Latest Posts

“Un caffè se togliete le slot” Il movimento che premia i bar dove l’azzardo è al bando, di Corrado Zunino

Togli la slot machine, caffè pagato. Cento caffè pagati. Ti premio perché hai rinunciato alla “macchinetta”, e magari provo a risarcirti del danno economico. I baristi per primi, e i gestori di bar, si sono accorti da tempo dell’effetto tragico della presenza di slot, videolotteries, videopoker nei loro locali. Stretti dalla crisi, spesso però non hanno avuto il coraggio di staccare la spina alla mangiasoldi: tre slot machine garantiscono da sole un incasso di 1.300 euro. Così il volontariato urbano ha deciso di dar loro una mano, avviando un’azione di obbedienza civile.
«Città per città proviamo a portare nuovi clienti a chi sceglie di rinunciare alle slot», racconta Carlo Cefaloni, creatore insieme a Gabriele Mandolesi di un’iniziativa che oggi ha 94 associazioni a sostegno. Sul sito “senzaslot” ci si autosegnala (sono già in 240 ad averlo fatto), poi il gruppo SlotMob (vuol dire: facciamo un mob, un happening, una festa a chi rinuncia al guadagno derivante dal gioco d’azzardo) coordina via Facebook gli eventi da costruire attorno al bar che ha deciso di rinunciare alle macchinette.
Si è partiti dal Freedom Bar di fronte al liceo classico di Biella, il 27 settembre: gruppi solidali a ordinare il caffè al bancone e novecento persone in piazza. Si è arrivati, fin qui, a Massa Carrara. Undici tappe, dodici bar toccati (a Genova sono stati disinfestati due locali in via Cairoli uno davanti all’altro, il Barpagianni e l’Apèritif, 35 e al 47 rosso) e quattordici giorni di “mob”. A Cagliari è accaduto che quando il Bar Valentina di via Pessina ha festeggiato l’evento, il concorrente ha abbassato la saracinesca partecipando alla festa. «Per ora io non posso permetterlo», ha detto al collega, «ma voglio farti sapere che ammiro la tua scelta ».
Il neomovimento, che party dopo party vuole arrivare fino a maggio, con un mob conclusivo nella capitale, ora dice che era necessaria una rivolta dal basso: «In Parlamento le lobby del gioco hanno mostrato tutta la loro forza al tempo di Balducci ministro della Sanità e i ricorsi ai Tar vengono puntualmente vinti dalle società d’azzardo», dice ancora Cefaloni, giornalista a Città Nuova. Servivano i baristi coraggiosi, cresciuti in un clima cambiato: negli ultimi due anni nelle città è cresciuta la conflittualità verso la diffusione sregolata delle macchinette. «I caffè e i cappuccini in più portati dalla nostra iniziativa non riescono a colmare l’ammanco legato alla rinuncia a un profitto certo, ma per quel bar riparte un ciclo virtuoso che migliora il livello della clientela e ripropone una nuova socialità nel locale». Se escono le slot, infatti, è facile rientri un calciobalilla, un tavolo da ping pong. «Lo SlotMob è un modo per premiare le virtù civili e fare opinione: renderemo la scelta di questi esercenti visibile e imitabile attraverso un marchio etico ».
Betty, 34 anni, madre di due figli di dieci e tre anni, neoattivista
di SlotMob da Sassari, racconta: «Mio marito ha toccato il fondo da dipendenza da slot machine. Per tre anni con me ha recitato e ha perso tutto: il lavoro, l’autostima. Ho ottenuto la sua firma dopo dieci mesi di Sert e ora è in comunità. Sta molto meglio, ma io sono una madre disoccupata con il mutuo sulla schiena. Odio le slot più della mia vita e sono disposta a tutto pur di farle eliminare dalla mia Sassari».
La battaglia dal basso è larga. Il Comune di Piove di Sacco, nel Padovano, ha scelto di togliere l’Imu ai bar che non installano slot machine. E a Palermo il sindaco Leoluca Orlando è andato a premiare il titolare del Bar del Kassaro. «Dieci anni fa ho buttato fuori dal locale chi ha tentato di impormi una macchinetta, loro e la macchinetta», racconta il gestore. A San Giuliano provincia di Pisa Gloria Tenconi ha accettato l’assunzione come barista solo a patto che togliessero le slot machine dalla sala. «Le hanno tolte».

