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“Il voto di Romano Prodi e il pensiero di Massimo D’Alema”, di Maria Novella Oppo

Per chi voterà Romano Prodi alle primarie Pd? È questa la domanda che rimbalzava ieri tra stampa e tv, tra i soliti noti del talk show e i tanti politologi specializzati. Chiaro che la cosa più importante è che Prodi abbia deciso di votare, come hanno subito dichiarato i tre candidati alla segreteria, per una volta uniti nel giudizio. Ma benché l’interrogativo sia secondario, non si può negare che attanagli anche noi spettatori votanti ed esitanti.
Il dubbio (chi votare?) infatti ci impegna anche personalmente, visto che è più quello che l’informazione, gli avversari politici e gli antipolitici hanno detto, scritto e urlato sulle diverse anime del Pd, di quello che hanno detto Renzi, Cuperlo e Civati sui loro programmi. Ma, almeno il Pd le sue anime ce le ha: meglio tante che nessuna; anche se, ad averne troppe si rischia l’autoconsunzione, come quelle sante del Medio Evo che si consumavano di esaltazione celeste.
Sembra strano, però, che a mettere sotto accusa le nostre anime siano quelli che non ne hanno affatto, ma lavorano sotto padrone a eseguire editti più o meno bulgari, in ritardo di qualche ventennio. Ma tanto, in tv tutto passa e tutti restano. Possiamo verificare sulle facce ben note il passare degli anni, come fossero le famose tacche sulle pistole dei cow boy. Ma, per carità, non parliamo di armi in casa degli armati di pensieri violenti, anzi non parliamo di armi in casa di nessuno: disarmo generalizzato nella casa comune! Anche nei dibattiti televisivi, dove il tempo non passa mai e non dura mai abbastanza da venire a capo di un problema.
E D’Alema, che cosa pensa? I conduttori lo chiedono a tutti i candidati e Cuperlo, ieri mattina a Omnibus, si è perfino incazzato con la conduttrice (peraltro bravissima), che non voleva mollare la presa su D’Alema. Il quale avrà i suoi difetti, ma non quello di non far capire ciò che pensa, senza bisogno di interpreti.

da unita.it

Prodi: “Mezza notte insonne… Vincitori e vinti facciano squadra”, da unita.it

La decisione di andare a votare per le primarie del Pd è stata sofferta. È quanto ha ‘confessato’ Romano Prodi che solo qualche giorno fa aveva annunciato l’intenzione di recarsi alle urne cambiando idea, dunque, rispetto al passato.

«Non dico che ho fatto una notte insonne – ha detto l’ex premier da Bologna dopo essere arrivato in tarda mattinata dall’estero – ma mezza notte insonne». Prodi intorno alle 15 ha votato al seggio Pd di via Orfeo poco distante dalla sua abitazione nel centro del capoluogo emiliano. Commentando le cifre parziali sull’affluenza, il fondatore dell’Ulivo è sembrato soddisfatto: «ho sentito che i dati vanno bene».

«Oggi, di fronte alla situazione particolare che si è creata, credo sia doveroso andare a votare alle primarie perchè il Pd, in questo stato di fibrillazione così forte, credo sia l’unico punto fermo che abbiamo»: così Romano Prodi spiega la decisione di andare alle urne per la scelta del segretario democratico. «L’ho fatto – ha spiegato l’ex premier prima di entrare nel seggio nel centro di Bologna – credo sia giusto e sia stato anche gradito».

«Adesso non esageriamo». Così Romano Prodi ha risposto a chi gli chiedeva se fosse intenzionato a rinnovare la tessera del Pd dopo il voto alle primarie. «Dal punto di vista politico – ha spiegato prima di recarsi al suo seggio per votare – non cambia niente».

