infestano il web dedicano ai giornalisti messi all’indice dal leader del Movimento Cinque Stelle. Rispetto a Oppo, il vantaggio di Merlo ed eventualmente mio è che dovrebbe esserci risparmiata la dose, veramente impressionante, di odio antifemminile che ha reso ancora più disgustoso il linciaggio della corsivista dell’Unità. Sono quasi tutti maschi, i bastonatori internauti, e anche questo è un indizio di quanto poco, ahimè, il mezzo abbia cambiato il messaggio.
Se Dario Fo leggesse i toni e le intenzioni di quei messaggi, ci troverebbe l’eco dell’odio fascista che colpì Franca, ovviamente senza piegarla, ovviamente rafforzandone il coraggio e la libertà.
Chissà se e quando qualcuna delle persone di buon senso che circondano Grillo gli farà capire che un leader politico, per sua dignità e per sua responsabilità, non è nelle condizioni di indicare ai suoi seguaci, con nome e cognome, una/un giornalista da odiare, senza finire inevitabilmente nel novero dei capataz arroganti e senza manomettere seriamente la propria autorevolezza politica. Noi giornalisti scriviamo tante cose, alcune utili altre no, alcune giuste altre no, ma da almeno un paio di secoli la democrazia garantisce alle nostre parole il diritto di esistere, salvo incorrere in reati (per esempio la diffamazione)
verificabili davanti a un tribunale.
I vaffanculo di Grillo (anche quelli ad personam) non gli sono stati imputati per via giudiziaria perché si riconosceva all’attore politico una certa licenza dialettica. Per quale forma di follia, dunque, Grillo (proprio lui!) si permette di negare ai giornalisti la libertà di criticarlo anche con durezza, e per giunta senza ricorrere alle insolenze che lui usa a piene mani? Qualcuno spieghi a Beppe Grillo che è il leader di un movimento politico di prima grandezza. E che questo potere — enorme — non gli consente più di prendere per il collo, anche solo metaforicamente, le persone fisiche che, con pieno diritto, e non avendo altra difesa che il proprio lavoro, hanno scelto di non essere a sua disposizione.

La Repubblica 09.12.13

“Il Museo del Deportato torna alla città”, di Serena Arbizzi

Quarant’anni per non dimenticare e per ribadire l’importanza della Memoria e valorizzare questo luogo tributandogli importanza nazionale ed oltre. Si è conclusa con quest’intento la cerimonia con cui ieri sono stati celebrati i 40 anni del Museo Monumento al Deportato politico e razziale nei campi di sterminio nazisti, uno dei più rilevanti musei in memoria della deportazione a livello internazionale. All’iniziativa di ieri, svoltasi alla Sala dei Mori di Palazzo Pio e nel pomeriggio all’ex Campo di Fossoli, hanno partecipato, oltre al sottosegretario del ministero dei Beni Culturali Ilaria Borletti Buitoni, l’assessore regionale alla Cultura Massimo Mezzetti, il sindaco Enrico Campedelli, la direttrice regionale della Soprintendenza, Carla di Francesco e un mosaico del mondo dell’associazionismo. Erano presenti, con il fazzolettone a righe bianco azzurre annodato al collo, esponenti dell’associazione nazionale ex deportati provenienti da diverse parti d’Italia, l’Associazione Nazionale Partigiani d’Italia, e altre associazioni che fecero parte del Comitato promotore del museo, insieme a rappresentanti di musei ed enti nazionali e internazionali. Le autorità insieme al presidente della Fondazione Fossoli Lorenzo Bertucelli hanno riaperto il museo dopo fondamentali interventi di restauro e ne è stata ripercorsa la storia particolarissima. «Dobbiamo lavorare affinchè questo luogo acquisti una rilevanza maggiore» ha promesso il sottosegretario Borletti Buitoni, mentre il presidente Bertucelli ha ricordato il Treno per Auschwitz, iniziativa che ritornerà per la decima edizione nel 2014, la prima settimana di aprile, coinvolgendo 500 ragazzi. C’è stato spazio anche per una nota polemica: l’ex segretario del partito socialista Aleardo Zinani, chiedendo d’intervenire, ha posto l’attenzione sulla legge della prima metà degli anni Ottanta che trasferì la proprietà del Campo dal demanio militare al Comune, menzionando il riferimento al campo di sterminio nazista, un riferimento che, secondo il segretario, spesso viene oscurato. La Fondazione Fossoli ha realizzato un’edizione speciale delle frasi graffite nel museo insieme a un cofanetto di foto che ne ripercorre la storia. È stato presentato un dvd sui lavori di restauro negli ultimi mesi e che riconsegnano un museo tutto recuperato. Riaperta anche la baracca recuperata del Campo di Fossoli; inaugurata la mostra “Immagini dal silenzio. La prima mostra nazionale dei lager nazisti”.

