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“Il Porcellum alla sbarra”, di Michele Ainis

Processo al Porcellum , atto primo: domani alla Consulta s’aprirà l’udienza pubblica. Ma sul banco degli imputati non c’è solo la legge elettorale, c’è soprattutto la politica. Quella incarnata dalla destra, che nel 2005 confezionò la legge. Dalla sinistra, che nel 2006 vinse le elezioni, senza sognarsi d’abrogarla. Dall’ammucchiata destra-sinistra-centro, che ci governa da un paio d’anni senza mai battere ciglio, benché questa legge ci abbia spinto sul ciglio d’un burrone. Infine dai grillini, che disprezzano il Porcellum però dichiarano di volerlo conservare. Sul banco degli imputati c’è dunque il Parlamento, in tutte le sue articolazioni. E c’è il governo, che non ha avuto il fegato di sbrigare la faccenda per decreto.
Sicché adesso tocca alla Consulta, e non sarebbe il suo mestiere. Con quali conseguenze? Qui possiamo disegnare solo ipotesi, scenari, congetture. Il diritto non è una scienza esatta, altrimenti i suoi responsi verrebbero sottratti al verdetto di un giudice d’appello. Il primo dubbio circonda l’ammissibilità della questione. Significa che prima di deciderla nel merito, la Corte costituzionale deve misurarne la «rilevanza» nella causa intentata da Aldo Bozzi (nipote del politico liberale) davanti al tribunale di Milano: un cittadino che contesta l’espropriazione della sua libertà di voto. Significa perciò che quel giudizio dovrà dipendere, in positivo o in negativo, dal giudizio della Consulta. In caso contrario quest’ultima verrebbe interpellata direttamente dai cittadini: in Spagna si può fare, in Italia no. Ma è «rilevante» l’eventuale annullamento della legge elettorale dopo un’elezione contestata, però ormai consumata? Per la Cassazione questo problema non è affatto un problema, e d’altronde pure la giurisprudenza costituzionale offre almeno un precedente (sentenza n. 236 del 2010). Staremo a vedere.
Ciò che sicuramente non vedremo è il vuoto, la sparizione di qualsivoglia congegno elettorale. Altrimenti i mille parlamentari in carica diverrebbero immortali, nessuno mai potrebbe rimpiazzarli. Loro magari ne sarebbero felici, noi un po’ meno. Sicché un sistema pronto all’uso deve pur sopravvivere, dopo che la Consulta avr à usato i ferri del chirurgo. Quale? Per esempio un proporzionale puro, se in sala operatoria verrà amputato il premio di maggioranza. Oppure il Mattarellum . Dice: ma la Corte costituzionale ne ha già negato la reviviscenza, bocciando il referendum abrogativo che intendeva favorirla. Errore: altro è l’abrogazione (con legge o referendum), altro è l’annullamento (con sentenza). La prima vale per il futuro, il secondo retroagisce nel passato. E dopotutto tale soluzione suonerebbe assai meno creativa, meno invasiva. Rimetterebbe in circolo una scelta già timbrata dal legislatore italiano, mentre il proporzionale alla tedesca è roba per tedeschi.
E sul Parlamento in carica, quali conseguenze? Taluno opina l’illegittimità di ogni suo atto, compresa la rielezione di Napolitano. Balle. Se una sentenza vieta la fecondazione assistita, per rispettarla non dovremo uccidere il bambino nato con la fecondazione assistita. Meno ballista, viceversa, l’idea che sarà impossibile convalidare l’elezione di qualche centinaio di parlamentari, dato che le Camere non vi hanno ancora provveduto. Per evitare lo sconquasso, la Consulta potrebbe cavarsela con una pronunzia d’incostituzionalità «differita», che scatterebbe insomma alle prossime elezioni. Come ha già fatto, per esempio, rispetto ai tribunali militari (sentenza n. 266 del 1988). Ma è una frittata, comunque la si giri. E la gallina da cui sbuca l’uovo fritto è il sistema dei partiti .

