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“Istruzione. Italia in ritardo. Resta ancora divisa in due”, di Giorgio Mele

Neo giorni scorsi è stato presentato a Roma un rapporto sul sistema educativo promosso da quattro associazioni scolastiche di diverso orientamento: il Cidi (insegnanti democratici), l’Aimc (maestri cattolici), Lega Ambiente scuola e formazione, Proteo Fare Sapere. La ricerca, coordinata da Emanuele Barbieri, è stata condotta sulla base dei dati del 2009 che sono i più completi. Ciò che colpisce è il giudizio perentorio che viene espresso in premessa e cioè il fatto che dopo 150 anni di unità d’Italia, rispetto ai tassi di successo scolastico, nonostante lo sviluppo culturale del Paese si registrano disuguaglianze che ricordano i «dati relativi ai tassi di analfabetismo della popolazione adulta nel 1861». L’allarme riguarda due elementi decisivi: il primo è relativo al fatto che la scuola sembra aver esaurito la sua funzione positiva di promozione sociale, di garanzia delle pari opportunità di successo formativo che ha avuto in altri momenti della nostra storia e, dall’altro che tutti i dati riconfermano un distacco ampio e strutturale tra il centro-nord e la quasi totalità del Sud, come era appunto nel 1861. A conferma della distanza tra le «due Italie» basta leggere i dati relativi alla carenza dei servizi per la prima infanzia come gli asili nido – in Emilia c’è una copertura di questo servizio del 29%, in Campania del 2,7-, l’ assenza quasi completa del tempo pieno, i tassi di abbandono scolastico che in Sicilia raggiungono il 26, 5 % tra i ragazzi tra i 18 e i 24 anni. Oppure i dati dei cosiddetti Neet (ragazzi che non studiano né lavorano) con una percentuale in Campania del 32,9, rispetto al 9% del Trentino Alto Adige. Dal rapporto emerge anche un indice preoccupante di sperequazione territoriale. La caratteristica della nostra penisola è tale che in essa convivono zone metropolitane densamente popolate e zone montane che lo sono meno. E i processi di ridimensionamento delle unità scolastiche, compiute negli anni scorsi su parametri numerici uniformi e dettati solo dalle compatibilità finanziarie, hanno generato «disfunzioni nella qualità dell’offerta del servizio» con «classi sovraffollate nelle aree urbane, pluriclassi, e soppressione di plessi nei piccoli montani». Ora, se si considera che stiamo parlando di 9 milioni di persone, si comprende che le politiche dei tagli hanno causato la compressione del diritto all’istruzione come stabilisce la nostra Costituzione. D’altra parte la spesa per la scuola in Italia rimane abbastanza bassa: il 4.8% del Pil, che ci colloca al ventiduesimo posto tra i Paesi europei, prima della Grecia e anche della Germania, ma molto lontano da tutti gli altri. Un quadro complessivamente preoccupante, quindi, tenendo conto che andrebbero verficate con più attenzione le conseguenze del «taglio colossale» operato dalla coppia Tremonti-Gelmini, che finora nessuno ha messo in discussione, neanche la legge di stabilità appena varata. È probabile perciò che tutti gli indicatori siano peggiorati rispetto al 2009 e che il lavoro per ridare senso alla scuola italiana sia ancora più difficile.

L’Unità 01.12.13

“Di chi è il copyright del paesaggio italiano”, di Salvatore Settis

Ma di chi sono i paesaggi, chi può fotografarli? Sindaci e assessori si sdegnano se McDonald’s o Monsanto li usano come sfondo per pubblicità, per giunta senza chiedere autorizzazioni. Il paesaggio, le opere d’arte, i centri storici, hanno dunque un copyright comunale? E chi l’ha detto?
Sarebbe bello, se le pubbliche istituzioni facessero sempre buon uso delle proprie icone-immagine, ma non è così. I bronzi di Riace ridotti dalla Regione Calabria, in un costosissimo spot, a pupazzi che fra mille contorsioni adescano turisti sono più leciti delle foto dei bronzi che reclamizzano la gastronomia locale? E il Consorzio del Prosciutto Toscano fa bene a metter fianco a fianco un prosciutto e il Davide di Michelangelo sotto lo slogan Un capolavoro sulla tua tavola? È una questione di gusti, o un problema di diritti? E chi difende il diritto all’immagine, non lo farà perché vuole esiger balzelli?
Paesaggi e centri storici sono, dice la Costituzione, di tutti. Il vero problema, prima che la pubblicità, è la commercializzazio-ne di tutto: le città toscane informano i turisti che sono in un “centro commerciale naturale”, e così finalmente sappiamo che i nostri avi non costruivano città, ma centri commerciali. Il Ministero dei Beni culturali che (in era Bondi) diffondeva manifesti col Davide (ancora lui) portato via dagli elicotteri, minacciando “Se non lo visiti lo portiamo via” è meglio del Davide-prosciutto?
Per una volta, il discrimine non è tra pubblico e privato. Il punto è l’uso che le istituzioni in primis e i cittadini a seguire (anche le imprese) fanno dei nostri tesori. In Val d’Orcia sarebbero più credibili quando difendono il paesaggio, se non avessero monetizzato l’etichetta di sito Unesco autorizzando a Monticchiello non solo villette a schiera ma la pubblicità che invitava a comprarsele perché “in un sito Unesco”. Di questa mercificazione tutti siamo colpevoli, se non diciamo che città, paesaggi, opere d’arte non sono macchine per soldi, ma strumento di eguaglianza, ingranaggio di un diritto alla cultura che la Costituzione garantisce ai cittadini. E quando (è notizia di questi giorni) sentiamo che il Corridoio Vasariano, passaggio segreto in cui i granduchi andavano da Palazzo Vecchio a Palazzo Pitti sull’alto di Ponte Vecchio, sarà visitabile a cura di un concessionario (Civita), per cui chi ha diritto all’ingresso gratuito pagherà “solo” 16 euro, il torto è del privato che lucra su un bene pubblico, o dell’istituzione che gli regge il sacco? I lavoratori della Soprintendenza vogliono garantire gli stessi servizi senza costi aggiuntivi, e il ministro Bray li approva via twitter perché «impegnati nella difesa della Costituzione ». Il Corridoio, anzich é «passaggio segreto per gli interessi privati» (Tomaso Montanari), può inaugurare la strada della trasparenza, se ci ricorderemo che su paesaggi e opere d’arte non ci sono copyright. Che i sovrani siamo noi, i cittadini.

