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“Dal rosa al rosso. Domani la giornata internazionale dell’Onu contro la violenza e gli abusi di genere”, di Mariagrazia Gerina

Anche le tinte sono cambiate nella lotta delle donne per i loro diritti: troppo sangue In Italia è stata organizzata una maratona contro gli stupri e il femminicidio. Ma sarà anche l’occasione per ritrovarsi, scioperare, raccontare attraverso la cultura l’universo femminile. «Caro amore mio, ti scrivo perchè non riusciamo più a parlare e non facciamo che arrabbiarci. I lividi, i dolori con il tempo vanno via. La paura ormai me la porterò dietro per tutta la vita. Ma non è colpa mia, non sono nata con la paura di essere picchiata dalla persona che amo.Vedi quando sei tranquillo e sereno io e nostro figlio ci sentiamo al settimo cielo, e ci fidiamo di te. Ma quando diventi quel brutto mostro cattivo non ci fidiamo più. Quindi per l’ultima volta ti chiedo: quanto sei disposto a cambiare anche per noi?».
Lettera di una donna maltrattata al suo uomo violento, uno dei tanti che ricoprono le loro compagne di lividi e paure, uno dei pochi che ha deciso di voltare pagina, rivolgendosi a un centro d’ascolto per uomini maltrattanti. «Leggerla insieme agli altri del gruppo è stata una esperienza potente», racconta Alessandra Pauncz, fondatrice del centro a cui Marco si è rivolto, il Cam di Firenze, il primo di questo genere, seguito da pochi altri sparsi per l’Italia. Rari percorsi di faticoso riscatto. Simbolici, per ora, nel numero. E che un librettino curato dalla stessa Pauncz prova a raccontare. Si intitola Da uomo a uomo: edito dalla Romano Editore sarà in libreria tra pochi giorni. Quattro testimonianze maschili, un test per aiutare gli uomini a leggere su di sé i segni della violenza e quella lettera così potente. Renderla pubblica è per la donna che l’ha scritta e per l’uomo che l’ha ricevuta un modo per celebrare senza retorica, con la loro storia, la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne.
Giornata di lutto, per forza. Perché ci si ritrova, come ogni anno dal ’99 quando fu istituita, a contare i morti. Anzi, «le» morte. Donne uccise dai loro uomini. Centoventotto in Italia, dall’inizio del 2013. Una Spoon River al femminile che ha stentato a trovare spazio nelle statistiche ufficiali, e anche nelle pagine dei giornali, che ora di quelle storie di donne ammazzate traboccano, specie in occasione di ricorrenze come quella di domani. Giornata di lutto, dicevamo. Ma anche di riscatto, cercato proprio a partire dal racconto pubblico di quei femminicidi che segnano il confine estremo della violenza, così vicino al limite sfiorato tutti i giorni in centinaia di migliaia di interni familiari.
FLASH MOB E INIZIATIVE
E allora concerti, reading, incontri. Il testo di Serena Dandini Ferite a morte utilizzato come strumento per riprendersi la voce. Davanti all’ Assemblea della Nazioni Unite, dove sarà letto dalla stessa autrice. Come nell’Aula di Montecitorio. Oppure, in strada, davanti alla sede nazionale della Cgil, dove (dalle 15) a dare voce alla Spoon River d’Italia ci saranno anche Susanna Camusso e le attrici Ivana Monti e Francesca Reggiani. Appuntamenti per Un lunedì da leonesse, come recita la serata organizzata da Snoq Factory al Macro di Roma mentre al Palazzo delle Esposizioni, alla presenza del viceministro per le Pari Opportunità, si terrà un recital delle poesie d’amore con Mariangela Gualtieri. Letture, gesti, parole. E qualcosa di rosso indosso, come il sangue, per non dimenticare. Decisamente più denso di significato del rosa. E più adatto per protestare, secondo le promotrici di un appello che stavolta chiama tutte ad andare oltre la celebrazione. «Fermiamoci per ventiquattro ore. Perché sia chiaro che senza di noi, noi donne, non si va da nessuna parte», recita l’Sos lanciato in rete da Barbara Romagnoli, Adriana Terzo e Tiziana Dal Pra che in poco tempo ha raccolto migliaia di firme. Sciopero delle donne, quindi. Come quello immaginato da Lisistrata nella commedia di Aristofane. Anche se l’idea a qualcuna fa storcere il naso. «Sciopero contro chi? Contro l’uomo a cui riconosco la veste di datore di lavoro?», si domanda scettica Gabriella Moscatelli, presidente del Telefono Rosa, che trascorrerà la mattina al teatro Quirino con il premio Oscar Sharmeen Obaid-Chinoy, autrice del documentario Saving face sull’acidificazione, una pratica mostruosa in voga ormai anche in Italia, e gli studenti delle ultime classi delle superiori che nei prossimi mesi saranno impegnati a produrre uno spot contro la violenza.
Il femminicidio è solo la punta dell’iceberg. Secondo l’ultima indagine Istat disponibile, le donne che hanno subito abusi fisici o sessuali in Italia sono 6 milioni e 743mila.
Una violenza che ha un costo enorme. Anche in termini economici: secondo Intervita 17 miliardi se ne vanno in fumo ogni anno insieme alla vita di centinaia di donne. Mentre contro la violenza nel 2102 sono stati stanziati solo 6 milioni. Il recente decreto cosiddetto «contro il femminicidio» ne aggiunge10 per il 2013, 7 per il prossimo, altri 10 per il 2015. La sproporzione è macroscopica. E oltretutto: «Ci sono veramente questi soldi?», si domanda la presidente del Telefono Rosa, mentre le agenzie battono un emendamento alla legge di Stabilità firmato dai relatori in Commissione Bilancio che prevede 10 milioni l’anno a sostegno del Piano antiviolenza fino al 2016. Ma i soldi non sono l’unico punto. Anche le nuove norme contro maltrattamenti e stalking, dall’arresto in flagranza al gratuito patrocinio alla revocabilità della querela solo in sede processuale, stentano a decollare. «Ci sono ancora molte difficoltà ad attuare quanto previsto in quella legge», spiega Costanza Baldry, avvocata di Differenza Donna. Anche lei convinta che il lavoro sul campo sia più utile di uno sciopero. Domani sarà a Santa Maria Capuavetere con gli studenti delle superiori e universitari a cui si rivolge il concorso artistico lanciato insieme alla cooperativa sociale Eva. «Devono essere le nuove generazioni protagoniste del cambiamento».