Il Corriere della Sera 02.12.13

“L’economia dell’omertà”, di Bruno Ugolini

Sono operai segreti, immaginiao. Non sono schedati dall’Inps, non hanno tessere sindacali. Non votano. Ma vivono tra di noi, nel cuore della progressista Toscana. Sono morti all’alba di ieri, carbonizzati, in mezzo alle fiamme dentro la fabbrica dove lavoravano e dormivano. Casa e lavoro. Nessuno lo sapeva? Nessuno li conosceva? Nemmeno il padrone del capannone che con tutta probabilità lo aveva dato in affitto? E i vicini? Agivano come quei tedeschi che nell’ultima guerra mondiale sostenevano di non saper nulla di ciò che si compiva nel lager accanto casa? Certo qui, a Prato, non c’erano le camere a gas, però c’era un cumulo indegno d’illegalità, c’erano schiere di schiavi moderni. Lo ha scoperto solo l’incendio divampato all’alba. Loro, gli operai cinesi, non avevano nemmeno il numero di telefono dei vigili del fuoco, oppure avevano paura di alzare un velo sulla loro triste realtà. I vigili li ha chiamati un passante che ha visto innalzarsi l’enorme nuvola di fumo nero. Una nuvola di morte, mentre loro si aggiravano, qualcuno ancora in pigiama, tra le pareti di cartongesso, materiale facilmente infiammabile.

Ha ragione Valeria Fedeli, vicepresidente del Senato, parlamentare del Pd e già dirigente della Cgil, quando chiede di agire subito «monitorando le situazioni d’illegalità, di sfruttamento e agendo sull’assenza di controlli». E ha ragione la Cgil di Prato quando parla di «tragedia annunciata» che vede «persone in condizioni di estrema debolezza, perchè ai margini della legalità e quindi in una situazione tale da non poter ribellarsi».

È vero: quei lavoratori carbonizzati non potevano ribellarsi prima, ma poteva ribellarsi la gente intorno. Perché tutti lo sapevano. Lo sapeva anche la brava cronista del Sole 24 ore Silvia Pieraccini che il 12 agosto del 2012 scriveva, parlando del luogo dove oggi si è levato l’incendio: «Qui, dove fino a dieci anni fa c’erano le più belle fabbriche di tessuti e filati del distretto, oggi regnano decine e decine di aziende cinesi di pronto moda che sfornano abiti e magliette a prezzi stracciati, possibili solo perché dietro quelle produzioni – che possono fregiarsi dell’etichetta made in Italy – c’è un sistema organizzato di illegalità (lavorativa e fiscale) da far invidia ad Al Capone». Tanto si è detto e scritto su questa area del nostro Paese, dove c’era un’industria italiana fiorente in gran parte spazzata via dalla globalizzazione. Nella sola zona della tragedia, il Macrolotto 1, lavoravano, sempre secondo 24 Ore, 38 mila persone con un fatturato di quasi cinque miliardi di euro. Mentre ora a Prato sono arrivate quattromila ditte cinesi che impiegano 30mila connazionali. Escono da questi capannoni, simili a quello incendiato ieri, circa un milione di capi al giorno. Mentre il tessuto proviene dalla Cina. Una vicenda narrata in modo appassionato da Edoardo Nesi nei suoi libri. Il più importante di questi testi,«Storia della mia gente», ha vinto il premio Strega nel 2011. È una tormentata descrizione delle vicissitudini di una famiglia imprenditoriale tessile, a cui Nesi appartiene. Tra denunce e invettive sulle responsabilità di chi non ha cercato di impedire il fallimento di tante aziende e di tanti posti di lavoro l’autore individua anche tecnocrati ed economisti. Tra questi il noto professor Francesco Giavazzi «forse il più acerrimo sostenitore italiano dell’infinita bontà della globalizzazione», scrive, «colui che più di ogni altro nei suoi secchi articoli, puntuali come la morte, sprezzava l’incapacità di grandissima parte dell’industria italiana di adattarsi alle nuove regole di mercato…».

Era lo sfogo in un imprenditore che si sentiva solo, descrivendo con amarezza il tramonto dell’industria tessile pratese. Anche se – professor Giavazzi a parte – indagava poco sulle responsabilità imprenditoriali nel non saper imboccare le vie del cambiamento, dell’innovazione, degli investimenti, nonché della chiamata in causa di un ruolo governativo adeguato alla crisi. Spesso, come altri hanno accusato, molti imprenditori (non Nesi) avevano scelto la strada più facile degli affitti pagati da cinesi. Avevano scelto la rendita invece del rischio del profitto. Una strada apparentemente comoda che ha trovato seguaci in tutto il mondo.

Ora almeno su quel rogo di carne umana, di carne operaia, nel centro di Prato, dovrebbe nascere una nuova coscienza. Non basta commuoversi. E nemmeno sognare privatizzazioni infinite, senza lacci e lacciuoli. Sarebbe necessario uno Stato che sostenesse gli sforzi produttivi di lavoratori e imprenditori. Anche se su questo punto, pure a sinistra, molti si scandalizzano e predicano il «lasciar fare». Cosicché se qualcuno, anche nei preamboli del congresso Pd, osa tentare un discorso serio sul ruolo dell’intervento pubblico, non per confondere affari e politica, ma per imitare le scelte di Obama tese a impedire la disfatta manifatturiera, viene bollato come un vetusto marxista-leninista. Senza la consapevolezza che un dilagante liberismo senza principi rischia di produrre anche vite operaie carbonizzate.

