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“Così si spezza la doppia anima del Cavaliere”, di Luigi La Spina

Anche l’epilogo dell’esperienza, se non politica, almeno parlamentare di Berlusconi conferma che, in questi vent’anni, l’Italia ha visto sulla scena pubblica non uno, ma due Berlusconi. Da una parte, l’uomo di Stato che dialoga con i potenti del mondo come rappresentante e interprete del moderno conservatore europeo. Dall’altra, il rivoluzionario di centro, disinvolto contestatore dei riti e dei miti istituzionali, in nome di un rapporto empatico e diretto con i consensi non tanto dei suoi elettori, quanto dei suoi fan. Un doppio registro che, alternato con una sapiente regia mediatica, gli ha consentito, finora, di tenere insieme le due platee alle quali si è rivolto, quella tradizionale del moderatismo italiano orfano della dc e quella del ribellismo anarco-conservatore, insofferente alle regole di uno Stato considerato sempre come un avversario. Un nemico che non si può abbattere, ma a cui è legittimo sfuggire con ogni mezzo.

Così, questi giorni di vigilia di quella decadenza parlamentare che, stasera, dovrebbe seguire alla sua definitiva condanna penale, hanno manifestato con estrema chiarezza quel modello binario della sua condotta tipico di tutta la sua presenza in politica.

Con una forte accelerazione però dei due atteggiamenti, alternati freneticamente come in un balletto chapliniano. Prima, il leader di Forza Italia ostenta un vittimistico ossequio per le libere prerogative presidenziali sulla concessione della grazia e, subito dopo, passa agli anatemi complottisti e minacciosi contro Napolitano, conditi da veementi attacchi e ingiurie contro il capo dello Stato da parte dei giornali che a lui fanno riferimento. Prima, chiede ai membri del Parlamento, con un appello commosso, il rispetto dovuto a un loro collega, rappresentante, secondo la Costituzione, di tutto il popolo italiano e, immediatamente dopo, si appella a un’imponente manifestazione di piazza come arma impropria di pressione sulle scelte dei senatori che devono deliberare la decadenza. Prima, ricorre a principi del foro come l’avvocato Coppi per seguire le vie maestre del diritto processuale, nella convinzione che, alla fine, la giustizia debba trionfare, riconoscendo la sua innocenza e, poi, dichiara impossibile che la magistratura italiana esprima nei suoi confronti una sentenza di verità.

È probabile, però, che, adesso, questa «partita doppia» sulla quale Berlusconi ha condotto l’equilibristico bilancio della sua esperienza politica sia alla conclusione, proprio per l’impossibilità di tenere insieme quello che è sempre riuscito a tenere insieme. Come se, in epoca pre digitale, l’affrettato ritmo di quel film chapliniano potesse preludere alla rottura della pellicola. Per la prima volta, infatti, l’esasperazione del caso personale rispetto alle sorti di quel popolo di cui Berlusconi è sempre riuscito a rappresentare paure e speranze, desideri legittimi e aspirazioni inconfessabili, rischia di rompere il circuito magico che ha costantemente legato il destino del leader a quello della composita maggioranza degli italiani che in questi anni l’ha votato.

Se questa ipotesi avesse il conforto degli avvenimenti nei prossimi mesi, la divisione tra «lealisti» e «diversamente berlusconiani» non rappresenterebbe, come pure è stato giustamente osservato, un aggiornamento partitico del suo tradizionale metodo, quello, appunto, del doppio registro, moderato e radicale, ma il segnale di una sua ormai insanabile rottura. L’estromissione di Berlusconi dal Parlamento potrebbe costituire, perci ò, il simbolo dell’impossibilità di inserire e far valere nelle istituzioni dello Stato il ribellismo antipolitico e pararivoluzionario che cova, nel profondo, una parte importante del suo elettorato.