La Repubblica 05.12.13

“L’ultima chiamata”, di Claudio Sardo

Premio di maggioranza e liste bloccate sono illegittimi. La Corte Costituzionale ha amputato il Porcellum. Si può dire che l’ha ucciso. Ma non c’è aria di festa. Il Parlamento ha ancor più il dovere morale di approvare una riforma, tuttavia è prevedibile che gli ostruzionismi verranno incentivati dallo scenario proporzionale (con sbarramento) che si è determinato. Se, come tutto fa pensare, il tripolarismo italiano resisterà nel medio periodo, la legge «potata» dalla Consulta renderà impossibile una maggioranza coesa. E chi pensa di perdere le elezioni difficilmente collaborerà alla riforma. C’è il rischio di aggravare la frattura tra cittadini e istituzioni, di aumentare la confusione, di rendere sempre più insopportabile l’impotenza della politi- ca. Per il governo è la prova del fuoco. Enrico Letta, infatti, non potrà più limitarsi al ruolo – peraltro fin qui improduttivo – di facilitatore. Dovrà indicare una via d’uscita. E impegnarsi su questa. A partire dall’imminente verifica parlamentare. Il governo sarà travolto se il Parlamento non riuscisse a trovare un’intesa, oppure se quest’intesa dovesse spaccare la maggioranza appena formata. Forza Italia dall’opposizione non farà sconti. Punterà alle elezioni immediate: e si metterà di traverso anche sulle modifiche costituzionali.

Invece costruire una riforma in Parlamento è la condizione per recuperare una legittimità della politica, oggi ulteriormente colpita. Ma il groviglio è complicato.
Una riforma cambia le convenienze elettorali e incide sul nucleo vitale dei partiti. Il Porcellum era diventato il simbolo del fallimento della seconda Repubblica. Ma anche dell’ipocrisia con cui è stata fin qui affrontato il tema della sua modifica. Per troppe volte il Porcellum da male assoluto è diventato male minore. E ora siamo alle soglie del collasso del sistema.

Ma quale riforma? Esercitarsi sulla migliore soluzione possibile è sempre utile. Tuttavia, non può diventare l’alibi per evi- tare il necessario compromesso. Cancellando la lista bloccata, la Consulta ha ripristinato la preferenza unica. Il legislatore ha altre due strade per evitare di incappa- re di nuovo nell’incostituzionalità: l’adozione di circoscrizioni elettorali molto piccole con un numero ridottissimo di candidati, oppure i collegi uninominali Quest’ultima strada è di gran lunga preferibile. Bisogna fare di tutto per imboccarla. Anche se è plausibile un’opposizione convergente di Berlusconi e Grillo. Se il ritorno ai collegi uninominali fosse impraticabile, comunque si dovrà adottare il criterio della doppia preferenza o dell’alternanza di genere: la parità nella rappresentanza è un valore al quale non si può rinunciare.

Ma la mannaia della Corte è scattata anche sul premio di maggioranza, e dunque sul maggioritario di coalizione, che costituisce la nostra vera anomalia sistemica. In nessuna democrazia del mondo si votano le coalizioni. Tutte le leggi elettorali dell’Occidente – che siano maggioritarie, proporzionali o miste – prevedono il voto ai partiti. L’ideologia della seconda Repubblica si fonda invece proprio sulla delegittimazione dei partiti. Le coalizioni preventive sono state raccontate come fattore di stabilizzazione e come garanzia del potere dei cittadini: così erano finalmente gli elettori a scegliere le alleanze, e non i leader politi- ci. Ma la realtà ha clamorosamente smentito la teoria. In questi vent’anni sono aumentate la frammentazione e l’instabilità, è dilagato il trasformismo, e i patti preventivi sono stati sistematicamente stracciati. Si può pensare di riprodurre questo imbroglio con altri marchingegni? È immagina- bile una nuova legge che spinga Alfano ad allearsi ancora con Berlusconi per conquistare un premio in seggi, e poi magari divi- dersi dopo le elezioni? No, bisogna coglie- re l’opportunità di questa sentenza per vin- cere la malattia. Il maggioritario di coalizione è diventato da noi il surrogato del presidenzialismo: siccome era complicato stracciare la seconda parte della Costituzione, si è preferito aggirarla con il mito del premier eletto direttamente dal popolo.