La Repubblica 01.12.13

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Dai cipressi della Val d’Orcia alle Cinque Terre la battaglia dei paesaggi italiani negli spot”, di Laura Montanari

I CIPRESSI di San Quirico d’Orcia come sfondo al panino di Mc Donald’s con l’hamburger di Chianina, i faraglioni di Capri per una Bianca Balti targata Dolce & Gabbana, il cioccolato Novi consumato dai due alpinisti con lo sfondo delle Tre Cime di Lavaredo. La pubblicità va a caccia di bellezze naturali sul territorio e dai territori qualcuno pensa che sia un vantaggio, qualcun altro si arrabbia. L’ultimo in ordine di tempo è stato il sindaco di San Quirico, paese di un’incantevole campagna senese. Roberto Rappuoli si è stancato di vedere la collina con i “suoi” cipressi abbinati ai prodotti più disparati: dai salumi ai ristoranti, dagli alberghi alle acque minerali, dalla multinazionale dell’ogm, la Monsanto, a quella del panino.
«Dal 2011 abbiamo un regolamento che prevede l’autorizzazione per le attività di ripresa fotografica, video e cinematografica, nel caso in cui le immagini siano utilizzate a fini commerciali o pubblicitari, siamo Patrimonio dell’Unesco e vogliamo evitare che l’immagine del nostro territorio abbia un utilizzo non conforme. È sufficiente chiedere l’autorizzazione al Comune compilando un modulo, nel giro di 15 giorni al massimo noi valutiamo la proposta ». Con McDonald’s la guerra è durata poco: è bastato infatti mezzo passo indietro dell’industria dell’hamburger per far rientrare il caso, non sapevano del regolamento e in ogni caso: «Il nostro obiettivo era quello di omaggiare la Toscana e in generale le vallate in cui si alleva la Chianina — ha diffuso in una nota McDonald’s Italia». Non è un problema di soldi o di copyright sul paesaggio, «ma una giusta tutela sul territorio che alcuni sindaci svolgono — spiega Sebastiano Venneri di Legambiente — La pubblicità coglie bene quello che piace alla gente e quando deve abbinare un prodotto a un luogo va a cercare i posti in cui l’ambiente non è stato deturpato». Non c’entra il denaro ma la ricaduta di immagine. Per questo, per esempio, Franca Cantrigliani, sindaco di Riomaggiore in Liguria è intervenuta contro un outlet che usa il nome delle Cinque terre pur trovandosi a chilometri di distanza: «Che tristezza sfruttare il nome di comuni famosi solo per far comprare borse e vestiti» dice. Ad accendere le polemiche è il progetto “Shopinn Brugnato5Terre”, ossia 22mila metri quadrati di outlet in costruzione nella piana di Brugnato, a due passi dall’autostrada. «Mi sembra uno sfruttamento, anche se i nomi delle città e dei luoghi non hanno copyright: un crocerista di Mosca o Tokyo che sbarca a Spezia e in pullman viene portato all’outlet, vedendo il cartello potrebbe pensare che Brugnato è una delle Cinque Terre». In estate, a Palermo, la polemica era scoppiata per un catering che, dopo una discussa cena organizzata per clienti americani al Tempio di Segesta, aveva utilizzato proprio l’abbinamento con quel luogo per una nuova campagna pubblicitaria. La cosa spinse l’assessore regionale Mariarita Sgarlata a intervenire vietando l’utilizzo del tempio imbandito di tavoli. Inciampi, cose che succedono. In rete qualcuno ha criticato pure la pubblicità del cioccolato Novi che utilizzava le Tre Cime di Lavaredo: «È ingannevole, quelle tavolette sono fatte in Liguria» si legge, ma c’è da chiedersi cosa sarebbe lo spot se fosse ancorato al luogo in cui un prodotto nasce. E poi non sempre la pubblicità è sgradita: a Capri per esempio la capitaneria ha vietato per due giorni ancoraggio e balneazione per permettere le riprese ai faraglioni dello spot di Dolce & Gabbana. «Non c’è stato nessun problema» taglia corto il sindaco Ciro Lembo. Sulla stessa linea sempre nel senese, Chiusdino, che ancora ringrazia la Barilla per la scelta del Mulino Bianco: «Adesso quel mulino (che è di un privato) è un agriturismo ben ristrutturato — racconta il sindaco Ivano Minocci — e per anni, quando cominciarono gli spot, arrivavano stormi di turisti nel nostro territorio a visitare il Mulino delle Pile più che l’Abbazzia di San Galgano, quella della spada nella roccia». Potere dell’immagine che è capace di oscurare anche la storia.