Si spiegherebbe, così, l’opposizione disperata del leader di questa nuova, ma molto diversa, «Forza Italia» alla sua decadenza da senatore, un’eventualità che non può essere paventata solo dal timore, senza lo scudo dell’immunità, di un improbabile arresto. Tra l’altro, proprio i leader che più recentemente si sono affacciati sulla scena pubblica, Grillo e Renzi, hanno dimostrato come si possa far politica, e farla efficacemente, fuori dagli scranni delle due Camere. Berlusconi, che certo non sfigura al confronto carismatico con i due probabili futuri suoi competitori, potrebbe avvantaggiarsi, anzi, da una posizione extraparlamentare che gli lascerebbe la massima spregiudicatezza propagandistica. Forse la sua accanita battaglia per conservare il più possibile il suo posto a palazzo Madama indica la consapevolezza, più istintiva che razionale, della necessità di prolungare il più possibile lo straordinario miracolo del ventennio berlusconiano, quello di non spaccare la doppia anima del moderatismo italiano a cavallo del secolo. E con quella, anche la sua.

La Stampa 27.11.13

“La lunga marcia in un vicolo cieco”, di Piero Ignazi

Come poteva il leader di Forza Italia Silvio Berlusconi convivere con i suoi “carnefici”? Naturale, scontato, ovvio che sbatta la porta e se ne vada. Per andare dove non è chiaro. A raggiungere Beppe Grillo in una forsennata cavalcata anti-europea e populista per sfasciare tutto e portare a casa qualche eurodeputato alle prossime elezioni per il Parlamento di Strasburgo?
A rinvigorire il sopito e mai dimenticato furore “anti-comunista”, nonostante l’ingresso in scena di Renzi e di tutta una nuova generazione “post”? A rilanciare il fantasma della cosiddetta rivoluzione liberale, araba fenice di cui si sono perse le tracce fin dall’estate del 1994? A bombardare quotidianamente il governo Letta e i traditori alfaniani, l’altro giorno blanditi come compagni che sbagliano ma da ritrovare al momento della battaglia finale, e ora additati al disprezzo dei seguaci duri e puri del Cavaliere? Qualunque sia la scelta strategica di Berlusconi, il vicolo è cieco. Da una parte c’è il muro invalicabile del grillismo, mille volte più efficace, penetrante e “nuovo” rispetto alla malinconica riedizione di Forza Italia, puro atto politico nostalgico, e quindi regressivo e perdente. Dall’altra ci sono gli scissionisti di Alfano, interpreti, potenziali quanto meno, di un moderatismo di centro-destra agguerrito ma non barricadiero.
Non è quindi la fuoriuscita in sé di Berlusconi e dei suoi che può impensierire Enrico Letta. L’esecutivo non ha nulla da temere da quella parte. Ogni mossa è prevedibile e scontata. Qualche graffio potrà ancora procurarlo ma le truppe si stanno oramai dislocando altrove, verso interpreti più credibili. Soprattutto più nuovi. Perché è di questo, con tutti i limiti del nuovismo, che l’opinione pubblica va in cerca. L’appeal di Matteo Renzi sta tutto lì, adesso; poi si vedrà.
Ad ogni modo il governo si trova in una condizione inedita. Non è più quello prefigurato da Giorgio Napolitano e osannato dai sostenitori della “pacificazione”, termine finalmente caduto in disuso dopo una frastornante grancassa di mesi. Le larghe intese si sono ristrette al minimo indispensabile sul piano numerico ed hanno perso il significato originario.
Se l’idea iniziale del governo Letta prefigurava una sorta di grande coalizione — alle vongole peraltro, perché mancavano tutti i presupposti politici, culturali e istituzionali per insediarla — ora siamo ad un governo di sinistra con una piccola pattuglia di moderati al fianco. Una sorta di ipotesi bersaniana, se Pd e Scelta civica non avessero fallito la prova delle urne. In linea teorica un esecutivo privo dei guastatori berlusconiani dovrebbe godere di una navigazione più tranquilla. Ma, in realtà, il Nuovo Centro Destra di Alfano quanto è lontano ideologicamente e politicamente dal ceppo originario? In che cosa si differenzia al di là del voler continuare l’esperienza di governo? Sono più filo-europei e meno anti-istituzionali, più pro-labour e meno anti-immigrati dei forza-italioti? Il distacco dalla casa madre non si è ancora nutrito di idee, riferimenti e scelte politiche dissonanti. Solo qualora acquisisse i tratti di una vera destra europea il percorso di Letta avrebbe ancora senso: la sua piccola coalizione farebbe da levatrice a quel raggruppamento autenticamente moderato che da sempre manca alla politica italiana. Solo che non può farlo curvando ulteriormente in senso conservatore la propria azione. Anzi. Privo del fardello berlusconiano l’esecutivo non ha pi ù impacci per imporre una politica che rappresenti gli orientamenti della sua maggioranza parlamentare: 300 contro 30, ricordava con classica burbanza toscana il sindaco di Firenze. Il sigillo democrat sull’azione di governo, che sarà molto più incisivo dopo le primarie dell’8 dicembre, può quindi mandare all’aria le piccole intese.
L’esecutivo Letta sarà forse un po’ più coeso; certamente non è più forte. Il suo baricentro, rimasto in equilibrio per tutti questi mesi, una volta persa la sua ala destra, si sposterà inevitabilmente a sinistra. Resisteranno i “nuovi moderati”?