L’Unità 02.12.13

“Il cemento del Veneto e l’offesa al territorio”, di Gian Antonio Stella

Perfino i sindaci leghisti: perfino loro sono saltati su contro il nuovo «Piano Casa» della «loro» Regione Veneto. Che razza di federalismo è se toglie ai sindaci la possibilità di opporsi a eventuali nefandezze e consente a chi vuole non solo di aumentare liberamente la cubatura in deroga ai piani regolatori ma anche di trasferirla, udite udite, in un raggio di 200 metri? Che la crisi pesi sul mattone, per carità, è ovvio. Ma può essere il «vecchio» cemento la soluzione? Per cominciare, un dossier dell’urbanista Tiziano Tempesta dimostra
che l’edilizia occupa ancora oggi (dati 2011) l’8,2% degli occupati veneti e cioè un punto
e mezzo più che nell’«Età dell’Oro» degli anni Novanta.
Non basta: già oggi il 59,6% dei veneti vivono in ville o villini uni o plurifamiliari contro una media italiana 16 punti più bassa: 42,9%. E abitano per il 64,9% (dati Istat) in case sottoutilizzate: gli altri italiani stanno dieci punti sotto. Di più, dopo la Lombardia il Veneto è la regione più cementificata con l’11,3% del territorio urbanizzato: il triplo della media europea, pari al 4,3%.
Non basta ancora. Quella di Zaia è la prima regione turistica nostrana. E anche nel 2012 ha registrato 15.818.525 arrivi per un totale di 62.351.657 presenze, per quasi il 65% di stranieri. Di fatto, ogni sei pernottamenti in Italia, uno è nel Veneto. Dove i soli stranieri hanno speso l’anno scorso 5 miliardi di euro. Più che in tutto il Sud messo insieme. Vale la pena di mettere a rischio questo patrimonio aggiungendo mattoni, mattoni, mattoni?
No, rispose qualche anno fa l’allora governatore berlusconiano Giancarlo Galan: «Basta col cemento». No, aveva ripetuto un anno fa Luca Zaia: «Nel Veneto si è costruito troppo, non possiamo continuare così. È necessario fermarci. Questo vale per i capannoni industriali, ma a maggior ragione per le abitazioni. È assurdo continuare ad approvare nuove lottizzazioni quando esistono già abbastanza case per tutti».
L’altra sera la maggioranza di destra ha fatto il contrario. Nonostante gli appelli preoccupatissimi dell’Istituto Nazionale di Urbanistica e delle associazioni ambientaliste. Nonostante la contrarietà dei sindaci (destrorsi, leghisti e sinistrorsi) di tutti e sette i capoluoghi, dal veronese Flavio Tosi al padovano Ivo Rossi: «Una cosa da pazzi. Anche nei centri storici magari resta tutelato quello specifico palazzo ma accanto si potrà fare qualunque schifezza. Fatte le somme (un tot per l’adeguamento energetico, un tot per il fotovoltaico, un tot per l’antisismico e così via…) saranno permessi ampliamenti del 140%. Un mucchio di soldi ed energie per fare piani regolatori seri ed ecco una leggina che dice: fate come vi pare».
«Ma non è vero! Al massimo l’ampliamento potrà essere del 80%. Qui si è fatta troppa demagogia — ribatte Zaia —. È una legge che va di pari passo con quella sulla cubatura zero. E non esautora affatto i sindaci. Pone fine a un eccesso di discrezionalità. Quanto allo spostamento di 200 metri, mi dicono fosse un emendamento della sinistra…».
Colpisce, però, che la maggioranza abbia tirato dritto nonostante la rivolta, come dicevamo, di moltissimi sindaci leghisti. «È chiaro l’intento degli alleati di forzare la mano per estromettere dal controllo del territorio i sindaci, da sempre baluardo della politica nazionale della Lega», aveva tuonato giorni fa Ivano Faoro, Responsabile Nazionale Enti Locali. E aveva chiuso invitando i consiglieri regionali leghisti a «votare secondo il chiaro indirizzo espresso dal partito». Macché. Contro il piano ha votato solo Matteo Toscani: «Mi ha convinto l’ostinazione dei miei colleghi nel voler esautorare i Comuni da ogni possibilità di intervento. Il piano casa viene imposto ai 581 comuni veneti d’imperio, senza alcuna possibilità di aggiustamenti locali». Un delitto: «Le amministrazioni comunali avranno buttato alle ortiche milioni di euro di risorse utilizzate per redigere i vari Prg, Pat e Pi. Ora si potrà edificare quasi ovunque cancellando decenni di pianificazione urbanistica».
Ma cosa prevede, questo piano, accolto con entusiasmo dall’Ance che pure ai convegni sostiene la necessità di riconvertire ciò che c’è? Prevede fino al maggio 2017, per tradurlo dal burocratese con le parole del Sole 24 Ore , una «norma che toglie ai Comuni la possibilità di limitare o escludere l’applicazione del piano casa nei centri storici» e «permette di operare in deroga alle norme urbanistiche ordinarie» e «in deroga ai piani urbanistici e ai piani ambientali dei parchi regionali anche se in questo caso», grazie a Dio, «è necessario il parere vincolante della Soprintendenza».
Ma ecco, abracadabra, la regola più stupefacente: «Gli ampliamenti potranno essere realizzati anche su un lotto adiacente, sino a 200 metri di distanza dall’edificio principale e su un diverso corpo di fabbrica». Come cantava Patty Pravo: «Oggi qui, domani là…». Più molti altri incentivi (basterà portare la residenza sul posto per 42 mesi: sai che fatica…) da far accapponare la pelle ai sindaci dei Comuni turistici più esposti. Come quello di Cortina Andrea Franceschi e di Asiago Andrea Gios, che pur essendo di destra avevano già dato battaglia contro il piano precedente portando il caso, ad esempio, di paesi come Roana (79% di seconde case), Gallio (82%) o Tonezza, dove le case abitate tutto l’anno sono solo il 13%. Con enormi problemi di gestione del territorio.
«È una pazzia: il nostro municipio per tagliare dieci metri quadrati di pino mugo deve presentare uno studio di impatto ambientale e invece ora per fare un ampliamento in zona agricola non serve niente di niente — attacca Gios —. È un intervento barbaro di deregulation che va contro ogni strategia organica di sviluppo e che sembra finalizzato solo a spronare meri interventi speculativi. Quella facoltà di spostare la cubatura supplementare nel raggio di 200 metri, poi! Abbiamo fatto una simulazione: ad Asiago potremmo ritrovarci dei villini a ridosso dell’Ossario. Un insulto, alla vigilia del centenario della prima guerra mondiale».
«Non ci volevo credere», confessa Tiziano Tempesta, che già aveva dimostrato come nei dintorni immediati delle meravigliose ville venete sia stato costruito il triplo della media, «è un ulteriore incentivo a favorire l’insediamento sparso». Cioè la sprawltown , quella poltiglia di case, campi, capannoni, sottopassi, villette, condomini che ha assassinato la campagna veneta.
«Non è un piano casa: è un “piano scempi”», accusa Stefano Deliperi, l’anima del Gruppo di intervento giuridico che si è fatto spazio facendo guerra ai nemici dell’ambiente non con gli striscioni ma con le carte da bollo, «un minuto dopo la pubblicazione, impugneremo tutto: qui rischiamo un Far West urbanistico». E se qualcuno esagerasse andando oltre perfino alle già generose concessioni? «Sarà costretto a pagare il 200% degli oneri di urbanizzazione che però non esistono», ride amaro Tempesta. Cioè, secondo gli ambientalisti, il doppio dello zero…