VINCITORE E SCONFITTI PRIMARIE
FACCIANO UNA SQUADRA
«Quello che io raccomando è che sia il vincitore che quelli che perderanno abbiano l’obiettivo di fare una squadra che, ovviamente, sarà diretta da chi ha vinto ma con quegli equilibri e quelle mediazioni che rendono forte un partito politico». È l’appello lanciato Romano Prodi poco prima di andare a votare per le primarie del Partito democratico. «Le primarie – ha spiegato il fondatore dell’Ulivo conversando con i cronisti sotto la sua abitazione nel centro di Bologna – sono il momento dello scontro democratico. Un partito, dopo lo scontro, deve rimettersi assieme».

da unita.it

“Sul valore dell’esperienza”, di Benedetto Vertecchi

Proviamo, se possibile, a riflettere attorno alla condizione degli insegnanti liberi dagli strati di melassa che nel tempo si sono depositati attorno alla questione, e che ormai sono così spessi che non si riesce più a capire di che cosa si stia parlando. Per cominciare, c’è bisogno di individuare gli elementi che definiscono la professione e che non consentono di confonderla con altre, anche se per qualche aspetto si possono verificare delle sovrapposizioni. Si può procedere comparando le nozioni di insegnante che si ricavano dall’analisi di ciò che essi fanno nelle diverse culture in cui si esplica la loro attività: ebbene, gli elementi di contorno sono tanti, ma quello centrale è sempre lo stesso, ed è costituito dallo svolgimento, per delega, del compito di istruire.

Ciò premesso, occorre stabilire se il compito di istruire possa essere svolto da chiunque o solo da chi possieda determinate caratteristiche. Senza entrare nel merito di specifiche interpretazioni del compito degli insegnanti, che assumono significato in contesti sociali e culturali determinati, l’aspetto caratterizzante della professione è costituito dal fatto che chi insegna deve dominare un insieme di conoscenze almeno un po’ superiore a quello di chi impara. In altre parole, un requisito preliminare per svolgere la professione di insegnante è costituito dal possesso di conoscenze, considerate importante da chi conferisce la delega, in campi più o meno ampi del sapere. Occorre tuttavia anche essere capaci di condividere con altri (ossia con gli allievi) il sapere di cui si dispone. Proseguendo nel metodo che abbiamo adottato, quello di individuare gli elementi costitutivi della professione nella loro manifestazione meno condizionata da fattori locali, la capacità di condivisione del sapere si può collegare a una assunzione implicita di tipo sociale, o ad una esplicita derivante da apprendimento. Ovviamente, sono possibili soluzioni intermedie.

Si ha un’assunzione implicita quando il sapere da condividere è immanente in un insieme determinato di individui. In tal caso chi già possiede determinate conoscenze le trasmette a chi non le possiede, seguendo procedimenti imitativi di esperienze già acquisite (possono essere le pratiche esoteriche o i processi di cooptazione in gruppi più o meno consistenti). Le pratiche imitative possono consistere in comportamenti collettivi (vi partecipano i membri adulti dell’intero gruppo sociale), oppure essere delegati. Nel primo caso la condivisione del sapere corrisponde all’adempimento di un dovere sociale mentre, se si tratta di comportamenti delegati, ci si trova di fronte a pratiche professionali. Chi assume la delega deve assicurare che siano perseguiti gli intenti del delegante: per lo svolgimento di tale compito riceve un corrispettivo. La padronanza del sapere da condividere costituisce una precondizione per l’esercizio della professione degli insegnanti, mentre il contenuto professionale vero e proprio è rappresentato dalla capacità di corrispondere alla delega.

Nella storia dell’educazione le pratiche educative formali hanno per lo più riprodotto l’esperienza d’istruzione fruita da chi, nel seguito, si sarebbe dedicato all’insegnamento. I procedimenti imitativi hanno incominciato a mostrarsi inadeguati col crescere rapido da un lato della domanda d’istruzione, dall’altro del numero di persone che con la loro attività avrebbero dovuto soddisfarla. I riferimenti imitativi hanno rivelato la loro insufficienza, anche perché non adeguatamente sostenuti dagli atteggiamenti di frazioni consistenti della popolazione che, avendo fruito di esperienze limitate di educazione formale (e, talvolta, non ne avendone fruito per niente) non erano in condizione di concorrere a rafforzare l’azione della scuola. A quel punto hanno incominciato a svilupparsi, e nei casi migliori a sovrapporsi, due diverse linee per il conseguimento di un livello desiderato di capacità professionali: la prima è consistita nell’assumere come riferimento le esperienze professionali già compiute, incominciando da primi, incerti tentativi fino a conseguire una scioltezza d’azione progressivamente maggiore. L’altra linea ha fatto invece riferimento a un’accumulazione di conoscenze e di modelli operativi prodotti all’esterno della scuola, attraverso progetti di ricerca, raccolta di documentazione, studio di casi per qualche ragione rilevanti, sperimentazioni didattiche, ricorso a modelli innovativi di organizzazione eccetera. La contaminazione tra le due linee, dove è avvenuta, ha consentito di compiere scelte consapevoli, e di orientare le esperienze degli insegnanti al soddisfacimento di specifiche esigenze, con un effetto di accelerazione nell’acquisizione di un livello desiderato di capacità professionali. Ma una contaminazione virtuosa richiede che il medesimo impegno sia posto nella valorizzazione delle esperienze e nella ricerca educativa. Riflettere sulle esperienze è una condizione per interpretare il divenire dell’educazione, ma spetta alla ricerca conferire solidità alle interpretazioni.