La Repubblica 27.11.13

“Senza coraggio l’Italia frana”, di Enrico Rossi

Supertifoni, cicloni fuori stagione, bombe d’acqua sempre più frequenti, troppe alluvioni e un diluvio di frane. Ma la cosa eccezionale – diceva bene Luca Landò domenica su l’Unità – è che di fronte al ripetersi di queste tragedie si continui a far finta di nulla. Si continua a costruire nelle zone a rischio, a tombare fossi e torrenti, ad abbandonare la manutenzione del bosco e del reticolo idraulico minore, a non fare interventi di prevenzione. Si interviene a stento sulle emergenze ma non si riesce a realizzare un vero piano nazionale di prevenzione per mettere in sicurezza il territorio.

Ma ancor prima di un piano di investimenti occorre cambiare radicalmente cultura e regole del governo del territorio per non ripetere più gli errori del passato.

Ne parlai anche con il precedente governo, ma senza ottenere alcuna risposta. Fatto sta che si continua a spendere, quando va bene, solo per riparare i danni. Per le tre alluvioni del 2011-2012 noi stiamo spendendo 250 milioni. Siamo costretti a farlo, ma sappiamo bene che per ogni euro speso in prevenzione se ne risparmierebbero 10 per riparare i danni. Tornerò alla carica con il governo Letta.

Intanto in Toscana sul tema della prevenzione non siamo stati con le mani in mano. Abbiamo fatto scelte coraggiose, approvando una legge – per ora in giunta ma presto anche in Consiglio – assai più innovativa rispetto alle 13 proposte di legge presentate negli ultimi tempi in Parlamento da quasi tutte le forze politiche. Nel frattempo in Italia ci siamo dimenticati di una buona legge, la n.10 del 2013, che consentirebbe – anche a detta degli esperti – di avviare questo salto culturale nel governo del territorio, con politiche nazionali per il contenimento del consumo di suolo. In Toscana abbiamo già imboccato questa strada, mettendo al primo posto la riduzione del consumo di suolo e le politiche di prevenzione, alzando così fin da subito i livelli di sicurezza.

La svolta più importante che abbiamo fatto, non a parole ma nei fatti, è il consumo zero del territorio. A settembre 2013 abbiamo approvato una nuova legge urbanistica. Una riforma vera e profonda che rafforza le regole di prevenzione dei rischi, tutela le aree rurali e valorizza l’attivita ̀ agricola, introduce un nuovo concetto di «patrimonio territoriale», riduce dagli attuali 6 anni a 2 i tempi della pianificazione, adegua la legislazione regionale al Codice del paesaggio. Ma il grande cambiamento sta nella scelta di concentrare l’attività edilizia sul riuso e la riqualificazione del territorio già urbanizzato. Su ogni territorio comunale sarà tracciata una linea che separa le aree urbanizzate da quelle rurali: all’interno del territorio urbanizza- to non saranno consentite nuove edificazioni.

La seconda svolta: un intervento di prevenzione a costo zero. Nel dicembre 2011 con la legge che ha bloccato le edificazioni in tutte le aree ad alto rischio idraulico, più di mille chilometri quadrati di territorio, il 7% della superficie pianeggiante di tutta la regione, su cui non si potrà più mettere un mattone.