Il presidenzialismo «di fatto» (con il suo corollario di partiti personali) ha portato molto male al Paese. Perché non sono le leggi elettorali a stabilizzare i governi. E perché le elezioni parlamentari non posso- no essere trasformate, pena gravi contraccolpi, nell’elezione virtuale del premier. Per stabilizzare davvero i governi bisogna puntare anzitutto su una sola Camera politica e sulla sfiducia costruttiva. Così si rafforzano sia i governi che i Parlamenti. Una seria riforma elettorale ha bisogno di alcuni correttivi costituzionali: altrimenti rischia di deludere ancora. Il doppio turno di collegio (modello francese) ha il merito di rafforzare il legame tra eletto e territorio, e al tempo stesso di comporre nel secondo turno una coalizione di governo. Senza tuttavia provocare quelle rigidità, che nei sistemi complessi costituiscono sempre un difetto competitivo. Sarebbe una buona notizia se maturasse un’intesa su queste basi.

Comunque, non mancano in Europa altri modelli che favoriscono la formazione di una coalizione di governo attorno al partito che raccoglie più voti. Anche i modelli tedesco e spagnolo possono essere adatta- ti (con correttivi disproporzionali): purché non si pretenda di forzare l’esito bipolare anche contro la volontà degli elettori. L’importante è chiarirsi sull’incompatibilità del maggioritario di coalizione con il sistema parlamentare. Se si vuole eleggere diretta- mente il premier, o il governo, occorre imboccare consapevolmente la via del presidenzialismo.

Anche il Mattarellum può essere una soluzione di compromesso. È vero che non garantisce la maggioranza (ma con tre partiti al 25%, nessun sistema democratico al mondo può assicurare la maggioranza assoluta a uno solo). Tuttavia, la legge Mattarella è sicuramente rispettosa della Costituzione e sarebbe sorretta meglio che nel passato con il superamento del bicameralismo paritario e con la sfiducia costruttiva. Appare invece priva di logica la trasformazione della quota proporzionale del Mattarellum in un ulteriore premio di maggioranza: gli effetti potrebbero essere persino più anti-democratici della legge Acerbo.

Resta infine in campo l’ipotesi del doppio turno di coalizione: se nessuno raggiunge il 40% al primo turno, si procede al ballottaggio tra le prime due liste (o coalizioni). È alto il rischio di riprodurre i difetti del Porcellum. Ma se il ballottaggio fosse ridotto alle liste più votate (e non alle coalizioni), forse si potrebbe cambiare direzione rispetto al ventennio passato. Investire sui partiti e lavorare perché diventino più grandi (anziché affidare ad alleanze posticce e fasulle la conquista del consenso) tornerebbe ad essere un vantaggio.

