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“Difendere il paesaggio da nuove catastrofi”, di Eugenio Scalfari

Nei giorni della catastrofe che si è abbattuta sulla Sardegna con l’uragano in cielo mare e terra che ha devastato Olbia e il territorio circostante e le terre del Nuorese, un gruppo di intellettuali sardi rappresentati da Marcello Fois si è fatto sentire con parole commosse e vibranti. L’articolo di Fois su 24 Ore è intitolato “Non ci perdoneranno”. Ne cito un passo particolarmente significativo.
«Quei morti non ci perdoneranno mai perché noi dovevamo sapere e lo dovevamo dire. Dovevamo sapere che lasciar costruire centrali nucleari in riva al mare poteva essere un modo per rendere micidiale per secoli un evento micidiale ma passeggero come uno “tsunami”».
Dovevamo sapere — prosegue Fois — che cementare gli stagni per fare parcheggi o costruire villette a schiera sui letti secchi dei fiumi significa sfidare gli eventi eccezionali perché diventino carneficine. Ma le centrali nucleari in riva al mare sono state fatte, gli stagni prosciugati, i letti dei fiumi edificati. E oggi, al capezzale della civiltà dei sardi, a noi intellettuali ci chiedono parole di sostegno. Ma un appello al mondo quando la tragedia si è consumata è tempo perduto. La parola sostegno dovrebbe corrispondere a urlare No tutte le volte che si avallano decisioni e situazioni insostenibili. La Sardegna è stata abbandonata a se stessa e noi sardi abbiamo consentito che ciò avvenisse, anzi ci siamo adeguati al tozzo di pane che ci arrivava dal “placebo” del cemento selvaggio che produce lavoro solo per il tempo necessario a liquidare una tornata elettorale. Il corso terribile della Natura diventa devastante quando si accompagna all’ignoranza diffusa, alla disonestà degli amministratori, alla pessima memoria di chi si illude di poter modificare la propria precarietà con progetti di piccolo cabotaggio. Continueremo a maledire la nostra “malasorte”?».
La citazione è lunga ma meritava d’esser fatta. Con un’aggiunta però: fanno bene gli intellettuali sardi a denunciare una situazione diventata per loro insanabile, ma essa non riguarda soltanto la Sardegna. Riguarda
tutte le terre italiane, soprattutto quelle del Sud ma non soltanto. E non è recente, è antica. Sonnino e Franchetti la denunciarono nella loro inchiesta sulla Sicilia fin dalla fine dell’Ottocento; Giustino Fortunato coniò nel 1904 l’immagine dell’Appennino in Calabria e nel Cilento come uno “sfasciume pendulo sul mare”; Carlo Levi raccontò negli anni Quaranta come e perché Cristo si era fermato a Eboli e analoghi racconti fecero Guido Dorso, Gaetano Salvemini, Giuseppe Di Vittorio e Danilo Dolci in nome dei contadini salariati, consapevoli degli interessi di classe ma anche della terra sulla quale quel lavoro veniva sfruttato per depredarla e impoverirla con colture di rapina.
Questa situazione non si è modificata, anzi è peggiorata dovunque, il cemento selvaggio ha invaso tutta la costiera italiana, dovunque i fiumi sono stati edificati, l’abusivismo è diventato un fenomeno non più gestibile, la trasformazione dei torrenti in suoli edificabili e edificati d’estate e in fiumi di fango in inverno e primavera. Centinaia di milioni andati in fumo, migliaia di vittime cadute sul campo di queste devastazioni.
Bisogna riprendere con paziente tenacia le educazioni di quelle che un tempo si chiamavano “le plebi” e che tali stanno ridiventando a causa d’un analfabetismo di tipo nuovo, che non riguarda più l’ortografia e la grammatica, ma la conoscenza e la cultura.
La Sardegna è una delle terre più colpite ed ha bisogno di risvegliarsi con la massima urgenza. Segnalo a questo proposito un’iniziativa che può essere molto opportuna; è stata presa dal Fai (Fondo ambiente italiano), dal suo attuale presidente Andrea Carandini e dalla presidente onoraria Giulia Maria Crespi. Un convegno nazionale scandito da quattro parole: terra, paesaggio, occupazione, futuro; valori intimamente legati tra loro che possono rilanciare l’economia, l’artigianato, il turismo, l’en ergia proveniente da fonti non convenzionali.
Ci vuole un ripensamento dei centri storici nei paesi e nelle città, la ristrutturazione dei beni residenziali esistenti, l’avvio del nuovo eco-sviluppo che si estenda all’Italia intera e comprenda anche la politica delle banche sul territorio e l’impiego differenziato delle tariffe energetiche che incentivino le potenzialità della terra, del paesaggio e dell’occupazione sulle quali il convegno è come abbiamo detto impegnato.
La catastrofe sarda ha dato, con la devastazione e le vittime che ha prodotto, l’ultimo allarme. Non lasciamolo cadere invano.

La Repubblica 22.11.13

“Vent’anni di nausea”, di Valeria Viganò

E arrivarono le motivazioni della sentenza Ruby. Ne avevamo bisogno per fare chiarezza su una vicenda sordida, sporca di sesso e potere? No, tutto era molto limpido già dalla notte della telefonata di Berlusconi. Quella fatta per liberare e affidare la «nipote di Mubarak» alla cura educativa della igienista personale del Cavaliere. Ci sono voluti tre interminabili gradi di giudizio. Leggere nuovamente del vecchio satrapo e delle sue ancelle non cancella il disgusto di fronte a una marcescenza della carne e al vizio corrotto nella mente retriva di un settantenne che si crede immortale e vuole merce fresca. Ma non sorprende più, conosciamo ormai tutto, anzi stanca, annoia, è come una barzelletta ripetuta allo sfinimento, che a metà, siccome la si sa a menadito, ti fa alzare gli occhi al cielo e sbuffare.
Vedere la foto dell’ex premier e della ragazza allora minorenne tra le prime notizie relative a questo Paese, provoca la nausea. Sentire il coro greco che accompagna una sentenza più che corretta, e usa parole totalmente incongrue rispetto alla verità di fatti comprovati può soltanto produrre un’esclamazione: basta. Il termine avvocatizio «surreale» a commento delle motivazioni della sentenza, e «femminicidio giudiziario», usato da una signora vivace che urla sempre (per i bambini che guardano la tv, questo è) sono vocaboli ribaltati nel loro senso.
Surreale è ciò che è accaduto per vent’anni in Italia, cioè oltre la realtà, durante la mediatica presa di potere di un uomo talmente ricco da comprarsi chiunque e farsi imitare da molto bravi compaesani già inclini al furto e alla corruzione per atavica abitudine, e legittimati a farlo se lo faceva lui, uno dei più ricchi e famosi al mondo. L’altra definizione fuori luogo è ovviamente quella di «femminicidio» (specificando «giudiziario», per evitare un assalto all’arma bianca di tutte le donne maltrattate e uccise, nei confronti della suddetta signora). Il paradosso è gigantesco.

Il «modello B», che consiste nell’accaparrarsi ragazzine, pagandole profumatamente per il proprio piacere quando si vuole e quanto si vuole, ha fatto proseliti. Il sesso minorenne è merce di scambio, merce ambitissima visto il successo e la diffusione capillare in licei e case d’appuntamento.
Gli uomini ci vanno pazzi, le adolescenti ci marciano. Il «modello B.» si è instillato nei cervelli, opportunamente lavati e riprogrammati da infinite ore di trasmissioni televisive costituite da tette, gambe, culi sbandierati ai quattro venti e senza costrutto, è diventato un carro di promesse di fama e soldi facili per molte ragazze, un carro di un carnevale sempre in parata, una finzione da baraccone greve e molesto. Colpevolissimo, di una colpa perniciosa. Possiamo voltare pagina? Non avere più a che fare con il corteo macabro che sfila con la medesima cantilena, il medesimo copione, le stesse battute avvizzite?

