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“Povera democrazia”, di Massimo Giannini

Il verdetto della Consulta è molto più che l’eutanasia di una legge-truffa addirittura peggiore di quella voluta da De Gasperi e Scelba nel 1953. Con il Porcellum non muore solo un mostro giuridico che per ben otto anni e tre votazioni consecutive ha attribuito ai vincitori un potere abnorme (il premio di maggioranza al 55%) e sottratto agli elettori un diritto enorme (la libera scelta dei propri eletti). Con il Porcellum non muore solo un orribile Frankenstein concepito nel 2006 dai quattro improbabili sedicenti “saggi” del Pdl riuniti in una baita dolomitica, pronti a sacrificare la governabilità del Paese pur di sabotare la vittoria del centrosinistra di Prodi e di assicurare al centrodestra di Berlusconi la “nomina” dei suoi parlamentari. Con il Porcellum muore un intero ceto politico, che per quasi tremila giorni ha discusso a vanvera di riforme elettorali e costituzionali, ha litigato a sproposito di modelli franco-tedeschi e ispanoisraeliani, e non ha voluto né saputo rispondere alla domanda di modernizzazione e di partecipazione che arrivava dai cittadini, sempre più allontanati dal Palazzo ed esasperati dalla “casta”. Con il Porcellum muore la Seconda Repubblica, falsamente incarnata dal populismo berlusconiano e artificiosamente costruita sul bipolarismo coatto che ne è derivato. Con un solo, sacrosanto tratto di penna, i giudici della Corte riportano l’Italia dove merita: non al Mattarellum né alla promettente illusione maggioritaria di Mario Segni dei primi anni ’90, ma addirittura prima, cioè alla devastante stagione proporzionalista e consociativa della Prima Repubblica.
Le colpe di questa drammatica regressione politica sono tante, e tutte note. Prendersela con la Consulta, o alzare il sopracciglio severo di fronte ai contenuti della sentenza, è solo l’ultimo, estremo esercizio di cattiva coscienza di una classe politica cinica e bara. La Corte ha affondato la sua lama dov’era logico e giusto. Tutti, fin dal giorno successivo al varo di quella scelleratissima legge firmata dall’indecente Calderoli, sapevano che un dissennato premio di maggioranza (per altro diversissimo tra Camera e Senato) e un forsennato ricorso alle liste bloccate (per altro usate e abusate per portare in Parlamento nani, veline e ballerine) erano due autentici scandali della democrazia. Semmai
c’è da chiedersi, con tutto il rispetto, perché l’allora presidente della Repubblica Ciampi non abbia negato a suo tempo la sua firma a quel testo ingannevole e irragionevole, e soprattutto perché la pronuncia finale di incostituzionalità sia arrivata solo otto anni dopo. Ma questa è un’altra storia. Qui e ora, è essenziale ristabilire da un lato le responsabilità, e dall’altro individuare le soluzioni.
Le responsabilità sono complesse, e tutte politiche. Non solo per l’anamnesi della porcata calderoliana, che come si è detto nasce nella fabbrica degli orrori messa in piedi da un Ventennio dall’apprendista stregone di Arcore. Ma anche per la sua prognosi successiva, che in molti, troppi falsi “dottori” bipartisan hanno contribuito e rendere purtroppo così fausta. La verità è che il Porcellum è stato usato di volta in volta come arma di condizionamento e di ricatto, tra i poli e dentro i poli. Per impedire a volte il ricorso anticipato alle urne, per cristallizzare il sistema politico e trasformarlo in una foresta pietrificata, per scambiare altre “merci” più o meno avariate su tavoli paralleli, per intralciare leadership nascenti o accelerare “carriere” declinanti. Moventi disparati e disperati, comunque mai davvero attinenti con l’interesse generale, cioè garantire governi solidi e stabili e favorire al tempo stesso meccanismi di alternativa e di alternanza. Il risultato, ed è doloroso dirlo, è un Parlamento di zombie. Se non è palesemente illegittimo sul piano costituzionale (visto che la Corte ha voluto responsabilmente salvarlo fissando i suoi principi solo per l’avvenire), è sicuramente delegittimato sul piano politico (visto che non ha mosso un dito, pur conoscendo da tempo l’insostenibilità del quadro e la prossimità della mannaia attivata dalla Consulta).
Le soluzioni sono semplici, se solo l’establishment, o quel che ne rimane, avesse la dignità e la volontà di adottarle, come chiede ancora una volta, purtroppo inutilmente, il Capo dello Stato. Di fronte all’entropia politica nella quale l’Italia è precipitata, e di fronte alla follia giuridica dalla quale la Corte costituzionale l’ha giustamente riabilitata, ci sono due possibili vie d’uscita. La prima è quella che abbiamo imparato a conoscere sulla nostra pelle in questi lunghi, disastrosi e infruttuosi anni. Un’estenuante melina democristiana, dove si continua a dire l’indicibile e a non fare il fattibile, e dove si finge di negoziare un “prodotto” che alla fine nessuno vuole, cioè una riforma elettorale seria ed efficiente che ci eviti la condanna del ritorno al proporzionale. Questa soluzione sarebbe in perfetta continuità con la fase, perché nessuno si sognerebbe di aprire una crisi e di tornare alle urne con un sistema elettorale che sondaggi alla mano non farebbe vincere nessuno dei tre o dei quattro schieramenti in lizza. E dunque questa soluzione sarebbe congeniale alla blindatura delle Piccole Intese sopravvissute alla diaspora berlusconiana: converrebbe a Letta, che non correrebbe rischi fino al 2015 e oltre, e converrebbe ad Alfano, che avrebbe un altro anno per verificare la tenuta del suo presunto “Nuovo centrodestra” senza l’obbligo di un redde rationem
elettorale con il Cavaliere. Ma sarebbe una scelta mortale per il Paese, oltre che per la residua credibilità del Parlamento ancora in carica.
Resta la seconda via d’uscita, la sola e ultima occasione di riscatto concessa ad un ceto politico altrimenti impresentabile e offerta ad un Paese altrimenti irrecuperabile. Una riforma elettorale e istituzionale
vera, da presentare subito alle Camere e da spiegare agli italiani. Una legge costituzionale per superare subito il paralizzante bicameralismo perfetto, trasformando il Senato in una camera delle autonomie e dimezzando il numero dei parlamentari. Una legge elettorale per introdurre subito il maggioritario con doppio turno di collegio, come avviene in Francia, anche a costo di aprire un cantiere parallelo sulla forma di governo, ragionando se serve anche sul semi-presidenzialismo, che nella prospettiva post-cesarista legata al declino berlusconiano può cessare di essere un tabù. È la via sulla quale stavano lavorando Matteo Renzi, che in questa palude e privato dalla leva delle elezioni anticipate rischia di affondare anche se stravince le primarie di domenica prossima, e lo stesso Letta, che invece dalla “stabilità da cimitero” addebitatagli dal Wall Street Journal ha molto meno da perdere.
Non c’è più tempo per evitare la paralisi del Sistema-Paese, il collasso del suo circuito politico-istituzionale, lo strappo del suo tessuto economico-sociale, la disfatta della sua fibra civica e morale. Non c’ è più spazio per gli squallidi giochini del “tua culpa” e del “cui prodest”: una riscrittura immediata del patto costituzionale ed elettorale è utile prima di tutto all’Italia, e solo incidentalmente al sindaco di Firenze. E non c’è più margine nemmeno per i miserabili calcoli di bottega, tra le vaghezze di un Delfino che non si risolve ad affrancarsi da un Caimano e le furbizie di un “centrino” che non si rassegna alle logiche bipolari. Il Festival delle ipocrisie deve finire. O l’unica musica che sentiremo sarà quella delle campane a morto di questa povera democrazia.