Il Corriere della Sera 02.12.13

“La Chinatown toscana senza diritti né umanità”, di Adriano Sofri

La commozione è arbitraria, anche in mezzo a una tragedia vi sopraffà con un dettaglio. Sul pavimento nero di acqua e cenere erano i bottoni: centinaia, migliaia di bottoni disseminati di ogni misura e colore. Archeologia contemporanea, un tappeto di bottoni alla deriva per una Pompei di cinesi a Prato. Un’altra cosa colpiva e quasi esasperava: che, di qua dai cordoni tesi per proteggere la fatica dei soccorritori, gli italiani — e telecamere fotografi e cronisti — stessero nei propri capannelli, e i cinesi, giovani quasi tutti, donne e uomini, e qualche bambino, nei loro. Eppure faceva molto freddo e tirava un gran vento, lo stesso freddo e lo stesso vento per cinesi e italiani. Non credo né al cinismo né all’ottusità, piuttosto a un’abitudine a pensare che gli altri non vogliano avere a che fare con noi, che se ne stiano fra loro. Lo pensiamo senz’altro dei cinesi — non senza buone ragioni — e probabilmente lo pensano i cinesi di noi, e anche loro hanno qualche ragione… Però ieri erano lì per i loro morti, e bisognava andargli in mezzo, dar loro la mano, abbracciarli, con rispetto, ma senza esitazione. Si sarebbe scoperto che erano pronti a fare altrettanto. Che avrebbero usato il loro italiano, quelli che ce l’hanno, per dirvi che l à c’era un fratello, uno zio, una cugina, e se sapeste niente dei morti, quanti, e come si chiamassero. Sarebbe stato il giorno di una tragedia terribile, ma anche il giorno in cui gli italiani e i cinesi si abbracciarono. Forse per ò lo si è fatto, e comunque oggi si è ancora in tempo.
Un po’ dopo le quattro di pomeriggio viene fuori da quell’antro fumigante il medico legale, ha visto tre cadaveri, o piuttosto quel che resta di tre cadaveri. «Una è una donna, gli altri sono monconi che impediscono di riconoscerne il sesso, per ora». Il medico si chiama Alberto Albertacci, ha baffi e fisico del ruolo, ne ha viste tante. Tre giorni fa era stata la volta di una donna seppellita alla meglio, dentro un sacco di plastica, in un campo di periferia: probabilmente una cinese. Ma qui è un’altra cosa, dice. All’obitorio ci sono quattro cadaveri, e il conto per ora sale a sette. Dei quattro ricoverati, due sono stati dimessi e due sono in condizioni gravi: «Ma non disperate », dice il prefetto di Prato, Maria Laura Simonetti, qui da tre mesi. Vorrei chiederle, appena ci sarà tempo, quanti sono in prefettura i funzionari e gli impiegati che parlano, cioè ascoltano, cinese, e quanti in questura. Questa è, dopo Londra e Parigi, la terza città cinese d’Europa.
I vigili del fuoco sono venuti da tutte le province — Prato è a un crocevia, Firenze, Lucca, Pistoia, Pisa — lavorano da stamattina e non ne sono ancora venuti a capo. Temono che in quell’ammasso ci siano altri esseri umani. Notizie sicure su quanti fossero dentro quando è scoppiato l’incendio non ce ne sono: si spera che siano scappati in tempo. Stamattina era venuto fuori, per fortuna incolume, anche un bambino. I loculi: li chiamano tutti così, con naturalezza, come se l’abitudine avesse fatto dimenticare che cosa significasse all’origine quel nome, che oggi è tornato a significarlo. Le vittime, probabilmente, non stavano lavorando. Si lavora pressoché sempre, ma soprattutto di notte, e magari si erano messi a dormire, e avevano cercato un modo di riscaldarsi, perch é con la prima mattina di dicembre era arrivato anche il freddo e il vento peggiore. «Lavorano e caricano i camion di notte, per evitare i controlli»: non ho il tempo, ora, per chiedere come mai, dopo l’invenzione dell’elettricità, i tir caricati di notte passino più inosservati. Del resto, quanto ai controlli, sindaco, dirigenti