Non se ne può più della messinscena, il volto rifatto e lucidato, i denti finti di un finto sorriso, e l’innocenza da perseguitato proclamata, il tono fascista delle minacce. In Emilia si direbbe hai rotto i maroni.

Il tempo è cambiato, l’Italia ha bisogno di rinascere economicamente e moralmente, di avere politici competenti e onesti, che non vanno a puttane e non rubano, che governino un Paese e non se stessi.

Il passato dei loschi figuri venga superato, siamo stufi di vedercelo propinare ancora come presente.

L’Unità 22.11.13

“Undici bocciature in un giorno. L’Italia campione di indisciplina”, di Marco Zatterin

Ne abbiamo mancate 11, questa volta, noi della Repubblica Italiana. Per esempio, non trattiamo i precari della scuola pubblica come gli assunti a tempo pieno, ma siamo anche in ritardo nell’adeguarci alle norme contro la tratta degli esseri umani. I nostri medicinali sono privi della tutela dal rischio falsificazione e i passeggeri che viaggiano in treno non possono contare su un’autorità che tuteli i loro diritti, cosa che – invece – l’Italia ha promesso a Bruxelles. Per questo la Commissione ci richiama, ci minaccia e – in un caso – ci manda alla Corte di Giustizia. È successo 11 volte, ieri, in un giorno solo. Roba da primato anche nella storia infinita di un Paese da sempre maglia nera nel recepire il diritto Ue.

I numeri sono contro di noi. L’ultimo rapporto sull’applicazione del diritto comunitarie pone l’Italia in testa alla classifica delle infrazioni, erano 99 alla fine del 2012, comprese 17 procedure da ritardato recepimento. Per fare il confronto, la Francia ha 63 contenziosi aperti, la Germania 61, l’Olanda 41. La differenza è palese, come pure si evince dalle denunce dei cittadini, altra graduatoria su cui il sistema italico svetta: ne abbiamo incassate 438; la Spagna, seconda, è quota 309.

Sono statistiche pessime, eppure stiamo facendo meglio di un tempo. In febbraio il quadro di valutazione del mercato interno segnalava come «degna di particolare nota» la prestazione dell’Italia, capace di ridurre il deficit di recepimento delle normative europee dal 2,4 allo 0,8% in sei mesi. Un passo avanti che impone ulteriori sforzi. «È una priorità accelerare, perché non è sopportabile avere record negativi di infrazioni », ha ribadito a più riprese il premier Enrico Letta. L’impegno è di arrivare al semestre di presidenza italiano di Ue, nel giugno prossimo, con un recupero, netto e consolante.

Sinora ha avuto la meglio la lentezza delle Camere e una qualche disattenzione ad ogni livello per le questioni comunitarie. Il meccanismo della legge omnibus comunitaria ha dimostrato parecchie carenze e solo di recente si è cominciato ad accelerare. Ciò non toglie che il mostro mostri la sua faccia peggiore ogni mese, quando la Commissione apre il dossier infrazioni. Ora ci ritroviamo gli undici «pareri motivati», seconda fase della procedura europea, che guarda caso non vengono da soli. Ieri ne sono state aperte altre sei, con lettere di messa in mora, in teoria confidenziali. Fra queste, secondo quanto risulta a La Stampa, ce n’è anche una per l’inadeguata gestione delle scorie radioattive sul territorio nazionale. Il fantasma di Caorso, per intenderci.

Il resto è una bestiario normativo. Rischia di costarci salato il rinvio alla Corte di giustizia Ue per la mancata esecuzione di una precedente sentenza con cui la Corte confermava che certi sgravi degli oneri sociali concessi alle imprese dei territori di Venezia e Chioggia costituivano un aiuto di Stato illegale e, pertanto, dovevano essere recuperati presso i beneficiari.

È una questione che risale agli Anni Novanta, soldi sociali erogati a chi non ne aveva diritto. Bruxelles propone una mora giornaliera di 24.578 euro per ogni giorno trascorso dalla sentenza della Corte e la piena conformit à da parte dello Stato o la seconda sentenza della Corte. Nonché il pagamento d’una penalità decrescente di 187.264 euro per ogni giorno trascorso dalla sentenza fino all’attuazione.

C’è poi che entro gennaio dovevamo recepire le norme per proteggere i farmaci. Che entro marzo erano da attuare quelle in materia di stoccaggio del mercurio metallico considerato rifiuto. Che abbiamo due mesi per rendere uguale part-time e assunti a tempo indeterminato nella Pubblica istruzione. Che è aperta anche la norma sulla prevenzione delle ferite da taglio o da punta nel settore ospedaliero e sanitario.

E via dicendo, così non è forse un caso se stamane il Consiglio dei ministri deve esaminare otto norme di attuazione comunitaria. La tratta degli umani è compresa. Sarebbe una di meno. Un passo avanti, importante non solo in nome dell’Europa.

La stampa 22.11.13

“La riforma che serve”, di Benedetto Vertecchi

Quanto il marchese Casati propose al Parlamento piemontese la sua riforma della scuola, alla vigilia dell’Unità nazionale, cercò di prevedere tutti gli aspetti, anche quelli più minuti, del suo funzionamento. Il quadro normativo che il nuovo Stato italiano ereditò nel 1861 era dunque costituito da una legge monumentale (oltre 450 articoli), che, in effetti, dava forma al sistema scolastico. Nessuno dubitava del fatto che le norme contenute nella legge fossero adempiute, per la semplice ragione che il piccolo sistema che Gabrio Casati aveva in mente era caratterizzato dalla stabilità di riferimenti. La legge supponeva che l’educazione dei figli non fosse sostanzialmente diversa da quella dei padri. Di conseguenza, l’intento degli ordinamenti era quello di assicurare, con la continuità fra le generazioni, l’omogeneità delle proposte culturali.

L’impostazione e i criteri seguiti dal marchese Casati nell’elaborazione della riforma non erano sostanzialmente diversi da quelli che si andavano affermando altrove, e in particolare in Francia: si trattava di una scuola di impianto centralistico, volta ad ottenere profili culturali omogenei, caratterizzata da una elevata condivisione del ruolo che l’educazione avrebbe dovuto svolgere nella rigenerazione della società. In questo senso, anche se si trattava di una legge piemontese, la riforma di Casati anticipava un progetto di educazione che sarebbe stato poi ripreso dallo Stato nazionale. In breve, Casati aveva bene interpretato il senso che poteva aveva una legge generale sull’istruzione verso la metà dell’Ottocento. Ed era anche corretto il presupposto dell’attuabilità delle norme, assicurato proprio dalle dimensioni limitate del sistema scolastico. Le complicazioni hanno incominciato a manifestarsi quando l’accesso alla scuola di nuovi strati di popolazione che in precedenza ne erano esclusi pose in evidenza i limiti del disegno ottocentesco dell’ordinamento di Casati. Finché ai nuovi arrivati ci si limitava a fornire due o tre anni di istruzione di base i presupposti selettivi del sistema non erano posti in discussione. Al contrario, si poteva porre l’enfasi sul progresso della società italiana e sui vantaggi che i diversi settori della vita sociale (in particolare l’industria e i servizi) potevano trarre dalla modernizzazione conseguente al diffondersi dell’alfabetismo. In effetti, nei primi cinquant’anni di vita nazionale si ebbe una grande crescita della parte alfabetizzata della popolazione (si stima che bastasse una sola cifra per indicare la percentuale di quanti erano in grado di leggere e scrivere nel 1861). Ma alla crescita della popolazione alfabetizzata corrispondeva un cambiamento nella domanda sociale di istruzione. Da un lato, infatti, continuava a crescere la domanda di istruzione di base (assicurata dalla scuola elementare), dall’altro si manifestava una crescente esigenze di studi secondari.