La Repubblica 05.12.13

“Addio Mandela, eroe d’Africa”, di Pietro Veronese

Il grande capolavoro della vita di Nelson Mandela è stato la sua vita. Così grande, così ricca di meravigliosi eventi, così piena di insegnamenti per gli altri mortali, da sembrare capace di riempire non una, ma
molte biografie. Nelson Mandela si è spento ieri nella sua casa di Johannesburg. Aveva 95 anni Nelson Mandela è morto ieri nella sua abitazione a Houghton. Simbolo della lotta contro le discriminazioni, primo presidente nero del Sudafrica, aveva 95 anni È stato insignito del premio Nobel per la Pace nel 1993.
Forse questo intendeva Bill Clinton quando ha scritto di lui che era «un uomo divino»: un uomo dall’umanità straordinariamente eccedente.
Quando Nelson Mandela uscì dal carcere, domenica 11 febbraio 1990, aveva settantuno anni e mezzo. Un’età in cui la maggior parte degli umani tende a guardare dietro di sé, al percorso compiuto, piuttosto che davanti. Lui per giunta aveva alle spalle ventisette anni di detenzione, un’esperienza border line dalla quale è facile immaginare che si esca (quando se ne esca) per sempre spezzati o per sempre incattiviti. E invece per colui che le folle avrebbero presto chiamato Madiba è quasi come se la vita sia ricominciata daccapo quel giorno. L’apparizione ai cancelli della prigione Victor Verster, mano nella mano con Winnie (all’epoca ancora sua moglie), che era andata a prenderlo, fu davvero come una nuova nascita. L’inizio di un’esistenza infine radiosa, di una fama mondiale, l’ascesa alla presidenza del Sudafrica nel maggio del 1994 e poi ad un olimpo terreno nel quale vivrà per sempre, dopo aver realizzato il miracolo politico di liberare e tenere unita una nazione che era stata divisa dalla più radicale ingiustizia.
Il lungo cammino di Nelson Rolihlahla Mandela iniziò il 18 luglio del 1918 sulle colline del Transkei, nel sudest dell’odierna Repubblica del Sudafrica. Era nato tra i Thembu, in una famiglia legata al trono, ed era destinato ad una posizione preminente nella sua tribù. Ma i primi anni furono quelli di ogni bambino africano: piedi scalzi, lunghi giorni trascorsi nel sole e nel vento a badare alle mucche, il ritorno serale alle capanne, nel grembo di una famiglia larghissima (sua padre ebbe quattro mogli, quattro figli maschi, nove femmine).
A sette anni Rolihlahla fu mandato a scuola dai preti missionari ed ebbe il suo secondo nome, Nelson, in onore di Horatio, il grande ammiraglio britannico. Anche in questo egli è il tipico figlio della sua generazione: porta in sé, fin dalla più tenera età, la duplice identità della tradizione africana e dell’emancipazione offerta dai bianchi. Il vecchio e il nuovo, il radicamento e la trasformazione, che è l’esperienza esistenziale di ogni parabola umana ma mai così drammatica come per chi è vissuto nel secolo ventesimo e ancor più per chi, in quel secolo, si è trovato proiettato dall’arretratezza alla modernità occidentale.
Nelson Rolihlahla fece tesoro delle opportunità che la vita gli offriva. Si rivelò ottimo studente e presto si trasferì a Johannesburg per proseguire gli studi (e sfuggire a un matrimonio combinato dagli anziani della tribù). Gli anni del suo apprendistato sono quelli più sconvolgenti del secolo: la Seconda guerra mondiale, il silenzioso collasso dell’Impero britannico e, in Sudafrica nel 1948, la vittoria elettorale dei naziona-listi bianchi afrikaner che creò la premessa per le leggi di apartheid, la ferrea segregazione delle razze, con i bianchi in posizione di dominio assoluto e i neri — la maggioranza — privati dei più elementari diritti. Per una persona amante della giustizia si apriva uno sconfinato campo d’azione e Mandela, trentenne, neolaureato in giurisprudenza, giovane avvocato, vi si gettò
a capofitto. Risale alla vigilia del conflitto mondiale l’incondizionata adesione all’African National Congress e l’inizio della militanza politica che in poco tempo lo porterà ai vertici del movimento anti-apartheid. Colui che era destinato a un ruolo di capo tribale diventa un leader politico, personalità di punta degli young lions, la nuova leva di giovani dirigenti “arrabbiati” dell’Anc, figura di riferimento per i democratici sudafricani.
Per tutti gli anni cinquanta si susseguono le vessazioni, le denunce, gli arresti. Gli spazi dell’azione politica si restringono fino a scomparire. L’opposizione democratica è impossibile. Le manifestazioni vengono represse nel sangue; i leader vengono imprigionati. Alla fine del decennio l’Anc è dichiarata fuorilegge, i suoi dirigenti finiscono tutti coimputati in un processo per tradimento che è una montatura e infatti collassa. Mandela è nuovamente libero ma costretto all’azione clandestina; l’Anc decide di passare alla lotta armata ed egli diviene il capo dell’organizzazione militare segreta, l’Umkhonto we Sizwe.
In questi anni eroici scocca anche il colpo di fulmine per Winnie; finisce il primo matrimonio e si celebrano le nozze febbrili con la seconda, bellissima sposa. Poi la «primula nera», come lo chiamano i giornali dell’epoca, scompare nuovamente nella clandestinità.
Nel 1963 il secondo, definitivo, arresto e una serie di processi e condanne che culminano nell’ergastolo. Così si conclude la prima vita di Mandela, con le porte di ferro dell’isola-prigione di Robben Island, al largo di Città del Capo, che si chiudono alle sue spalle. Egli perde il nome e diventa, nel sistema penale dell’apartheid, un numero: 46664. 466 la cella; 64 l’anno di incarcerazione. Questo secondo periodo dura 27 anni, dietro quei cancelli e poi quelli di un altro paio di istituti di pena. L’apartheid trionfa. Per oltre un decennio perfino l’esistenza del futuro Madiba è ignorata dai pi ù. Fino alla rivolta dei giovani di Soweto nel 1976, il grande risveglio, al prezzo di un altro bagno di sangue.
Da quel momento il sistema della tirannide razziale incomincia a mostrare crepe che non si riuscirà mai più a colmare. Lentamente, inesorabilmente,
il mondo ritorna a guardare e Nelson Mandela diventa «il prigioniero politico più famoso del mondo», come lo chiamano i giornali.
La liberazione, quel radioso pomeriggio del febbraio 1990, quattro mesi dopo il crollo del Muro di Berlino, è una rinascita — l’inizio della terza vita — anche nel senso che Mandela recupera un volto. Non esisteva di lui un’immagine dal 1962; i giornali pubblicavano identikit frutto di elaborazioni al computer. Oggi non c’è essere umano sulla Terra che non conosca la sua faccia. Nel ‘93 gli venne conferito il premio Nobel per la pace insieme a Frederik de Klerk, ultimo presidente bianco del Sudafrica. Nel 1999, allo scadere del mandato presidenziale, a ottant’anni compiuti, Mandela aveva lasciato ogni carica e si era ritirato a vita privata. Entrando così nella sua quarta vita, quella immortale, della leggenda,
che durerà per sempre.