L’Unità 24.11.13

“Caro diario, mio marito vuole uccidermi” storia di Monica che si è salvata scrivendo, di Maria Novella De Luca

È un giorno speciale. Si festeggia il compleanno di Sabrina, tre anni. Scrive Monica, il 26 novembre del 2011, sul suo taccuino Moleskine, riempito di grafia minuta e precisa: «Guido entra in cucina con la sua “38”, io sono di spalle, davanti alla macchina del gas, e mi punta la pistola alla nuca, sento il gelo, mi giro, che fai, dico, tanto è scarica, risponde lui. Me la faccio dare e vedo invece che ha tutti proiettili in canna…». Questa è la storia di Monica, del suo orrore quotidiano e di un diario che le salva la vita. Uno dei tanti diari che le donne vittime di stalking e di persecuzioni domestiche conservano per paura di essere uccise, perché i figli sappiano, per avere una prova da portare in tribunale. Quasi mai infatti le violenze in casa, gli stupri, le botte, le sevizie psicologiche hanno testimoni.
Così le donne scrivono. Perché la scrittura è anche conforto, voce intima che diventa parola, grido. Racconta Teresa Manente, avvocato penalista che dirige il pool legale dell’associazione “Differenza Donna”: «Grazie al diario di Monica siamo riusciti a far condannare per maltrattamenti il suo ex compagno. Nei centri antiviolenza consigliamo sempre alle vittime di avere un quaderno, di fermare la memoria: spesso si tende a rimuovere il dolore, a voler dimenticare. Vorrei che i diari di Monica, tre anni di intime testimonianze, servissero alle altre, a quelle che hanno paura. Ricordo sempre una madre: viveva nel terrore di essere uccisa dal marito, e scriveva un diario perché dopo la sua morte la figlia potesse sapere la verità ». Monica ha 40 anni e fa l’impiegata, Guido, coetaneo, è una guardia giurata, in casa ha fucili e pistole. L’amore dura un anno.Poi nasce Sabrina e tutto va in pezzi. Guido, già ossessivo e violento, diventa il carnefice di Monica, fino a che lei trova il coraggio e fugge con la figlia. Senza più guardarsi indietro. I loro nomi non sono veri, quelli autentici sono custoditi in un fascicolo del tribunale di Roma. Queste sono le pagine dei diari di Monica.
6 GENNAIO 2009
Sabrina è nata da poco. Quando piange Guido perde il controllo. Monica scrive: «Guido è entrato in camera da letto e mi ha urlato che sono madre incurante, una trucida, piuttosto che crescere dei figli con te di donne me ne faccio quante me ne pare…».
10 FEBBRAIO 2009
Monica è provata, preoccupata. Minaccia di andare via. «Quando sono tornata dalla spesa con Sabrina, Guido mi ha spinto contro il muro.
Che vuoi fare? Dov’eri? Te ne vuoi andare? Tanto io ammazzo te, tuo padre, tua madre e se mi mettono dentro sti’ ca…, la bimba crescerà con gli assistenti sociali, ma quando esco dal carcere, trova me, mica te…».
30 APRILE 2009
Guido alterna scoppi di rabbia a momenti di dolcezza. In casa ha una pistola e tre fucili. Le chiede perdono,
le dice di amarla. Vuole rapporti sessuali reiterati e continui. Monica è turbata: «Sono andata al Cim, al consultorio, dallo psicologo. Devo capire perché sto ancora con lui, forse in me c’è qualcosa di sbagliato se non riesco ad aiutarlo, ha promesso di andare da qualcuno a farsi vedere ».
20 DICEMBRE 2009
«Guido mi aggredisce per ogni cosa, dice che allontano Sabrina da lui, che sono un cattiva madre, e gli fa schifo che in lavatrice mescoli i miei panni con i suoi. Poi di notte cerca di abbracciarmi, vuole fare l’amore, ma non voglio, ho paura di quest’uomo, non lo capisco più».
15 GIUGNO 2010
Monica è confusa. Cerca di vivere una quotidianità normale, per amore di Sabrina, tenta ancora di
salvare la famiglia. Con quella tenacia cieca di molte donne maltrattate. Ecco il racconto di un giorno di pace. «C’è forte vento ma scendiamo in spiaggia. Sabrina si diverte, corre, gioca, facciamo il bagno insieme, raccogliamo i paguri, guardiamo i pesci… Guido prende due polpi che mangiamo con la pasta, a cena».
18 OTTOBRE 2010.
Nella storia tra Monica e Guido non ci sono più tregue. Ma lei ancora non trova la forza di andare via. Ha paura. «Porto Sabri a scuola, torno, lui non è andato al lavoro, ormai approfitta di ogni momento in cui la bambina non c’è per impormi rapporti sessuali. Mi chiudo in bagno, Guido entra, mi chiede se mi va, dico di no, allora lui mi sbatte contro la vasca, mi stringe la testa sul rubinetto, e mi ricordo, mi teneva così, mi sono passati ottomila pensieri, tra cui questo, stai ferma immobile che così poi non succede ».
27 FEBBRAIO 2011
Monica finalmente si rivolge al centro antiviolenza. Dove capiscono il pericolo, le suggeriscono di andare via subito, e di continuare a tenere i diari. Guido è ossessionato all’idea che Monica, la sua vittima, possa sfuggirgli. Per due volte Monica finisce al pronto soccorso. «Mi dice che se mi azzardo a portargli via Sabrina lui mi eliminerà, lui può distruggere i cervelli, perché lui è padrone di farmi ridere o piangere, io conosco chi nemmeno sai, mi farò giustizia da
solo».
16 APRILE 2011
«Sono esausta — annota Monica — ieri mi ha annunciato che un giorno scivolerò in bagno sbattendo forte la testa, e resterò in un lago di sangue. Scrivo questo diario perché se dovessi morire mia figlia saprà chi mi ha ucciso». Guido ha un fucile, una pistola calibro 9, e due calibro 38.
26 NOVEMBRE 2012
Guido punta una pistola carica alla nuca di Monica. Poi esce sul balcone e spara
in aria.
20 APRILE 2012
Dopo quella minaccia di morte qualcosa nell’anima di Monica si risveglia. Oltre ad annotare ogni sopruso, inizia a registrare le telefonate. Frequenta il centro antiviolenza Diventa vigile, si protegge. Finalmente scappa con Sabrina, si rifugia dai suoi genitori. Consegna i suoi diari e le registrazioni telefoniche. Prove schiaccianti contro Guido. Diari che sono però anche l’atroce romanzo di un amore malato. Adesso Monica ha un nuovo compagno, ed è tornata a sorridere.