E fu proprio questa esigenza a porre le premesse per una conflittualità sull’istruzione determinata dagli opposti interessi degli strati sociali che già fruivano di istruzione secondaria e di quelli che aspiravano a fruirne. A questo disagio della scuola cercò di porre rimedio il ministro Gentile. Ma cercò di farlo con una crescita esponenziale della base normativa. Se si considera l’insieme delle norme che definiscono la riforma di Giovanni Gentile le centinaia di articoli della legge Casati sembrano un esempio di sobrietà normativa. In altre parole, Gentile si propose di intervenire su una riforma ottocentesca con un’altra riforma ottocentesca, senza voler considerare che i tempi erano cambiati e che le precedenti logiche malthusiane non avrebbero potuto reggere la pressione esercitata da una crescita della domanda sociale d’istruzione sempre più sollecitata dai cambiamenti in atto nelle diverse realtà sociali ed economiche. Questi limiti della riforma di Giovanni Gentile emersero fin dai primi anni della sua attuazione. Il presupposto delle poche scuole ma buone si rivelò impraticabile, e così quello della doppia canalizzazione, inferiore e superiore, degli studi secondari. A meno di una decina d’anni dal 1923, l’anno in cui la riforma prese avvio, il principio della doppia canalizzazione subì un duro colpo con la nascita del liceo scientifico, al quale non corrispondeva un segmento inferiore. Fu il ministro Giuseppe Bottai, nel 1939, poco prima dell’inizio della Seconda Guerra Mondiale, ad avviare, con la Carta della Scuola, il sistema italiano d’istruzione sulla via di una trasformazione più adeguata alla cultura del Novecento. L’impianto scolastico della riforma Gentile ne fu sconvolto, anche se nominalmente quella che era stata salutata come la riforma fascistissima restò in vigore.

Quel che è certo è che dopo la guerra, per l’affetto combinato degli interventi di Bottai e di quelli di Carleton Washburne, Commissario alleato per l’Istruzione, l’ordinamento scolastico italiano appariva ben diverso da quello disegnato da Gentile. Ma restava la sua cultura ottocentesca, la presunzione che per via legislativa si potesse intervenire sull’azione quotidiana delle scuole, la resistenza a considerare i cambiamenti socioculturali non come accidenti da contrastare ma come aspetti strutturali dell’educazione, l’insensibilità all’esigenza di sostenere le decisioni, a livello di governo come a quello didattico, con riferimenti conoscitivi derivanti dalla ricerca. Il reale successo di Gentile non è stato la sua riforma, ma aver posto le premesse perché il dibattito educativo si impastoiasse in un confronto verboso capace di consumare le ipotesi di cambiamento senza che si potesse giungere ad una loro verifica sensata. Non è un caso che la sola modifica di ordinamento che nella seconda metà del Novecento ha segnato in profondità lo sviluppo del sistema scolastico italiano sia consistita in una semplificazione: mi riferisco, come è evidente, alla riforma della scuola media del 1962. Da allora non è mancata qualche buona legge (come la 517 del 1977 o la riorganizzazione della scuola elementare (1990), ma si è costatata una divaricazione sempre maggiore tra gli intenti perseguiti dalla normativa e la capacità di attuarli. Quella che oggi non si può non constatare è l’inconsistenza degli impianti interpretativi sui quali si fondano gli interventi sul sistema scolastico. Si indicano alle scuole funzioni e compiti che echeggiano temi sui quali altrove è in atto un confronto impegnativo (e ben sostenuto dalla ricerca), ma se ne riduce la densità del significato attraverso l’assimilazione al senso comune. In altre parole, fenomeni che dappertutto danno luogo a cambiamenti imponenti, e sui quali si cerca di riflettere utilizzando apparati conoscitivi capaci di alimentare con continuità il confronto tra quanti sono interessati allo sviluppo dell’educazione, sono ridotti in Italia ad esercitazioni retoriche al più sostenute da banalità di senso comune o da calchi assunti per assonanza da altri settori dell’intervento sociale.

Si continua a evocare sempre più stancamente l’esigenza di riformare il sistema educativo. Ma credo che parlare di riforma non produca più alcun coinvolgimento emotivo in chi dovrebbe fruirne (sarebbe meglio dire subirne) gli effetti. Nelle scuole, come nelle università, la parola si è desemantizzata. Non si associa a riforma l’idea di un progresso nell’educazione, ma solo quella di interventi pasticciati che – se attuati – possono ulteriormente complicare il compito educativo. Poiché quello del nostro sistema educativo è ormai uno scenario da dopoguerra, in cui l’esigenza preliminare è quella di ricostruire, vorrei sommessamente proporre che si abbandoni la logica delle riforme ottocentesche e ci si preoccupi di favorire il manifestarsi di una nuova cultura educativa, capace di interpretare e di proporre soluzioni. Occorrono decisioni semplici ed essenziali, che sono immediatamente comprese se si inseriscono in un quadro nel quale la conoscenza abbia scacciato le assonanze: per esempio, vogliamo prendere atto che nei paesi industrializzati la scuola è sempre più l’ambiente dell’esperienza educativa e per questo estende la sua azione a gran parte della giornata? Che senso ha continuare a parlare di orari scolastici come si fa da noi, se non quello di giustificare un moto retrogrado volto a ridurre la consistenza dell’offerta educativa?

da TuttoScuola 22.11.13

“Uomini la questione maschile”, di Adriano Sofri

Pressochè ciascuno, se guarda abbastanza in profondità dentro se stesso (non troppo in profondità: si annega), se è capace di ricordare la propria formazione di maschio, paura e spavalderia, ignoranza e presunzione, riconosce con raccapriccio il capo di un filo che porta dei suoi simili, ammesso che non abbia portato lui stesso, a molestare, violentare o uccidere una donna. Ho appena incontrato Mary Pereira Mendes, signora indiana che lavora per l’Unicef in Kurdistan e fra i profughi siriani, e guida un programma contro le mutilazioni genitali femminili. Mary spiega la difficoltà incontrata nelle donne, levatrici e madri, attaccate all’orrenda tradizione, attente tutt’al più a una modalità d’intervento più “pulito”, e disposte a barattare l’infelicità sessuale con la gratificazione domestica. La tradizione è patriarcale, dice, ma sono le donne a trasmetterla, e non di rado gli uomini la ignorano. Penso che proprio questo riveli l’ottusità della sessualità maschile: se gli uomini non si accorgono e comunque non danno peso alla negazione del piacere sessuale delle “proprie” donne, è perché il loro stesso piacere sessuale è mutilato. Il maschilismo immagina che scopare sia un bisogno naturale — uno sfogo necessario — dell’uomo, che al bisogno le donne vadano, con le buone o le cattive, adibite, e che l’eventualità che partecipino del piacere sessuale ne sveli la depravazione, magari nello stupro: “Gode, la troia”. Rispetto allo schema miserabile, le cose vanno più o meno avanti, e a volte tornano indietro, come quando si dà la caccia a un evaso. Evadono le donne, e uomini danno loro la caccia per riportarle dentro, o farle fuori. Da noi la caccia è vietata: a chi non ce la fa proprio, non resiste all’eventualità che la “sua” donna diventi di un altro, o anche soltanto decida di non essere più “sua”, resta il bracconaggio. Botte, minacce, coltellate di frodo. Una questione maschile.