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“Mandela”, di VITTORIO ZUCCONI
Incoronato nelle due parole indissolubili che hanno segnato la sua vita e la storia del nostro tempo — «verità» e «rinconciliazione » Nelson Mandela, “Madiba” per la sua gente, “Tata”, papa per i suoi cari, è uscito dal tempo umano per «entrare nella storia» come ha detto Barack Obama. Non un santo, a meno che «la santità significhi sbagliare molto e provare a fare la cosa giusta» questo minuscolo africano nato di sangue nobile nelle tribù sottomesse e umiliate dal dominio coloniale bianco, è qualcuno che sarà difficile, se non impossibile, rivedere per molto generazioni.
La semplice potenza rivoluzionare del suo messaggio, riassunto, dopo 27 anni di prigionia in un’isola carcere nella formula del «non voglio vivere in un mondo dominato dall’uomo bianco, non voglio vivere in un mondo dominato dall’uomo nero» fu il distillato inebriante dei Martin Luther King e dei Mahatma Gandhi, della loro certezza che la violenza non libera, ma la pazienza nella giustizia prevarrà.
Fu molto più del padre di una nazione, del Sud Africa moderno. Fu il padre di una speranza che dovrebbe essere ancora tenuta viva e che ha avuto il suo ultimo frutto in quell’Obama che ieri lo ha pianto e compianto. Che ogni riconciliazione anche fra i più feroci nemici è possibile. Ma soltanto a condizione che muova dalla verità.

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Quello sguardo oltre le sbarre che guida i giovani”, di ADRIANO SOFRI

Mandela nacque nel 1918, quando quella che noi chiamiamo Prima Guerra Mondiale stava per finire. Nel 1914 Gandhi aveva lasciato il Sudafrica in cui per ventun anni aveva svolto il suo tirocinio nonviolento, ed era arrivato a Londra nel momento in cui la Grande Guerra scoppiava.

Il tirocinio militante di Mandela fu non violento, a ridosso di quella che chiamiamo la Seconda Guerra Mondiale, quando l’apartheid segregò ferocemente la comunità indiana e asiatica e il bantustan dei neri africani. Nel giro di pochi anni Mandela e i suoi reagirono alla spietatezza afrikaner scegliendo di lottare con le armi, né il lungo cammino successivo, anche dopo la liberazione e la riconciliazione, fece di Mandela un fautore assoluto della nonviolenza (cui lo stesso Gandhi riconosceva estreme eccezioni). Ma un filo lega la testimonianza e il mito di questi due campioni della libertà, che uno stesso carcere di Johannesburg ebbe detenuti.
La prigione ha segnato ben diversamente Mandela, lungo quasi 27 anni, e 18 trascorsi nell’isolamento crudo di Robben Island. La vita lunghissima di Mandela ha incastonato quella micidiale prigionia fra passato e futuro, fino al distacco protratto degli ultimi mesi: al contrario della fine di Gandhi tradito e assassinato. I due destini diversi e complementari disegnano a gara le magliette dei ragazzi. In tempi di distanza rancorosa fra le generazioni, Mandela è fatto per essere amato dai ragazzi come un buon maestro, per la testimonianza fiera di una vita, e la distanza presa dal potere. E per non essersi ridotto a un monumento, e aver tenuto memoria del suo bel primo nome di Rolihlahla — il piantagrane, l’attaccabrighe. Dalla presidenza si allontanò dopo un mandato.
I ragazzi hanno bisogno di maestri molto vecchi, che abbiano tenuto a distanza il potere, che corrompe piuttosto i loro eredi. L’Africa va avanti, benché continuino guerre mondiali di milioni di morti senza più alibi anticoloniali, fra rivoluzionari trasformati in despoti dinastici e capibanda in proprio o al soldo degli insospettabili. La condizione peculiare del Sudafrica, con la sua tribù bianca afrikaner e il lungo colonialismo britannico, ha mostrato alla fine l’assurdità della disputa su che cosa sia indigeno e che cosa straniero. Il guerrigliero ed ergastolano Mande-la, eletto presidente, si indirizza in afrikaans ai funzionari spaventati e pronti ad abbandonare: scena esemplare per tanti posti del mondo, a cominciare da Israele e Palestina. Nei libri di Andrè Brink l’umanità degli afrikaner e delle trib ù nere si scopre affine e anzi parente. Israeliani e palestinesi si conoscono a fondo, dice Grossman, e si riconoscono somiglianti, possono specchiarsi gli uni negli altri. La controversia fra chi è indigeno e chi è straniero, per mostrarsi assurda e superstiziosa, ha però bisogno che lo schiacciante divario di forze si equilibri.
Quando Botha inaugurò un dialogo con lui, Mandela era in una cella, e ci sarebbe restato ancora a lungo, e da lì aveva maturato la sua apertura senza cedimenti, e personalmente integerrima. Un riequilibrio dei rapporti di forza, suscitato dalla resistenza dei più deboli e dalla lenta reazione della comunità internazionale, ha a che fare, più ancora che con l’interesse materiale dei più forti, con la riottosità dei loro cervelli e pregiudizi, senza di che basterebbe la persuasione. Il genio cordiale di Mandela dubitò di poter contare sulla propria forza fino al punto di rovesciare quella avversaria, e soprattutto decise che quella vittoria sarebbe stata una sconfitta per ambedue. «Oppressore e oppresso sono derubati entrambi della propria umanità».
Il Sudafrica del passaggio dall’apartheid alla democrazia scambiò la guerra civile con lo sforzo di verità e riconciliazione — come l’India dell’indipendenza, lacerata però dalla secessione, che fu per Gandhi il dolore irreparato e la morte. La Commissione, che guardava al Cile del dopo-Pinochet, e sarebbe stata guardata da tanti paesi martoriati, e mancata in altri dove più occorre, come la Bosnia, mise la verità umana davanti a quella giudiziaria, e la riconciliazione al posto della vendetta, senza far torto alle vittime. Fu piena di simboli, la vicenda suda-
fricana, e non a caso fonte formidabile di racconti e film e canzoni — è soprattutto nella musica dei grandi concerti che la leggenda di Mandela ha incontrato i giovani. Mandela ricevette il premio Nobel uscendo da una galera in associazione con De Klerk che usciva dal palazzo, e per rientrarvi grigiamente da suo vice. Guardate la pagina di Wikipedia, in fondo, dov’è la lista delle medaglie e onorificenze assegnate
a Mandela: appese tutte insieme a un petto, avrebbero fatto stramazzare un gigante. Era inevitabile che diventasse anche un marchio, e del resto pure lui teneva famiglia, anzi famiglie, e ne era tenuto, e il mondo si inondò di cianfrusaglie e perfino delle sue impronte digitali carcerarie controfirmate: lezione istruttiva ai carcerieri, se sapessero apprenderle, a cominciare da quella croce che doveva essere segno di infamia, e diventò di martirio e devozione.
Mi piace la fotografia in cui Mandela tiene un gomito sul ripiano della finestra, e guarda oltre le sbarre: non fuori dalle sbarre, ma oltre. È molto ufficiale, e magari è stata presa in una visita da libero al suo vecchio carcere, e vuole significare la lungimiranza tenace dell’uomo che sa guardare comunque al futuro. Mi piace lo stesso, per una ragione che so, e che mi ha appena confermato il racconto di una visita estiva all’Asinara, dove i gitanti vanno richiamati, oltre che dalla bellezza naturale, dal richiamo torbido del carcere speciale. C’è, a guidarli, un uomo che fu a lungo agente penitenziario, e ha voluto restarci e per la sua competenza ne è diventato custode, e avverte le allegre comitive curiose dei prigionieri più famigerati: «Ci sono stati qui i colpevoli di crimini efferati,
e tuttavia questo era un luogo di dolore e sofferenza, e solo un cretino potrebbe desiderare di venirci per farsi la foto con la faccia dietro le sbarre e le mani che vi si aggrappano».
Era bello esser vivi in un mondo in cui era vivo Mandela. Penso a chi, della generazione meno giovane, morì al tempo delle cose che non avremmo mai creduto di vedere cambiate: non so, la fine dell’Urss, l’uscita di Madiba dall’ergastolo, la fine dell’apartheid. Certo, sono durate così a lungo. Ma quello fu il più grande equivoco della nostra generazione: di crederle incrollabili, e che la resistenza contro di loro fosse solo un fulgido esempio morale, e che invece la lotta capace di cambiare le cose, e trascinare un giorno nei propri successi il trinceramento progressivo e infine il soffocamento delle dittature, potesse avvenire solo nelle democrazie. Scoprire che le cose infrangibili vanno improvvisamente in frantumi per un urto inaspettato è stata la lezione, che dunque incombe sulle altre muraglie che vogliono sembrare perenni, fino alla Cina dell’ultracapitalismo socialista. Tutto cambia. Mandela muore mentre il mondo va esplodendo per motivi drammatici, tragici, futili e belli. Non si prevengono i motivi drammatici e futili se non facendo larga giustizia, e però tenendo sempre la valigia pronta. Pensino questo, nella tribuna d’onore del funerale del piantagrane ammiraglio Nelson Rolihlahla Mandela: nessun potente può scommettere sulla propria durata.