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«Questo è un luogo unico in Italia»

La testimonianza di due figli di deportati: «Qui riposa il ricordo di tante vite». «Tra le carte di mia madre, quand’è morta, ho trovato la corrispondenza con mio padre, quando lui era rinchiuso nel campo di Fossoli. La particolarità di questa raccolta è che ci sono sia le lettere in entrata, sia in uscita: mio padre consegnò tutte le lettere che aveva ricevuto proprio a mia madre in occasione dei viaggi rocamboleschi che lei affrontava per andarlo a trovare, in bici da Milano, o in treno, ad esempio. Ora queste lettere sono racchiuse nel libro “Amore e speranza”. Si legge negli occhi di Giuliano Banfi l’amore struggente che ha resistito potente alla barriera del filo spinato tra i suoi genitori, Gian Luigi Banfi, uno dei soci dello studio Bbpr e la madre Julia. Ieri Giuliano ha partecipato al quarantennale del Museo Monumento realizzato dallo studio del padre, quel Bbpr che rappresenta l’acronimo dei quattro nomi dei fondatori dal quale non venne mai meno la B di Banfi, nemmeno quando l’orrore del campo di Mauthausen se lo portò via il 10 aprile 1945, pochi giorni prima della Liberazione per una terribile beffa del destino. «Quando fu inaugurato il Museo realizzato dallo studio, che fu contattato dal sindaco di Carpi Bruno Losi, avevo 18 e ho seguito la cerimonia con grande partecipazione – prosegue Banfi – Da allora ho un legame particolare con la città». E un legame altrettanto particolare con Carpi c’è da parte di Anna Steiner, figlia di Albe, colui che curò l’allestimento grafico del Museo nel 1973 e protagonista insieme alla moglie Lica della resistenza al fascismo. «Il Museo Monumento è unico in Italia per il ruolo che ricopre nel ricordo della deportazione politica e razziale – commenta Anna Steiner – ed è anche un’opera d’arte importantissimo nel custodire il valore della Memoria». Anna si commuove, poi, nel ricordare i rapporti fra i genitori e lo studio Bbpr, e quando Banfi e Belgioioso furono presi per delazione il 21 marzo 1944, sotto l’accusa di spionaggio e complotto, e rinchiusi per tre mesi nel carcere di San Vittore, dopodichè Banfi fu mandato a Fossoli e successivamente a Bolzano ed infinte a Mauthausen.

La Gazzetta di Modena 09.12.13

“Ma la scuola italiana è davvero migliorata?”, di Benedetto Vertecchi

Non sono convinto che i dati della rilevazione Pisa 2012, appena diffusi dall’Ocse, siano da considerarsi un segnale di miglioramento circa la qualità dei risultati che si conseguono nel nostro sistema educativo. E ciò per varie ragioni, sia di carattere generale, in quanto riferibili ai traguardi d’insieme che la scuola persegue (o, almeno dichiara di voler perseguire)nei Paesi democratici, sia per una considerazione non semplicemente da bar dello sport delle posizioni occupate nelle graduatorie internazionali dai singoli Paesi.
Chi non si sia accontentato delle notizie d’agenzia, e abbia cercato di capire qualcosa di più consultando il rapporto ufficiale pubblicato dall’Ocse (Pisa 2012 Results: What Students Know and Can Do. Il testo è disponibile nel sito www.oecd.org), si è trovato, in apertura di libro, di fronte ad alcune affermazioni che non possono essere date per scontate. Nella premessa del segretario generale dell’Organizzazione, Angel Gurría, si legge, infatti, che i risultati educativi non devono essere valutati con riferimento a criteri definiti a livello nazionale, ma in una logica di economia globale, per la quale ciò che conta è ottenere prestazioni più elevate nel tempo più breve.