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“Quando il tuo amico diventa il carnefice della porta accanto”, di GABRIELE ROMAGNOLI
QUESTA è la piccola storia di un grande errore. Commesso, anche, da me. Troppo giovane, se bastasse come giustificazione, per capire. Avevo vent’anni, durante l’estate andai in vacanza su un’isola, affittando una casa sulla scogliera. Eravamo in quattro: io e la mia ragazza, un mio caro amico e la sua. Le vacanze in doppia coppia possono essere un inferno, quella lo fu. Dopo due settimane di silenziose divergenze convinsi la mia compagna a passare una notte altrove, per rilassarci finalmente. Tornammo e c’era quiete, anche tra noi. La cosa curiosa era che la ragazza del mio amico ora portava uno spesso strato di crema protettiva sul volto. Spiegò che si era scottata addormentandosi al sole. Dopo due settimane? Strano, ma non impossibile, data la sua carnagione chiara. Primo errore.
Lo capii quando, in piena notte, bussò concitata alla nostra porta. Aprii: senza crema, il volto appariva tumefatto su un lato. Mi superò singhiozzando. Rimasi in corridoio, di fronte al mio caro amico. Non avevamo niente da dirci. Era tutto chiaro e imperdonabile. Gli indicai la valigia, che la facesse: lo avrei accompagnato, non al porto, lontano, ma alla prima strada asfaltata: la percorresse e sparisse. Lo giudicai e lo condannai. La pena era la cancellazione della mia amicizia. Una sciocchezza. Vedendolo allontanarsi nella notte provai quasi pena, da stupido che ero. Avrei dovuto denunciarlo. Portarlo al posto di polizia e testimoniare contro di lui. Adesso lo so. Sarò più preciso e ferale: lo so da una quindicina d’anni, quando è successo quel che poi era prevedibile.

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“La lingua straniera che non riusciamo ad imparare davvero”, di MASSIMO RECALCATI

LA violenza dei maschi non è solo la manifestazione scabrosa del potere tramandato da una cultura che discrimina le donne. Come l’esperienza clinica ci mostra essa è soprattutto l’espressione di una angoscia profonda di molti uomini di fronte all’alfabeto dell’amore. La donna è infatti per ogni maschio una lingua straniera che esige un continuo e mai compiuto sforzo di apprendimento. La violenza sul corpo e sulla mente delle donne è un modo per aggirare lo spigolo duro di questo alfabeto. L’incontro con una donna implica sempre, per ogni uomo, una quota di angoscia anche se essa può venire spavaldamente (ecco a cosa serve il gruppo con il quale si può barbaramente condividere la violenza) misconosciuta.
La lingua straniera del femminile, l’eteros radicale che essa incarna, non può però essere mai assimilata e estirpata del tutto. Per questo la violenza maschile può assumere le forme più odiose ed efferate e concludersi con la morte della vittima. Un suo paradigma agghiacciante si può trovare nel personaggio psicotico protagonista di Figlio di Dio di Cormac Mc Carthy, il quale uccide le donne come unica condizione per poter avere rapporti, non solo sessuali, con loro. Solo il corpo ridotto a cadavere dovrebbe sancire la neutralizzazione definitiva dell’angoscia. In realtà le vittime si devono drammaticamente moltiplicare perché nessuna violenza potrà mai fare tacere la lingua straniera della donna.

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“Essere amati per piacere e non per dovere ecco la nostra rieducazione sentimentale”, di MICHELE SERRA
A VOLTE provo a ragionare, da maschio, sulla bruta ostinazione con la quale alcuni uomini pretendono di possedere e controllare la “loro” donna, relegarla in casa, costringerla a un amore non sentito, a una devozione non sincera. Qualcosa di ancestrale — di bestiale — abita in quei maschi: l’istinto di trasmettere i propri geni tenendo a distanza quelli altrui. Ma al di là di quell’impulso da tricheco, da orango, e dunque comprensibile e rispettabile nel tricheco e nell’orango, che cosa c’è di gratificante, di eccitante nella sottomissione della femmina? Essere amati per dovere, non per piacere, come può non essere umiliante? A parte le perversioni erotiche, che hanno i loro bravi luoghi e tempi di esercizio, come si fa nella vita vera, e tutta intera, a perseguire una forma così minore e minorata di amore, incatenare qualcuna perché non fugga, farsene carceriere, e se tenta la fuga ucciderla?
A parte questo, e restando più in superficie: come è noiosa l’idea della femmina addomesticata e possibilmente domestica. Com’è mediocre l’uomo che non solo se ne accontenta, ma se ne vanta. Com’è migliore — più vario, più stimolante, più luminoso — il confronto con una tua pari, che ha vita da raccontarti, che ti fronteggia, che oltre ad ascoltarti ti parla, e sei tu che l’ascolti. Come è più vero, più simile alla vita, il “pericolo” di un rapporto esposto al mondo, alle scelte soggettive, al mutamento, perfino al dolore dell’abbandono, che è di gran lunga preferibile alla mortificazione dell’obbligo. Quando ogni maschio capirà, sentirà che cosa perde, perdendo la libertà della “sua” donna, finalmente il mondo potrà cominciare a cambiare.

La Repubblica 22.11.13

“Uomini che non odiano le donne come combattere il femminicidio”, di Concita De Gregorio