La Repubblica 01.12.13

“Che accadrà di tutti noi senza più il caimano?”, di Eugenio Scalfari

Quella domanda se la fanno in molti e molte e discordanti sono le risposte secondo l’appartenenza politica e il ruolo che ciascuno degli interlocutori ha avuto in passato e conta di avere nel prossimo futuro.
Alcuni mettono in dubbio che il caimano sia veramente uscito di scena e pensano che, anche se già decaduto dal Parlamento, rimane ancora in campo, conserva una piena leadership sui suoi seguaci e la manterrà per molto tempo ancora. Del resto anche Grillo è fuori dal Parlamento, anche Vendola, anche Renzi, eppure contano, eccome. È vero che Berlusconi è condannato per frode fiscale e gli altri no, ma questa differenza incide poco finché potrà mantenere il consenso di molti italiani come i sondaggi di opinione registrano.
Chi ha dedicato la propria passione politica al suo sostegno pensa addirittura che sarà ancora più forte di prima, più rispondente alla sua vocazione di lotta, e ne gode. Il tanto peggio tanto meglio risveglia la sua energia e quella dei berluscones, manderà all’inferno chi l’ha tradito e sconfiggerà le sinistre di ogni risma che ancora infettano la cara Italia e perciò: Forza Italia, la vittoria è a portata di mano e questa volta con l’esperienza del passato sarà definitiva.
Chi invece è dalla parte opposta ha una diversa valutazione dei fatti e delle loro conseguenze. Alcuni pensano, come i loro avversari, che la “caduta” sia più apparente che reale e temono che le previsioni di Forza Italia non siano purtroppo prive di fondamento. Altri invece estendono l’anatema contro il caimano a quanti da sinistra l’hanno coperto collaborando col diavolo e quindi dannandosi con lui.
Per costoro la prossima battaglia dovrà dunque esser diretta mettendo definitivamente fuori gioco le finte sinistre corresponsabili della decadenza del Paese. Ma molti infine sono convinti che una bruttissima pagina di storia sia stata finalmente chiusa e si apra il campo al riformismo democratico.
Questi sono i variegati scenari che dividono l’opinione pubblica, le forze politiche (e antipolitiche), i media, la business community e le parti sociali.
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Quanto a noi, il dissenso nei confronti di Berlusconi e del berlusconismo è stato uno degli “asset” del nostro giornale molto prima del suo ingresso in politica nel 1994. Cominciò fin dall’87, quando apparve chiaro il connubio di affari tra lui, i dorotei della Dc e soprattutto i socialisti di Craxi.
Nell’89 diventò uno scontro diretto con quella che allora fu denominata la guerra di Segrate, la conquista della Mondadori da parte della Fininvest e quello che ne derivò. La nascita di Forza Italia portò al culmine quella guerra che non fu più soltanto un contrasto aziendale ma un fenomeno devastante della vita pubblica italiana. È durata vent’anni, ora Berlusconi è fuori gioco ma il berlusconismo no, è ancora in forze nel Paese.
Non è un fatto occasionale, non è un fenomeno eccezionale mai visto prima, purtroppo è ricorrente nel nostro passato, recente ma anche più antico.
Ricordo a chi l’avesse dimenticato la polemica non solo politica ma culturale che si ebbe nel 1945 tra Benedetto Croce e Ferruccio Parri sul fascismo. Croce sosteneva che la dittatura di Mussolini era stato un deplorevole incidente di percorso della nostra storia, che aveva certamente avuto conseguenze terribili ma non si era mai verificato prima, sicché una volta terminato dopo una guerra perduta e un paese pieno di rovine, il corso della nostra storia sarebbe ripreso e la libertà avrebbe di nuovo avuto la sua pienezza.
Personalmente credo che Parri avesse ragione e Croce sbagliasse. Demagogia, qualunquismo, assenza di senso dello Stato sono altrettanti elementi che restano nascosti per lungo tempo ma non scompaiono dall’animo di molti e di tanto in tanto emergono in superficie.
Un fiume carsico che crea situazioni diverse tra loro ma legate da profonde analogie che hanno reso tardiva la nostra unità nazionale e fragile la nostra democrazia.
Berlusconi è caduto, il caimano tra un paio di mesi non ci sarà più e tanto varrebbe disinteressarsene, lasciando agli storici l’analisi e la collocazione; ma il berlusconismo non è finito e il problema affliggerà ancora per qualche tempo la nostra società, alimentato dagli altri populismi di diversa specie ma di analoga natura. Perciò la vigilanza è un dovere civico per tutte le persone e per le forze politiche consapevoli.
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Il governo Letta si presenterà in Parlamento dopo l’8 dicembre per ottenere la fiducia poiché la nascita, anzi la rinascita di Forza Italia da un lato e del nuovo centrodestra dall’altro hanno modificato la maggioranza parlamentare e quindi la natura stessa del governo.
È a mio avviso auspicabile che non vi siano rimpasti se i ministri di provenienza del Pdl confermeranno la loro scelta “alfaniana”. Il governo ha problemi ben più importanti da affrontare e Letta li ha da tempo individuati: accentuare, nell’ambito delle risorse esistenti, l’obiettivo della crescita economica e la ricerca delle coperture necessarie; le riforme istituzionali e costituzionali da effettuare; la produttività e la competitività da accrescere; la legge elettorale da modificare; l’evasione fiscale da perseguire.
Ma soprattutto la politica europea e la struttura stessa dell’Europa da avviare verso un vero e proprio Stato federale.
Quest’ultimo obiettivo è della massima importanza e noi ne siamo uno dei primi attori. Letta ha già iniziato il confronto con le autorità europee e con gli Stati membri dell’Unione, una politica che toccher à il culmine col semestre di presidenza italiana.
C’è chi sostiene che l’importanza di quella presidenza sia retoricamente sopravvalutata, ma non è così, non solo perché l’Italia è tra i fondatori della Ue ma per un’altra e ben più consistente ragione. L’ho già scritto domenica scorsa ma penso sia utile ripeterlo ricordandolo alla memoria corta di molti concittadini: abbiamo il debito pubblico più pesante d’Europa se non addirittura del mondo.
È la nostra debolezza, ma paradossalmente la nostra forza.
I default della Grecia o del Portogallo o perfino della Spagna, semmai dovessero verificarsi (ovviamente speriamo e pensiamo che non avverranno), sarebbero certamente sgradevoli ma sopportabili dall’Europa. Un default dell’Italia invece no, sconquasserebbe l’Europa intera con conseguenze negative non trascurabili perfino in Usa; il sistema bancario europeo (e non soltanto) ne sarebbe devastato.
Una catastrofe che non avverrà, ma è questa spada di Brenno che Letta può gettare sul tavolo della discussione con gli altri membri dell’Unione a cominciare dalla Germania. Fin da subito, ma il culmine di questo confronto ci sarà durante la nostra presidenza europea poiché i governi dei Paesi membri se lo troveranno di fronte istituzionalmente, visto che fissare l’ordine dei lavori spetta al presidente di turno.
Letta non sarà senza alleati. La Francia e la Spagna sono fin d’ora impegnate su questo terreno e perfino l’Olanda.
La Bce mira anch’essa a quell’obiettivo del quale l’unione bancaria rappresenta uno dei capitoli principali.
La Merkel tentenna, ma dopo la nascita della coalizione con l’Spd la situazione è cambiata. I socialdemocratici hanno lasciato nelle mani della Cancelliera la politica europea, ma hanno ottenuto l’aumento del salario minimo garantito, una politica di incentivi ai consumi e di forme nuove di sostegno sociale. Queste misure dovrebbero far aumentare la domanda interna e sono appunto gli obiettivi che la Bce persegue per migliorare l’equilibrio degli interessi bancari tra i paesi europei.
Le imminenti elezioni europee non avranno molto peso sull’evoluzione eventuale ed auspicabile della struttura istituzionale dell’Europa, ma possono avere ripercussioni negative sulla politica interna di alcuni Stati nazionali e soprattutto nel nostro e in quello francese dove il Front National per i francesi e i Cinque Stelle e Forza Italia potrebbero registrare i consensi dell’antipolitica. Ecco un altro appuntamento che impone a Letta di accelerare il passo e al Pd di dargli il necessario consenso per renderlo concretamente
efficace.
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Per chiudere questa rassegna di questioni attuali, ne segnalo ancora un paio.
Si parla con insistenza di un’imminente sentenza della Corte Costituzionale sulla vigente legge elettorale.
Accoglierà il ricorso della Cassazione che chiede lumi sulla costituzionalità del Porcellum oppure si dichiarerà incompetente trattandosi di un tema esclusivamente parlamentare? I giuristi sono discordi. Alcuni ritengono che la Corte si dichiarerà incompetente. Per quel che vale, concordo con questa tesi. La Corte non può stabilire quale debba essere lo strumento corretto con il quale si registra la volontà del popolo
sovrano poiché manca un appiglio scritto nella Costituzione. Tanto meno può ledere le prerogative del Parlamento. Spetta ai cittadini eletti (sia pure sulla base di una legge abnorme) correggerla, cambiarla, farne una nuova, non alla Corte. Con Forza Italia nel governo ogni correzione sarebbe stata ed è stata respinta, ma una rappresentanza parlamentare diversa come l’attuale può riuscire in questa impresa. Il governo da parte sua può facilitare l’accordo presentando per l’approvazione parlamentare un suo disegno di legge.
Il secondo tema è stato sollevato dalla Corte dei conti, che chiede anch’essa l’intervento della Consulta. Riguarda le varie leggi che, dopo il referendum negativo sul finanziamento pubblico dei partiti, lo reintrodussero camuffandolo come rimborso ai gruppi parlamentari delle loro spese elettorali.
Il governo Letta ha già cancellato questo stato di cose abolendo con due anni di transizione l’erogazione di denaro pubblico e affidando il finanziamento dei partiti al sostegno privato, ma la Corte dei conti mette in causa il passato e si rivolge alla Consulta.
Sembra assai dubitabile che la Consulta risponda positivamente a questa chiamata in causa. Se alcuni gruppi parlamentari, o anche consigli regionali, hanno usato quei fondi per scopi privati e dunque illegittimi (ed è purtroppo ampiamente avvenuto) si tratta di reati di competenza della magistratura ordinaria. Ma la Consulta non sembra possa cassare leggi votate dal Parlamento ancorché sostanzialmente violino il risultato referendario il quale a sua volta abolì il finanziamento ai partiti ma non lo sostituì con un nuovo sistema. I referendum in Italia non hanno poteri positivi ma soltanto di abolizione. Dopodich é resta un vuoto che spetta al Parlamento colmare anche se spesso lo colma poco e male.
In conclusione c’è molta strada da fare. Speriamo che gli italiani brava gente — come un tempo si diceva con autoironia spesso giustificata — dimostrino ora d’esser brava gente sul serio e ogni volta che spetti a loro di decidere lo facciano facendo funzionare la testa e non la pancia.
Berlusconismo e grillismo in questa vocazione della pancia si somigliano moltissimo. Noi privilegiamo la testa e speriamo di essere ascoltati.