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“L’Invictus che ha sconfitto il razzismo”, di EMANUELA AUDISIO

L’ha giocato e l’ha usato. Ha tirato pugni sul ring, ha calciato. Ha capito che lo sport è un sentimento e che una mischia insegna più della vita. La palla va passata, come la libertà. Invictus. La meta deve essere di tutti. Ha vinto da solo un mondiale di calcio.

Dato per la prima volta all’Africa, anzi assegnato al suo Sudafrica, perché nessun centravanti era mai riuscito con i gol a sfondare il razzismo come lui. Da prigioniero: 27 anni dietro le sbarre a sognare un altro mondo. Ci voleva il suo carisma per portare il pallone in un continente che pareva reietto, lontano da ogni grande manifestazione. E anche se è passato inosservato, il mondiale 2010 è iniziato l’11 giugno, non una data qualunque, ma il giorno in cui nel ‘64, 46 anni prima, Nelson Mandela e i suoi sette compagni di lotta vennero condannati al carcere a vita
per sabotaggio.
Mandela ha sempre intuito che nello sport c’era altro. Cicatrizzava, guariva dai traumi, favoriva la ripresa del movimento. Ne era incuriosito. Per questo da detenuto numero 466/64 di Robben Island, da un cella di appena 1.95 metri, con una sola feritoia di 30 centimetri, il 5 luglio dell’80 riuscì a convincere la sua guardia a procurargli una radio in modo da poter ascoltare in diretta la finale di Wimbledon. Quella tra Borg e McEnroe, tra un re e un ribelle. È grazie a Madiba e a cinque dei ragazzi detenuti con lui nell’Alcatraz dell’Africa, che il grande football ha potuto trovare casa dove prima c’era solo sfiducia disperazione. Si chiamavano Lizo Sitoto, Sedick Isaacs, Sipho Tshabalala, Mark Skinners e Anthony Suze. Erano ventenni, neri, tutti prigioneri politici. Finirono in catene, senza processo, condannati a 75 anni, a spaccare pietre. Ma erano troppo giovani per non avere speranze: disegnarono su un pezzo di carta una scacchiera e ci giocarono fino a quando non venne requisita. Quel foglio appallottolato diventò una palla che si trasformò in un gomitolo di stracci che continuò a fare gol notturni e silenziosi. I cinque chiesero per quattro anni il permesso di formare una squadra di calcio e di giocare il fine-settimana. Permesso negato. Poi con l’intenzione di stroncarli i carcerieri dissero sì. «Non si tengono in piedi, dopo una settimana non avranno più forze». I cinque tennero in piedi non solo se stessi, ma anche gli altri. Nonostante le privazioni e le torture. Formarono the Makana Football Association, organizzarono partite e torneo. Sempre dentro. Andarono nella biblioteca del carcere, chiesero il regolamento Fifa che divenne la loro Bibbia, studiarono le regole. Invece di piangere, fecero il gioco di squadra. «Il calcio ci ha aiutati a essere parte di qualcosa. Ci dicevano che non eravamo persone, invece con il pallone abbiamo rivendicato la nostra dignità».
Mandela ha combattuto per portare in Sudafrica anche i Giochi Olimpici, perché lo sport contribuisse a mischiare storie e razze. Nel ‘95 la sua foto all’‘Ellis Park di Johannesburg, con la maglia numero sei che gli aveva regalato il capitano (bianco) degli Springboks, François Pienaar, fece capire che il Sudafrica aveva fatto veramente pace con se stesso. C’era lui nero, con attorno i giocatori bianchi. Anche perché il motto dell’African National Congress era «No normal sport in an abnormal society», non ci può essere uno sport normale in una società anormale. Se si è schiavi, lo sport non libera. Mandela applaudì al successo: 15-12, dopo due supplementari, contro la Nuova Zelanda, nemica storica. Dai quarti di finale era stato un Sudafrica contaminato: 14 bianchi più un nero, Chester Williams. Era fatta: finalmente nella rainbow nation, nel paese dell’arcobaleno, il rugby si apriva a tutti i colori. Perché fino a quel momento mboxo, quella cosa che non è rotonda, così si chiama la palla ovale in bantu, aveva viaggiato solo in mani bianche. Mandela andò anche al matrimonio di Williams, giocatore simbolo dell’integrazione. E un anno prima, nell’aprile del ‘94 quando l’Anc vinse le elezioni, Mandela nel giorno del suo insediamento abbandonò i presidenti arrivati a festeggiarlo, per correre a vedere la partita tra Sudafrica e Zambia, scendere a fine primo tempo negli spogliatoi e salutare la squadra. Sapeva che lo sport è una questione di merito e che non si cancellano i simboli di una supremazia, per questo lo Springbok doveva restare sulle maglie, anche se per tanti era l’odioso segno dell’apartheid.
È stata la figurina preferita di molti calciatori. Dall’olandese Ruud Gullit che nell’87 gli dedicò il Pallone d’Oro, all’inglese David Beckham, al francese Lilian Thuram che lo incontrò nel ‘99 in occasione di un’amichevole: «Tutti erano isterici, volevano toccarlo, stringergli la mano, lui invece era sorridente e sereno».
È stato lo sport a trascinarlo fuori per la sua ultima apparizione pubblica, dopo sei mesi quasi di clausura. Perché quel pallone che non aveva mai viaggiato in Africa aveva bisogno della sua benedizione nella notte dell’addio della finale mondiale. E così Madiba a 94 anni ha attraversato ancora la storia. E si è mostrato al mondo per l’ultima volta. Re, principi e regine si sono alzati. E lui, in cappotto e colbacco nero, ben coperto da sciarpa e guanti, su una macchinetta elettrica, ha fatto, sorridendo, la sua invasione di campo allo stadio, accanto alla moglie Graca Machel. Senza vergogna per la debolezza e la fragilità del suo corpo. Anzi, fiero, di mostrare un Sudafrica libero e a testa alta. Ha sempre detto: «Sport has the power to change the world». Chissà se veramente lo sport pu ò cambiare il mondo. Lui però ci ha creduto e ci è riuscito. Senza raccontare favole. «Scalata una collina ce n’è sempre un’altra». Grazie, coach.