Nel 2013 in Italia sono state uccise 128 donne. Da mariti, fidanzati, amanti o semplici conoscenti. Per non dimenticare e cercare di fermare la strage il 25 novembre è la giornata mondiale contro la violenza. In principio è il linguaggio. Le parole per dirlo. Il posto che la lingua dà alle cose diventa il posto giusto delle cose. Per capirci, ecco un test semplice. Quante volte avete detto o sentito dire: mio marito/mio figlio in casa è un disastro, se fosse per lui vivrebbe nel caos. O apparentemente al contrario: mi aiuta moltissimo, cucina e fa i piatti, si prende cura dei bambini. Quante volte avete sentito un uomo dire: oggi mia moglie non c’è, faccio da babysitter. Questo è il problema. Questa è la norma, dunque la norma è il problema.
Dalla subordinazione alla sopraffazione alla violenza lo scarto non è di qualità del gesto, è di quantità. Dalla normale “delegittimazione del lavoro domestico maschile” — dalla divisione di ruoli e di compiti tutto attorno a noi per cui non c’è niente di strano che gli uomini di solito non sappiano stirare, per quanto stirare non sia affatto difficile — passa il principio per cui è normale che gli uomini si occupino d’altro. Anche le donne certo, lo fanno: in questo caso, se non vivono sole, spesso si sentono dire di quanto siano fortunate ad avere accanto un uomo che glielo consente. Perché invece la lingua ci informa che lo stato naturale delle cose è che siano gli uomini di solito a produrre reddito, cioè ricchezza, cioè potere, perché il denaro — nel mondo in cui viviamo — è potere. Come poi ogni uomo gestisca la sua supremazia nei confronti di chi gli vive accanto dipende solo dal suo livello di consapevolezza e di autocontrollo: da come gestisce le emozioni, da come governa il conflitto, dal grado di censura che assegna alla violenza come metodo di soluzione dei problemi. Dipende dalla sua educazione, in definitiva. In larga parte dipende dalla madre che ha avuto. La violenza che gli uomini esercitano sulle donne non è un’emergenza criminale: è anche questo, sotto il profilo tecnico, ma prima ancora è moltissimo più. È il risultato naturale dell’educazione
condivisa, del linguaggio corrente, dei modelli di comportamento che costituiscono la norma.
Una lunga premessa, purtroppo necessaria, per dire che la violenza sulle donne non è un problema delle donne: è prima di tutto un problema degli uomini. Il danno è di chi la subisce. Il problema — la lacuna, la carenza, il deficit — è di chi la esercita. Quindi: la violenza di genere è un guasto del sistema che riguarda entrambi i generi ma in ordine cronologico è prima un guasto di chi alza la mano, poi di chi riceve lo schiaffo. A partire da questa osservazione semplicissima, evidente eppure così insolita nel nostro panorama di riflessioni sul tema, nei Paesi in cui il male è divenuto epidemico da molti anni si lavora sugli uomini: con le leggi, con l’educazione scolastica obbligatoria, con le terapie riabilitative, con il “sostegno ai portatori di violenza”. Sì, sostegno ai portatori di violenza, e pazienza se ci sarà come sempre chi alzerà il dito per dire che chi commette un reato deve solo essere punito, non aiutato. Certo, punito: ma giacché la violenza è sempre un segno di debolezza— è l’incapacità di usare la parola, la ragione, il gesto opportuno — è ovvio che i portatori di questa debolezza debbano essere aiutati a colmarla. Lo si fa in Messico, il paese della strage di donne a Ciudad Juarez, lo si fa in Portogallo e in Spagna, dove la cultura machista è persino più radicata che da noi. Lo si fa naturalmente nei paesi del Nord Europa, che tuttavia spesso ci appaiono remoti nel loro modello di soverchia virtù.
Mavi Sanchez Vivez è una neurofisiologa esperta di realtà virtuale immersiva. Il suo gruppo di ricerca lavora aBarcellona. Qualche mese fa, ospite del professor Aglioti alla Sapienza di Roma per la Settimana del cervello (Baw, brain awareness week) ha mostrato i risultati del lavoro sperimentale che nella sua regione porta avanti insieme al ministero di Giustizia. Gli autori di violenze condannati per reati commessi sulle donne vengono messi nelle condizioni di sperimentare lo stesso tipo di trauma. Grazie a un casco che lavora sugli impulsi cerebrali si trovano nella condizione di percepire se stessi come una donna che viene aggredita, picchiata, offesa. Hanno reazioni primitive e terribili:sudorazione, palpitazioni, pianto, qualche volta non controllano l’atto di urinare. Quando ho raccontato gli esiti di questo tipo di lavoro — riassumibile, per tornare alla lingua, nella frase “mettersi nei panni dell’altra” — sono stata sommersa di lettere di protesta di un gran numero di persone che hanno trovato questo lavoro“crudele”, “vendicativo”, “inutilmente feroce”.Qualcuno ha detto:“l’esito del peggior femminismo”. È anche questa una reazione istruttiva, molto eloquente. Il prossimo passo del gruppo di lavoro spagnolo sarà quello di mettere i carnefici nella condizione dei bambini che assai spesso assistono alle violenze domestiche: farli sentire come si sentono i loro figli. Uno degli scopi di questo genere di lavoro è difatti quello di evitare che il modello di comportamento si replichi di padre in figlio, circostanza invece consueta e difficilmente evitabile senza un sostegno formativo efficace. In Messico la dottoressa Georgina Cardena Lopez dell’Unam,UniversitàAutonoma del Messico, porta avanti da anni programmi che si avvalgono degli strumenti di realtà virtuale. Dodici settimane di terapia, con un risultato giudicato positivo nell’80 per cento dei casi. A Valencia c’è il programma Emma, diversi metodi e nomi indicano i protocolli adottati in Francia, in Svezia, in Gran Bretagna. In Italia siamo agli albori. Scarsissimi i finanziamenti, quasi tutte private le fondazioni e associazioni che lavorano sull’intervento mirato ai portatori di violenza. Un bel libro, molto completo, è appena andato in stampa. S’intitola “Il lato oscuro degli uomini” e tratta la “violenza maschile contro le donne: modelli culturali di intervento”. Le curatrici — Alessandra Bozzoli, Maria Merelli e Maria Grazia Ruggerini — fanno parte del gruppo Le Nove, associazione di studi e ricerche sociali che già a dicembre del 2012 aveva consegnato un rapporto su “Uomini abusanti. Prime esperienze di riflessione e intervento in Italia”. Il rapporto e poi il libro sono una vera miniera di informazioni su quel che si potrebbe fare e non si fa, o non si fa abbastanza. Consultarlo è anche un modo sicuro per fare piazza pulita di ogni accusa moralismo, di manicheismo e di ideologia. C’è poco da filosofeggiare di fronte ai fatti. C’è piuttosto da provare a comprenderli senza pregiudizi, c’è da chiedersi perché non si passi di conseguenza all’azione. Una risposta possibile arriva da Laurie Penny,la giovane blogger inglese (oggi 27 anni, poco più che ventenne quando ha iniziato il suo lavoro di indagine) il cui “Meat market”, il mercato della carne, è tradotto in volume anche in italiano. Sua la definizione di “delegittimazione del lavoro domestico maschile” dentro la costruzione di un linguaggio e di un modello che “ha tutta l’accuratezza dei giochi di ruolo”, costumi ed eventuali nudità comprese. È un gioco — dice — concepito, commercializzato e utilizzato dagli uomini: il copyright è loro. Difficile che con arrendevolezza se lo lascino sfilare di mano. Difficile che vogliano smettere di giocarci, e di contrabbandare per libertà di scelta la decisione di tutte quelle donne che — madri o figlie — stanno al gioco senza accorgersi che la scacchiera è truccata. Conviene ribellarsi, dice Penny. Cambiare le regole a partire dal principio. Punire i colpevoli asseconda il principio di eccezionalità. Quando la violenza è la norma è sul normale corso degli eventi che bisogna lavorare. Capirlo, cambiarlo.

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“Così mio padre, Italo Calvino difese i diritti delle ragazze”, di Anna Bandettini

DEL suo monumentale papà, Italo Calvino, ricorda orgogliosamente una lettera, bella e arrabbiata, a Claudio Magris nella quale lo scrittore reclamava «il diritto della donna all’autodeterminazione in fatto di maternità». «Mi piace ricordarla perché era il febbraio del ‘75. Tre anni dopo in Italia fu approvata la legge sull’interruzione della gravidanza. A rileggerla oggi, sembra che l’Italia sia andata indietro. Siamo al 71esimo posto nella classifica mondiale del Global gender gap 2013». Giovanna Calvino 48 anni, scrittrice lei stessa, da 20 anni vive felice a New York «perché non è che la gente qui sia migliore ma la legge funziona e le offese, anche solo verbali, verso le donne sono punite. Altro che l’Italia. Io stessa ne ho fatto esperienza ».
Cosa era successo?
«Era la metà degli anni Ottanta ma nulla è cambiato. Avevo 21 anni, avevo passato l’infanzia in Francia, era il mio primo lavoro a Roma alla Rai. Appena assunta il mio capo mi disse: “Se me la dai è meglio” — racconta pudicamente mentre ricorda il senso di isolamento e la rabbia di fronte a quelle offese — Una volta quando obiettai per un suo apprezzamento su di me, mi rispose: “Cosa vuoi, il fatto è che le donne sono tutte puttane”. Non voglio sembrare invasata: non ho subito violenza, né abusi, ero pure privilegiata perché alla Rai ci ero arrivata da raccomandata. Ma quegli episodi sono emblematici di quanto in Italia sia radicata una cultura retrograda verso le donne la cui conseguenza naturale è la violenza e il femminicidio».
Il 25 lei sarà all’Onu con Marina Abramovic, Valeria Golino, altre donne e Serena Dandini per il suo spettacolo-denuncia Ferite a morte: una bella emozione testimoniare contro i femminicidi nel Palazzo di Vetro.
«Assolutamente sì. Il lavoro di Serena evidenzia due nodi essenziali, da un lato l’impunità di fronte alla legge — un problema generale e molto italiano — e dall’altro il fatto che si dà per scontato che la causa, la ragione della mano assassina è il genere, la sessualità femminile. Personalmente non ho alcuna fiducia nella politica: sono le associazioni delle donne, le manifestazioni di solidarietà femminile come
Ferite a morte della Dandini a farci sperare in un cambiamento: fanno un lavoro capillare e parlano alle coscienze».