dell’Usl, polizie, spiegano che pressoché ogni ispezione si conclude col sequestro, e però tu fai 300 ispezioni e le fabbriche sono migliaia, rispuntano come funghi, spesso senza nemmeno curarsi di sembrare fabbriche. Questa volta la tragedia è successa nella zona sviluppata, “commerciale”, e non nei vecchi capannoni attaccati ai formicai umani: a mostrare che loculi di dormitorio e show-room si adattano gli uni alle altre. Sono arrivato fin là dentro col presidente della Toscana, Enrico Rossi, che dice che di questa tragedia, e della quotidiana umiliazione dell’umanità che si compie dentro questo famoso Distretto delle Confezioni «siamo tutti responsabili »: e intende gli amministratori e lo stato. La sinistra ha guidato Prato negli anni in cui sul successo rigoglioso dei cenci cominciava a innestarsi la colonia cinese, e ambedue le comunità, o una loro buona parte, ci guadagnavano, sicché si preferiva ignorare o rinviare i problemi che quello sviluppo tumultuoso avrebbe posto. La sinistra finì col perdere Prato, grazie alle proprie divisioni infantili e senili, e fu una sconfitta forse provvisoria ma simbolica, per il luogo in cui avveniva e per lo spazio che lasciava a una campagna d’ordine xenofoba tanto chiassosa quanto velleitaria. La comunità cinese era stata trattata come se fosse invisibile: ma perché le cose siano invisibili bisogna che, almeno per una metà, ci sia chi preferisce non vederle. Lì davanti, ieri, alla domanda su quanti siano i cinesi che lavorano (e vivono, ammesso che gliene resti il tempo) a Prato, il sindaco Cenni rispondeva paradossalmente: «Ufficialmente 16 mila, in realtà fra i 20 mila e i 40 mila — ma il console una volta si è lasciato sfuggire che secondo loro sono 50 mila…». Questa iperbolica incertezza coincide con una extraterritorialità crescente: è come, dice Enrico Rossi, se il tessile di Prato, e tutta la città, capannoni negozi e appartamenti, si fossero delocalizzati segnando il passo, restando dov’erano, in una Cina domestica. Che lavora 15 o 16 ore al giorno se va bene, che viene pagata abbastanza da produrre un cappotto di marca a 19 euro, così che i clienti europei del prêt-à-porter possano comprarselo a 100 o 200. Questa rete di produzione e smercio, una gran Rosarno dell’abbigliamento piuttosto che dei pomodori o delle arance, ha poco a che fare con leggi e diritti italiani, ed è piuttosto governata da un racket cinese dell’usura e delle estorsioni che le fornisce i servizi necessari: un doppio regime fiscale e in sostanza statale. Le sfuriate repressive ci sono state, ma i soli metodi di polizia, per essere efficaci, porterebbero alla cacciata intera della popolazione cinese di Prato, che è una pazzia. E invece una riemersione del lavoro illegale capace di progressi elementari come assicurare un’abitazione e una dignità a chi lavora, e insieme di proteggere un’economia non più affidata allo schiavismo, esige che se ne occupi lo Stato italiano, rivendicando a sé l’autorità che gli compete in un proprio prezioso territorio, e trovando con l’interlocutore cinese il compromesso adeguato: finché la criminalità cinese si limiti a colpire, com’è ancora, i propri connazionali. I cinesi hanno, grazie alla Toscana, una sanità efficiente, che comprende condizioni peculiari per le partorienti. Ma una svolta vera non può essere locale. Prato sente di essere stata ignorata dal Quieto Vivere dello stato italiano, dagli anni ‘60 e ‘70, quando raddoppiò turbinosamente la popolazione. Nel 1992 lo stato le regalò il titolo di provincia, che è come il sigaro, che non si nega a nessuno, e prima o poi si rinnega. La strage di ieri è una piccola Lampedusa. Ha acceso una luce sulla Cina pratese: peccato che fosse una luce di rogo.