La Repubblica 01.12.13

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“Se si sbriciola il cerchio magico”, di ALBERTO STATERA
Si erge in fondo a un viale di pioppi nel parco di villa San Martino ad Arcore il mausoleo che Silvio Berlusconi fece realizzare dallo scultore Pietro Cascella, sorretto da dodici colonne che in quadrato s’innalzano verso il cielo, in un tripudio di sfere, cubi, piramidi e squadre massoniche. Dispone di ventiquattro posti intorno al sarcofago riservato al Condottiero, predisposti per gli amici di una vita
nell’eternità del trapasso.
MA QUELLE arche sepolcrali ornate da roselline di travertino rosso rimarranno sfitte, non solo perché il Parlamento ha respinto l’ennesima leggina ad personam per l’abrogazione del decreto napoleonico che impedisce le sepolture fuori dai cimiteri, ma anche perché l’antico cerchio magico del Cavaliere si è ormai dissolto. Fedele Confalonieri, Adriano Galliani, Marcello Del-l’Utri, Ennio Doris, i grandi mandarini; e poi Emilio Fede e Cesare Previti, i vecchi cadetti, non hanno mai apprezzato, per la verità, le visite rapite cui erano costretti nel mausoleo esoterico, ma come ubbidienti discepoli di una setta non hanno mai avuto il coraggio di esclamare ironicamente «Dominus, non sum dignus», come condotto nel vestibolo marmoreo fece da par suo Indro Montanelli.
La diaspora dei fedelissimi, logorati nell’affetto per un Condottiero dimezzato ormai volubile, ondivago, provato nel corpo e nell’anima, esposto a ogni spiffero, si compie in queste ore pubblicamente con il licenziamento senza tanti complimenti, salvo l’ultimo goffo tentativo di recupero, di Adriano Galliani ad opera della figlia Barbara, leader della “tendenza Veronica”. «La pazienza è finita», grida l’ex gestore di uno stabilimento balneare a Vieste, che trentacinque anni fa fornì al palazzinaro di Milano2 con la sua Elettronica industriale, le apparecchiature per la ricezione dei canali televisivi. Il vecchio mandarino berlusconiano non poteva credere di essere umiliato da una ragazza neanche trentenne incapace di deferenza persino verso il padre e la sua avventura politica: «Nel partito di mio padre — ha gufato Barbara prima della scissione di Alfano e Cicchitto — ci sono tante persone che sono inadeguate e hanno finto di sposare le sue idee, ma in realtà agivano per interesse personale: poltrone e potere ». La ragazza è determinata e la diaspora “intra moenia”, cominciata con il divorzio preteso da Veronica dall’uomo malato che ha bisogno di aiuto, è persino più grave di quella politica. E promette sviluppi bellici imprevedibili nella complessa sistemazione del patrimonio e del potere ai vertici del gruppo.
Persino Fedele Confalonieri, il mandarino più fedele che i ragazzi chiamano Fidel, non fa che perdere colpi e pare abbia cominciato a soffrire sia Marina che Piersilvio. Ha cercato fino all’ultimo di salvare Galliani dalla rottamazione, ma ha fallito. Il che non è affatto una novità rispetto alle strategie del capo, nonostante l’intimità assoluta, che risale a quando fu lui ad assumere giovanotto il futuro Condottiero nelle sue orchestrine, prima la “Roxy” e poi “I cinque diavoli”, che facevano le serate sulla riviera romagnola o sulle navi da crociera. Pensate che il primo appartamento di Milano2 Berlusconi riuscì a venderlo sulla carta alla madre di Confalonieri.
Ma sono quarant’anni che Fidel ottiene soltanto dei no, tanto che si dice sia ormai anche lui, come Galliani, prossimo al livello di rottura, in un rapporto che si fonda solo sulla comprensione dovuta al sodale di una vita.
Falchi e colombe alla corte di Silvio sono tutt’altro che una novità. Nel 1993 fautori della “discesa” in politica per evitare il fallimento e il rischio della galera furono Marcello Dell’Utri, Cesare Previti e Ennio Doris.
Contrari Gianni Letta e Fidel, che ebbe uno scontro durissimo con Berlusconi al momento del varo del “Progetto Botticelli”, dal nome dell’edificio di Segrate di Publitalia, nel quale si svolgevano le riunioni per la fondazione di Forza Italia. Non sapremo forse mai quante volte e con quali parole Confalonieri ha bollato, non solo le scelte politiche, ma anche le performance sessuali dell’amico-padrone, che hanno fatto ridere dell’Italia in tutto l’orbe terracqueo. Ma qualche traccia se ne trova in antiche intercettazioni telefoniche. Come quella del 31 dicembre 1986, quando Marcello Dell’Utri telefona poco prima della mezzanotte ad Arcore, dove è in corso la festa “elegante” di Capodanno. Risponde al telefono Confalonieri. «Qui ci sono questi farfallini», gli dice. E poi gli passa Berlusconi, che esordisce: «Marcello, iniziamo male l’anno».
Perché? «Perché dovevano venire due di Drive In e ci hanno fatto il bidone. E anche Craxi (evidentemente presente alla festa elegante — ndr) è fuori dalla grazia di Dio». Dell’Utri: «Ah, ma che te ne frega di Drive In?» Berlusconi: «Che me ne frega? Poi finisce che non scopiamo più. Se comincia così l’anno non scopiamo più».
Dell’Utri: «Va bene, insomma, che (Craxi) vada a scopare in un altro posto». Ma come mandare Craxi, padrone dei destini televisivi, a scopare in un altro posto? A questo punto, dopo un excursus di Berlusconi sulle tette delle signore presenti, Dell’Utri chiude un po’ stizzito la conversazione.
Dominus della trasmissione Drive In era allora Paolo Romani, badante degli affari sballati del fratello del capo, Paolo, assurto poi al ruolo di ministro, oggi capogruppo di Forza Italia al Senato e membro del neo-cerchietto magico di fidanzate, badanti e amazzoni.
Sulle “cene eleganti” di Arcore i mandarini del vecchio Cerchio magico hanno sempre ironizzato tra loro, falchi e colombe, salvo Emilio Fede che ne era, diciamo, pars magna. Del resto, quando il Condottiero dimezzato le alternava agli affari di Stato le sue performance erano ben note da anni, tanto che delle “seratine” arcoriane parlò più di vent’anni fa un articolo di Giorgio Bocca. Quando nel 1990 scippò la Mondadori a Carlo De Benedetti, facendo corrompere i giudici da Previti, non potendo atterrare a Segrate con l’elicottero, si fece attrezzare un camper con un “lettone”, nel quale quotidianamente vantava con allibiti interlocutori — ne siamo testimoni diretti — caldissime sessioni su ruote con soubrette delle sue televisioni.
Dell’Utri ha già subito la decimazione nelle ultime elezioni, Doris pensa agli affari della sua Mediolanum e teme che il Condottiero dimezzato e ormai incontrollabile procuri costosi guai al suo business. E il povero Gianni Letta, ultimo guardiano delle colombe? Ha fatto di tutto per sostenere la “deriva moderata” perdente e per fare da sponda al governo democristiano del nipote Enrico. Ma, col passo felpato dell’eminenza azzurrina, terminale di tutti gli affari ambigui delle massonerie catto-laiche dell’alta burocrazia che controllava con pugno di ferro foderato di velluto, è finito nel tritacarne che il Condottiero dimezzato e fuori controllo ha riservato agli antichi mandarini. Non solo è colpevole agli occhi del capo. Ma è forse il più colpevole di tutti. Non è riuscito ad ottenere ciò che Berlusconi agognava di più: una qualunque forma di salvacondotto
motu proprio da parte di Giorgio Napolitano. Perché lui non si umilier à mai a chiedere o a far chiedere la grazia, come realistici vorrebbero i figli.
Il povero Letta oggi si aggira tra prime teatrali, improbabili premi giornalistici, inutili convegni di ogni tipo, badando soprattutto a farsi riprendere dalle telecamere televisive. Persino per il nipote Enrico rischia di diventare l’iconcina educata di un passato che occorre si concluda in fretta.
C’è un documento che fissa la storia della Berlusconi-decadence. È una famosa fotografia del 1995 che ritrae nella villa “Blue Horizon” delle Bermude un tonico Condottiero che fa jogging con i fedelissimi del Cerchio: Letta, Confalonieri, Del-l’Utri, Galliani, tutti in tenuta bianca. Tutti, come racconterà Dell’Utri, a dieta stretta, esercizi spirituali e profonde letture (ma sarà vero?) di Francis Bacon e Platone. Una setta neopagana in pieno delirio di potere. Il nuovo scatto fotografico è dell’altro giorno a Roma, via del Plebiscito. Prefiche in nero, la fidanzata-badante e alla finestra il cagnolino Dudù.