Non basta, tuttavia, richiamare l’esperienza per conferire credito al profilo di una professione. Di esperienza si può, infatti, parlare in molti modi, e le affermazioni che a essa fanno riferimento possono essere il risultato di semplici procedimenti cumulativi o di più complesse inferenze. Se ci si accontenta di procedere per aggiunta di casi, la conoscenza che crediamo di aver acquisito non resiste alla contraddizione. Se, invece, l’esperienza è soggetta a una revisione critica, possiamo cogliere le trasformazioni che intercorrono nel tempo, rivedere le interpretazioni già formulate alla luce di nuove conoscenze, definire ipotesi innovative.

In Italia alla professione degli insegnanti è stato riconosciuto un più ampio credito sociale quando era più nitidamente definito quale fosse l’intento perseguito tramite la loro opera. Il credito si è ridotto quando il profilo professionale, considerato nella sua essenzialità, secondo i criteri che sono stati indicati, ha perso nitidezza, per l’aggiunta di altri compiti, molti dei quali riconducibili a campi di conoscenza estranei al contenuto della delega sociale sulla base della quale si pratica l’insegnamento. Per svolgere tali compiti, non di rado disponendo solo di riferimenti di senso comune, è stato necessario ridurre l’attenzione nei confronti del compito principale. Agli insegnanti è stato chiesto di svolgere funzioni vicarie della società civile, in settori come i comportamenti collettivi, la moralità, la solidarietà eccetera. A un profilo i cui tratti principali erano costituiti dal repertorio delle conoscenze possedute se ne è sostituito uno centrato sulla promozione di ideologia. La dilatazione delle responsabilità è avvenuta solo in senso estensivo, con un effetto di diminuzione progressiva dello spessore dei messaggi rivolti agli allievi. Sono cresciute, infine, ed è l’aspetto più grave della crisi che ha investito la professione degli insegnanti, le contraddizioni tra le esibizioni di voler essere che costituiscono ormai una parte di rilievo dell’attività delle scuole e le pratiche sociali: si critica il consumismo in una società consumista, si predica l’onestà in un contesto di corruzione dilagante, si esorta alla pace in uno scenario dominato dalla violenza, si richiede di apprendere quando tutto lascia intendere che sono altri i valori a cui si riconosce maggiore rilevanza. Chiunque potrebbe continuare a elencare le contraddizioni nelle quali si dibatte l’educazione scolastica. Ma sarebbe un esercizio sterile se non s’individuasse un punto dal quale avviare la risalita. È mia opinione che quel punto sia rappresentato dall’esperienza degli insegnanti, considerata nell’ambito della contaminazione virtuosa che prima ho richiamato.