La repubblica 24.11.13

“I vecchi dissesti ci mettono tra i cattivi Ue”, di Marco Deaglio

L’Italia ha vissuto una settimana molto difficile, caratterizzata da quattro dissesti intrecciati. Il dissesto geologico in Sardegna le cui cause vanno al di là della geologia e tirano in ballo l’incapacità crescente di governo del territorio non solo in quell’isola ma in tutto il Paese; il dissesto politico che sta facendo «esplodere» i partiti della maggioranza, alterandone profondamente natura e struttura; il dissesto sociale messo in luce dalla manifestazione di Roma e dagli scioperi spontanei di Genova; il dissesto del sistema produttivo che rende difficile una ripartenza della crescita i cui primi segnali si rafforzano meno rapidamente delle attese di qualche mese fa. Per scuoterci di dosso un pessimismo eccessivo, forse dovremmo ricordarci il vecchio detto «mal comune, mezzo gaudio»: in quasi tutti i Paesi ricchi (e in buona parte di quelli emergenti) ritroviamo fenomeni simili a quelli italiani.

Per limitarci all’Europa, possiamo cominciare dalla Spagna. Centinaia di migliaia di persone sono sfilate ieri «in difesa del settore pubblico» (una rivendicazione non troppo distante da quella dei tramvieri di Genova), «in difesa delle persone» e «per cambiare le cose».

L’iniziativa non è certo partita dalle forze politiche tradizionali, bensì dalle associazioni di volontariato, della società civile, dei sindacati, riuniti sotto la sigla di Cumbre Social o «vertice sociale». Più violenta è l’agitazione dei «berretti rossi» francesi, nata anch’essa al di fuori del contesto politico tradizionale, che da qualche settimana blocca la Bretagna: sullo sfondo di dati produttivi e fiscali niente affatto lusinghieri, si estendono blocchi stradali, che ieri hanno interessato anche la Costa Azzurra, e distruzioni di caselli autostradali (in segno di protesta per un’«ecotassa» che di ecologico ha poco più del nome). Intanto, in una Grecia che ha da tempo perso il sorriso, un sondaggio pone il movimento nazionalista Alba Dorata, con caratteri para-fascisti, al primo posto delle intenzioni di voto con il 26 per cento, più della sinistra radicale e dei conservatori, mentre i socialisti crollano al 5 per cento.