La Repubblica 01.12.13

“I nuovi dati dell’Istat: record tra i giovani: 41,2% senza lavoro”, di Marco Ventimiglia

Si è trattato di un venerdì pieno di numeri. Una giornata che, purtroppo, è sembrata fatta apposta per corroborare la tesi che vuole ancora ben lontana l’uscita dalla crisi. Ha iniziato nel mezzo del mattino l’Istat, diffondendo i dati aggiornati relativi all’andamento della disoccupazione, confermando la drammaticità della situazione, ed anzi aggiungendo ulteriore allarme per la situazione dei giovani. Nel pomeriggio, poi, ha proseguito Bankitalia con una serie di rilevazioni negative fra cui spicca l’ulteriore crescita del divario fra Nord e Sud del Paese. Ed in questo quadro l’ulteriore comunicazione dell’Istat, relativa al calo secco dell’inflazione, non desta certo la soddisfazione che avrebbe ottenuto in altri tempi. Il dato parla di una diminuzione congiunturale dello 0,4%, che però non annulla l’aumento su base annua, adesso pari allo 0,6% e comunque in rallentamento rispetto alla dinamica rilevata a ottobre (+0,8%). Ma il sospetto, se non la certezza, è che alla base dell’attuale tendenza deflazionistica ci sia soprattutto la continua e sostenuta diminuzione della domanda interna.
LE CIFRE DEL SUD
Cominciamo dai senza lavoro, la cui incidenza percentuale nel mese di ottobre è rimasta invariata nella rilevazione dell’Istat rispetto al mese precedente, attestandosi al 12,5%, ma in aumento di ben l’1,2% rispetto ad un anno fa. Una crescita tendenziale, anno su anno, del tasso di disoccupazione che è diffusa territorialmente, ma risulta assai più accentuata nelle regioni meridionali, nelle quali l’indicatore passa dal 15,5% del terzo trimestre 2012 all’attuale 18,5%; molto meno pronunciato il fenomeno al Nord, dove si è andati dal 6,8% di un anno prima all’attuale 7,6%. Ma a spaventare ancora di più è la situazione dei più giovani. I disoccupati tra 15 e 24 anni sono 663.000 con il relativo tasso percentuale, ovvero la quota dei disoccupati sul totale di quelli occupati o in cerca di lavoro, che è pari addirittura al 41,2%, in aumento dello 0,7% ad ottobre rispetto al mese precedente e, soprattutto, di 4,8 punti nel confronto tendenziale sul 2012. Ed a preoccupare fortemente è anche il numero dei cosiddetti scoraggiati, ovvero coloro che non cercano più lavoro perché ritengono impossibile trovarlo, che sono saliti a 1 milione 901 mila (su base trimestrale).
Bankitalia ha invece inserito le sue ultime rilevazioni nel rapporto dal titolo “L’economia delle regioni italiane Dinamiche recenti e aspetti strutturali”. Un documento dal quale emerge l’ulteriore ampliamento del divario fra Centro Nord e Mezzogiorno, già evidenziatosi nel 2011-12. Un dato spiegato con le caratteristiche strutturali del Mezzogiorno poiché «in quest’ area la componente estera della domanda, che in questa fase congiunturale sta fornendo un contributo positivo alla crescita, ha un peso e un dinamismo minore». Pesa poi, nel Meridione, la presenza di imprese innovative e ad alta produttività inferiore al resto del Paese. Situazione difficile anche per l’accesso al credito nel Sud, «sia per la domanda di finanziamenti che per le condizioni di offerta (in particolare di quelle praticate dalle banche di minori dimensioni), su cui ha pesato la percezione di una più elevata rischiosità dei finanziamenti verso specifici settori e imprese». Una situazione che ha portato Luigi Federico Signorini, vice direttore generale della Banca d’Italia, a sottolineare come «i divari nel Pil pro capite che si osservano oggi tra il Centro Nord e il Mezzogiorno sono gli stessi di quarant’anni fa, quando si interruppe il processo di convergenza delle aree più povere verso i livelli di reddito di quelle più prospere che si era manifestato negli anni del dopoguerra».
Sempre dal rapporto di Bankitalia emerge che dal 2010 al 2012 le retribuzioni nette dei lavoratori dipendenti sono diminuite di 64 euro al mese, passando da una media di 1.328 euro a 1.264 euro. E così alla fine del biennio, se si considerano 13 mensilità, un lavoratore ha incassato in un anno 832 euro meno del 2010. Ed ancora, i fallimenti d’impresa «sono aumentati rapidamente tra il 2008 e il 2012 in tutte le aree del Paese». Via Nazionale aggiunge poi un elemento di valutazione specificando che «ovunque le imprese fallite mostravano una situazione economica e finanziaria più tesa che nel resto delle imprese già nel periodo pre-crisi».