da Tuttoscuola 08.12.13

“La nuova strada della sinistra”, di Michele Ciliberto

Alcuni giorni fa su un quotidiano un’acuta scrittrice ha sostenuto che oggi «non bastano le primarie» e ha citato, per rafforzare la sua tesi, l’esempio della Spd tedesca che, con audacia, ha sottoposto ai suoi iscritti il testo dell’accordo con la Cdu per l’approvazione. Se non ci sarà, la grande coalizione non potrà decollare.
Così la Spd ha dimostrato di non essere vincolata dall’ossessione dello stato di necessità e della stabilità: due totem che invece hanno dominato in Italia. Sono d’accordo con questa analisi; salvo il giudizio sulle primarie, e lo dico pur avendo espresso anche su questo giornale dubbi e perplessità nei confronti degli effetti che può avere la democrazia diretta. Le primarie non vanno però considerate in astratto, ma nella situazione in cui si svolgono; ed oggi esse possono avere una funzione importante sia per la vita politica italiana che per il Pd. Sul primo punto non ci sono dubbi: è una grande esperienza democratica nella quale sono coinvolti migliaia di cittadini. Ma anche per quanto riguarda in modo specifico il Pd, queste primarie possono essere un passaggio decisivo. Per cosa è nato il Pd, cosa vuole fare sul piano ideale, politico, culturale? Se si guardasse a quello che il Pd ha fatto in questi ultimi anni sarebbe complicato rispondere perchè in quel partito si sono sovrapposte linee e strategie politiche diverse, in una confusione di lingue accentuata dalla «necessità» di confrontarsi con situazioni impreviste e per certi aspetti imprevedibili. È invece più facile dire che cosa vorrebbe essere il Pd risalendo alle origini, ai suoi «principi». Schematizzando essi sono due: costituire un partito nel quale confluiscano le principali correnti riformatrici della storia italiana, assumendo la fine delle forme politiche e partitiche novecentesche e dando vita a nuove esperienze ideali, politiche, organizzative; contribuire a riformare dalle fondamenta il sistema politico in termini bipolari per liquidare le tradizionali politiche centriste e il trasformismo che ne è stato spesso una naturale conseguenza.
Quando si parla di partito a vocazione maggioritaria è questo che si intende. Perché questo progetto ha stentato a dispiegarsi finendo su molti scogli? Mi limito a citare una sola causa, ma decisiva: la nascita del nuovo partito non si è intrecciata alla formazione di una nuova classe dirigente. E dicendo questo non penso a un ricambio di tipo generazionale, alla rottamazione: una formula efficace ma ambigua. Intendo dire che le redini del nuovo partito sono rimaste nelle mani della vecchia «nomenclatura» di matrice sia comunista che democristiana. Certo, quando si fanno operazioni così complesse è necessario mantenere alcune forme del passato, fosse solo per una elementare esigenza di «consenso», e non solo strettamente elettorale. Ma qui il «vecchio» ha afferrato il «nuovo» cancellando il problema stesso di una nuova classe dirigente e indebolendo il processo di formazione di una nuova e autonoma cultura politica. Chi farà la storia del Pd si troverà di fronte una singolare situazione, quasi metafisica: un nuovo partito fatto dagli stessi uomini, dagli stessi dirigenti delle formazioni originarie. Di per sé non è una novità; è tuttavia un esempio del potere della «burocrazia» sulla politica. Quando però questo accade vuol dire che si è nel pieno della crisi, e che non si riesce a individuare la strada per venirne fuori. Il Pd nasce, del resto, in questa crisi, ne è un figlio, ma in modi complessi e contraddittori. Anzi, per certi aspetti, non è mai nato, non ha mai spiccato il volo; tanto più colpiscono i successi che nonostante tutto è riuscito ad ottenere. Questo significa due cose: le radici da cui è nato sono forti e vitali, la sua formazione corrisponde ad una esigenza nazionale. E nonostante la sconfitta delle ultime elezioni non sono venute meno né l’una né le altre. Proprio il successo di un movimento come il M5S dimostra infatti la necessità nazionale ed europea di un moderno partito riformatore, capace di scelte radicali ed anche conflittuali. Se il Pd riuscisse finalmente a nascere, ad essere se stesso, l’acqua da cui Grillo raccoglie forza e consenso verrebbe progressivamente meno. Per poter nascere ed essere se stesso è però necessario che riprenda il filo laddove si è interrotto, costruendo una nuova classe dirigente coerente con i suoi «principi». Sta precisamente qui l’importanza delle primarie di oggi: nell’aver rimesso sul tappeto il problema della nuova classe dirigente, sulla base ovviamente di un «vincolo» comune.
Questo ci dicono i tre candidati in competizione: chiunque vinca, c’è stata un’importante assunzione di responsabilità, se il Pd intende diventare un pilastro della politica italiana quale fulcro di una nuova stagione riformatrice, fortemente bipolare, capace di affrontare i problemi dell’Italia. Certo, quello del rinnovamento, e della mobilità della classe dirigente non è l’unico problema, ma è diventato ormai un nodo decisivo che bisogna sciogliere, e non per motivi generazionali.
Perciò è auspicabile che oggi votino in molti, anche se in una situazione ordinaria dovrebbero essere gli iscritti a scegliersi il segretario del loro partito, e non la moltitudine. Ma qui, scendendo in mare aperto, si sta decidendo se il Pd debba avere un destino o decadere nei vizi che sono sotto gli occhi di tutti. E dopo la sentenza della Corte costituzionale sul Porcellum, non si tratta solo del destino del Pd: chiunque sia il vincitore, queste primarie possono contribuire a formare una barriera, contro l’ondata proporzionalistica che sta montando in questi giorni. Lo dico senza enfasi: per l’Italia sarebbe, da ogni punto di vista, un passo indietro assai grave.