L’Unità 05.12.13

“I cinesi e gli italiani fianco a fianco nel corteo”, di Adriano Sofri

Ci sono due modi di raccontare la manifestazione indetta dai sindacati ieri a Prato con un corteo concluso al monumento ai Caduti sul Lavoro. Ecco, rapidamente, il primo: un corteo-fiaccolata di un migliaio di persone, alcune delle quali cinesi (oppure: un corteo-fiaccolata di un migliaio di persone, alcune delle quali italiane) si è svolto a Prato, per commemorare la morte di sette operai cinesi, e ricordare che lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo è un’infamia, dovunque avvenga, da parte di chiunque e contro chiunque. Ecco il secondo: un corteo-fiaccolata di un migliaio di persone eccetera, concludendosi con la lettura dei nomi di tutti i morti sul lavoro di quest’anno in Italia, e fra loro dei sette operai cinesi morti nel rogo di domenica mattina. Alcune centinaia di partecipanti erano cinesi, giovani tutti, donne e uomini e anche bambini.
Non era mai successo a Prato che membri della comunità cinese prendessero parte a una manifestazione indetta da italiani, e tanto meno dalle organizzazioni sindacali. Amministratori della città e responsabili delle sue associazioni hanno definito la manifestazione, che dall’esterno sarebbe parsa inadeguata alla tragedia sul e del lavoro, un evento storico. Italiani e cinesi si sono mescolati nel corteo, i nomi dei loro morti si sono mescolati nella lettura. Nel pomeriggio, nella seduta solenne del consiglio comunale che aveva decretato, per la prima volta, il lutto cittadino, la console cinese a Firenze, Wang Xinxia, era scoppiata in lacrime. Forse è stato un episodio, forse è stato un inizio.
Bisognerà continuare a raccontare la Prato dei cinesi e degli italiani nei giorni prossimi. Molto si è detto, a ridosso del rogo sciagurato. Fra ciò che si è taciuto c’è un sistema di poteri e connivenze durato tre o quattro decenni e ora culminante. Fra ciò che si è deformato è il ruolo del sindacato, denigrato indistintamente, anche quando sue donne e uomini si sono dedicati a un ideale internazionalista, perché così si chiama, dei diritti del lavoro. I dati sulla condizione attuale sono impressionanti. 4.830 imprese cinesi. 3.500 di “pronto moda” e Made in Italy contraffatto. Oltre l’88% di ditte individuali (!) con una vita media di 2 anni. 2 miliardi di fatturato annuo di cui almeno la metà fondato su evasione fiscale e manodopera “clandestina” (20-25 mila addetti). 12 mila addetti con contratto di lavoro, il 90% a tempo indeterminato ma a part time — in modo da far lavorare in nero il resto del tempo — e previa lettera di dimissioni in bianco. Turn-over del 45% contro il 13 delle imprese italiane. Cinesi presenti: 16 mila con residenza, 25-30 mila irregolari. A Prato non si produce per le firme del lusso: ma il distretto è l’unico ad avvicinarsi alla produzione di marchi colossali come Zara. Basterebbe obbligare alla tracciabilità per sventare la truffa planetaria dei trasferimenti di materie prime, prodotti lavorati e soprattutto denaro. La legge fa passare per Made in Italy un prodotto sul quale si siano eseguite da noi due lavorazioni: i bottoni o le etichette cuciti sopra, per dire. Tutti quei bottoni sparpagliati, così diversi, per fare la differenza… Poiché il Made in Italy è fatto solo in una infima parte della sostanza — stoffa, lavorazione — e per la grandissima parte della stoffa immateriale che fa sogni e desideri e griffe, abiti o borse o scarpe imbrattate di sangue sono destinati alla ripugnanza dei consumatori. La Nike si rassegnò alla trasparenza dopo lo scandalo dei palloni fabbricati dai bambini asiatici. L’ha fatto la Gucci, che in Toscana assorbe il 70% delle produzioni in pelle: il sindacato è messo a conoscenza dell’intera filiera e può verificare le subforniture. All’indomani della tragedia di Prato il
New York Times, lo Spiegel, la tv francese cercavano il sindacato toscano, consapevoli della partita: dopo la strage non compri più a Prato, e caso mai direttamente dai cinesi in Cina.
Fra i fautori della “mano dura” repressiva, insofferenti alla necessità di far riemergere il nero (compresi gli affitti al nero dei proprietari italiani) e separare servi da lavoratori, è difficile trovarne che non si siano serviti a propria volta, e magari all’avvio della metamorfosi pratese, del sublavoro cinese, e non siano passati poi a incassare la rendita parassitaria e illegale di affitti e vendite di capannoni e abitazioni. Intanto la Confindustria pratese ha due membri cinesi, la Confederazione dell’Artigianato ne ha 80. Non è difficile sapere che cosa fare, una volta che si sia detta la verità sul passato e sul presente. Alcune centinaia di cinesi avevano fatto la loro fiaccolata martedì sera. Ieri l’hanno rifatta coi pratesi e le bandiere sindacali — cinesi giovani, italiani anziani, per lo più. Lo si può raccontare in due modi. Quale sia il racconto giusto, dipende da tutti noi.