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“Storie”,MARIA NOVELLA DE LUCA

«SE Lucia avesse parlato, se tutte le donne parlassero, forse molte sarebbero ancora con noi. Vittorio la inseguiva, la tormentava, la perseguitava, ma Lucia ci proteggeva, non voleva coinvolgere la famiglia, sperava che lui cambiasse, sperava sempre. Invece Vittorio Ciccolini l’ha uccisa con un piano lucido e freddo, le ha rubato la vita, e ce l’ha portata via per sempre». Tre mesi fa, in una notte d’agosto con il cielo stellato. Nel segreto di una strada di montagna e con un coltello da guerra comprato in un’armeria di Verona. Una lama lunga 20 centimetri, serie Us M3, i coltelli dei marines americani. L’avvocato tennista e la bella ragazza di Pergola. L’amore che si trasforma in stalking. Lui che la bracca, lei che cerca di rifarsi una vita. Così lui la invita a cena, in un ristorante di lusso, implora un ultimo incontro, e poi invece
l’ammazza. Due coltellate al cuore.
Vittorio Ciccolini e Lucia Bellucci, uno degli oltre cento femminicidi che hanno insanguinato l’Italia negli ultimi dodici mesi. Oggi a Trento ci sarà l’udienza preliminare di un processo che però s’annuncia speciale: perché per la prima volta tutte le donne, non soltanto Lucia — che aveva 31 anni, amava lo sport, i viaggi, la famiglia — sono state considerate “parte offesa”. Elisa Bellucci, sorella di Lucia, ha le lacrime che affiorano, e il dolore sordo di chi ogni giorno si sveglia e si chiede davvero se quella persona tanto amata non c’è più. «Era solare, generosa, semplice: per anni quell’uomo l’ha maltrattata, illusa, e quando finalmente Lucia ha trovato la forza di lasciarlo, Vittorio Ciccolini ha deciso che non voleva perdere la sua preda. La perseguitava, la bombardava di messaggi, fino a 250 in un giorno, le inviava fotografie dove lui si ritraeva con una pistola alla
tempia. Ma invece di uccidersi, ha massacrato lei».
È un processo simbolo quello che inizierà a Trento contro Vittorio Ciccolini, 45 anni, noto e famoso legale di Verona, che nella notte tra il 9 e il 10 agosto strangola e poi accoltella a morte Lucia Bellucci, direttrice della spa dell’hotel “Chalet del Brenta” di Pinzolo, con la quale aveva una tormentata relazione da poco più di due anni. Un processo simbolo perch é nel settembre scorso un’associazione di donne di Verona, “Isolina e…”, così chiamata dal famoso libro di Dacia Maraini (sull’omicidio impunito di una ragazza da parte di un capitano dell’esercito all’inizio del Novecento) è stata ammessa come “parte offesa” nella fase delle indagini preliminari. «Perché l’omicidio di una donna da parte di un uomo non è un reato contro la singola vittima, ma contro tutta la collettività femminile».
Un delitto che dunque diventa sociale. “Isolina e…” ha quindi potuto nominare un perito, e partecipare alla perizia psichiatrica su Vittorio Ciccolini. In questo caso infatti — come nella gran parte dei femminicidi — è sulla incapacità di intendere e di volere dell’omicida che si giocheranno le carte della difesa per dimezzare i tempi della pena. Con il rischio che stalker e assassini “momentaneamente pazzi” tornino liberi in un pugno di anni. Sarà guerra di perizie e di legali.
Nello studio dell’avvocato Giulia Bongiorno, che con l’associazione “Doppia difesa” assiste la famiglia di Lucia Bellucci, la sorella Elisa per la prima volta parla e racconta. «Lucia aveva conosciuto Vittorio Ciccolini durante un viaggio in Tunisia che avevamo fatto tutti insieme, nel 2008. Credo che sia stato il tennis a farli incontrare: Lucia era una grande sportiva e lui partecipava ad un torneo. Ma la loro relazione non è iniziata subito. Mia sorella era sposata, un matrimonio in crisi da tempo, e che si è concluso nel 2010. È stato allora, purtroppo, che l’amicizia con Vittorio si è trasformata in un amore, ma non in una convivenza, infatti Lucia continuava ad abitare con i miei genitori». Una famiglia unita, tre figli, il papà Giuseppe medico, conosciuto e amato da tutti, la madre Pia che è il fulcro affettivo della casa.
Vittorio entra ed esce dalla vita di Lucia, lei aspetta e soffre. Innamorata, forse soggiogata da quell’uomo che le sembra brillante, realizzato. Avvocato in carriera, il circolo del tennis, la vita notturna. Ricorda Rino Lorenzi, proprietario del ristorante “Mezzo soldo” dove si consuma l’ultima cena: «Erano belli ed eleganti. Lei era in abito da sera, lui in giacca e cravatta. Era premuroso con quella ragazza, la corteggiava».
Lucia verrà uccisa poco dopo nella Bmw di Ciccolini. Elisa Bellucci ha il dolore nello sguardo: «Lucia voleva una vita due, ma lui sfuggiva, la maltrattava. Mi chiedeva consiglio e le dicevo allontanati, ti fa del male, ma lei era innamorata, subiva».
Ad un certo punto, però, tutto cambia. «È stato quando mia sorella ha conosciuto Marco — ricorda con un sorriso Elisa — un medico di Catania, un suo coetaneo, una persona speciale, con cui finalmente riesce a fare dei progetti. Una tregua breve. Le pressioni di Ciccolini si fanno più forti, più mia sorella si allontanava, più la perseguitava». Migliaia di messaggi, minacce di suicidio. Finché con la lucida determinazione degli stalker, Vittorio riesce a carpire la promessa di un incontro. «Lasciamoci da amici, adesso ho anch’io una nuova fidanzata». La trappola funziona. La sera del 9 agosto del 2013 Vittorio Ciccolini va a prendere Lucia a Madonna di Campiglio allo “Chalet delBrenta”.Per la ragazza di Pergola è l’ultima notte di vita. Con il cadavere della ex fidanzata accanto Vittorio vaga nella notte, macina chilometri, poi torna a Verona e nasconde l’auto con il corpo di Lucia nel garage della madre. I carabinieri lo arrestano due giorni dopo mentre cammina sconvolto lungo gli argini dell’Adige. Ciccolini confessa subito: «L’ho uccisa, non voleva tornare con me…». A casa dell’avvocato vengono ritrovate due lettere, mai spedite, al padre e all’ex marito di Lucia, l’assurdo tentativo di spiegare perché si sarebbe trasformato in assassino. Elisa si fa forza: «Mia sorella Lucia non tornerà, ma adesso è l’ora di avere giustizia. Vittorio Ciccolini era lucido e deciso, non devono esserci dubbi. E vorrei dire alle donne che subiscono stalking: parlate, confidatevi, chiedete aiuto, soltanto così vi salverete».