L’Unità 09.12.13

“Il lungo viaggio di tre (quasi) ragazzi”, di Curzio Maltese

È bella, tanto per cominciare, la foto di gruppo. Renzi, Cuperlo e Civati hanno facce da Terza repubblica. Sono in ogni caso, antropologicamente, la negazione del politico della Seconda repubblica.
GIOVANI o quasi giovani, onesti, intelligenti, non cortigiani, offrono tutti insieme l’immagine di una politica alternativa alla famosa casta. Rappresentano per molti un pezzo della classe dirigente che l’Italia avrebbe dovuto scegliersi già vent’anni fa, dopo la catastrofe morale e culturale di Tangentopoli, e non abbiamo avuto l’opportunità e il coraggio di scegliere. Assomigliano ai nuovi gruppi dirigenti riformisti che in giro per l’Europa in questi anni prendevano il posto dei vecchi, nel normale ciclo della politica, mentre in Italia tutto era bloccato e la nomenklatura del centrosinistra era immutabile, inossidabile alle sconfitte, agli errori, alle complicità evidenti col berlusconismo imperante. Simul stabunt, simul cadent. Com’era prevedibile, il rinnovamento della sinistra è partito quando Berlusconi si è avviato al tramonto. Poi, certo, sono diversi per stile, linguaggio, prospettive.
DA OUTSIDER A FAVORITO
Matteo Renzi aveva il compito più difficile, l’outsider diventato favoritissimo, ma l’ha svolto assai bene. Non ha mai ceduto alla tentazione di rispondere per le rime alle critiche, anche molto pesanti, partite da Cuperlo e Civati, ed è entrato in polemica soltanto con pezzi di vecchio apparato. In particolare, con Massimo D’Alema, al quale avrebbe dovuto fare un monumento già dai tempi delle primarie per il candidato sindaco di Firenze.
Si è liberato della consulenza di Giorgio Gori, un grande equivoco. Lo rendeva simpatico a destra e indigesto al popolo di sinistra, quello che va a votare alle primarie. Rimane però l’unico leader nella storia della sinistra italiana, con l’eccezione di Prodi, capace di parlare all’intero elettorato e non soltanto alla base progressista, storicamente minoritaria dal Dopoguerra, quindi l’unico che può vincere. I suoi punti forti trasversali sono il taglio dei costi della politica e il ritorno a una politica che faccia accadere le cose. Il governo Letta, non facendo né l’una né l’altra cosa, gli ha dato una bella mano. Il punto debole è il programma economico, molto vago nei fondamentali. È il più televisivo dei candidati, che significa il più sveglio, non necessariamente il più profondo, ma in un Paese ipnotizzato dalla televisione si tratta di una qualità decisiva. Il difficile per lui arriva dal 9 dicembre e infatti parla come se avesse già vinto. A volte si tratta di una buona tattica, a volte no, soprattutto se bisogna convincere i cittadini ad andare a votare in massa per non svilire il risultato finale.
ETICA E NOMENKLATURA
Gianni Cuperlo è il più intellettuale dei tre, un pesante handicap che l’interessato non ha fatto nulla per correggere in corsa. L’altro handicap, ancora più pesante, è l’appoggio della nomenklatura quasi al completo, tranne alcuni già saltati sul carro di Renzi. A parte questo, scrive cose meravigliose sulla missione di una sinistra moderna, che non legge quasi nessuno. È ammirevole e anche simpatico nel suo ostinato rifiuto di ogni forma di demagogia. Identifica molto bene un considerevole pezzo di popolo della sinistra che conserva una passione genuina per la politica e saldi valori etici. Questo sarebbe un vantaggio se lo stesso pezzo di sinistra «cuperliana» non fosse fin troppo consapevole di essere minoritario da sempre nel Paese, come del resto lo è lo stesso Cuperlo. Il ragionamento che scatta è fatale: se voto uno che assomiglia a me, non vinceremo mai.
IL CORAGGIO DELLA RETE
Pippo Civati è stato la sorpresa della campagna per le primarie, almeno per chi lo conosce.
Chi lo conosce, gli aveva consigliato di candidarsi già nel 2009, da terzo incomodo contro Bersani e Franceschini, al posto di Ignazio Marino, che poi sfruttò bene l’occasione. L’avesse fatto, oggi sarebbe forse il favorito. Civati rinunciò e poi si alleò con Renzi nel progetto della rottamazione, ma anche lì senza arrivare fino in fondo. È la dimostrazione vivente che il coraggio, se uno non ce l’ha, se lo può dare. Civati se l’è dato nell’ultima parte della campagna per le primarie, quando aveva già perso, e ha tirato fuori il meglio di sé: brillante, dotato di sense of
humour, molto innovativo. È bravo a stare davanti alle telecamere come Renzi, ma ha letto anche il secondo libro del Capitale di Marx come Cuperlo. Ha il vantaggio non trascurabile, come ha dimostrato il fenomeno Grillo, di usare meglio degli avversari la Rete. In ogni caso, sarà un’ottima risorsa per il futuro del Pd.
A questo punto la parola è agli elettori delle primarie. Vinca il migliore, dicevano una volta i cronisti sportivi. E il grande Nereo Rocco rispondeva sempre: «Speriamo di no».