La Repubblica 06.12.13

Carpi (mo) – Inaugurazione della scuola secondaria di primo grado di Cibeno

Ore 8.30 Festa di Natale della Scuola e Saggio di Musica a cura degli alunni Ore 10.30 INAUGURAZIONE DELLA NUOVA SCUOLA
Interverranno:
enrico Campedelli, Sindaco del Comune di Carpi
Mons. Francesco Cavina, Vescovo di Carpi
Manuela Ghizzoni, Vice presidente commissione Cultura, Scienza e Istruzione Camera dei Deputati Giuseppe Schena, Presidente dell’Unione Terre d’Argine
Tiziano Mantovani, Dirigente scolastico Istituto Comprensivo Carpi 3
Gianfedele Ferrari, Presidente della Fondazione Cassa di Risparmio di Carpi
Ore 12.00 Esibizione di musica degli alunni all’interno dell’auditorium della scuola

“I cinesi e gli italiani fianco a fianco nel corteo”, di Adriano Sofri

Ci sono due modi di raccontare la manifestazione indetta dai sindacati ieri a Prato con un corteo concluso al monumento ai Caduti sul Lavoro. Ecco, rapidamente, il primo: un corteo-fiaccolata di un migliaio di persone, alcune delle quali cinesi (oppure: un corteo-fiaccolata di un migliaio di persone, alcune delle quali italiane) si è svolto a Prato, per commemorare la morte di sette operai cinesi, e ricordare che lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo è un’infamia, dovunque avvenga, da parte di chiunque e contro chiunque. Ecco il secondo: un corteo-fiaccolata di un migliaio di persone eccetera, concludendosi con la lettura dei nomi di tutti i morti sul lavoro di quest’anno in Italia, e fra loro dei sette operai cinesi morti nel rogo di domenica mattina. Alcune centinaia di partecipanti erano cinesi, giovani tutti, donne e uomini e anche bambini.
Non era mai successo a Prato che membri della comunità cinese prendessero parte a una manifestazione indetta da italiani, e tanto meno dalle organizzazioni sindacali. Amministratori della città e responsabili delle sue associazioni hanno definito la manifestazione, che dall’esterno sarebbe parsa inadeguata alla tragedia sul e del lavoro, un evento storico. Italiani e cinesi si sono mescolati nel corteo, i nomi dei loro morti si sono mescolati nella lettura. Nel pomeriggio, nella seduta solenne del consiglio comunale che aveva decretato, per la prima volta, il lutto cittadino, la console cinese a Firenze, Wang Xinxia, era scoppiata in lacrime. Forse è stato un episodio, forse è stato un inizio.
Bisognerà continuare a raccontare la Prato dei cinesi e degli italiani nei giorni prossimi. Molto si è detto, a ridosso del rogo sciagurato. Fra ciò che si è taciuto c’è un sistema di poteri e connivenze durato tre o quattro decenni e ora culminante. Fra ciò che si è deformato è il ruolo del sindacato, denigrato indistintamente, anche quando sue donne e uomini si sono dedicati a un ideale internazionalista, perché così si chiama, dei diritti del lavoro. I dati sulla condizione attuale sono impressionanti. 4.830 imprese cinesi. 3.500 di “pronto moda” e Made in Italy contraffatto. Oltre l’88% di ditte individuali (!) con una vita media di 2 anni. 2 miliardi di fatturato annuo di cui almeno la metà fondato su evasione fiscale e manodopera “clandestina” (20-25 mila addetti). 12 mila addetti con contratto di lavoro, il 90% a tempo indeterminato ma a part time — in modo da far lavorare in nero il resto del tempo — e previa lettera di dimissioni in bianco. Turn-over del 45% contro il 13 delle imprese italiane. Cinesi presenti: 16 mila con residenza, 25-30 mila irregolari. A Prato non si produce per le firme del lusso: ma il distretto è l’unico ad avvicinarsi alla produzione di marchi colossali come Zara. Basterebbe obbligare alla tracciabilità per sventare la truffa planetaria dei trasferimenti di materie prime, prodotti lavorati e soprattutto denaro. La legge fa passare per Made in Italy un prodotto sul quale si siano eseguite da noi due lavorazioni: i bottoni o le etichette cuciti sopra, per dire. Tutti quei bottoni sparpagliati, così diversi, per fare la differenza… Poiché il Made in Italy è fatto solo in una infima parte della sostanza — stoffa, lavorazione — e per la grandissima parte della stoffa immateriale che fa sogni e desideri e griffe, abiti o borse o scarpe imbrattate di sangue sono destinati alla ripugnanza dei consumatori. La Nike si rassegnò alla trasparenza dopo lo scandalo dei palloni fabbricati dai bambini asiatici. L’ha fatto la Gucci, che in Toscana assorbe il 70% delle produzioni in pelle: il sindacato è messo a conoscenza dell’intera filiera e può verificare le subforniture. All’indomani della tragedia di Prato il New York Times, lo Spiegel, la tv francese cercavano il sindacato toscano, consapevoli della partita: dopo la strage non compri più a Prato, e caso mai direttamente dai cinesi in Cina.
Fra i fautori della “mano dura” repressiva, insofferenti alla necessità di far riemergere il nero (compresi gli affitti al nero dei proprietari italiani) e separare servi da lavoratori, è difficile trovarne che non si siano serviti a propria volta, e magari all’avvio della metamorfosi pratese, del sublavoro cinese, e non siano passati poi a incassare la rendita parassitaria e illegale di affitti e vendite di capannoni e abitazioni. Intanto la Confindustria pratese ha due membri cinesi, la Confederazione dell’Artigianato ne ha 80. Non è difficile sapere che cosa fare, una volta che si sia detta la verità sul passato e sul presente. Alcune centinaia di cinesi avevano fatto la loro fiaccolata martedì sera. Ieri l’hanno rifatta coi pratesi e le bandiere sindacali — cinesi giovani, italiani anziani, per lo più. Lo si può raccontare in due modi. Quale sia il racconto giusto, dipende da tutti noi.

La Repubblica 05.12.13

“Emergenza Mezzogiorno cominciando dalla scuola”, di Vito Lo Monaco

Una ricrescita del sistema Italia potrà realizzarsi senza mutare la politica verso il meridione? Esiste ancora una percezione politica della gravità sociale ed economica del divario Nord-Sud? Qualche mese fa il ministro per la Coesione, prof Carlo Trigilia, presentando il rapporto della Fondazione Res, premetteva che prima di tutto bisognava tenere in vita il malato (cioè il Sud) con misure antirecessive basate su interventi mirati all’allargamento del credito attraverso il Fondo nazionale di garanzia, in particolare per le piccole e medie imprese, su finanziamenti a tassi agevolati per l’acquisto di macchinari, servizi di ricerca e d’informatizzazione delle imprese e soprattutto con l’orientamento concertato tra Stato e Regioni per modernizzare il sistema infrastrutturale e creare le condizioni di uguaglianza di fruizione dei servizi essenziali: sanità, assistenza, istruzione.
La legge di Stabilità risponde a pieno a queste condizioni ritenute preliminari per uscire dalla recessione e dall’impoverimento generale delle famiglie italiane?

Secondo i calcoli elaborati, su dati Istat, dal Diste e presentati qualche giorno fa dal Centro Curella, dall’inizio della crisi, 2008, il Mezzogiorno ha perso il 12% del Pil nazionale, l’8,5% dei consumi, il 7,1% degli investimenti, 600mila posti di lavoro e si ritrova l’11% in più del tasso medio di disoccupazione. Tutto ciò rende più complicato e difficile il recupero a breve termine della domanda e della produzione, soprattutto se non ci saranno interventi aggiuntivi a quanto previsto attualmente dalla legge di Stabilità, considerato insufficiente da tutti- sindacati, imprenditori, sindaci-.

Disoccupazione generale al 12,5%, quella giovanile al 41,2%, scoraggiati che diventano sempre di più, cifre pesanti che al Sud diventano drammaticamente più gravi, segnalano una situazione esplosiva che alimenta populismo, antipolitica e antieuropeismo.