Sono scelte che potrebbero essere estese, da subito, all’intero Paese con vantaggi per tutti, a partire dai cittadini. Il governo su questo dovrebbe battere un colpo.

L’Unità 26.11.13

“Il governo percorre una via stretta”, di Paolo Baroni

E anche la Trise alla fine va in soffitta. Con l’emendamento annunciato ieri in Senato finisce la girandola delle nuove tasse su casa e dintorni che tanto hanno inquietato i contribuenti, e fatto urlare il partito del giù-le-tasse, e che fino ad ora non avevano però mai visto la luce. L’ultima arrivata, quella definitiva, salvo sorprese dell’ultima ora, si chiamerà Iuc, ovvero «Imposta comunale unica». E come le precedenti avrà una componente patrimoniale, l’equivalente per intenderci della vecchia Imu (che però, come sappiamo, non si paga più sulle prime case se non quelle di lusso); quindi incorporerà la tassa sullo smaltimento dei rifiuti (Tari) e quella sui servizi indivisibili (la Tasi). La novità qual è, allora? Che rispetto alla Trise la «Iuc» non sarà così «cattiva» come ipotizzato in un primo momento dai tecnici del Tesoro. Perché, e questo è il dato nuovo emerso ieri, dopo l’ennesima giornata di batti e ribatti governo-maggioranza, le compensazioni destinate ai Comuni verranno aumentate del 50% passando da un miliardo di euro a un miliardo e mezzo.

E quindi i Comuni potranno limitare un poco, ma a dire il vero nemmeno tanto, le loro pretese. E tanto per mettere le cose in chiaro si è anche deciso che la somma della componente patrimoniale e della Tasi non potrà superare l’aliquota massima della vecchia Imu (10,6 per mille).

A conti fatti ben 1 milione e 800 mila famiglie, all’incirca il 10% del totale, verranno esentati. Mentre tutti gli altri godranno di un piccolo sconto, in media all’incirca 25 euro a nucleo famigliare. In pratica, come effetti, si ritorna al «peso» dell’Imu del 2012 e forse anche un briciolo in meno.

Nell’emendamento che verrà inserito nella legge di stabilità, su cui oggi già si dovrebbe votare la fiducia, è scritto esplicitamente che il mezzo miliardo di maggiori stanziamenti viene vincolato all’introduzione di detrazioni per alleggerire la componente servizi, quella che potenzialmente presentava i maggiori rischi di gravare sulle fasce più deboli della popolazione, perché in origine non prevedeva né detrazioni di base e nemmeno sconti per i figli a carico. In quale entità verranno applicate le detrazioni saranno i Comuni a stabilirlo. Ma è stato deciso che a beneficiarne siano innanzitutto le case abitate da una persona sola, single o pensionato, quelle degli emigranti, o gli immobili utilizzati per pochi mesi come le case di vacanza.

Si poteva fare di più? Nelle condizioni attuali forse no: fino a quando non si metterà davvero mano ai tagli alla spesa i margini di manovra per ridurre davvero le tasse, tutte le tasse, sono davvero ristrettissimi per non dire inesistenti, come conferma il poco che si è combinato su un’altra questione rilevante, il taglio del cuneo fiscale. E comunque già mettere la parola fine a questo balletto infinito, dando una certezza ai contribuenti, è importante.

Ovviamente quando si parla di tasse non tutti sono contenti. Mentre è molto facile cavalcare l’insofferenza e l’insoddisfazione dei contribuenti ormai stremati dal peso del Fisco. Confedilizia è «delusa», mentre Renato Brunetta (Forza Italia) parla di «imbroglio, l’ennesimo», perché «l’impianto non cambia». A suo parere anche la nuova «Iuc» «è una patrimoniale: una stangata da 10 miliardi per 25,8 milioni di contribuenti». Dal Nuovo centrodestra, invece, Maurizio Sacconi la pensa in tutt’altro modo: il testo originario «è stato migliorato significativamente», sostiene.

In questo clima da campagna elettorale permanente il muro contro muro è destinato a durare. Con lo scontro che potrebbe deflagrare già stasera quando Forza Italia al momento di votare annuncerà il suo passaggio all’opposizione al grido di governo-sanguisuga.