La Repubblica 09.12.13

“Schiaffo dalla Consulta ma lo Stato deve sopravvivere e il Parlamento è legittimo”, di Liana Milella

La sentenza della Corte? «Ci riporta alla Prima Repubblica». Il Parlamento attuale? «È delegittimato, ma non annullato». I 148 deputati ancora non convalidati? «Possono sperare». Grillo? «A lui si è data materia, ma non ha ragione ». C’è stato uno schiaffo della Consulta al Parlamento? «Sì, ma forse finirà tutto lì».

Il professor Gustavo Zagrebelsky con Repubblica riflette sulla sentenza della Corte sul Porcellum e sulle sue conseguenze.
Grande caos. Grillo impazza. Vuole fuori dalla Camera i 148 “abusivi”. In realtà, vuol far fuori tutti. La sentenza della Corte cancella la storia d’Italia a partire dal 2005, quando è stato votato il Porcellum?
«Un’osservazione sul “grande caos”. Ci si è cacciati in un vicolo cieco, del quale è difficile vedere l’uscita. Possiamo prevedere che ci sguazzeranno a lungo politici, politicanti, giuristi, azzeccagarbugli. Cerco di non far la fine di questi ultimi. Siamo forse alla fine di un ciclo. Se una lezione siamo ancora in tempo a trarre per l’avvenire è che ogni piccolo cedimento quotidiano, alla fine produce una valanga che ci travolge tutti».
A proposito di Grillo, che impressione le fa l’attacco alla collega dell’Unità Maria Novella Oppo?
«Le liste di proscrizione ci riportano a un periodo buio. Una cosa è la polemica sulle idee, che può essere accanitissima, un’altra l’attacco alle persone. Le idee si discutono e si contestano, le persone si rispettano».
Torniamo ai travolgimenti, la sentenza travolge o no 7 anni di storia costituzionale?
«No. Per il principio di continuità dello Stato: lo Stato è un ente necessario. L’imperativo fondamentale è la sua sopravvivenza, che è la condizione per non cadere nell’anomia e nel caos, nella guerra di tutti contro tutti. Perfino nei cambi di regime c’è continuità, ad esempio dal fascismo alla Repubblica, o dallo zarismo al comunismo. Il fatto stesso di essere costretti a ricordare questo estremo principio significa che siamo ormai sull’orlo del baratro».
Dunque, questa sentenza non è retroattiva?
«Se si applicano le regole comuni, e se la Corte non si inventa una qualche diavoleria, la situazione in termini giuridici è la seguente: dal giorno successivo alla pubblicazione della sentenza (non del comunicato, ma delle motivazioni, ndr.) la legge dichiarata incostituzionale non può più essere applicata».
Quindi esiste o non esiste il problema dei 148 eletti col premio di maggioranza? Propaganda politica a parte, vanno convalidati prima, vanno sostituiti, possono stare tranquilli?
«Su questo i giuristi scateneranno la loro fantasia e possiamo aspettarci le tesi più diverse e contraddittorie. Si può ragionare così: l’elezione di febbraio è un fatto concluso, sotto la vigenza di quella legge. Quindi la giunta per le Elezioni non dovrebbe fare altro che trarre le conclusioni di quella elezione. Portando a termine la vicenda elettorale, secondo la legge vigente allora. Oppure si potrebbe dire che la giunta, nel convalidare o non convalidare, non può applicare la legge vecchia e deve tener conto di quella nuova. Questa seconda soluzione porterebbe al caos, anche perché i deputati non convalidati non potrebbero essere sostituiti da altri tra quelli non eletti, perché anche la loro elezione sarebbe illegittima. Ma è proprio qui che dovrebbe valere il principio della continuità dello Stato».