Sicuramente per il Sud non è sufficiente il trasferimento da parte dello Stato del 4% del Pil pari a 60 miliardi, dei fondi strutturali europei destinati con procedure farraginose e senza eliminare la frantumazione politica della spesa ed elevare la qualità del sistema istituzionale, cioè il funzionamento della pubblica amministrazione, la valorizzazione del capitale socia- le e umano, il funzionamento della giustizia, l’erogazione dei servizi fondamentali- sanità, assistenza, istruzione-.

Su quest’ultimo tema dopo anni di divisione i sindacati della scuola si ritrovano uniti a manifestare affinché la legge di Stabilità inverta il corso distruttivo perseguito dal centrodestra e dalla diabolica coppia Tremonti-Gelmini. La loro «riforma» va a regime ora e l’Italia scopre le voragini create da essa nel suo sistema scolastico e universitario. Dopo 150 anni dall’Unità la scuola sembra aver esaurito la sua funzione di promozione sociale e di garanzia di pari opportunità. È stato calcolato che siamo tornati al divario del 1861 tra scuola del Nord e del Sud. Per asili nido e i servizi della prima infanzia, in Emilia la copertura è pari al 29% del fabbisogno, in Campania del 2,7%; in Sicilia l’abbandono scolastico del 26,5%, nel Trentino del 9%, senza calcolare la percentuale dei Neet (dei giovani che non studiano né lavorano). Inquestacondizione non basta fermare i tagli alla spesa per la scuola come previsto dalla legge di Stabilità, occorrerà incrementare il Fondo finanziario ordinario (Ffo), i fondi per riequilibrare i servizi scolastici e assicurare il diritto allo studio, colmare il divario esistente, per la riduzione dei docenti e dei tecnici, tra la scuola delle aree urbane, sovraffollate, e delle aree montane, soppresse. Non è più procrastinabile ridare dignità economica al personale docente, tecnico e amministrativo. Per eliminare la compressione del diritto allo studio non basta stanziare appena il 4,8% del Pil per il sistema scolastico che colloca l’Italia al 22° posto tra i Paesi europei. Il governo Letta senza larghe intese saprà approfittarne per dare uno slancio alla sua opera per fare uscire il Paese dalla recessione? Saprà imporre all’Ue il cambio di passo auspicato per tornare a crescere? Saprà recuperare la fiducia dei cittadini, sempre più arrabbiati, verso le istituzioni democratiche? Molto dipenderà dal comportamento del gruppo dirigente che uscirà dalle primarie del Pd, ma anche dal governo che non avrà più i voti di Berlusconi, però nemmeno i suoi condizionamenti.