I dati Pisa dovrebbero,quindi,essere tenuti in considerazione dai governi e dagli educatori per definire politiche capaci di conseguire il traguardo indicato. In altre parole, si dà per scontato che l’educazione sia da considerarsi subalterna all’economia e che l’analisi dei fenomeni educativi debba essere effettuata avendo come riferimento le ricadute che dall’attività delle scuole si possono avere nei tempi brevi. Può anche darsi che argomentando da un punto di vista strettamente economico le cose stiano nel modo indicato nel rapporto dell’Ocse, ma non si può dare per scontato che tale punto di vista sia da considerare necessario per definire i traguardi dell’educazione. Se i traguardi perseguiti comprendono aspetti che riguardano lo sviluppo di un pensiero autonomo, di capacità interpretative, di conoscenze non necessariamente collegabili ai processi produttivi (tali sono le lettere e le arti, ma anche le interazioni con la natura non rivolte a trarne un subitaneo quanto precario vantaggio), la pedagogia implicita nelle affermazioni del segretario dell’Ocse non può che suscitare allarme.

Siamo di fronte a un’idea di educazione volta a conseguire obiettivi di utilità in tempi brevi, avendo in mente un’idea di competenza che non comprende, e anzi esclude perché in contrasto con l’economia globalizzata, la cultura come espressione di ciò che è specifico nelle condizioni di esistenza degli individui e dei popoli. Si direbbe che la competenza cui si aspira coincida con ciò che al momento è richiesto dai sistemi produttivi. Non ci si chiede quanto a lungo tale competenza conserverà il suo valore, e di conseguenza sosterrà il corso della vita di chi l’ha conseguita.

Quelli sommariamente richiamati sono aspetti sui quali è necessaria una riflessione a livello nazionale. E forse è anche il caso, una volta tanto, di dire che l’Europa ce lo chiede: certo non ci sollecita direttamente, ma proprio dalla comparazione tra le condizioni di funzionamento del nostro sistema educativo e quello di altri Paesi, che hanno ottenuto risultati nettamente più positivi,emerge lo scarto tra le opportunità d’istruzione e la qualità delle esperienze di cui fruiscono i nostri ragazzi e quelle correnti altrove.

Basti considerare alcuni dati: gli orari di funzionamento delle nostre scuole sono schiacciati sul tempo delle lezioni, senza possibilità di applicare ciò che è stato appreso, di compiere le esperienze e di sviluppare le interazioni che renderebbero qualitativamente apprezzabile l’apprendimento; c’è un’estrema disgregazione nella distribuzione territoriale dei risultati, con isole positive, o anche molto positive, ed estese aree di deprivazione; è inaccettabile il livello della varianza fra le scuole(ossia le differenze tra i risultati delle singole scuole), mentre sarebbe accettabile, in una certa misura, solo una varianza entro le scuole; si osservano differenze di genere nei risultati che sono rivelatrici non certo di capacità difformi,quanto della permanenza di stereotipi sessuali.

Un dubbio aggiuntivo è quanta parte del Punteggio ottenuto dai nostri ragazzi sia effetto d’interventi tesi ad addestrare gli allievi a rispondere a quesiti del tipo che sarebbe stato utilizzato per le rilevazioni Pisa. Indicazioni in tal senso sono state frequenti in passato, quando è sembrato che fosse una via rapida per risalire la china. Ma è veramente così? I punteggi ottenuti per addestramento riflettono competenze che durano quanto lo stimolo che li ha prodotti. I dati della rilevazione Pisa sarebbero importanti se costituissero il punto di partenza per una riflessione sui problemi della nostra scuola che investisse sia le scelte a carattere generale,sia le soluzioni organizzative e didattiche. Ma ciò dovrebbe essere fatto seguendo una linea interpretativa opposta a quella indicata dal segretario dell’Ocse. Si dovrebbe rivolgere la massima attenzione proprio a quanto c’è di specifico nella nostra cultura, a come siamo in grado di immaginare lo sviluppo del nostro Paese, ai rapporti col resto d’Europa, ai problemi di funzionamento del nostro sistema scolastico.

L’Unità 09.12.13