Si potrebbe continuare a lungo con l’elenco dei malesseri europei: non è solo in Italia, ma quasi dappertutto che governi, parlamenti e opinione pubblica sono alle prese con leggi finanziarie difficili, confuse e severe, sempre meno tollerate dalla gente, mentre quasi dappertutto le economie che hanno difficoltà a riprendere o proseguire i loro percorsi di crescita. Quasi dappertutto, eccetto in Germania dove sembra regnare una normalità quasi surreale e tutto tace in attesa che venga ultimata la stesura di un minuzioso «contratto di coalizione» tra democristiani e socialisti. Anche se quest’assordante silenzio della politica tedesca, dopo due mesi dalle elezioni politiche di settembre, apparentemente rientra nella prassi di quel Paese, viene il sospetto che vi sia qualche difficoltà a creare un’ennesima «grande coalizione».

Il pericolo è che, mentre il resto d’Europa si agita per questioni che interessano la gente, una Germania priva di disoccupati ma incapace di far ripartire il motore bloccato dell’economia europea stia perdendo l’occasione politica ed economica di guidare la ripresa del continente e stia facendo correre all’Europa rischi molto elevati. E questo mentre anche il motore americano e quello cinese non stanno certo girando al massimo e l’Ocse ha bruscamente abbassato le stime di crescita di quasi tutti i Paesi per il 2014, proietta le responsabilità tedesche su un piano planetario.

Il silenzio tedesco ha lasciato spazio alle istituzioni europee: la Bce ha ridotto il costo del denaro, senza tener conto dell’irritazione che questo avrebbe causato in Germania e la Commissione ha aperto un’indagine sulla stessa Germania, accusata di un eccesso di attivo nei conti con l’estero, ossia di una soffocante aggressività commerciale che toglie spazio e linfa vitale alle altre economie. E perfino il finlandese Olli Rehn, commissario agli Affari Economici e Monetari, severissimo alfiere dell’austerità dei conti pubblici, dopo esser stato non banale giocatore di calcio, ha cominciato a parlare apertamente della necessità di una ripresa.

Ecco il quadro in cui si deve muovere l’Italia con i suoi quattro dissesti (o forse molti di più, a seconda dei parametri che si adottano per contarli). Nel mal comune attuale vi è almeno un elemento moderatamente positivo: non siamo più i soli, o i principali, «cattivi» d’Europa, che potrebbero incrinare, o peggio, la solidità monetaria ed economica del continente. Le schiere dei «cattivi» si stanno ingrossando e, anche se in maniera confusa, l’Italia sta facendo almeno qualche progresso su tagli alla spesa, deficit e debito, in attesa di quella sospirata boccata d’ossigeno che solo una ripresa (meglio se collegata al risveglio di consumi interni, che la paura della crisi contribuisce a tenere bassi, in un disgraziatissimo circolo vizioso) sarà in grado di confermare.
La nuova situazione europea impone peraltro nuovi vincoli all’Italia: non è pensabile una crisi di governo a Roma proprio in un momento di estrema vulnerabilità dell’intero quadro economico e politico europeo. Se si andasse davvero in quella direzione, l’Europa ci porrebbe ai margini come ha già fatto nel 2010-11, mentre invece una buona gestione del semestre italiano (luglio-dicembre 2014) costituirebbe un’occasione di rilancio per l’Italia e per l’Europa.