La Repubblica 02.12.13

“Se la scuola non guarda lontano”, di Benedetto Vertecchi

Il confronto sulle scelte di politica scolastica si sta ormai trascinando su questioni di funzionamento quotidiano. Ognuna di esse ha certamente una sua rilevanza, se non altro perché coinvolge le condizioni di lavoro di un gran numero di insegnanti e quelle di studio di milioni di bambini e ragazzi, ma è spesso marginale rispetto agli intenti da perseguire attraverso il sistema di istruzione. Il limite di tale confronto è che ci si sofferma su questioni contingenti senza chiedersi cosa accadrà tra cinque, dieci, venti o più anni (Piaget se lo chiedeva già più di mezzo secolo fa). Men che meno ci si chiede in che modo la scuola possa concorrere attraverso l’attività educativa a indirizzare lo sviluppo della cultura e della società in questa o quella direzione.

Gli interventi che rispondono a logiche di breve periodo possono, nei casi migliori, rimediare al disagio che si manifesta in questo o quell’aspetto del funzionamento del sistema educativo, ma non modificano la direzione del suo sviluppo. Non è un caso che, ormai da troppo tempo, i provvedimenti che riguardano la scuola non sono il risultato di un confronto che coinvolga le forze politiche e quelle sociali interessate al miglioramento dell’istruzione, ma sono inseriti, come nel caso della legge di stabilità appena varata, in una sorta di omnibus legislativo. Non si possono determinare alla spicciolata nuovi traguardi per l’educazione, i cui effetti non si limitino a qualche aggiustamento nei conti, ma possano riscontrarsi quando i bambini e i ragazzi che ora frequentano le scuole avranno finito il loro percorso sequenziale di studio.

La contraddizione che non si fa niente per risolvere è quella che oppone la rapidità dei cambiamenti che si verificano nella vita sociale e nella conoscenza con la necessità di estendere nel tempo la progettualità educativa. Non sappiamo che cosa faranno nella vita (in una vita, oltre a tutto, che gi à oggi è molto più lunga di quella delle generazioni precedenti) gli allievi che in questi anni fruiscono di educazione scolastica. Quel che è certo, è che gran parte di loro sarà impegnata in attività che ancora non esistono e che ciò suppone una grande capacità di comprensione e una grande flessibilità di comportamento. È il contrario di ciò che si ricava da interventi la cui validità il più delle volte si esaurisce prima che gli allievi abbiano terminato gli studi nei quali sono al momento impegnati.