L’Unità 05.12.13

“Aborto, indietro tutta Troppi obiettori, «194» inapplicata”, di Roberto Rossi

Racconta Andrea Cataldi: «Era martedì e io ero a letto con una tonsillite. In soggiorno mia moglie, alla diciottesima settimana di gravidanza cerca di tenere a bada il nostro primogenito Daniele non le concede tregua (…) Nella frenesia si fa largo il trillo di un telefono che non avremmo voluto sentire». Simona alza una cornetta «che non avrebbe dovuto alzare». Dall’altro capo l’ospedale di Ascoli Piceno, la città dove vivono, con i risultati dell’amniocentesi: «Dovremmo parlare con voi». E arriva «il buio, all’improvviso». In pochi minuti raggiungono la struttura. La tonsillite di Andrea è una «questione già vecchia». «Trisomia 13, sindrome di Patau» c’è scritto nella cartella. Un caso rarissimo, uno su diecimila. Chi ne è affetto nasce deforme e non vive più di tre mesi. «Incompatibile con la vita» dicono all’ospedale, «incompatibile con la vita» pensano i genitori sconvolti. «Piano piano, quasi bisbigliando, ci viene illustrato l’unico scenario plausibile, proprio quello più impensato, proprio quello che mai avremmo preso in considerazione»: l’aborto.
«Quella parola si fa fatica a pronunciarla, persino il personale medico accenna, ammicca, ricorre agli acronimi: Ivg, Itg». Figurarsi poi quando devono «confessare che: “noi qui queste cose non le facciamo, siamo obiettori”». Se si vuole ci sono altre strutture. Ancona, San Severino Marche o Pesaro. «Ma ad Ancona la lista d’attesa è lunga» e più si aspetta più diventa complicato, pericoloso. La scelta cade su San Severino Marche, due ore di auto. Eppure la legge, la «194», ideata 35 anni fa per regolare la proceduta di aborto, dovrebbe obbligare gli ospedali dove esiste un reparto di ostetricia e ginecologia, come quello di Ascoli, a eseguire interruzioni di gravidanza dopo i primi novanta giorni. L’articolo 9, che regola il diritto all’obiezione di coscienza, lo dice chiaramente quando riporta che «gli enti ospedalieri e le case di cura autorizzate sono tenuti ad assicurare l’espletamento delle procedure previste…».
FOTOGRAFIA
Ma se la legge lo recita, in Italia in pochi la applicano. Per capire quanti, visto che il ministero della Salute non fornisce un elenco aggiornato degli ospedali nei quali siano operanti i reparti di ginecologia che garantiscano l’aborto terapeutico (dopo i primi 90 giorni), e dato che l’Istat non fornisce questo tipo di informazioni, trincerandosi dietro un illusorio «segreto statistico», la Laiga (Libera associazione ginecologi per l’applicazione della 194) ha fatto una sua personale ricerca. «Ospedale per ospedale» ci dice la dottoressa Anna Pompili. Non tutti, naturalmente, ma una fetta talmente larga di strutture da rendere lo studio un prezioso documento. I risultati si fermano all’aprile di quest’anno, ma da allora si può immaginare che poco sia cambiato, in meglio.
La fotografia è riassunta nelle tabelle a fianco ma il responso è netto: nel nostro Paese la «194» è spesso carta straccia. Sommersa da una dilagante obiezione di coscienza, spesso piegata a logiche che nulla hanno a che fare con un reale convincimento interiore, e da una conseguente e ben più grave obiezione di struttura. Una realtà che il ministro della Salute, Beatrice Lorenzin, fa finta di non vedere fissando il numero di obiettori a una cifra che balla, per ogni regione, intorno al 70%. Ma si tratta di una media semplice, fuorviante. In certe realtà l’applicazione della 194 è complicata.
Nel Lazio, ad esempio, l’unica regione nella quale l’indagine è completa, su un numero totale di 391 ginecologi strutturati nei reparti solo 33 non obiettori eseguono l’interruzione di gravidanza volontaria. Neanche uno su dieci. Non che da altre parti vada meglio. In Sardegna negli ospedali Civili di Bosa e di Ozieri, sono quasi tutti obiettori. In Campania solo il 16% dei ginecologi è non obiettore, in Calabria la percentuale si abbassa anche di più (sfiorando appena il solo il 7%).
Ma anche al nord si trovano delle realtà piuttosto complesse.
All’ospedale di Bergamo sono obiettori 20 ostetrici-ginecologi su 27, 32 anestesisti su 100 e 52 membri del personale sanitario non medico su 125. A Seriate, sempre in Lombardia, su 33 ostetrici-ginecologi 21 sono obiettori. L’en plein lo fa il presidio di Treviglio: 14 ginecologi e 22 anestesisti. Tutti obiettori. Ma ci sono, come ha denunciato il Pd locale, anche i casi di Montichiari, in provincia di Brescia, di Cuggiono, presidio dell’ospedale di Legnano, di Iseo, che dipende dall’ospedale di Chiari, di Sondalo e di Chiavenna, distaccati dell’ospedale della Valtellina e Valchiavenna. Quante interruzioni si sono fatte? Zero. In totale, ha calcolato la Laiga, su 441 strutture italiane sentite, solo poco più del 10% garantiscono l’aborto terapeutico. Molti pazienti sono così costretti a spostarsi in un altro ospedale. Come succedeva a Caserta, dove nella Clinica S. Anna, convenzionata con la Regione e autorizzata ad eseguire interruzioni di gravidanza, nel 2012 si sono presentate 1633 donne. Di cui solo il 30% residenti in città o in provincia. Il resto, sette donne su dieci, proveniva da altre zone: Napoli (il 50% delle pazienti) o Frosinone e Latina. Ma questo accadeva fino all’agosto di questo anno. Avendo già esaurito il budget a disposizione, la clinica S. Anna non effettua più aborti.
Se la regione o la città più vicina rappresentano la prima opzione, alle volte si sceglie anche di andarsene all’estero. In Gran Bretagna, ad esempio. Con quasi ottocento sterline molte cliniche praticano l’interruzione terapeutica. Nel paese (secondo i dati della Uk Abortion Statistics relative al 2012) la presenza delle italiane (oltre un centinaio) è seconda solo a quella delle irlandesi. Tenendo a mente, però, che per le leggi di Dublino, l’aborto è illegale. Fino a qualche anno fa anche la Svizzera era gettonata, ma come ci spiega il dottor André Seidenberg dell’Università di Zurigo «l’anno scorso nella mia clinica è arrivata solo una donna italiana». Meglio allora la Spagna, o la Slovenia. Come ha fatto Anna, anni 37: «Sono partita senza la certezza di abortire. Una volta lì mi hanno sottoposta a una visita con ecografia, un colloquio con genetista e alla fine una commissione medica ha deciso se potevo procedere o meno. Io mi sono trovata molto bene, personale medico molto disponibile e scrupoloso».
RESISTENZA
Se spesso si decide di andarsene, altre volte invece ci attrezza per resistere. Alessandra fa parte di un piccolo ma agguerrito collettivo nato a Jesi (nelle Marche). È composto da una decina di donne (età media 33 anni) e ha adottato un nome che è un programma: «Collettivo Vialibera194». L’idea di formare un gruppo in difesa della legge che regola l’aborto ha preso corpo nel gennaio del 2013. «A Jesi – spiega in una mail il Collettivo – con l’obiezione degli ultimi ginecologi, nel luglio del 2012, non è stato più possibile accedere al servizio di interruzione di gravidanza. Una situazione che abbiamo ritenuto gravissima e insostenibile visto che si tratta di una prestazione garantita dal sistema sanitario nazionale».
Da qui l’idea di formare un gruppo di difesa della 194. Attraverso incontri, dibattiti e la creazione di un apposito blog, il Collettivo si è impegnato nel creare una rete di sostegno per l’applicazione della legge nelle Marche. E da maggio fino a settembre, ha raccolto oltre quattromila firme, messe nero su bianco in una petizione con la quale si chiede il ripristino della legalità non solo nella zona di Jesi e Fabriano, ma nell’intera regione.
In questa loro battaglia il Collettivo non è solo.
Tra i co-promotori compaiono altri 58 soggetti, tra partiti politici locali, associazioni e piccole istituzioni. Il problema è che queste firme sono pronte ma nessuno vuole riceverle. «Stiamo attendendo ancora da parte dell’Assessore alla Sanità della Regione Marche, Almerino Mezzolani, un appuntamento, più volte rimandato, per la consegna della petizione». Nel frattempo nell’ospedale di Jesi il servizio è stato ripristinato solo parzialmente con un numero di interventi (otto in un mese) eseguiti da una ginecologa che con cadenza settimanale fa la spola tra Jesi e Fabriano.
Dunque, in Italia c’è una legge che dopo 35 anni è praticamente disattesa. E che, ormai, in pochi reclamano. Anche perché l’argomento spacca le maggioranze politiche. Come è successo in Toscana lo scorso 2 ottobre quando, in Consiglio regionale, la maggioranza di centro sinistra si è divisa (compreso il Pd) su una mozione, primo firmatario il capogruppo Fds-Verdi Monica Sgherri, che impegnava, tra l’altro, la Giunta toscana a «emanare atti che prevedano con effetto vincolante per tutte le strutture dove si pratica l’interruzione volontaria di gravidanza per assicurare la piena applicazione della legge 194, e di istituire elenchi di medici obiettori e non obiettori». Il documento era stato sottoscritto da vari consiglieri di maggioranza, specialmente donne. La mozione fu respinta, per un solo voto di scarto, anche per colpa delle numerose assenze in aula e i voti contrari di alcuni consiglieri Pd (di area ex Margherita), che non hanno seguito il resto del proprio gruppo ed hanno votato contro la mozione insieme all’opposizione.
Di legge 194, dunque, meglio non parlarne. Racconta ancora Andrea Cataldi in una lettera recapitata anche al Tribunale del malato di Ancona: «Simona mi stringeva come se fossi l’unica sua speranza, assisto al parto, ed al raschiamento che ne segue. Vedo nascere mio figlio Francesco e lo vedo morire. Se non fosse stato per un’unica mezz’ora» nella quale hanno ricevuto assistenza medica, «in pratica l’interruzione di gravidanza l’avremmo dovuta gestire autonomamente, nella più totale solitudine di una stanzetta le cui pareti incombono ancora sui ricordi. Poi tutto finisce e ci chiediamo di dimenticare, dobbiamo solo dimenticare. Ma si può?»

l’Unità 05.12.13

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«Ministro Lorenzin, quei dati sono anomali», di Carlo Flamigni