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“Mi hai gettato l’acido ma io sono qui, sono bella non mi hai cancellata”, di JENNER MELETTI
LUCIA ha un viso dolce. È come un quadro che porta ancora i segni di uno sfregio. «Ma vede, riesco a sorridere, piano piano. È una conquista di questi giorni. Comincio a riconoscermi, adesso posso dire che il mio viso ha un’espressione ». Fra meno di tre settimane Lucia Annibali sarà in un’aula di tribunale e avrà di fronte Luca Varani, l’uomo che era il suo fidanzato e i due sicari albanesi pagati per buttarle in faccia 400 centilitri di acido solforico al 66%. «Sì, sarò in quell’aula, il 9 dicembre. Non sono una wonder women e nemmeno una donna d’acciaio che non ha paura di nessuno ed è pronta alla sfida. Sarò lì per dire a tutti che sono viva, che mi piaccio, che mi sento forte e bella. Sarò lì per fare vedere cosa mi hanno fatto. Non so nemmeno se parler ò. Starò lì con i pensieri che ho in testa da quel 9 aprile, quando
stavo per entrare a casa mia e c’era un uomo pronto con l’acido. Quello che ha organizzato tutto non lo voglio nemmeno nominare. Eppure… Guardi quella foto».
È un ritratto di Lucia, bellissimo. Fosse vissuta cinque secoli fa, avrebbe potuto fare la modella per Raffaello, che abitava a un tiro di schioppo dalla casa dove Lucia ora vive con i genitori Lella e Luciano. «Lui mi diceva che la parte che più gli piaceva di me era il viso e che il mio viso era il più bello che avesse mai visto. Il volto e le mani, diceva. E l’acido ha colpito la faccia e la mano destra. In quell’aula avrò in testa le parole pensate mille volte. Hai voluto cancellarmi ma non ci sei riuscito. Alla fine la tua malvagità non ha vinto». Solo l’altro giorno, all’ospedale di Parma, Lucia Annibali ha potuto vedere le foto scattate nelle prime ore di ricovero. «Me le ha mostrate il primario, Edoardo Caleffi. Non avevo più nulla. Occhi bianchi e spenti, il naso era una macchia rossa e gialla, tutto il volto era un urlo di dolore. L’acidificazione è terribile, è un’uccisione. Ustioni di terzo grado profondo. Il primario mi ha mostrato le immagini per farmi capire quanto sono cambiata in sette mesi e quanto potrò ancora migliorare. Fra pochi giorni farò l’operazione numero 9. La palpebra dell’occhio destro cade in basso e danneggia l’occhio. Toglieranno un po’ di pelle. Io avrò una faccia diversa ma voglio che sia bella. Ci tenevo prima, immagini adesso. In ospedale, appena sono stata un po’ meglio, ho chiesto di fare una ceretta. Erano allibiti, i medici e le infermiere. Ma me l’hanno fatta, hanno capito che per me era importante curare le parti del corpo rimaste intatte. E anche per i capelli… Volevano tagliarli perché li porto lunghi e c’era il pericolo che infettassero il volto. Ho detto no. E allora, un pomeriggio, la dottoressa Silvia Ricci e un’infermiera, fuori orario di lavoro, mi hanno lavato i capelli, piano piano, attente ad ogni ciocca. Sono state meravigliose».
Un incubo mostrerà il suo volto nell’aula di tribunale. «L’ultima immagine, prima che l’acido mi togliesse per lunghi giorni ogni luce e colore, è quella di un volto coperto da un passamontagna nero. Ricordo due occhi che mi guardano. Poi mi è arrivato il fuoco in faccia. Ecco, quell’uomo è il mio incubo. Nei primi giorni, in ospedale, quando ero cieca, ero terrorizzata. I miei aggressori non erano ancora stati trovati, sentivo delle persone muoversi attorno a me, credevo che l’uomo con passamontagna fosse tornato, che volesse finire il lavoro. “Lucia, non temere, sono io”, mi sussurrava l’infermiera. Ancora oggi sogno quel volto, mi sveglio di soprassalto». L’uomo accusato di avere lanciato l’acido — dice l’avvocato Francesco Coli — è Rubin un albanese di 31 anni. «Quando ho aperto l’uscio di casa mia — ricorda Lucia — ho capito subito che qualcosa non andava. C’era una seggiola su un tavolo, pensavo ci fossero i ladri. Richiudo subito l’uscio ma qualcuno lo strattona dall’interno. Mi butta l’acido, divento subito cieca e mi metto a urlare. Ricordo che in quel momento ho pensato: l’uomo che scappa mi sente urlare e sarà contento. È riuscito a fare il suo lavoro».
Una maschera di silicone per quattro o cinque ore per compattare la pelle e in tutte le altre ore una maschera di tessuto. «Oggi non la porto perché a Parma con il laser mi hanno tolto i cheloidi, escrescenze delle cicatrici, e ci sono le ferite. Mia madre mi massaggia il viso e la mano tre volte al giorno, faccio fisioterapia tre volte alla settimana. Tutto per riconquistare una normalità che mi è stata rubata. Mi chiedo: con quale diritto? Perché una ragazza deve soffrire tanto per riuscire a essere come prima, che vuol dire ad esempio stare in piedi, lavarsi, allacciarsi i bottoni, sopportare la luce, mangiare? Io non voglio compatirmi, non mi piace drammatizzare né fare la vittima. Ma ciò che mi è stato fatto è obiettivamente atroce e non voglio che succeda più né a me — ho ancora paura — né ad altre donne o uomini».
Un amore con un uomo che teneva nascosta la relazione con la fidanzata “ufficiale”. La pretesa di continuare anche con Lucia. Lo stalking, con pedinamenti, telefonate, danneggiamenti, chiavi rubate. «Ho capito tutto quando mi ha messo le mani addosso. Adesso basta, ho detto. È in quel momento che inizia la paura. Lo dico anche alle altre donne: il pericolo comincia quando si riprende il coraggio di essere se stesse, quando si ritrova l’autonomia. Quando decidi di volerti bene e pretendi il rispetto. Non so se diventerò un simbolo per le altre donne vilipese. Vorrei essere un aiuto per loro e per tutti coloro che debbono sopportare una diversità. Il mio corpo è ancora ferito ma ci sono lacerazioni ancora più profonde, che restano dentro, dentro, dentro… Forse il coraggio è sopportare l’insopportabile. Ma già nelle ore di buio all’ospedale io parlavo con me stessa: è già un’ingiustizia enorme essere ridotta così, se cedo e mi lascio andare l’ingiustizia sarà ancora più grande. Pensavo all’uomo che non voglio nominare. Mi hai tolto la faccia, la casa dove non riesco più a entrare, la vista, la macchina che era stata sequestrata…Ma non mi cancellerai. Avevo ragione. Oggi sono qui. I carabinieri, proprio nel giorno dei miei 36 anni, mi hanno ridato la macchina. Sono riuscita a guidare da Pesaro a qui. In auto pensavo: questa è davvero un festa di compleanno

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“Il riscatto impossibile del corpo in vetrina”, di NATALIA ASPESI