Le scarse indicazioni a carattere prospettico che si ricavano dal dibattito politico e dagli interventi dell’opinione pubblica indicano una sostanziale insensibilità nei confronti della tradizione culturale italiana ed europea, che si aggiunge ad atteggiamenti subalterni nei confronti di scelte culturali che rispondono a interessi di mercato, senza tener conto di fenomeni evolutivi che non è difficile ipotizzare si manifestino nel medio e nel lungo periodo. Quando si enfatizza l’importanza dell’apprendimento dell’inglese e dell’informatica si accetta una linea di modernizzazione schiacciata sul momento. Non ci si chiede, per esempio, quale potr à essere nei prossimi anni il quadro della comunicazione linguistica nel mondo (eppure, nel Paese che più ha determinato la diffusione della cultura anglofona, gli Stati Uniti, sono stati pubblicati studi dai quali risulta che nell’arco di alcuni decenni la lingua più diffusa nel Paese sarà lo spagnolo, che peraltro già oggi è la lingua maggioritaria in città importanti, come Miami). Né ci s’interroga sulle conseguenze che potranno derivare da un uso fondamentalmente consumistico di apparecchiature digitali. Eppure, basterebbe osservare le abitudini e il comportamento di bambini e ragazzi per trovarsi di fronte a problemi che, quanto meno, richiederebbero una riflessione approfondita.

Nelle scuole la mancanza di scelte e la subalternità al mercato (peraltro incoraggiate dalle politiche dei governi che dall’inizio del secolo si sono succeduti alla guida del Paese) hanno portato a una progressiva riduzione della capacità di bambini e ragazzi di operare con le cose, trasformandole secondo un progetto tramite azioni coordinate e coerenti. Sono state rapidamente abbandonate attività la cui presenza qualificava l’attività didattica, per il fatto che costituiva la congiunzione necessaria tra l’acquisizione di conoscenze slegate e la loro composizione in un quadro funzionale. Si trattava delle attività di laboratorio, nelle quali era possibile superare la scissione tra il pensare e il fare, tra la mente e le mani. Non solo: l’apprendimento cessava di essere qualcosa di apprezzato solo nell’ambito di ritualità scolastiche, per segnare in profondit à il profilo degli allievi. Quel che si sarebbe potuto lamentare, semmai, era l’insufficienza delle dotazioni delle scuole, al fine di porvi rimedio. È accaduto, invece, il contrario: anche le scuole che disponevano di gabinetti e laboratori per le dimostrazioni scientifiche e per l’osservazione naturalistica, e che avevano nel tempo raccolto collezioni importanti di campioni minerali e biologici, hanno lasciato disperdere tale patrimonio, destinando le risorse a disposizione all’acquisto di materiale digitale.

Non starò qui a ricordare altre scelte ugualmente distruttive: quante sono oggi le scuole che dispongono di un teatro, di una sala da musica, di una biblioteca? Eppure, basterebbe considerare che tutte le dotazioni citate potevano essere utilizzate per molte generazioni di studenti, mentre le apparecchiature digitali sono soggette a un rapido superamento, per capire quanto i condizionamenti che, con la complicità dei governi, hanno finito con l’affermarsi comportino lo spreco delle limitate risorse disponibili per sostenere il lavoro didattico. La questione non è tuttavia solo di qualità dell’impegno delle risorse finanziarie. Se si potesse dimostrare che tramite le nuove dotazioni è possibile migliorare la qualità dell’educazione scolastica, se ne dovrebbe sollecitare la disponibilità indipendentemente dal costo. Il fatto è che i dati disponibili vanno in altra direzione. Da qualche tempo nella stampa internazionale, sia quella specializzata, sia quella d’informazione, si legge di progetti centrati su strumentazioni tecnologiche che sono stati interrotti per gli effetti negativi che stavano producendo o, addirittura, si apprende che in alcune universit à americane nei luoghi di studio sono state eliminate le connessioni alla rete. A mio giudizio erano eccessivi gli entusiasmi precedenti come lo sono gli atteggiamenti negativi che ora si stanno diffondendo. La questione vera è che cosa sia preferibile per l’educazione dei nostri bambini e dei nostri ragazzi. Un fatto è certo: nei laboratori che abbiamo evocato si acquisiva autonomia e si stabilivano rapporti positivi con la natura, mentre la realtà simulata nella quale oggi gli allievi sono immersi, se considerata come un’alternativa, produce l’effetto contrario. La conclusione mi sembra scontata.