La Repubblica 05.12.13

“Uno schiaffo agli stregoni”, di Piero Ignazi

Una delle peggiori leggi elettorali delle democrazie occidentali, distillata dall’ingegno dei quattro saggi di Lorenzago, guidati dal dentista leghista Roberto Calderoli, è stata stracciata dalla Corte Costituzionale. Va finalmente al macero il sistema elettorale con il quale siamo stati condotti alle urne per ben tre elezioni, dal 2006 ad
oggi. Un sistema che era stato studiato per evitare che il vincitore annunciato alle elezioni del 2006, il centro- sinistra guidato da Romano Prodi, potesse insediarsi a Palazzo Chigi forte di una maggioranza omogenea tra Camera e Senato. Inventando un premio di maggioranza che distorce in maniera clamorosa il principio di rappresentanza, differenziando la sua applicazione tra Camera e Senato e adottando le liste bloccate, gli apprendisti stregoni del centro-destra hanno portato al voto gli italiani in condizioni di “minorità democratica”. Questa menomazione dei diritti deriva, come sottolinea la Corte, dal premio di maggioranza e dalle liste bloccate che vengono quindi considerate gravi violazioni della possibilità di determinare, attraverso il principio di “un uomo un voto”, la volontà dei cittadini.
La Corte Costituzionale ancora una volta interviene a supplenza della politica, come da ormai lunga tradizione (basti ricordare le sentenze della Corte guidata da Giuseppe Branca negli anni Settanta che aprirono la breccia alla stagione dei diritti civili). Il suo schiaffo all’inerzia parlamentare è sonoro. In nove mesi non è stato partorito nulla e i partiti si sono spesi in ballon d’essai e proposte alambiccate. Ora non ci sono più scuse, e non c’è nemmeno più tempo. Le Camere devono produrre ad horas una nuova legge che dovrà necessariamente tener conto delle indicazioni fornite dalla sentenza di ieri. Anche perché il rischio è che si vada a votare con la proporzionale. Un rischio da evitare assolutamente.
Il compito di elaborare dovrà impegnare a tempi serrati tutto il Parlamento. Però questa sentenza “delegittima” gli esponenti del centro-destra di allora, ideatori del Porcellum, da Bossi a Casini, da Berlusconi allo stesso Alfano: tutti corresponsabili di questo monstrum premiale, disomogeneo e bloccato. Spetta agli oppositori del Porcellum, peraltro troppo acquiescenti e troppo a lungo silenziosi, proporre una nuova legge elettorale dato che Lega e Forza Italia (ma anche il Nuovo Centro Destra) hanno oggettivamente perso voce in capitolo.
Il Pd diventa il master del gioco. E allora deve fare piazza pulita di formulette e giochini al ribasso e puntare alla chiarezza e alla semplicità. Gli elettori hanno diritto di poter decidere tra alternative chiare e ben visibili, sapendo bene qual è il reale peso del loro voto. Soprattutto devono vedere in faccia il loro eletto. A questo punto al Pd non rimane che ritornare alla sua opzione originaria, sempre recitata come una giaculatoria salvifica e poi sacrificata sull’altare della responsabilità e della concertazione: il doppio turno.
Quello adottato in Francia per le elezioni legislative rappresenta un modello sperimentato che ha consentito nel tempo la riduzione della frammentazione, la formazione di coalizioni alternative e la governabilità. Poi si possono studiare anche altre varianti, purché gli obiettivi rimangano gli stessi. Infatti il doppio turno riporta nelle mani dei cittadini la scelta del loro eletto, e consente di riallacciare un rapporto fiduciario tra cittadini e rappresentanti, finora segregato dalle liste bloccate.
L’antipolitica montante di questi ultimi anni è stata alimentata anche dalla distanza, anzi dalla barriera, che separava elettori ed eletti. Ridurre questa separazione, mantenendo le condizioni per il bipolarismo, è un imperativo. E per rispondervi non è rimasta che questa strada.