Nel suo comunicato la Corte dice che il Parlamento può fare la legge elettorale che crede. Secondo lei, oltre ogni ragionevole dubbio, sta parlando di “questo” Parlamento?
«Vede bene… a che punto siamo giunti: in nome della salus rei pubblicae ci dobbiamo tenere istituzioni parlamentari che solo un cieco non vedrebbe quanto la attuale vicenda abbia delegittimato dal punto di vista democratico. L’incostituzionalità della legge elettorale del 2005 deriva dalla violazione dei principi che riguardano il diritto di voto. Se anche nulla accadrà giuridicamente, i nostri governanti si rendano conto che molto deve cambiare politicamente. Quello che è accaduto rischia di essere un colpo mortale alla credibilità delle istituzioni».
Ma lei che giudizio dà della sentenza della Consulta?
«È forse la decisione più legislativa che la Corte abbia mai pronunciato. Apparentemente elimina pezzi della legge, in realtà vale come ribaltamento della sua logica perché sostituisce un sistema maggioritario con uno puramente proporzionale. A mia memoria, un’operazione del
genere non era mai stata tentata».
Sarebbe stato meglio azzerare tutto e ripristinare il Mattarellum? La corte avrebbe potuto farlo…
«Avrebbe potuto ammettere il referendum di due anni fa facendo “rivivere” il Mattarellum. A maggior ragione avrebbe potuto farlo in questa occasione. Ma la storia non si fa con i se».
Che succede adesso? Se, per assurdo, si votasse domani, con che legge si voterebbe? E cosa succederebbe dopo l’uscita delle motivazioni?
«Domani, si voterebbe con la vecchia legge. Dopo le motivazioni con una proporzionale».
E come la mettiamo con il voto di preferenza? La Corte dice che il cittadino elettore ne deve esprimere almeno una. Questo non annulla tutti gli eletti attuali che non sono stati frutto di una preferenza e che succederà per quelli futuri?
«Per la prima parte, se vale, vale il principio di continuità. Per il futuro è onere della Corte rispondere nella sua sentenza. La legge che ne risulta deve essere di per sé funzionante e spetta a lei dirci come ».
Lei ha criticato il Porcellum tante volte. Adesso, se dovesse dare un consiglio ai nostri legislatori, cosa gli direbbe? Di lasciarlo com’è dopo la “cura” della Corte, di integrarlo, di buttarlo via tutto?
«È una domanda strettamente politica perché le opzioni possibili sono le più diverse ».
Sì, ovviamente. Ma cosa sarebbe più utile per il nostro Paese?
«Come le opzioni, anche le opinioni sono le più diverse. Si possono lasciare le cose così come staranno dopo la sentenza della Corte. Da giurista, dico che il proporzionale è un sistema altrettanto degno quanto il maggioritario, quindi non è affatto obbligatorio che il Parlamento intervenga per modificare la legge in questa direzione. Se si vuole farlo, lo si può fare. Ogni sistema elettorale, purché non pasticciato, ha la sua dignità, i suoi pregi e i suoi difetti. Ma qui dovrebbero entrare valutazioni di politica istituzionale. Purtroppo non c’è materia come quella elettorale in cui prevalgono gli interessi immediati dei partiti politici. Da questo punto di vista, non vedo per quali ragioni si dovrebbe trovare oggi quell’accordo che per tanto tempo non è stato possibile raggiungere».
La sua previsione?
«Che ci terremo la proporzionale e si continuerà a dire che la si vuol cambiare per guadagnare tempo e lasciare le cose come stanno».