La Stampa 24.11.13

“Il vecchio con gli stivali”, di Francesco Merlo

Finalmente Berlusconi lo ha detto: non teme la prigione ma «i cessi». E vuole dire che è terrorizzato dalla fine dei miserabili e degli immiseriti. I gabinetti sono infatti l’ossessione dei potenti italiani, degli arricchiti, come benissimo racconta la letteratura industriale, da Volponi a Ottieri sino a Parise (“Il padrone”). Insomma i cummenda sono tali anche perché dispongono di molti gabinetti, nelle case e negli uffici. E però al tempo stesso li temono come destino finale.
Lucio Colletti mi raccontava, stupito e divertito, che Berlusconi aveva in casa più bagni che camere. Ebbene, per lui è quello il servizio sociale. «Pulire i cessi» è in metafora l’espiazione, è l’umiliazione, è la rieducazione. Tanti anni fa quando riceveva in casa l’amico Craxi che, soffrendo di prostata, andava spesso in gabinetto e qualche volta sporcava, era lo stesso Berlusconi che andava poi a pulire «per evitare — raccontò — che i camerieri si accorgessero che Bettino aveva sporcato». Ecco, di quel che un giorno fece vanto adesso Berlusconi fa esorcismo. I servizi sociali, in questo senso, sarebbero peggiori di una galera. È quella la degenerazione terminale alla quale vuole sfuggire: il bagno (penale).
Il sogno del moribondo è la rigenerazione. L’ultimo approdo della sua cosmesi è questo mito della rigenerazione che sempre prevede l’arruolamento dei giovani più ingenui e più ottusi, persino dei bambini nel caso di Salò, ed è tipico dei potenti in decomposizione. Certo Berlusconi e Dell’Utri più che ad Hitler e a Mao, più che a Mussolini e a Ceaucescu, somigliano ai retori imbolsiti che Brancati chiamava “vecchi con gli stivali”, gli ex papaveri che sognavano ancora la prestanza eroica ed erotica degli avanguardisti, e cercavano conforto alla loro desolazione reclutando ragazzi che nominavano generali. Li imbottivano di fanatismo, gli mettevano in mano un mitra e una bandiera e li mandavano a sparare sul quartier generale.
Ma qui non ci sono grandezze piegate dalla Storia, duci con gli occhi spiritati, timonieri ridotti a monumenti, Führer che accarezzano imberbi nibelunghi, ma c’è invece, alla testa dei falchetti, un pregiudicato gonfio di botulino e avvelenato di tinture, e c’è un altro pregiudicato, Dell’Utri, nel ruolo del padrino “posato”, come si dice nella mafia, il papa absconditus del diritto ecclesiastico, ormai inutile e ingombrante anche nella Sicilia delle coppole.
Sono di nuovo insieme, e importa poco quel che Berlusconi ha detto ieri, nel suo ultimo discorso da senatore, non vale la pena smontare le solite enormità con le quali ha cercato di sedurre, riscaldare e caricare questi suoi nuovi ragazzini, quel che conta è il tono bellico, la messinscena, la dichiarazione di guerra all’Italia, all’Europa, al Mondo. Ormai infatti Berlusconi, che pure è ancora potente e ricchissimo con tutte le sue tv e i suoi giornali, vede solo nemici: dai magistrati ai quotidiani, dalla polizia giudiziaria al Parlamento, dal capo dello Stato alla Corte costituzionale, dalla Merkel sino ad Obama, e dunque la nuova Forza Italia è contro la moneta unica, contro la Germania, contro le tasse, contro i comunisti…
E torna la beatificazione di Mangano: «Aveva ragione Dell’Utri, è un eroe» ha detto ieri. Dell’Utri gli stava accanto come ai tempi in cui Berlusconi smise di esibire la pistola sul tavolo per spaventare i sequestratori: gliela sostituì proprio Dell’Utri con la protezione di quello stalliere mafioso e maestro di vita che divenne il precettore di Piersilvio. A quel Mangano, con il quale trattava per telefono partite di misteriosi “cavalli”, Dell’Utri disse: «Berlusconi non suda» e voleva dire che non sgancia, non paga sotto minaccia. In realtà, a Dell’Utri, l’amico Silvio ha dato un fiume di danaro. L’ex impiegato di banca palermitano gli ha portato in cambio «la Sicilia come metodo» direbbe Sciascia, la sostanza di un antico “saperci fare” per compensare le inadeguatezze del brianzolo, una scienza di vita dunque, un rapporto con uomini che «ad uno come te possono togliere le scarpe ai piedi; e tu cammini scalzo senza accorgertene». A Dell’Utri Berlusconi deve anche la costruzione prima di Pubblitalia e poi di Forza Italia «su modello maoista in versione palermitana».
D’altra parte, mafiosamente parlando, Mangano è davvero un eroe, il solo che non lo ho mai tradito, un vero uomo d’onore che si è tenuto tutto nella
panza, l’unico che lo ha protetto veramente ed è morto di cancro in galera, condannato per mafia e per omicidio. E probabilmente è vero che se avesse parlato sarebbe stato premiato con la liberazione. Non lo ha fatto. Quale altro esemplare eroismo ha da indicare ai giovani Silvio Berlusconi?
Ieri ha anche detto che la sua condanna e la conseguente decadenza da senatore è un golpe. Berlusconi infatti prepara la piazza mentre Alfano continua a servirlo al governo. La scissione come raddoppio, la divisione che nasconde una moltiplicazione è la versione berlusconiana dei due forni di Andreotti, del partito comunista di lotta e di governo, insomma dell’antica doppiezza italiana. La doppia identità è l’estrema furbata, stare al governo e stare all’opposizione è il disperato tentativo di sopravvivere, per truffare il destino di cui parlava Goffredo Parise. «Non andrò a pulire i cessi», ha detto. Non vuole fare la fine del vecchio con gli stivali di Brancati: «Una sola qualità lo vestiva dalla testa ai piedi, di fuori e dentro, ne involgeva ogni atto e parola: insignificante».
La Repubblica 24.11.13

“Il governo difficile”, di Claudio Sardo

Il governo Letta è un campo di battaglia politica. Per di più sull’orlo di un precipizio. La sua missione è scavare le fondamenta di quel cambiamento necessario per dare un futuro al Paese. Non gli è possibile realizzare fin d’ora una vera svolta: i vincoli di austerità dell’Europa, l’assenza di una maggioranza politica, la paralisi del sistema istituzionale lo impediscono. Ma questi stessi fattori di crisi rendono molto pericoloso il ritorno immediato alle urne. Senza riforme in Italia e in Europa nuove elezioni rischiano di dare ancora un esito nullo.