La Repubblica 05.12.13

******

Via il Porcellum, era una legge truffa, di LIANA MILELLA

Era nell’aria da 24 ore. Ed è successo. Il Porcellum è incostituzionale in due punti chiave, premio di maggioranza e voto senza preferenza. Il vento della Consulta, in 300 minuti, ha soffiato via quello che i partiti non sono riusciti a cambiare in 2.904 giorni. Una decisione epocale, stavolta si può proprio dire, per la politica italiana. Presa in parte all’unanimità e in parte a maggioranza. Ma con una certezza. COMUNQUE vada, anche se il palazzo della politica continua a non mettersi d’accordo su una nuova legge, i giudici costituzionali sono certi che quello che resta del Porcellum permette comunque agli italiani di andare al voto. Non c’è l’ipotizzato ritorno al Mattarellum, per la semplice ragione che, pur azzoppato, il Porcellum continua legislativamente a vivere. Non c’è neppure il “vuoto” legislativo che, su questa materia, non è consentito e che molti paventavano. Un brutto fantasma agitato forse per imbavagliare la Corte. Sulla quale, in pochi giorni, s’è riversata la forte pressione della politica a fare un passo indietro. Che non c’è stato, pur dopo un’iniziale esitazione.
Camera di consiglio storica alla Consulta — che si apre alle 9 e trenta, si ferma alle 13, riprende alle 16 e si chiude pochi minuti dopo le 18 — perché non è di tutti i giorni essere alle prese con la legge che ha portato in Parlamento 945 tra deputati e senatori. La riunione che prosegue dopo la prima ora dice subito che l’ipotesi del rinvio chiesto da un alto giudice è stata superata, che si è entrati nel merito. Proprio così, ci si misura subito sull’ammissibilità del questione di costituzionalità posta dalla Cassazione — relatore Antonio Lamorgese, giudice della prima sezione civile — sui cui tavoli è giunto il ricorso dell’avvocato Aldo Bozzi e di altri 25 cittadini elettori contro il Porcellum, i quali si erano già rivolti al tribunale di Milano. Non dura a lungo la discussione, i giudici della Consulta votano tutti insieme per la piena ammissibilità dei due quesiti. Tanti giuristi erano contrari, loro non hanno dubbi.
E si entra nel merito. Il Porcellum può contare su due “nemici”, il presidente della Consulta Gaetano Silvestri, che già aveva materializzato i suoi dubbi di costituzionalità nel 2008 in occasione del referendum, e a settembre, nel giorno della sua elezione. Poi il relatore, Giuseppe Tesauro, ex presidente dell’Antitrust. I due quesiti sono lì, sul tavolo dei giudici pronti a essere vivisezionati. Si discute del premio di maggioranza senza tetto, e tutti decidono di bocciarlo. Si affronta la questione delle preferenze, e qui finisce con una votazione di stretta misura, otto contro sette, perché obiettivamente c’è chi considera il passo sulle preferenze molto spinto.
Si discute a lungo sul comunicato. Semplice e lineare sui due quesiti, «illegittimità costituzionale » per il premio di maggioranza, «sia per la Camera che per il Senato». Idem per le norme sulle liste elettorali bloccate, «nella parte in cui non consentono all’elettore di esprimere una preferenza». Almeno una preferenza, dunque, dovrà essere indicata. Ovviamente la Corte si pone il problema di “quando” la sua decisione diventerà operativa, per questo scrive che dalla pubblicazione della sentenza «dipende la decorrenza dei relativi effetti giuridici». La Corte compie anche un altro passo, conscia com’è della portata della decisione. Specifica che «il Parlamento può sempre approvare nuove leggi elettorali, secondo le proprie scelte politiche, nel rispetto dei principi costituzionali ».
In quei 300 storici minuti gli alti giudici — come trapela poi da “Radio corte” — stanno bene attenti a compiere una delicata operazione chirurgica che risponde strettamente ai quesiti posti dalla Cassazione. La Corte non si “allarga”, non fa politica, sta a quei due quesiti, come prova lo stesso comunicato. Del pari, non sceglie un nuovo sistema elettorale, né
potrebbe farlo perché così compirebbe una grave ingerenza nella vita del legislatore. Non riporta in vita il Mattarellum, con quella “reviviscenza” di cui pure tanto si era favoleggiato. Alla Corte si può cogliere questa certezza, «anche dopo i tagli la legge che resta consente di andare a votare, resta il proporzionale, così come per le liste è possibile votare per un candidato». Ma una sensazione è diffusa comunque, la certezza che il passo compiuto, l’incostituzionalità dichiarata, è «una clava», come la chiama qualcuno alla Corte, che costringe il Parlamento a fare una legge decente per far votare gli italiani senza privarli dei loro diritti. Sono le 18, i giudici hanno chiuso la partita del Porcellum.