La Stampa 26.11.13

“Quel volto deturpato bandiera delle donne”, di Michele Serra

Fortunati i trecento studenti di Parma che ieri hanno potuto vedere e ascoltare Lucia Annibali, sfregiata con l’acido lo scorso aprile per volontà di un ex fidanzato respinto, un uomo così violento e così vigliacco da prezzolare, per quell’orribile gesto, due sicari albanesi.
Fortunati quei ragazzi perché il volto di Lucia, ricomposto giorno dopo giorno con una fatica, una dignità, una costanza, una sopportazione del dolore davvero femminili, sventolava in quell’aula come una bandiera. «Voglio ringraziare il mio volto ferito — ha detto Lucia — perché mi ha insegnato a credere in me stessa. A essere padrona di me, del mio corpo e dei miei sentimenti».
Tra pochi giorni quel volto fronteggerà in tribunale il suo carnefice. Colui che lo voleva cancellare (perché non merita di esistere, per il maschio padrone, cioè che non gli appartiene) se lo vedrà di fronte.
NON sappiamo se proverà rimorso o vergogna per il suo gesto atroce, tra l’altro mutuato di recente, qui da noi, da culture arcaiche e remote, una tortura importata sadicamente dallo spazio e dal tempo come se non bastasse, alla violenza sulle donne, il vasto armamentario già a disposizione. Sappiamo, però, e lo sa soprattutto Lucia, che la sopravvivenza di quel viso, il suo resistere allo scempio, il suo lento ritrovare espressione e dolcezza, e soprattutto il suo orgoglioso mostrarsi nonostante le ferite, e parlarne, e rivendicare identità e autonomia anche “grazie” a quel calvario, a quei lineamenti bruciati, segna la rovinosa sconfitta del suo oppressore.
Il gesto del vetriolo o dell’acido o dello sfregio da lama contiene una precisa volontà di annullamento: «Tu non devi più esistere. Esistevi solo in quanto mia. Non puoi e non devi esistere in quanto tua. Ora dunque io ti cancello. Vivrai nascosta. Vivrai nella vergogna di mostrarti». Il discorso con il quale ieri Lucia Annibali ha dato un significato palpitante, emozionante, non rituale alla giornata mondiale contro la violenza sulle donne, ribalta addosso all’oppressore il suo odioso, patologico pregiudizio. «Io esisto, ed esisto a tal punto che la ferita che mi hai imposto non solo non mi fa vacillare, ma aumenta la mia coscienza di appartenermi, di essere mia, e di esserlo nonostante te». Trionfa, nelle parole semplici e potenti che Lucia ha rivolto a ragazze e ragazze che difficilmente lo dimenticheranno, il vecchio “io sono mia” che ha animato per generazioni il movimento delle donne. E che, nella sua ineludibile brevità, dice assolutamente tutto, e dice quello che fa impazzire di paura e di rabbia i maschi impreparati alla propria vita e alla libertà degli altri, soprattutto delle altre. A compimento del suo percorso di liberazione, Lucia ha anche voluto aggiungere due parole sull’amore, abusatissimo alibi di molti picchiatori, stalker, persecutori, carcerieri, torturatori di femmine. «Esiste solo un tipo di amore: quello buono, quello che ti rende felice e migliore. L’amore, come l’amicizia, è una relazione terapeutica, che ti arricchisce e ti fa crescere». Non è amore l’abuso, la costrizione, la gelosia patologica, non è amore lo spirito proprietario, il dispotismo sentimentale. Non è amore ciò che rende infelici e peggiori. L’invito, rivolto ai ragazzi presenti, di essere «gentili e affettuosi » con le ragazze, e alle ragazze di «scegliere il rispetto di voi stesse e sentirvi libere», sicuramente non è caduto nel vuoto, data la storia umana che quell’invito ha prodotto, e data la persona che quella storia incarnava.
Il presidente Napolitano ha nominato l’avvocato Lucia Annibali cavaliere al Merito della Repubblica. Raramente un’onoreficenza è parsa più carica di significato e di valore. Possa il maschio padrone, anche se rappresenta il grado zero dell’umanità, riuscire un giorno a misurare il valore, l’intelligenza, il coraggio di questa bellissima donna. E a esserne felice invece che terrorizzato. Ammirato invece
che invidioso.