L’Unità 30.11.13

“La menzogna della prostituzione libera”, di Sara Ventroni

Anche la Francia ha una falsa coscienza. La proposta di legge della socialista Maud Olivier, avanzata insieme al collega del centrodestra Guy Geoffroy, sull’inasprimento delle misure per contrastare la prostituzione (con multe fino a 1500 euro per i clienti) spacca l’opinione pubblica, senza troppe sfumature di grigio.
Per noi italiani dove la questione è arrivata a toccare perfino l’etica pubblica, con sentenze ancora in sospeso la polemica risulta logora, anche se simili sono i posizionamenti che ne conseguono: sedicenti libertari di qua, presunti moralisti di là.
Questa comune reductio non ci consola. Abbiamo piuttosto la prova che il tema scandalosamente più complesso della proposta di fatturazione della prestazione sessuale, come vorrebbe la Lega, per rientrare dell’evasione fiscale invece di fornire l’occasione per uno scarto di coscienza (come da noi si ebbe, il 13 febbraio 2011) si ingolfa in una diatriba grossolana, per non dire ipocrita. E si finisce per rimpolpare la solita spaccatura mediatica tra paladini delle libertà, secondo i quali la prostituzione (volontaria) rientrerebbe nella sfera del libero arbitrio ed è diritto dell’individuo disporre liberamente del proprio corpo, anche piazzandolo sul mercato come una merce qualunque; e i missionari delle buone intenzioni, quelli che potremmo dire, semplificando credono di risolvere la questione punendo i clienti ma sorvolando sul fatto che la prostituzione non è sempre un fenomeno coatto. O meglio: che l’aspetto coatto del fenomeno non riguarda solo la condizione di indigenza economica di chi offre il servizio (spesso sotto schiavitù) ma anche quella (più versatile e meno quantificabile) di chi lo richiede.
Non se ne esce per opposte fazioni. Il caso francese è però esemplare: nel dibattito c’è almeno un convitato di pietra e qualche menzogna di troppo. Proprio come da noi.
Al netto di un giudizio sulla bontà o meno della proposta di legge colpisce la falsificazione (non tutti, come l’indimenticabile escort Terry Schiavo, sono in buona fede) delle battaglie condotte finora dalle donne, per cui le sex workers di oggi sarebbero la compiuta incarnazione delle lotte di liberazione delle donne di ieri.
Il corpo che le donne hanno provato a liberare era quello della consapevolezza, non quello dell’alienazione. Era un corpo su cui si scrivono le memorie, non un codice a barre. Era il corpo desiderante, non il corpo dimenticante. Un corpo consapevole, non un’utility o un’applicazione. Le donne non si sono liberate dal dominio monopolistico del patriarcato per piazzare il loro corpo, a partita Iva, sul libero mercato. Non siamo all’accumulazione selvaggia del capitale.
La liberazione di cui hanno parlato, e parlano, le donne, è una liberazione reciproca. È l’idea di un corpo come identità, non certo come una proprietà. Un corpo che ha il suo differente, e il suo limite. Un corpo in relazione, insomma. Non certo un corpo reazionario, onnipotente.
E dunque il tema della libertà che sul corpo delle donne ancora suona e risuona, reclamando una replica dagli uomini è stato posto all’attenzione del mondo non certo bruciando il reggiseno, ma toccando il limite che si scopre sempre dentro la relazione.
Certo, le narrazioni biotecnologiche alimentano il mito, pret a porter, del corpo come protesi o accessorio. Implementabile. Da manomettere. Da mettere a frutto, con chirurgica libertà. Qualcosa di cui si dispone, come un dispositivo fornito in modo neutro al momento della nascita. Nessuna meraviglia, dunque, se per una parte del pensiero corrente, anche neofemminista, la prostituzione volontaria possa sembrare una rottura di catene. O peggio: un lavoro normale: siamo nell’etica, e nell’estetica, dei tools: ogni cosa trova ragione nell’essere strumento di qualcosa di sconfinato, profitto compreso.
Per altri però, anche se non per tutti, si tratta, invece, di un’espressione del capitalismo, con altri mezzi.
Per questo ci resta il sospetto che quando la piccola Mafalda proclamava con orgoglio «Io sono mia» non intendeva rivendicare il possesso dei mezzi di produzione. Non voleva mettersi in proprio. Non aspirava a sfruttarsi meglio, senza versare la percentuale. Voleva dire: la mia libertà ha dei limiti che il mercato non può capire.

L’Unità 30.11.13

“La Scuola: utile, futile e umane lettere”, di Mila Spicola

Chi si interroga sull’utilità oggi degli studi classici (in particolare su quella del liceo classico) in termini di «sbocchi occupazionali», sottolineando la «necessità di puntare di più sulla ricerca scientifico-tecnica» o di «adeguare o spostare i saperi su contenuti più aggiornati» sa che gli studenti iscritti al liceo classico oggi sono solo il 6% della popolazione studentesca totale? Lo sa che i livelli di rendimento medi degli studenti del liceo classico rappresentano la nostra eccellenza sulla scala mondiale dei rilevamenti Ocse-Pisa? Il restante 94% si iscrive ad altri licei o naviga nel mare magnum delle scuole tecnico-professionali: a queste è demandato in modo più specifico un collegamento diretto con il mondo del lavoro. Quanti si interrogano, in modo più appropriato, sull’efficacia – chiamiamola nuovamente «utilità» – in termini occupazionali dei percorsi tecnico-professionali? Lo sanno inoltre che, di quel 6% circa, due studenti su tre proseguono, nei successivi percorsi universitari, con studi scientifico/tecnici: ingegneria, farmacia, medicina, scienze matematiche, fisiche, biologiche, statistiche, architettura? Qualcuno mi spiega, inoltre, perché anche le scienze umane (pedagogia, sociologia, antropologia…) sono «scienze»? Risposta: per una questione di metodo, non tanto di contenuto. Il metodo attiene alla logica ma anche alla creatività dell’intuizione. Quanta parte di merito nelle scoperte scientifiche è da affidarsi alla creatività? Quanta parte di merito alla logica e alla costruzione rigorosa è da riconoscersi invece nella «creazione» di un’opera d’arte, di musica, letteratura o arte figurativa che sia? Siamo davvero convinti che si possano separare nel cervello umano scienza e arte attribuendo loro caratteristiche che forse son più stereotipi che divisioni reali? Quanto di astratto e «inutile» c’è nella matematica e quanto di concreto e «necessario» c’è in un romanzo?