La Repubblica 09.12.13

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«Queste liste di proscrizione inaccettabili in democrazia», intervista di A. C. a Gustavo Zagrebelsky

«Le liste di proscrizione sono inaccettabili in un paese democratico». Gustavo Zagrebelsky, giurista, ex presidente della Consulta, è uno degli intellettuali amati dal popolo a 5 stelle. Arrivò quarto alle Quirinarie della scorsa primavera. Ed è rimasto colpito dalla schedatura dei giornalisti sul blog.
«Chiunque ha diritto di recriminare su ciò che viene scritto dai giornali. Ma per reagire a presunte distorsioni, o anche a diffamazioni, la strada non è certo quella delle liste di proscrizione. Si può sporgere querela, chiedere smentite, o anche attivare delle pratiche di controinformazione. Quello che è stato fatto, invece, fa tornare in mente periodi bui della storia italiana».
La presidente Boldrini ha parlato di un pestaggio digitale.
«Sono d’accordo. E mi auguro che Grillo e il suo movimento riflettano sulla gravità di queste iniziative contro le persone. Bisogna sempre distinguere le persone dalle idee». Perché il M5S è così ossessionato dalla stampa?
«Si sentono bistrattati, ignorati, c’è un complesso di persecuzione che dà luogo a reazioni scomposte. Mi auguro che capiscano che non tutto è lecito dentro la convivenza democratica. La lotta è legittima, purché sia sulle idee».
Ieri è partita anche la schedatura dei 148 parlamentari eletti con il premio di maggioranza. Grillo dice che vanno fermati all’entrata del Parlamento.
«Separerei due aspetti. La legittimità dell’elezione dei parlamentari in questione, in assenza della convalida, è un problema prettamente giuridico che deve essere risolto con gli strumenti adeguati. L’idea di bloccarli all’ingresso delle Aule, invece, configura una inaccettabile violenza privata».
Vede un collegamento tra le due liste di proscrizione?
«La lista dei deputati a mio parere è un atto molto meno grave. Non c’è l’aspetto della caccia all’uomo, o alla donna come in questo caso. E del resto i nomi e i volti dei nostri deputati sono noti, non vedo nella pubblicazione dei nomi degli eletti qualcosa di paragonabile alla foto della vostra giornalista sul blog. Quest’ultimo è un atto decisamente più grave, perchè la vostra giornalista viene messa alla gogna con una “colpa”, mentre i deputati non sono accusati di nulla se non di essere stati eletti con una legge che ora è stata cancellata dalla Consulta. E tuttavia nel complesso queste vicende mi sembrano parte di un degrado complessivo in cui è finito il nostro Paese. Stiamo veramente toccando il punto zero. Questo riguarda tutta la classe dirigente, mi ci metto dentro anch’io».
Ha l’impressione che il M5S stia assumendo connotazioni più marcatamente di destra?
«A me pare ancora un movimento in fieri, che deve darsi una identità più definita. Convivono pulsioni diverse, che creano tensioni interne, come è accaduto sul reato di immigrazione clandestina. È un fenomeno tipico della fase iniziale dei movimenti».
C’è il rischio che si trasformi in un movimento pericoloso per la democrazia. «Temo in particolare che gli altri possano spingere in questa direzione, gettare benzina sul fuoco…».

Le elezioni primarie 2013

L’8 Dicembre si svolgeranno le primarie aperte del Partito Democratico per eleggere il suo segretario nazionale e candidato premier e la sua assemblea nazionale. Il voto avverrà alla fine di un lungo percorso, che vedrà coinvolti migliaia e migliaia di nostri circoli , in un dibattito aperto e appassionato che coinvolgerà tutti coloro che vogliono partecipare e dare il proprio contributo alla rinascita e al cambiamento dell’Italia. Su questo sito troverete tutte le informazioni utili per partecipare ed essere protagonisti: dalle mozioni con le quali i candidati presentano le loro idee e i loro programmi, ai regolamenti e le modalità di voto. Ci sarà la possibilità di trovare facilmente i seggi dove votare e sarete informati sui grandi eventi che riguardano i confronti tra i candidati. Primariepd2013 è a disposizione di tutti, soprattutto di chi vuole fare della giornata dell’8 Dicembre la grande festa della democrazia e della libertà.
Buone Primarie a tutti.