L’Unità 01.12.13

La scuola in piazza: «Così non va», di Adriana Comaschi

La nuova spina nel fianco della legge di Stabilità provano a metterla insegnanti, sindacati, studenti, radunati ierimattina sotto Montecitorio e poi “in conclave” per studiare le prossime mosse da opporre al governo, sciopero incluso. Il messaggio è univoco, per tutte le sigle scese in piazza (Flc Cgil, Cisl Scuola, Uil Scuola, Gilda Unams, Snals Confsal) con duemila manifestanti: la fiducia nell’esecutivo non può aggrapparsi alla «buona volontà», riconosciuta al ministro Maria Chiara Carrozza. Il mondo della scuola vuole cifre, investimenti, correzioni di rotta, la piattaforma sindacale elaborata punta su sblocco degli scatti di anzianità e delle retribuzioni (ferme al 2007), piano di investimenti pluriennale, risoluzione del problema del precariato. C’è fame di risorse economiche insomma, per dare respiro e dignità a risorse umane penalizzate ormai da troppo tempo.

LE CIFRE CONTESTATE Il punto forse sta tutto qui. Cinque anni di mannaia sui conti della scuola non si cancellano, agli occhi degli interlocutori, con l’assicurazione che non ci saranno altri tagli. Un impegno che l’esecutivo giudica mantenuto anche nella legge di Stabilità. Mentre sindacati, insegnantie studenti danno un’altra lettura. «Nella Legge di Stabilità non c’è un euro in più per la scuola, rispetto a quanto già previsto dal decreto Carrozza convertito in legge accusa ad esempio Mimmo Pantaleo, segretario della Flc Cgil I 450 milioni dell’ex decreto 104 dovevano rappresentare un primo passo, perché quelle risorse (distribuite su tre anni, per la stabilizzazione di 27 mila precari del sostegno e un piano di immissioni in ruolo per 42 mila docenti e 16 mila Ata) sono per noi assolutamente insufficienti. La Legge di stabilità avrebbe dovuto andare oltre, non lo fa». Anche la senatrice Pd Francesca Puglisi invoca, per il passaggio alla Camera della legge di Stabilità, «una scelta politica più netta e decisa. Come settima commissione abbiamo lavorato a una serie di emendamenti che purtroppo non sono passati», ricorda. «La volontà politica non manca ma la coperta è corta, cortissima, se la tiri da una parte ti scopri dall’altra» premette Puglisi, che riconosce al premier di aver mantenuto la promessa sullo stop ai tagli su istruzione e università, così come l’impegno su alcuni punti specifici nella Legge di Stabilità. «Viene incrementato il Fondo per il finanziamento ordinario (Ffo) delle università di 150 milioni per il 2014, vengono destinati 80 milioni a favore dei policlinici universitari», quanto alla scuola precisa Puglisi «ci sono alcuni milioni sul 2015 e 45 milioni sul 2016 sullo sviluppo delle Aree interne, che serviranno a riequilibrare i servizi scolastici di base» resi omogenei dai dimensionamenti. Detto questo, la senatrice Pd spera appunto si possano aggiungere «almeno altri 54 milioni ai 100 già previsti per il diritto allo studio, per offrire lo stesso numero di borse di studio ai capaci e meritevoli privi di mezzi» (il precedente governo aveva lasciato per il 2014 solo 13 milioni).Negli emendamenti accantonati («ma io spero nella Camera») c’era poi la richiesta di 100 milioni per la ricerca di base, e di «un giusto riconoscimento economico, invece di blocchi stipendiali mortificanti» per docenti e Ata della scuola. Blocchi che i sindacati leggono come un taglio, «il mancato contratto per noi non può che essere considerato tale avverte ancora Pantaleo -: ricordiamo che il mancato contratto si è tradotto, dal 2009 a oggi, in una svalutazione del 10% del salario dei docenti. E che il blocco degli scatti di anzianità per il settore vale 350 milioni l’anno». La Flc Cgil contesta poi anche le altre voci “promosse” dal governo: «Per il diritto allo studio servirebbero tre volte le risorse date, e cio è 300 milioni, per la formazione dei docenti ci sono solo alcuni milioni a fronte di un fabbisogno nell’ordine delle centinaia». Di «doppia penalizzazione» dei lavoratori della scuola parla anche Massimo Di Menna, segretario Uil, «governo e Parlamento modifichino la Legge di Stabilit à». E non si venga a invocare davanti a loro le difficili condizioni del Paese, aggiunge Francesco Scrima di Cisl Scuola, «le risorse si possono trovare tagliando sprechi, consulenze e con un nuovo assetto istituzionale. Al governo chiediamo di essere coerente rispetto al valore che dice di attribuire alla scuola». «Siamo stanchi delle briciole riassume Gianluca Scuccimarra, coordinatore dell’Unione degli Universitari che insieme alla Rete degli studenti Medi ha manifestato ieri mattina Chiediamo da tempo un’inversione di marcia, l’austerity della conoscenza non ha funzionato, occorrono più risorse. Ora».

L’Unità 01.12.13