La domanda da farsi piuttosto non è «cosa serve a chi studia oggi»? Chi crede, come me, che tra 20 anni, in un mondo dinamico e in cambiamento come è quello attuale, su scala nazionale e internazionale, il 60% almeno delle professioni attuali sarà completamente inutile? E chi crede come me, che ci sarà al suo posto un 60% di «mestieri nuovi», la cui caratteristica intrinseca sarà il dinamismo? Quello che veramente «servirà» ai nostri studenti, lavoratori di domani, sono dei nuovi contenuti da fissare in curriculi, la conoscenza di strumentazioni tecnologiche che sono obsolete dopo due o tre anni, o una flessibilità mentale diversa e un «adattamento creativo» eccezionale? Allora è una questione di competenze personali trasversali maturate, non di contenuti e nemmeno di brusche classificazioni disciplinari di stampo neopositivista. La questione è una: fornire un metodo, interrogarsi su un metodo, o meglio: sapersi e sapere interrogare il mondo e se stessi, da Cartesio in poi. Dunque il «problema» della scuola oggi è come attivare e coltivare il senso critico, l’autonomia di riflessione e la capacità di creazione. Che poi li applichiamo nell’invenzione scientifica o in quella artistica secondo me poco cambia. Posto che, ad oggi, son proprio gli studi classici, dati alla mano, ad attivar meglio tali competenze. E allora la domanda dovrebbe essere un’altra: sono i licei classici ad essere obsoleti per i contenuti trasmessi o sono tutte le scuole inefficaci nel trasferire, provocare, coordinare e coltivare un metodo?

Se fosse solo una questione di sbocco occupazionale mi chiedo come mai quel 94% di studenti che seguono percorsi «concreti» e «specifici», «utilitaristici», poi non vengano collocati. Mentre, sempre ragionando coi numeri e le percentuali, il tasso occupazionale più alto rimane saldamente legato in mano alla «congrega dei liceali classici».

A che serve dunque la cultura classica? Quella che dovremmo trasferire ai nostri studenti è la capacità di vivere nel dubbio senza perdersi in esso, di cercarlo, senza paura di contraddirsi, perché è la contraddizione che crea il progresso culturale e scientifico, non il teorema. Abbiamo scelto dunque di ragionare sul tema dell’utilità degli studi classici in rapporto all’utilità per i nostri studenti. Ma c’è di più: la trasmissione culturale degli studi umanistici non è l’eredità culturale che costruisce la nostra identità individuale e collettiva di italiani a prescindere poi da ciò che decidiamo di fare? Cioè la trasmissione per «memoria» di ciò che siamo prima di quello che facciamo? Come individui ma anche come collettività.

Nei sistemi scolastici dell’era moderna convivono due istanze parimenti importanti: da un lato il bisogno degli studenti (l’utilità e la formazione per la loro vita individuale) e dall’altro il bisogno della comunità nazionale (l’utilità e la formazione per la vita collettiva, per il corpus dei cittadini). Lo studio del latino, di Seneca, di Dante, di Leonardo da Vinci o della Cappella degli Scrovegni può darsi (ma non lo credo) che sia minimizzabile nella vita e nelle urgenze di un singolo, ma è egualmente minimizzabile nell’identità collettiva italiana che è fatta, creata e ricreata e conosciuta e caratterizzata, dentro e fuori dal nostro paese, esattamente per quelle cose lì? Perché sono utili o belle o perch é sono noi? E «noi» viene prima dei concetti di utilità e di bellezza, perché l’essere è pregiudiziale all’esistere. Questo «noi» si trasmette nella misura in cui siamo stati capaci di fornire un metodo che è essenzialmente riflessione, critica e creatività. Rinunciarvi non è suicidio politico o economico, è suicidio di senso e di identità. E allora, quello che si trasmette nella cultura umanistica non è tanto o solo un insieme di «contenuti» un po’ astratti o un po’ inutili alle «urgenze dell’oggi», bensì un metodo e un’identità fortissime pregiudiziali ad affrontare e risolvere in modo nuovo e identitario le urgenze di oggi. Così come il patrimonio artistico, culturale e paesaggistico italiano non sono un cassettino di gioielli (da portare al monte dei pegni per rimediar qualche soldino) di cui però la stragrande maggioranza dei nostri studenti comincia a ignorare la conoscenza perché «la storia dell’arte è inutile».

L’arte e la cultura italiane sono il segno di ciò che siamo e facciamo, non sono solo «bacini turistici» di cui siamo custodi ignari perché abbiamo perso il nostro senso. La nostra misura di presenza nel mondo sono bellezza e creatività e rischiamo di vanificarle: essenze fragilissime che hanno bisogno di certezza granitica sulla loro importanza in sé e per sé per poterle mantenere e ricreare. Invece le mettiamo in dubbio cercandone invano l’«utilità»: l’identità culturale e spirituale, delle persone come delle nazioni, non le misuri con l’utile ma con altri metri. Anche se la competenza più «utile» nel mondo di domani sarà la creatività. È presente nel nostro Dna in dosi massicce. Da un lato gioisco, dall’altro mi arrabbio nel vederla mortificata ovunque: nelle riforme scolastiche, nei finanziamenti, nelle visioni ottuse di programmazione.

Gli studi umanistici, la letteratura, i classici, la filosofia, l’arte, la musica, sono capaci di coltivare nello studio, nella riflessione e nel dubbio la creatività, non come segno di conservazione ma come premessa di ogni innovazione. «Servono» non solo al singolo, per tracciare il suo percorso esistenziale, ma anche al collettivo, nella misura in cui conservano il nostro posto specifico nel quadro futuro del mondo che, lo ribadisco, sarà sempre un ruolo della creazione e del pensiero, non solo relativo all’arte, ma a tutti gli ambiti dell’agire: alle scienze, alla politica, all’economia.

Nella scuola superiore l’emergenza primaria non è l’aggiornamento dei contenuti, lo sviluppo di competenze e nemmeno la strumentazione tecnologico-digitale, soggetta a obsolescenza nel giro di pochissimo tempo; urgentissimo è il problema di metodo, perché quello che abbiamo perso, o non abbiamo mai coltivato, negli altri tipi di scuola, è il metodo fornito e acquisito negli studi classici. Altro che eliminare o ridimensionare il liceo classico: credo che il metodo della «congrega dei liceali classici» – che passa anche per quei contenuti – sia da «esportare» negli altri percorsi di formazione tecnico-professionale, riunendo, in un nuovo Rinascimento, il pensare e il fare. Interroghiamoci sui pericoli possibili del dar valore ancillare alla conoscenza: essa non è parte della vita, è la vita stessa, diceva Dewey. È banale ribadirlo: ma se non sai pensare non sai creare e non sai nemmeno fare. Il pensiero lo coltivi con gli studi classici e umanistici. Posto che, porre come pregiudiziale e non come corollario degli studi secondari l’utilitarismo (da ripensare e rifondare invece nei percorsi universitari) finisce per eliminare le domande di senso, mettendo in crisi non solo lo studio, la scuola, la cultura, ma anche i valori fondamentali che ci fanno umani.

L’opposto di utile non è futile. Arte, musica, letteratura, filosofia, matematica, poesia non sono “utili”, sono noi. Sic et simpliciter. La musica nei programmi delle scuole superiori non esiste più, lo studio dell’italiano e della letteratura nelle scuole tecnico professionali è una medaglietta formale, la storia dell’arte non c’è più nemmeno e la filosofia è un’occupazione vezzosa dei licei. Fate vobis, guardate ciò che stiamo diventando, guardate ciò che siamo, fatevi qualche domanda e diamo risposte. Il problema è che senza la vera Conoscenza sono proprio le giuste domande a latitare. Eppure il corso del progresso è una successione di giuste domande.