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“Ringrazio il mio volto ferito che mi ha insegnato a credere di nuovo e di più in me stessa”, di JENNER MELETTI

Scende il buio, su quella che è stata «davvero una bella giornata». «Tanto più importante per me — dice Lucia Annibali, colpita al volto con l’acido in una sera d’aprile — che di giornate belle in questi mesi ne ho vissuto poche ».
Quando ha saputo della sua nomina a Cavaliere?
«Stamattina mi è arrivata una telefonata dal Quirinale. L’ufficio stampa mi informava della decisione del Presidente. Che bella cosa. Per me, per la mia famiglia. E credo anche per tutte le donne che hanno subito violenza. È una notizia che dovrebbe interessare tutti gli uomini. Ci pensino su, prima di usare violenza. Se io sono diventata Cavaliere — che so, forse era meglio cavallerizza… — questo significa che la reazione alla persecuzione non è solo mia. C’è tutta una società che si ribella. La nomina è un messaggio ai violenti: state attenti, le donne non si sentono più sole».
Un viaggio a Parma, con tanti appuntamenti. Prima di tutto l’incontro con trecento studenti delle scuole superiori. Si era preparata?
«Sì, ieri sera. Pochi appunti per fissare le parole tante volte pensate in questi mesi: bisogna reagire, ci vuole il coraggio di sopportare anche l’insopportabile, bisogna ritrovare la normalità che è stata rubata… Non arrendersi mai. Mandare al mandante dell’aggressione un messaggio preciso: hai voluto cancellarmi e non ci sei riuscito. La tua malvagità alla fine non ha vinto. Era la prima volta che apparivo in pubblico. Mi sono sentita subito come a casa, ho capito che chi era lì aveva rispetto e voglia di capire».
Ha mostrato il suo volto ferito, è riuscita anche a sorridere.
«Il mio volto, ho detto, sono io. Parla di me, del mio dolore e della mia speranza. Voglio ringraziare
questo volto ferito che mi ha insegnato a credere in me stessa, a fare un salto verso la donna che ho sempre voluto essere. Oggi mi sento padrona della mia vita e dei miei sentimenti. Ho un progetto da cui ripartire per avere una vita felice».
Ai giovani ha parlato anche delle parole scritte sul blog del suo psicoterapeuta quando c’erano già le vessazioni ma ancora non era arrivata l’aggressione.
«Già allora avevo iniziato un viaggio dentro a me stessa. Il primo passo verso la guarigione è capire con chi si ha a che fare. È un passo triste ma non potevo accontentarmi di una vita tanto triste ».
Lei ha rischiato di morire, ha sofferto l’inferno. Però è riuscita a parlare anche dell’amore.
«C’erano le ragazze e i ragazzi dell’età giusta. Esiste un solo tipo di amore, quello buono, che ti rende felice, che è indipendenza e libertà. Non bisogna avere fretta, bisogna prima conoscere se stessi e poi darsi il tempo di conoscere l’altro. Il tempo passato lasciando che qualcuno ci ferisca non si recupera più».
È stata accolta da grandi applausi e commozione. Giovani e ragazze sono venuti a parlare con lei, a tu per tu.
«Mi dicevano: in bocca al lupo.
Ai ragazzi ho detto: in questo momento di follia collettiva, voi dovere scegliere di essere gentili, amorevoli verso le vostre compagne. Alle ragazze ho spiegato: se qualcosa non funziona, in un rapporto, non dovete convincervi che qualcosa non va in voi».
Una giornata lunga, con tanti appuntamenti.
«Parma è diventata la mia seconda casa. Insieme a mia mamma Lella sono stata a pranzo con il primario, Edoardo Caleffi e la sua famiglia. Stasera dormirò in albergo poi domani entrerò in ospedale. Subirò la nona operazione, su una palpebra che si abbassa troppo e danneggia l’occhio destro. La prima volta sono rimasta nel reparto grandi ustionati per più di 40 giorni. Lì ho incontrato i miei incubi peggiori, quando ero cieca e temevo che l’uomo con l’acido arrivasse per finire il suo lavoro di assassino. Ma ho trovato tanta solidarietà, con medici e infermiere che mi trattavano come una figlia. Ed è iniziata la mia resurrezione. Mi hai tolto il sorriso e la faccia — mi dicevo pensando all’uomo che non voglio nominare — ma io non cedo. E oggi sono riuscita a parlare, e a sorridere, in quella grande sala piena di persone che mi vogliono bene».