Di non produrre, anzi neppure di consentire un vero cambiamento. Sarebbe drammatico per la tenuta sociale del Paese. Non a caso alle elezioni puntano da un lato chi scommette sullo sfascio, dall’altro chi è ormai rassegnato al dominio di poteri esterni al circuito democratico e cerca di cambiare solo il volto di qualche leader (pensando di trarne vantaggi personali o corporativi).

La sterzata che si chiede al governo consiste dunque nell’indicare in modo esplicito, e con atti concreti, la marcia di avvicinamento a una nuova frontiera. Il passaggio all’opposizione del partito berlusconiano (che dovrebbe essere sancito con il voto sulla legge di Stabilità, o subito dopo con la decadenza del Cavaliere da senatore) offre una possibilità ma, bisogna dirlo, costituisce anche un problema. Al di là della maggiore fragilità dei numeri parlamentari, il problema è nella società. In questa società impaurita, impoverita, lacerata si sta coagulando una forza trasversale, che potrebbe trovare i suoi propellenti nell’avversione all’euro e nella sfiducia verso i poteri costituzionali. Ci rendiamo conto che alle prossime elezioni europee avremo per la prima volta una campagna apertamente ostile all’Europa, sostenuta da Grillo, dalla Lega e da Forza Italia? Ci rendiamo conto che questo può cambiare in profondità le aspettative del Paese, anche perché fuori dai nostri confini altri movimenti anti-europei, populisti, xenofobi stanno conquistando spazi fino a ieri impensabili? E ci rendiamo conto che la campagna contro l’Europa poggia su difficoltà reali, su politiche sbagliate, su quella dottrina dell’austerità che i progressisti denunciano da tempo come la causa della crisi (insieme ormai all’intera comunità degli economisti), ma che ancora non viene corretta?

Sappiamo che la fine dell’euro sarebbe un trauma dalle conseguenze sociali devastanti. Ma le politiche di bilancio continuano a essere condizionate da vincoli eccessivi, le politiche industriali e commerciali da disparità intollerabili, le politiche del credito da timori di collasso finanziario che inibiscono il sostegno allo sviluppo. La prima frontiera del governo Letta è il cambiamento delle politiche europee. Se Bruxelles non cambia rotta, soffocherà anche l’europeismo dell’Italia. Cambiare politica vale molto di più che cambiare il volto di un leader. La sinistra ha molto da dire. A meno che non abbia rinunciato a essere sinistra, e si sia acconciata a correttrice di bozze del pensiero unico. La legge di Stabilità, in fondo, è solo un piccolo passo. Forse troppo piccolo. Mentre pesa, eccome, la palla al piede dell’Imu azzerata anche ai più ricchi: un lascito demenziale di Berlusconi cui non si è reagito con la dovuta fermezza. Ma ora guai a perdere i titoli per ottenere la «clausola di flessibilità» (gli investimenti extra-deficit), e soprattutto per giocare al meglio la partita della presidenza italiana dell’Ue nel secondo semestre del 2014.
Poi c’è un secondo punto di crisi, e dunque di attacco. Riguarda le istituzioni. O meglio, le riforme indispensabili per evitare la resa della democrazia. La nostra è una crisi costituzionale: è inutile negarlo. Una crisi «di regime», scriveva ieri Alfredo Reichlin. Facendo leva sulle linee di frattura, provocate dal fallimento della seconda Repubblica, le forze populiste attaccano frontalmente il Capo dello Stato al fine di colpire il governo, destabilizzare la legislatura, impedire ogni riforma prima delle elezioni. Sia chiaro, le scelte di un presidente della Repubblica sono tutte discutibili. E nessuno è esente da errori. Ma è clamoroso lo stravolgimento della realtà. Non stiamo slittando verso un presidenzialismo «di fatto» perché i poteri di indirizzo del Capo dello Stato sono dilatati a causa dell’insussistenza di una maggioranza politica. A spingerci verso il presidenzialismo «di fatto» è stata semmai l’ideologia della seconda Repubblica, che ha tentato di trasformare l’elezione del Parlamento nell’elezione del capo del governo, ingannando i cittadini e alla fine sottraendolo loro (con il Porcellum) persino il potere di scegliere i deputati. Il patronage di Napolitano sul governo Letta resta invece espressione del sistema parlamentare voluto dai costituenti. La «fisarmonica» dei poteri del Quirinale ha forse raggiunto la sua massima apertura, ma la legittimazione del governo, la sua azione e la sua responsabilità sono tutte dentro i confini della Costituzione (come dimostrano i precedenti di Einaudi, Gronchi, Pertini, Scalfaro, che ebbero a promuovere altri governi privi di maggioranza certa). E questa è oggi la linea di resistenza del sistema parlamentare contro chi invece il presidenzialismo (esplicito o surrogato) lo vuole davvero.