L’Unità 30.11.13

“Rimandati in latino. I nostri licei sono invidiati nel mondo. Vanno migliorati non aboliti”, di Maurizio Bettini

Il liceo classico è in crisi. Negli ultimi mesi e settimane si è parlato molto di questo tema, anche sui quotidiani, e per la verità, visto il modo in cui trattiamo in Italia la cultura umanistica, dovremmo stupirci del contrario. Pompei si sgretola, i laureati in discipline umanistiche lavorano nei
call center e i dottori di ricerca, se va bene, emigrano: perché mai un giovane dovrebbe iscriversi al liceo classico? Nella percezione comune, peraltro largamente alimentata da governanti e gestori di media televisivi, l’immagine di ciò che chiamavamo “cultura” si è trasformata in una sorta di hobby senza oneri per lo Stato, capace di suscitare interesse solo se i “beni culturali” si comportano da veri “beni”, ossia producono ricchezza: e pazienza per l’aggettivo “culturali”. Ciò detto, penso che allontanare per un momento lo sguardo, per riflettere sul problema della presenza della cultura classica nelle scuole italiane – “latino”, “greco” o “latino e greco” che sia – , potrebbe risultare più utile che non fare semplicemente della polemica.
Cominciamo dunque col constatare che la scuola superiore italiana appare ancora caratterizzata da una notevole presenza del latino nell’insegnamento liceale, soprattutto se si analizza questo dato tenendo a mente la frequente obbligatorietà di questa disciplina nei licei. E questo anche a dispetto della continua erosione di ore che l’insegnamento delle materie classiche ha subito, e continua a subire, ad opera delle sempre nuove indicazioni ministeriali.
Ritengo importante che le civiltà classiche continuino a far parte della nostra enciclopedia culturale; sono però altrettanto convinto che questo legame di memoria debba ormai passare attraverso un paradigma differente, più vicino alle esigenze culturali della società contemporanea.
Il fatto è che lo studio delle materie classiche, e del latino in particolare, si fonda su un’idea di cultura piuttosto parziale: “cultura” nel senso di apprendimento di una lingua nobile – né io intendo certo mettere in dubbio questa caratteristica – , della sua poderosa grammatica e della relativa storia letteraria. Altri aspetti della civiltà classica non vengono sostanzialmente presi in considerazione: eppure sarebbero proprio quelli che compongono il paradigma della “cultura” nel senso che l’antropologia ha dato a questa parola; ma soprattutto nel senso che oggi si dà a questa espressione, quando parliamo di “incontro fra culture”, di “conflitto fra culture” o dei “mutamenti culturali” a cui la nostra società va quotidianamente incontro.
Questo mi pare il punto centrale della questione. Lo studio del latino o del greco nella sola prospettiva di apprenderne la lingua non mi pare più attuale; allo stesso modo, penso anche che uno studio puntiglioso della storia letteraria di Roma antica – le tragedie perdute di Ennio, la data di composizione delle orazioni di Cicerone, le bucoliche di Nemesiano – suoni decisamente fuori tono nella scuola di oggi. Quello che occorrerebbe far conoscere ai giovani è piuttosto la cultura antica nel suo complesso, non solo nelle sue forme tradizionalmente codificate.
Parlare del significato che la divinazione aveva per i Romani, della loro organizzazione familiare, del modo in cui essi concepivano la religione, il sogno, i modi del «raccontare», suscita negli studenti un immediato interesse. La ragione di ciò è molto semplice. Vista sotto questa forma, la cultura romana si presenta inaspettatamente altra, diversa dalla nostra, uno spazio privilegiato in cui sperimentare che si può vivere anche in tanti altri modi, i quali non sono necessariamente identici ai nostri.
I Romani avevano nomi e comportamenti differenti per ciascuno dei vari “zii” e “zie” che componevano la famiglia, attribuivano un enorme significato ai processi divinatori – prima di attaccare battaglia, ogni generale leggeva scrupolosamente le viscere della vittima sacrificale o osservava come beccavano i polli – , adoravano piccole divinità che stavano nel focolare, nutrendole con una patella, e tenevano in casa donnole e serpenti domestici. Ce n’è già abbastanza per incuriosire qualsiasi studente, e spingerlo a chiedersi perché mai i Romani si comportassero in questo modo. Lo stesso si può dire dei momenti in cui si mettono
i ragazzi di fronte all’origine o al significato di certe parole, possibilmente ancora vive nella nostra lingua – operazione peraltro non difficile, visto che l’italiano ne ha talmente tante, di queste parole, da poter essere considerato a buon diritto un semplice “dialetto” del latino, ovvero un latino parlato male. Se si spiega agli studenti, per esempio, che il termine monstrum “mostro” deriva da monere «far ricordare», questa semplice esperienza linguistica li metterà di fronte al fatto che, per i Romani, la “mostruosità” era una categoria religiosa: un vitello con due teste o una pioggia di meteoriti erano per loro non un disguido della genetica o un fenomeno astronomico, ma altrettanti messaggi che giungevano loro da parte degli dei, per ammonirli del fatto che la pax con i signori del mondo si era incrinata. Sperimentare l’alterità dei Romani può indurre i giovani anche a pensare che modi di vita diversi, anche quando ci vengono da società lontane nel tempo o nello spazio, non sono necessariamente inferiori ai nostri, modelli culturali sorpassati o semplicemente barbari; al contrario, ci si può accorgere che in queste differenti configurazioni culturali esistono elementi di civiltà estremamente interessanti, su cui vale la pena di riflettere soprattutto per comprendere meglio “noi”, oltre che “loro”. E questa costituisce, assieme alla tolleranza, un’acquisizione formativa di estrema importanza.
Il liceo classico è ancora, a mio giudizio, un’ottima scuola, che vediamo invidiata dai nostri concittadini europei ogni volta che capita di parlarne. Perché dunque distruggere, o snaturare – piuttosto che cercare di potenziarla in ogni modo –, una delle non molte istituzioni italiane che hanno credito anche fuori dal nostro Paese?
In ogni caso, se mi fosse permesso concludere queste riflessioni con una piccola punta polemica, vorrei affermare quanto segue. Qualora un ministro della Pubblica istruzione decidesse, a un certo punto, di ridurre ulteriormente il peso orario dell’insegnamento del “latino” e delle materie classiche in generale – ovvero nell’ipotesi deprecabile di una sua abolizione – ci piacerebbe perlomeno avere la possibilit à di dire la nostra sulle materie con cui lo si vorrebbe sostituire. Perché se la scelta dovesse cadere su ore di socializzazione, educazione a esprimere se stessi, lettura del codice della strada (per prendere la patente di guida), riscoperta delle radici identitarie attraverso i dialetti, apprendimento di una seconda lingua straniera – da sommare all’ignoranza della prima – realizzato attraverso l’opera di un insegnante che a sua volta non la sa, e altre trovate del genere, il danno che la cultura italiana riceverebbe da simili decisioni risulterebbe davvero irreparabile.

La Repubblica 30.11.13