La Repubblica 05.12.13

“Quel no dei grillini alla legge taglia-poltrone”, di Sergio Rizzo

Messaggio su Twitter del capogruppo grillino nel consiglio regionale del Lazio Davide Barillari: «Il Pd è alla frutta. Mi incrocia Vincenzi e dice: “Tanto la legge la portiamo a casa”. Si, ma ad aprile». La legge che il suo collega democratico Marco Vincenzi vuole portare a casa è quella con cui la giunta di Nicola Zingaretti ha deciso di fondere in una sola le cinque società direttamente controllate da Sviluppo Lazio, tagliando 32 poltrone. Con un risparmio, dicono, di 3 milioni. Operazione che dovrebbe essere seguita da fusioni analoghe nella giungla delle partecipazioni regionali, con il risultato di falcidiare i posti di consiglieri di amministrazione e revisori.
La cosa va avanti da sei mesi, su e giù fra giunta e consiglio. «Evviva!» si penserebbe che debbano gridare quelli del Movimento 5 Stelle. Tutto il contrario, invece. Perché ora che si è arrivati al dunque, sulla legge all’esame definitivo dell’assemblea regionale si è abbattuta una valanga di 1.300 emendamenti: un migliaio dei grillini, uniti in un’apparentemente surreale alleanza con le truppe dell’ex governatore Francesco Storace, che al proliferare di quella giungla societaria aveva già dato un fattivo contributo. L’ostruzionismo è feroce, sia pure con motivazioni distinte. Il centrodestra si oppone allo smantellamento della sua creatura, i grillini temono che con le fusioni arrivino potentissimi supermanager. E minacciano una guerra di posizione che può durare mesi. Poco importa se le fusioni in sequenza si dovrebbero risolvere in una riduzione di 75 poltrone: da 88 a 13. Poco importa se quelle società, a cominciare dal gruppo di Sviluppo Lazio, siano zeppe di bubboni. Tanto da far pensare che ai consiglieri del Movimento 5 Stelle impegnati a scavare le trincee sia sfuggita la relazione nella quale il procuratore della Corte dei conti Angelo Raffaele De Dominicis sancisce lo stato fallimentare della Regione Lazio, dedicando passaggi ustionanti a certi modi discutibili con cui venivano coperte le perdite delle aziende regionali. Perché le società partecipate di perdite ne avevano eccome. Da quando la nuova giunta è arrivata, otto mesi fa, ha dovuto sborsare 50 milioni per tappare i loro buchi. Le partecipazioni dirette e indirette in società di capitali sono 103, cui si devono aggiungere agenzie ed enti vari. Per un totale, reggetevi forte, di 7.361 dipendenti. Numero più che doppio rispetto a quello del personale in forza alla stessa Regione, pari a 3.613 unità: il rapporto con gli abitanti è superiore del 91% rispetto ai 3.371 impiegati della Lombardia. Come si è arrivati a quelle cifre è presto detto. Basta ricordare il caso di Lazioambiente, società creata nel 2011 con il solo obiettivo di riassumere i 487 dipendenti di un gruppo di società ambientali fallite che facevano capo a una cinquantina di comuni laziali. Spesa secca, 20 milioni.

E poi ci sono le perdite, su cui ha acceso il faro la Corte dei conti. Per esempio i 10,3 milioni di rosso accumulati nel solo 2012 dall’Azienda strade Lazio, cui si sommano i 400 mila di Autostrade per il Lazio. Per esempio, l’emorragia di 71.120 euro al giorno dell’azienda di trasporto Cotral, che a fine 2012 aveva un patrimonio netto negativo per 15 milioni. O la voragine dell’Arsial, l’agenzia agricola regionale, commissariata da mesi con 17 milioni di debiti. Un decimo dei quali sul groppone di un ristorante aperto dalla Regione nel 2003 a via Frattina, nel cuore di Roma, che è riuscito nella missione impossibile di aprire un buco di 1,7 milioni. Anche grazie a centinaia di pasti somministrati gratis a politici e assessori.

Ma la rogna più impellente è ora quella di Sviluppo Lazio. Nella sua pancia ci sono 76 pacchetti azionari, fra cui quello di Banca impresa Lazio (Bil), costituita anni fa per garantire prestiti concessi alle piccole imprese dalle quattro banche che ne sono anche azioniste di minoranza: Intesa, Unicredit, Bnl e Banca di credito cooperativo. Lavoro analogo, praticamente, a quello che dovrebbe svolgere Unionfidi Lazio, anch’essa partecipata da Sviluppo Lazio. Una duplicazione assurda. Nell’estate 2012 gli ispettori di Bankitalia hanno fatto a pezzi la Bil. La spesa media procapite per il personale è doppia rispetto ai concorrenti, dirigenti e quadri sono il 73,6% del totale, ogni pratica costa sei volte il prezzo di mercato, e ciascun dipendente lavora 29 pratiche l’anno contro 120.
Poi c’è la Filas, la finanziaria «di sviluppo». Dove sviluppo significa mettere un po’ di soldi in imprese private prendendo quote di minoranza. Ne ha 47. Ma 3 sono in società pubbliche. Altre 5 sono in liquidazione o concordato preventivo, mentre ben 12 sono fallite. E 7, invece, non hanno nemmeno sede nella Regione o comunque svolgono attività fuori dei confini regionali. Nell’arcipelago dei soci privati della finanziaria non mancano nomi di un certo spessore. Uno su tutti, per l’incarico pubblico ora ricoperto: quello dell’attuale amministratore delegato di Atac Danilo Broggi, titolare del 24% della società di ricerca KA4, di cui la Regione ha il 13%…