Anche in questo caso, lo strappo di Forza Italia incrementerà la massa critica dell’opposizione di sistema. Non farà fatica Berlusconi ad accodarsi a Grillo negli attacchi al presidente della Repubblica. L’obiettivo immediato è il governo, ma l’orizzonte è la rottura degli equilibri costituzionali. Per questo le riforme in questa legislatura (superamento del bicameralismo perfetto e sfiducia costruttiva) sono probabilmente l’ultima chance per difendere i capisaldi della Costituzione dalla deriva presidenzialista. Un fallimento delle riforme aprirebbe invece pericolosi scenari di semplificazione istituzionale: la paralisi sollecita soluzioni autoritarie che travolgono i limiti e i contrappesi.

Queste le aperte battaglie del (nel) governo Letta. La nuova classe dirigente del Pd dovrà mettere in gioco se stessa già in questa legislatura, mostrando quale sia la sua idea di nazione e di sinistra. Non è scritto da nessuna parte che il governo Letta debba continuare per forza fino alla fine del 2014. Ma sarebbe molto grave se qualcuno nel Pd, per calcolo di parte, si vestisse da apprendista stregone, cercando alleati in chi vuol mandare gambe all’aria l’Europa e il sistema parlamentare.

L’Unità 23.11.13

“Il territorio dimenticato”, di Vittorio Emiliani

Dalla Sardegna ferita mortalmente viene una conferma tragica: il rigetto di ogni pianificazione territoriale e paesaggistica. Al di là della pietà umana, non si può dimenticare «la mano dell’uomo» in tanto disastro, come ha detto un prelato ai primi funerali. La mano dell’uomo che ha continuato a saccheggiare il territorio, che ha continuato a costruire nell’alveo dei corsi d’acqua o su torrenti stupidamente tombati (come a Genova), e che è stata assente nella pulitura degli alvei e delle rive. Con una città come Olbia quasi tutta illegale.

Il caso della Sardegna non è peraltro isolato. Al Nord l’alluvione del basso Piemonte del ’94 fu pesantemente aggravata dalla presenza di edifici di ogni genere vicino agli affluenti del Po o nelle stesse golene destinate a fare da sfogo. Al Sud, in Calabria, si sono costruite case sulle «fiumare» col pretesto che sono senz’acqua per anni e anni, salvo scatenar- si e spazzare via ogni cosa alla prima pioggia torrenziale. È persino stucchevole ripetere le cifre delle nostre catastrofi, per lo più non «naturali» bensì aggravate o provocate dall’uomo. Ne cito alcune prodotte non da un ambientalista bensì da un alto funzionario della Banca d’Italia, Ivan Faiella, ai Lincei nel marzo scorso: alluvioni e frane hanno provocato nell’ultimo sessantennio circa 5.500 vittime e danni misurabili in 2,7 miliardi annui (in euro 2009) che però raddoppiano se si includono quelli indiretti a famiglie e imprese. In un decennio appena, fanno oltre 50 miliardi di euro, più di quanto serve a mettere in sicurezza tutto il territorio nazionale. Un autentico suicidio collettivo. Per giunta stupidissimo.

Una delle cause della tragedia sarda è l’impermeabilizzazione dei terreni a base di cemento e asfalto: oltre il 7 per cento dell’Italia sta sotto questa coltre che però nelle aree metropolitane copre la metà dei terreni. Malgrado ciò si continua a costruire, cementificare, asfaltare. Il governatore del centrosinistra Renato Soru aveva chiamato in Sardegna i migliori urbanisti, guidati da Edoardo Salzano, prima per un piano salva-coste (subito impugnato da Berlusconi che ha in progetto una sua Costa Turchese), poi per piani paesaggistici in tutta l’isola. Si sarebbe potuto costruire solo a 2000 metri dalla battigia. Oggi il governatore del centrodestra Ugo Cappellacci si vanta di aver ridotto quella fascia di rispetto a 300 metri e di aver smantellato piano salva-coste e piani paesaggistici che i sindaci trovavano ovviamente «troppo restrittivi» (erano soltanto rigorosi). Ed ha potuto farlo in barba a tutti per poter prevedere, dice, 3 milioni di mc di alberghi, club house, case attorno a 25 nuovi campi di golf (destinati ad inquinare non poco).