Tra i miei ricordi di scuola c’è la storia di Margite, un misterioso personaggio (appare brevemente nell’Alcibiade minore), il quale, dice il testo, «pollà episteto, kakòs dè episteto panta», sapeva molte cose ma le sapeva tutte male. Mi viene sempre in mente Margite quando leggo le dichiarazioni dei nostri ministri della Salute, costretti a impegnarsi in una serie infinita di problemi, molto complessi e molto diversi l’uno dall’altro, della maggioranza dei quali sono del tutto ignari (come potrebbe essere diversamente?) cosa che li ha costretti a fidarsi di un consulente, scelto da loro o imposto da qualcuno al quale non si può dir di no, tenendo ogni volta le dita incrociate: il motto dei nostri ministri è, ma è cosa nota a tutti, «speriamo che Dio me la mandi buona». Questa volta Dio non l’ha mandata buona al ministro Lorenzin, che pure meriti di brava cattolica li dovrebbe avere, le cui dichiarazioni sull’attuazione della Legge 194 (rilasciate nel settembre scorso) nel 2011 e nel 2012 temo proprio che non potrebbero essere utilizzate come buon esempio di razionalità e di buon senso. Dunque il ministro Lorenzin, qualche mese fa, ha apprezzato come tutti noi il fatto che le interruzioni di gravidanza continuino a diminuire, ha aggiunto qualcosa anche sugli aborti delle nuove cittadine il cui numero, ha detto, è elevato «con tendenza alla diminuzione» e poi ha aggiunto che «i dati della relazione indicano che relativamente all’obiezione di coscienza e all’accesso ai servizi la legge ha avuto complessivamente un’applicazione efficace». Nello stesso comunicato stampa, un po’ più avanti, si legge poi che «i numeri complessivi degli obiettori di coscienza sono congrui al numero complessivo degli interventi e eventuali difficoltà sembrano derivare da una distribuzione ineguale del personale tra le strutture sanitarie all’interno di ciascuna regione». Burocratichese, ma comprensibile.
La Laiga (associazione che raccoglie i ginecologi non obiettori) non è proprio d’accordo con queste affermazioni e fa osservare che non tengono conto del fatto che in Italia l’obiezione di coscienza è diventata in realtà una obiezione di struttura, che in molti ospedali i servizi che dovrebbero provvedere alle interruzioni di gravidanza non esistono a causa del grande numero di obiettori, cosa che costringe molte donne a cercare una soluzione ai loro problemi altrove (il che significa emigrare nelle regioni nelle quali i servizi funzionano) o rivolgersi a chi pratica aborti clandestinamente, o addirittura emigrare come era abitudine fare prima del 1978. Oltre a ciò il signor ministro non ha tenuto conto del fatto che i ginecologi che operano negli ospedali che sono privi del servizio in questione non hanno alcun bisogno di sollevare obiezione di coscienza e questo significa che il numero totale di obiettori è ancora più alto di quello scritto sugli appunti dell’onorevole Lorenzin: c’è da chiedersi a questo punto a quanto in realtà corrisponda l’88,4% di medici obiettori della Campania. Quanto a questi obiettori, io credo che il ministro non possa non sapere che solo una parte di loro appartiene alla categoria delle brave persone che interrogano la propria coscienza e ne seguono i dettami, e molti altri sono invece persone di moralità per lo meno discutibile, interessate solo alla propria convenienza e al proprio interesse.
Forse converrebbe che il signor ministro, prima di parlare ancora di obiezione di coscienza, leggesse il codicillo di dissenso che segue il documento del Cnb del 2012, senza curarsi troppo del fatto che l’ho scritto io, ci troverà pareri di illustri studiosi di diritto che sono d’accordo con le mie critiche. Se poi ha ancora il tempo per leggere qualche libro interessante, compri «La scintilla di Caino», l’ultimo saggio pubblicato da Carlo Augusto Viano, uno dei maggiori filosofi del nostro tempo, che a proposito dei medici antiabortisti scrive: «In questo modo l’obiezione di coscienza, da strumento per esercitare il diritto di sottrarsi a una imposizione è diventata un modo per imporre agli altri le proprie scelte impedendo il godimento di un diritto sancito dalla legge».
SULLA RETE
Mi chiedo poi se sia umanamente possibile che al signor ministro non sia passato nemmeno per l’anticamera del cervello che qualcosa di poco chiaro, nei dati che riguardano la richiesta di interruzione di gravidanza delle nostre ragazze più giovani e delle nostre nuove cittadine, quelle che il ministro chiama «straniere», in effetti c’è. Le ragazze che non hanno ancora superato i vent’anni hanno un tasso di abortività pari a 6,7 (2011) – 6,4 (2012), che si confronta piuttosto male con i dati relativi alle coetanee francesi (15,2), inglesi (20) e spagnole (13,7), e si confronta bene solo con i dati che arrivano dalla Germania e dalla Svizzera: solo che in questi due Paesi le ragazze ricevono una educazione sessuale (e da noi no), fanno uso di mezzi contraccettivi efficaci ( e da noi no) e si dicono molto interessate alla prevenzione delle gravidanze indesiderate ( e da noi no). E allora, come spiega il signor ministro, questa strana anomalia? Provo a dare un suggerimento: vada su Internet e veda un po’ cosa succede se interroga il web su termini come «Ru 486 online», o «pillola abortiva» o «Mifegyne» (ma poi le verranno nuove idee viaggiando in rete): scoprirà quanto è facile trovare solidarietà e aiuto concreto ( e anche moltissime fregature) e come le pillole abortive si trovano, basta pagarle, arrivano dalle fonti più impensate. Bisogna dunque accettare il fatto che se il Ministero continua a ignorare l’educazione sessuale e a privare le giovani donne dell’aiuto dei consultori, le ragazze si arrangiano: e siccome c’è certamente una percentuale di queste interruzioni che non ha un esito del tutto favorevole e che costringe le ragazze a sottoporsi a un raschiamento, chieda ai suoi esperti di controllare se gli aborti spontanei non sono per caso aumentati di numero, e se è così calcoli che quell’aumento rappresenta circa il 4-5% degli aborti clandestini nei quali sono stati utilizzati farmaci abortigeni.
Temo che per quanto riguarda le nuove cittadine il problema sia ancora più complicato, perché molte di loro usano le prostaglandine che comprano in farmacia (con la scusa di curarsi il mal di stomaco) con ricette firmate dai nostri medici. Ora potrebbe essere interessante controllare chi firma queste ricette, verificare quante di queste donne finiscono in ospedale per gli effetti collaterali del farmaco e dare anche un’occhiata alle differenti etnie, non sarà che qualcuna di esse non figura nell’elenco di quelle che vengono ad abortire nei nostri ospedali? Perché se è così allora vuol dire che alcune di esse (ad esempio, quella cinese) si sono costruite i loro ospedali personali.
Concludo. Secondo me il ministro dovrebbe scegliersi un altro esperto e mandare l’attuale «nei ruzzoli», come si dice dalle mie parti. Se vuole un consiglio, eviti di sceglierne uno che ha scritto libri per dimostrare che l’Ru 486 è una pillola mortale o che ha sostenuto con grande sicumera che la legge va bene così e non ci sono problemi da risolvere per quanto riguarda la sua applicazione. Perché, signor ministro, non è vero.

L’Unità 05.12.13

Primarie Pd, i modenesi all’estero possono votare on line

Anche chi risiede all’estero, stabilmente o temporaneamente, per ragioni di studio o di lavoro potrà partecipare alle Primarie del Pd di domenica 8 dicembre. E’ stato, infatti, allestito un apposito sito che consente il voto telematico per gli italiani nel mondo. Per potere esprimere la propria preferenza per uno dei tre candidati alla segreteria nazionale del Partito democratico occorre registrarsi entro le 20.00 di venerdì 6 dicembre sul sito https://votoestero.primariepd2013.it/P0_WELCOME.aspx. Il voto potrà essere espresso sullo stesso sito dalle ore 00.00 alle ore 20.00 di domenica 8 dicembre (ora italiana).

C’è tempo fino alle ore 20.00 di venerdì 6 dicembre (ora italiana) per registrarsi nel nuovo sito che consente il voto telematico per gli italiani nel mondo in occasione delle Primarie Pd dell’8 dicembre prossimo. Con questo meccanismo, infatti, possono partecipare al voto gli elettori registrati all’AIRE (Anagrafe italiani residenti all’estero) e tutti i cittadini italiani residenti, stabilmente o temporaneamente, all’estero per motivi di studio e di lavoro, i militari in missione, il personale del corpo diplomatico e consolare, gli studenti in Erasmus, i ricercatori universitari all’estero che, alla data del 8 dicembre, abbiano compiuto 16 anni di età e sottoscrivano il pubblico appello in sostegno del Partito democratico. Per votare online occorre registrarsi sul sito https://votoestero.primariepd2013.it/P0_WELCOME.aspx. Servono un indirizzo mail valido, un cellulare (sono esclusi i cellulari con prefisso italiano) in grado di ricevere sms dall’Italia, l’immagine di un documento di riconoscimento e l’immagine del tesserino di lavoro o di studio o altro documento (es. titoli di viaggio) che attesti le ragioni della temporanea presenza all’estero. Il cellulare verrà utilizzato durante la fase di voto per accedere al sistema attraverso l’invio di un pin di accesso all’urna telematica. Per terminare il processo di registrazione è, infine, necessario versare con pagamento on line la quota di 4 euro. La procedura di voto sarà aperta dalle ore 00.00 di domenica 8 dicembre alle ore 20.00 di domenica 8 dicembre (ora italiana). Per votare occorre tornare sul sito indicato durante l’intervallo orario di apertura del voto. L’accesso sarà consentito a quanti si saranno registrati e avranno ricevuto la conferma via mail e il pin-code via sms.