Il Corriere della Sera 04.12.13

“Terra dei fuochi, la svolta del governo”, di Adriana Comaschi

Pene più severe per chi brucia rifiuti, mappatura delle aree inquinate entro 5 mesi e conseguente divieto di coltivazione, fondi per la bonifica della Terra dei fuochi, Esercito per aumentare i controlli. Arriva il decreto legge del governo che affronta «per la prima volta in modo coordinato», sottolinea il premier Enrico Letta, la tragedia e l’emergenza dei roghi tossici nel napoletano e casertano, così da «recuperare il tempo perduto in troppi anni». Con interventi coordinati tra ministeri e Regione Campania.

Il ministro dell’Ambiente, il democratico Andrea Orlando, descrive la novità come «passo decisivo e priorità nazionale, l’immagine della Terra dei fuochi è un’onta che si deve superare. E con il decreto avremo una fotografia certa della situazione», da cui potrà prendere le mosse la bonifica (un Comitato interministeriale una Commissione ad hoc ne accelereranno le pratiche). L’obiettivo, spiega poi il ministro per le Politiche agricole Nunzia De Girolamo (Ncd), è «capire dove inizia e dove finisce il pericolo» e quindi «inviare un segnale positivo all’esterno». Una volta circoscritte le aree contami- nate insomma si potrà porre fine all’«effetto psicosi» denunciato dalla Coldiretti, secondo cui «solo nell’ultimo periodo le vendite dei prodotti tipici campani, dalla mozzarella di bufala all’ortofrutta», sono calate del 35%-40%». In concreto, le autorità stenderanno un primo perimetro delle aree interessate, dopo il monitoraggio attuato tra l’altro coordinando i dati raccolti negli anni (da Procure, Arpa, associazioni) verrà stesa una lista di campi «food» e «no food». E se i proprietari vieteranno l’accesso per le analisi «saranno inseriti nell’elenco di quelli non coltivabili».

MA ECCO COSA MANCA

«Un primo passo interessante», riconosce il vicepresidente di Legambiente Stefano Ciafani, che però avverte subito l’esecutivo: «Le risorse stanziate sono insufficienti, solo per il monitoraggio servono 3 milioni di euro. Manca poi il riconoscimento di altri reati ambientali pure commessi dalle ecomafie in quella zona. E manca la previsione esplicita dell’analisi delle falde acquife- re». Mentre il presidente della Commissione Ambiente di Montecitorio Ermete Realacci parla di «provvedimento importante, che ora potrà essere migliorato alla Camera».

Il punto sicuramente più apprezzato è quello sull’inasprimento delle pe- ne. Il rogo di rifiuti passa da reato contravvenzionale (pena da pochi mesi a uno, due anni di reclusione) a delitto, per cui si prevedono da 2 a 5 anni, per i rifiuti pericolosi la pena sale da 3 a 6 anni, se poi «i delitti sono commessi nell’ambito dell’attività di un’impresa o comunque di un’attività organizzata la pena è aumentata di un terzo». Non è una novità di poco conto, se si pensa che «si tratta del secondo reato ambientale previsto dal nostro ordinamento, il primo – ricorda Ciafani – di traffico illecito di rifiuti risale ormai al 2001 e noi lo chiedevamo già dal 1994». Rimane il fatto che «all’appello mancano almeno altri dieci reati ambientali. Altrimenti rimane un’evidente contraddizione – nota il numero due dell’associazione, che per prima nel 2003 parlò di “Ecomafia” -: perchè nel napoletano e nel casertano non c’è solo il rogo dei rifiuti, e anche con questo decreto ad esempio un camorrista che smaltisce liquidi tossici in una falda acquifera, o che sventra montagne con una cava, rischia meno di chi rubasse una mela in un supermercato. È fondamentale approvare al più presto anche questi altri reati». Legambiente promuove invece a pieni voti il censimento e la separazione dei luoghi contaminati. Ma osserva, «solo le indagini via terra e aeree e l’analisi dei dati costano 3 milioni di euro: il decreto stanzia 100 mila euro sul 2013 e 2,9 milioni sul 2014, chiaro che non basteranno a coprire anche la bonifica. E attenzione a evitare l’ultima beffa – nota Ciafani -: se arrivano altri fondi pubblici per le bonifiche le mafie come sempre si getteranno sul business. Occorre vigilare al massimo».

L’Unità 04.12.13