Del resto, come dargli torto se un emendamento governativo al decreto del Fare agevola la costruzione di nuovi stadi di calcio in tutta Italia unitamente a «insediamenti edilizi o interventi urbanistici di qualunque ambito o destinazione (sic!), anche non contigui agli impianti sportivi?» In parole povere ciò significa che se, a Roma, un nuovo stadio sorgerà sulla Via del Mare, «insediamenti edilizi non contigui» si potranno realizzare in tutt’altra zona, su Cassia o Flaminia. Una sorta di impazzimento urbanistico, di grimaldello ad uso degli speculatori, col quale far saltare ogni pianificazione. Un altro caso evidente di rigetto di ogni piano. A conferma che anche nelle «larghe intese» l’inquinamento berlusconiano dell’ «ognuno è padrone a casa sua» è ben presente. Dopo di che ci si conduole per le povere vittime e per i danni incalcolabili alle attività economiche. Restando a Roma, varrà la pena di ricordare che la prima area indicata dal presidente della Lazio Claudio Lotito per il suo stadio, vicino a Formello, ricade nella zona alluvionale del Tevere e prevedeva un bel po’ di cemento aggiuntivo. Lo stadio della Roma dovrebbe sorgere nell’ex Ippodromo di Tor di Valle che, realizzato in un’ansa del Tevere, si allagò alla riunione inaugurale del 26 dicembre 1959…

Di fronte a tutto ciò, come non pensare che il Belpaese sia avviato ad un suicidio, lento quanto inarrestabile? Le Regioni esistono dal 1970, ma non si è riusciti a varare una legge-quadro per l’urbanistica che le spingesse a pianificare con rigore, a risparmiare suolo, a non intaccare il patrimonio agro-forestale, ecc. Né esse vi hanno posto mano (ora lo fa la Toscana). Il ddl governativo in discussione prima della caduta di Berlusconi, elaborato da Maurizio Lupi (ora Ncd) rimasto alle Infrastrutture, era dei più pericolosi. Probabile che l’emenda- mento sugli incentivi pure agli «edifici non contigui» ai nuovi stadi di calcio sia figlio suo. Partorito mentre la tragedia della Sardegna è ancora in corso, fra grandi disperazioni. Possibile che essa non abbia insegnato nulla?

L’Unità 23.11.13

“Aule sicure? Non caricare i docenti di responsabilità”, di Marco Accossato

La responsabilità della sicurezza nelle scuole dev’essere divisa in modo equilibrato. I docenti, che non sempre hanno competenze specifiche, non possono essere caricati di responsabilità: devono essere affidate a vari livelli, enti locali compresi». Nel giorno del corteo studentesco a Rivoli per ricordare i 5 anni dal crollo di un soffitto al liceo Darwin sotto il quale perse la vita Vito Scafidi, il sottosegretario all’Istruzione, Marco Rossi Doria, parla di un «momento di incontro importantissimo».

In che senso? «Nel senso che alla manifestazione erano presenti tutti, dal governo a Libera, dai sindaci ai parlamentari piemontesi, dagli insegnanti agli studenti del liceo, fino ai familiari di Vito e dell’altro ragazzo rimasto ferito. Tutti mossi nella stessa direzione».

Una partecipazione all’unisono che segue però tante polemiche per una sentenza ritenuta ingiusta. Come giudica la sentenza Darwin? «Le sentenze non si commentano. Posso dire che sulla sicurezza stiamo riflettendo: chi ha maggiori responsabilità e competenze dovrebbe rispondere a un maggior numero di compiti. Questo è un Paese in cui c’è molto da riparare, anche negli stati d’animo. Il ministro Carrozza ha presentato decreti in materia di sicurezza che hanno ricevuto il plauso di tutti».

Il punto è che i fondi per l’edilizia scarseggiano e molte scuole non sono in regola. Che cosa può garantire il governo, sul fronte economico? «Il Decreto del Fare ha destinato 150milioni già cantierizzati. Sempre nello stesso decreto ne sono previsti altri 300, tramite Inail, per il triennio 2014-2016. L’altro decreto, Scuola, dà la possibilità alle Regioni di accedere a mutui trentennali a tassi agevolati, con gli oneri di ammortamento a carico dello Stato. Infine abbiamo messo a bando 10 milioni di euro per i piccoli interventi, quelli di messa a norma per ottenere i certificati di agibilità: le richieste sono state subitomoltissime. Soldi veri, cioè immediatamente disponibili».

Qual è la situazione delle nostre scuole? Esistono edifici vecchissimi, altri riadattati… «La situazione è a macchia di leopardo, e il Piemonte non è tra le peggiori. Il 44 per cento degli edifici scolastici è stato costruito nel ventennio 1961-1980, il 25 per cento dopo il 1980. Nel 14 per cento dei casi si tratta di strutture non nate per diventare scuole, ma riadattate».

E sul fronte della sicurezza? O meglio: del rischio. Quali sono i numeri? «Circa il 90 per cento degli istituti scolastici ha dichiarato il possesso del documento di valutazione dei rischi, ma solo il 17 per cento è in possesso del certificato di prevenzione incendi. Il 66 per cento delle scuole ha un impianto idrico antincendio, solo il 49 per cento una scala esterna di sicurezza. L’impianto elettrico è conforme in sei scuole su dieci».

Ha incontrato la madre di Vito Scafidi, durante la marcia? «Le ho parlato al termine , ma non è stata la prima volta che ci siamo incontrati. Ci chiede di vigilare, perché le scuole siano sicure».

La Stampa 23.11.13