La Repubblica 26.11.13

“Scatti, anche per il 2012 paga il fondo di istituto”, di Carlo Forte

Recupero del 2012 ai fini dei gradoni si farà. Una parte dei fondi necessari, 120 milioni, sarà attinta dai risparmi certificati dal ministero dell’economia, derivanti dal taglio di 135mila posti di lavoro nella scuola operato con l’articolo 64, del decreto legge 78/2010. La restante parte, circa 180 milioni di euro (secondo l’ufficio legislativo del senato ogni anno di ritardo vale un risparmio per l’erario di circa 300 milioni) sarà attinto dalle risorse destinate al finanziamento del fondo di istituto. É quanto emerso in un incontro che si è tenuto a viale Trastevere il 22 novembre scorso tra il ministro dell’istruzione, Maria Chiara Carrozza, e i vertici dei sindacati rappresentativi della scuola: Cgil, Cisl, Uil, Snals e Gilda-Unams. Prima che i soldi arrivino in busta paga, però, sarà necessaria l’emanazione di un atto di indirizzo all’Aran da parte del governo. Dopo di che l’agenzia convocherà i sindacati e darà il via alle trattative. Infine, se le parti giungeranno ad un accordo, sarà stipulato un contratto che fisserà le condizioni per il ripristino del 2012 ai fini della progressione di carriera. In pratica, lo stesso percorso che è stato seguito l’anno scorso per il recupero del 2011. E che ha portato, il 13 marzo scorso, alla sottoscrizione del contratto da parte dell’Aran e di Cisl, Uil, Snals e Gilda-Unams (la Cgil non lo ha firmato). Con la prossima tornata contrattuale, dunque, il triennio di ritardo della progressione stipendiale disposta dal decreto legge 78/2010 sarà completamente recuperato. E poi bisognerà pensare a come reintegrare anche l’utilità del 2013, sempre ai fini dei gradoni.

Utilità che è stata cancellata per effetto dell’art. 1, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica 122/2013. É bene ricordare che il ritardo della progressione di carriera è stato introdotto dall’art. 9 del decreto legge 78/2010. Che al comma 23 dispone che «gli anni 2010, 2011 e 2012 non sono utili ai fini della maturazione delle posizioni stipendiali e dei relativi incrementi economici previsti dalle disposizioni contrattuali vigenti».

Il 2010 è stato recuperato attingendo 320 milioni di euro dai fondi derivanti dal taglio di 135mila posti di lavoro nella scuola disposto dall’articolo 64 del decreto legge 78. Il 2011, invece, è stato reintegrato solo in parte con i fondi dell’articolo 64 e, per la restante parte, attingendo i soldi dalle risorse destinate al fondo di istituto (si veda il contratto del 13 marzo 2013). Infine, il 2012 dovrebbe essere recuperato a breve con lo stesso sistema. In buona sostanza, dunque, il criterio che è stato seguito è quello di utilizzare parte dei fondi destinati allo straordinario, per evitare il deprezzamento della prestazione ordinaria.