NE ammazzavano di più, in passato, ma il fatto non era così rilevante da segnalarlo? Oppure ne ammazzavano meno, perché erano loro, le donne, a non essere rilevanti, e in più sapevano stare al loro posto? Al posto definito dagli uomini e dalle loro leggi, la vita prigioniera destinata a chi nasceva donna e non poteva averne un’altra, al di fuori del dominio, della protezione, del denaro, del piacere e della volontà maschile. Questa storia di secoli, memoria di un regno incontrastato, forse ha lasciato nel Dna maschile, tracce, frammenti, schegge talvolta irreparabili. Magari non ne sanno niente con la testa, ma col corpo sì; del resto se ne curavano poco anche le donne, certe che quello fosse il loro angusto destino, fin quando hanno capito che non era così, che anche a loro spettavano tesori ritenuti solamente maschili: la libertà, il potere, la cultura, il desiderio. E a quella assurda ingiustizia hanno cominciato a ribellarsi, con a fianco tanti uomini, non tutti, che si erano scoperti, senza saperlo, tiranni ed oppressori. In questi decenni tutto è cambiato, le leggi, il mondo dello studio e del lavoro, le gerarchie, i poteri, i rapporti affettivi, di famiglia, sessuali; anche gli uomini, certo, e soprattutto le donne.
Si è quasi raggiunta se non la parità, almeno l’idea della parità nella diversità, e apparentemente tutti l’hanno accettata, la trovano giusta: ma allora perché gli uomini ammazzano le donne che giudicano disubbidienti al loro volere? Se lo chiedono pensosi e dolenti in tanti: si formano comitati, si istituiscono giornate mondiali contro la violenza sulle donne, si approvano sia pure con difficoltà leggi contro il femminicidio, si cancella l’innocente Miss Italia, si tuona contro la pubblicità che mostra donne troppo giovani e troppo belle, sia che lavino estasiate i pavimenti lordati dai loro piccini, sia che, crudeli erotomani, infliggano un tacco a spillo nel torace del povero sedotto, leccando orgasmiche un cono gelato. Il presidente della Repubblica Napolitano ha pronunciato un severo appello contro l’abuso dell’immagine femminile e naturalmente contro la violenza sul corpo delle donne, fisica e psicologica. Servirà? L’uomo che insegue con l’accetta la donna che non vuole più subire le sue prepotenze, si farà convincere da quelle belle parole? E menomale che sta per chiudersi la vicenda bunga bunga, che riempiva ogni mezzo di informazione, trash o colta, di notizie, fotografie, video, di ragazze seminude o travestite da Babbo Natale sporcaccione, pagate per allietare
le serate fanciullesche di un anziano allora primo ministro. In quei mesi il famoso immaginario maschile era precipitato in un immenso bordello, dove giovani donne non erano che sederi, seni, bocche e mani, corpi disponibili, a pagamento, a ogni lubrica fantasia.
Tutto finito, tutti rinsaviti? Non proprio, a cominciare dall’informazione
che non riesce a comportarsi come predica si dovrebbe, per smettere di mercificare il corpo della donna. È più forte dei suoi buoni propositi l’attrazione per l’abisso in cui chissà come finisce l’idea della donna, quindi non si riesce, pur deplorando massimamente, a non scavare per esempio nel dramma delle baby prostitute o nella tragedia dell’ammazzata, che se magari era più casta e ubbidiente non avrebbe fatto perdere la testa al suo innamorato compagno, con conseguenti venti coltellate. E proprio nei giorni dell’ennesima tavola rotonda, una settimana dopo il convegno a Parma sulle radici culturali della violenza maschile, ecco la copertina pazzesca di un settimanale editorialmente erede dell’anziano protettore di minorenni, che probabilmente colpirà al cuore la presidente della camera Laura Boldrini: mostra un corpo femminile giovane, piegato in modo da nascondere il viso, parte inutile dell’utensile femmina, mettendo in primo piano sedere e gambe lunghissime appena velati, su tacchi e suole esagerati e invalidanti: “Prostitute on line” squilla il titolo, “Il mestiere più nuovo del mondo”. Basta ad attirare un paio di lettori in più dei soliti quattro? No, ci vuole l’ulteriore trappola: “Esclusivo, il web a luci rosse città per città”. C’è un film americano, “Don Jon”, diretto e interpretato dal nuovo idolo giovanile, Joseph Gordon-Levitt, che passa tutto il tempo libero a masturbarsi guardando porno su Internet, trovandosi molto meglio che con la ragazza di cui si innamora. Per lui e i suoi amici non ci sono donne ma solo sederi, tette, orgasmi, fellatio, cui danno un voto, da 1 a 10. Perché le ragazze vere, che del resto in questo film si adeguano alla visione che i ragazzi hanno di loro, alla fine fanno paura, perché chiedono, parlano, esigono reciprocità sessuale e decisioni per il futuro. Naturalmente le cose cambieranno e almeno nessuna donna verrà ammazzata.
C’è invece un difficile, lungo, bellissimo film tedesco premiato a Venezia e che in questi giorni, come del resto “Don Jon”, arriva nei nostri cinema. “La moglie del poliziotto” di Philip Groning, racconta il lato nero e segreto di una famigliola qualsiasi, lui, lei, la loro meravigliosa bimba di pochi anni. Si amano, sono felici, sembrano bastarsi in una vita chiusa e tranquilla. Ma per una parola sbagliata, per un gesto inaspettato, l’uomo ha scoppi d’ira improvvisi e irragionevoli: e a poco a poco i silenzi si fanno più amari, il corpo di lei è sempre più segnato dai lividi delle percosse, e più lui è furibondo, più lei è sottomessa, bisognosa d’amore. La fine naturalmente è tragica. Reale.

La Repubblica 22.10.13

“Sardegna, il vero problema siamo noi”, di Fabrizio Rondolino

Continuiamo a costruire, e a votare i politici che ce lo fanno fare. Se costruisco una casa sul greto di un fiume, violando non soltanto le leggi ma anche il buonsenso, e poi un’inondazione me la porta via, di chi è la colpa? Del muratore che non ha rispettato le regole? Del sindaco che ha chiuso un occhio? Del governo che me l’ha condonata per un pugno di euri? No, la responsabilità è prima di tutto mia, non perché abbia infranto una legge (anche il condono è una legge), Ma perché sono venuto meno al dovere fondamentale su cui si fonda la mia libertà: prendermi cura di me stesso. Per ignoranza o per disperazione, per furbizia o per avidità ho costruito la mia casa in un luogo pericoloso, ho messo a repentaglio la mia incolumità e quella della mia famiglia, e il vantaggio che ne ho tratto non vale la posta in gioco.

La maggior parte delle vittime della terribile alluvione che ha piegato la Sardegna non ha costruito nessuna casa sul greto del fiume (semmai, è morta perché altri hanno costruito altre case, spesso immense), e se anche lo avesse fatto, certo non avrebbe meritato un tale destino. Alle vittime e alle loro famiglie va il cordoglio e la solidarietà di tutti, anche perch é – lo leggiamo sui giornali ogni volta che una tragedia accade – tutta l’Italia è a rischio e il “dissesto idrogeologico” è la condizione strutturale in cui, persino con civetteria, abbiamo scelto di vivere.

Quando una tragedia accade, il rito delle prediche inutili va inesorabilmente in scena: abbiamo distrutto il nostro Bel Paese, abbiamo cementificato le coste e disboscato i colli, abbiamo interrato i fiumi e avvelenato i campi, abbiamo costruito dove non bisognava e anche dove non si poteva… Vero, tragicamente vero: ma anche, alla fin fine, autoconsolatorio, se la conclusione si ferma al capro espiatorio della politica.

Già, perché le sacrosante giaculatorie ambientaliste sfociano inevitabilmente in un’accusa generalizzata alla classe politica locale e nazionale, che sullo sfruttamento selvaggio del territorio e sull’abusivismo criminale ha costruito le proprie fortune. Vero, verissimo: ma chi lo rielegge, il sindaco che da vent’anni rinvia il piano regolatore? E chi lo vota, il governo che ogni cinque anni concede un condono tombale ai suoi graditi sudditi?

Il patto perverso fra politica e cittadini, che in Italia prescinde da quella invenzione non recentissima che negli altri paesi va sotto il nome di Stato, si fonda precisamente su questo equivoco: io politico ti lascio fare quel cavolo che vuoi, e quando posso ti regalo anche un po’ di soldi; tu in cambio mi voti e, se le cose vanno male, puoi persino prendermi a pomodorate, tanto poi si ricomincia: e si ricomincia alla grande, perché dopo ogni tragedia arrivano i quattrini della “ricostruzione”. La deresponsabilizzazione è completa, perfetta, assoluta.

Curiosamente – ma i Greci non se ne sarebbero stupiti affatto – la bruttezza del nostro paesaggio cresce di pari passo con la sua pericolosità: decine di migliaia di villette, capannoni, palazzine, garage e impianti industriali hanno celebrato il trionfo del geometra e dell’alluminio anodizzato nel paese che diede i natali a Brunelleschi. Gran parte di quel cemento, oltreché orribile, è pericoloso: crolla alla prima scossa di terremoto, si allaga quando piove forte, frana col brutto tempo o si scioglie al risveglio del vulcano. Ma noi continuiamo a costruire, e a votare i politici che ce lo fanno fare.

«Dietro questa tragedia ci sono follia, stupidità, ingordigia. È colpa di partiti e speculatori. E in queste ore la giunta regionale sta approvando regole ancora più permissive per chi costruisce»: Renato Soru, l’ex governatore dimessosi in polemica con i partiti che ostacolavano il suo piano paesaggistico regionale, che impediva di costruire vicino a coste e fiumi, ha tutte le ragioni del mondo a lamentarsi. Ma dimentica di dire che quattro anni fa gli elettori sardi gli preferirono Cappellacci.

Il problema, insomma, siamo noi. Noi costruiamo case orribili in posti pericolosi, noi usiamo il paesaggio come una discarica e boicottiamo le discariche che funzionano (possibile che nessun cittadino campano in tutti questi anni non si sia accorto di niente nella famigerata “Terra dei fuochi”?), noi ce ne infischiamo delle leggi perché sappiamo troppo bene chi abbiamo eletto per scriverle e farle rispettare. Comodo, ma ridicolo, prendersela con i “politici”: gli unici che hanno perso il posto, finora, sono quelli che hanno mandato le ruspe.

da Europa Quotidiano 21.11.13