Deprezzamento strutturale che, peraltro, avrebbe effetti non solo sullo stipendio, ma anche sulla pensione e sulla buonuscita. Non tutti i sindacati, però, hanno accolto con favore la notizia della disponibilità del governo ad aprire le trattative per modificare la destinazione d’uso dei fondi dello straordinario. Secondo la Flc Cgil di Mimmo Pantaleo, infatti, «l’intervento comporterebbe un taglio a regime insostenibile del Mof del 36% con buona pace della contrattazione di istituto e dell’autonomia scolastica». Di segno contrario il giudizio del segretario della Cisl scuola, Francesco Scrima, «la questione del recupero del 2012 resta assolutamente prioritaria e va quanto prima portata a soluzione, come già avvenuto per i due anni precedenti». In tal senso anche il giudizio della Uil scuola, che giudica la certificazione dei risparmi, dice il segretario Massimo Di Menna, «un risultato concreto grazie al quale, anche per il terzo anno sarà riconosciuta l’anzianità di servizio e saranno pagati gli aumenti». Lo Snals-Confsal guidato da Marco Paolo Nigi spinge per «andare ad una rapida soluzione del problema». Chiede l’immediata emanazione dell’atto di indirizzo anche Rino Di Meglio, coordinatore di Gilda-Unams. Resta il fatto, però, che il decreto 122/2013 all’articolo 1, comma 1, lettera b), dispone la cancellazione dell’utilità del 2013 ai fini dei gradoni, prorogando di un anno le disposizioni contenute nell’articolo 9, comma 23, del decreto legge 78/2010 (la norma che ha cancellato l’utilità del 2010 del 2011 e del 2012 ai fini dei gradoni.). Dunque, c’è ancora altra strada da fare.

da ItaliaOggi 26.11.13

“Pensioni, Consulta in alto mare”, Nicola Mondelli

“Ancora nessuna decisione da parte dei giudici della Corte costituzionale sulla questione di costituzionalità, sollevata da un giudice del tribunale di Siena, in relazione all’articolo 24 del decreto legge 201/2011″. Il riferimento è al punto in cui viene fissato al 31 dicembre 2011, anziché al 31 agosto 2012, il termine entro il quale il personale della scuola doveva possedere i requisiti anagrafici e contributivi richiesti dalla normativa previgente l’entrata in vigore del predetto articolo 24, per accedere al trattamento pensionistico di anzianità (60 anni di età e 36 di contribuzione o 61 anni di età e 35 di contribuzione,oppure, indipendentemente dall’età, 40 anni di contribuzione) o di vecchiaia (65 anni per gli uomini e 61 per le donne unitamente a 20 anni di contribuzione).
Nel corso dell’udienza tenutasi il 19 novembre, i giudici della Corte, dopo avere ascoltato gli avvocati del personale della scuola interessato, quelli dell’Avvocatura dello stato e avere ritenuto ammissibile la richiesta dell’Inps di intervenire nel giudizio costituzionale, si sono infatti solo riservati di decidere sulle eccezioni preliminari sollevate dalle parti e sull’ammissibilità della sollevata questione di costituzionalità.
Anche se i giudici della Consulta dovessero dichiarare ammissibile la questione di costituzionalità sollevata dal giudice di Siena circa la decorrenza della riforma Fornero, difficilmente una sentenza potrà aversi prima dell’inizio del prossimo anno.
Altrettanti rinvii, per una soluzione del problema favorevole agli interessati che si riconoscono nel comitato «quota 96» , si registrano anche in sede legislativa.
Segna infatti il passo l’esame, da parte della commissione lavoro della camera dei deputati, del disegno di legge unificato – originariamente erano due quelli presentati rispettivamente da Manuela Ghizzoni ed altri (Pd) e da Maria Marzana (M5S) – che, come è stato più volte scritto su queste pagine, propone di estendere la facoltà di accedere al trattamento pensionistico di anzianità o di vecchiaia con i requisiti richiesti dalla normativa previgente l’entrata in vigore dell’articolo 24 del decreto legge 201/2011, anche al personale della scuola che li ha maturati entro il 31 agosto 2012.
Il testo unificato del disegno di legge, il cui esame era giunto a buon punto, è stato infatti improvvisamente sostituito da un altro testo elaborato dal comitato ristretto all’indomani della comunicazione da parte del ministero dell’istruzione sul numero del personale della scuola interessato alle modifiche proposte all’articolo 24: son ocirca 4.000 i docenti interessati.
Nella seduta del 19 novembre, la commissione presieduta da Giancarlo Galan ha deliberato di adottarlo come testo base per il seguito dell’esame in sede referente e, contemporaneamente, di richiedere al Governo la predisposizione di una relazione tecnica, fissando il termine del 27 novembre per la sua trasmissione.
L’esame del nuovo testo non potrà, pertanto, che riprendere dopo l’invio, da parte del Governo, della richiesta relazione tecnica. Quanto ai contenuti, il nuovo testo risulta più articolato.

da ItaliaOggi 26.11.13