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“La bellezza tradita della mia Sardegna così abbiamo consumato ogni speranza”, di Marcello Fois

Io sono venuto al mondo perché mio padre e mia madre avevano una prospettiva di vita abbastanza stabile da potersi permettere un figlio. Erano gli anni Sessanta. Si ragionava in questi termini allora. Mio padre aveva esperienza di carpentiere, ed era scolarizzato. Mia madre era stata in continente, aveva studiato da puericultrice. Abitavano in Sardegna quando abitare in Sardegna significava vivere altrove, ma non se ne accorgevano. Abitavano a Nuoro, in una città che era ancora un paesone, e che confinava armonicamente con la campagna.
Qualche anno prima, da ragazzo, mio padre aveva lavorato per la Fondazione Rockfeller, era stato cioè uno di quei guardiani splendenti, armati di pompe al piretro, che avevano contribuito a liberare le coste della Sardegna dall’odiosa zanzara culex portatrice di malaria. Quei viaggi di lavoro cambiarono la vita di mio padre e anche, in seguito, la mia vita. S’innamorò perdutamente della sua terra, come non gli era mai successo, fino alla commozione. Le spiagge erano smaglianti allora, il mare era puro cristallo. Tutto era reso meraviglioso dallo sguardo della giovinezza. A ogni ritorno raccontava di una cala, di una baia, di un passaggio fra gli oleandri. E ogni volta prometteva di portarci mia madre. La stagione del loro innamoramento coincise in tutto con l’apice della purezza e dello splendore. Penso che mio padre pensasse a quanto era stato fortunato di amare una donna bellissima in una terra bellissima.
Io sono nato qualche tempo dopo. E da subito sono stato educato a sentirmi parte della natura che mi circondava. I miei si erano amati in mezzo alla bellezza e pensarono di amarmi insegnandomi a coltivare la bellezza. Spessissimo si organizzavano gite in campagna che da casa nostra si poteva raggiungere agevolmente a piedi; ed eravamo l’unica famiglia di tutto il quartiere che avesse l’abitudine di passare le vacanze al mare. Nei riservati barbaricini quell’abitudine attecchì più tardi. Così si partiva si caricavano le vettovaglie e si raggiungeva la spiaggia. Il paese costiero era dimesso, lindo, come disegnato dai bambini. Eravamo gli unici “cittadini” che si spingessero fino a quelle zone. Ci mostravano i terreni a mare sorpresi che ci piacessero a loro sembravano solo zolle sterili, i patrimoni formali per le figlie zitelle. Ai maschi di famiglia spettavano i terreni buoni, quelli in altura, da pascolo. Negli anni quell’abitudine ha prodotto le zitelle più ricche del Mediterraneo. Un giorno a mio padre proposero la vendita di un terreno a Ottiolu per cinque lire al metro quadro ed egli rifiutò perché certo amava la meravigliosa bellezza di
quei posti, ma non pensava che avessero una prospettiva.
E questo è il motivo per cui per vivere devo fare lo scrittore. Esisteva una gratuità in quella bellezza che oggi si è definitivamente consumata, ma credo derivi dal fatto che in pochissimi anni il brutto ha totalmente preso il sopravvento. È stato un processo lento ma inesorabile. Erano gli inizi degli anni Ottanta quando mio padre mi propose di ripercorrere le strade della sua giovinezza, voleva che vivessi la sua meraviglia, nell’età stessa in cui lui l’aveva vissuta. Ma più che dai posti, che per me erano ancora bellissimi, compresi il mutamento dagli occhi di mio padre. A lui quei posti sembrarono improvvisamente cambiati, ma non, come si potrebbe pensare, perché il suo sguardo era cambiato, ma perché in quella natura si erano innestate le prime, costruzioni. Erano case spudoratamente in riva al mare, spesso lambivano la spiaggia. Erano alberghi imponenti a due passi dalla battigia. Erano edifici che si opponevano allo sguardo con arroganza. La sicumera dei pionieri che godevano di una completa deregulation.
I paesi costieri, ora presi d’assalto dal turismo di massa, parvero improvvisamente disegnati da geometri ripetenti. Quei terreni in altura si trasformarono da miniere d’oro a territori di massacro: si guadagnava di più con due giorni di affitto che con un mese di pastorizia. Nello sguardo di mio padre imparai a riconoscere la paura per una mutazione antropologica che ci stava afferrando, che stava spostando il nostro baricentro di sardi dall’identità vera a quella presunta, dalla memoria al folk, dall’autentico alla copia. Mio padre mi confessò di sentirsi tradito e io da quella confessione non sono mai più riuscito a liberarmi neanche adesso che le sue paure apparentemente incomprensibili si sono realizzate in tutta la loro drammaticità.
Credo che allontanarci dalla passione di quella bellezza semplice sia stato l’errore fatale. Perché oggi, che ogni possibilità di salvezza pare consumata, si vorrebbe ritornare a quell’infanzia lontana e irraggiungibile che ci faceva vivere la meravigliosa e delicatissima complessità del nostro territorio senza che ne avessimo una precisa coscienza. Era come respirare, era come quando ci si innamora.

La Repubblica 21.11.13

“Una soluzione debole”, di Luca Landò

Si scrive Cancellieri, si legge Letta. Il voto con cui la Camera ha ribadito ieri la fiducia al Ministro è, di fatto, un voto di fiducia al Governo nella sua rinnovata veste delle piccole intese. E non poteva essere altrimenti, dopo che il premier – partito da Olbia e atterrato direttamente all’assemblea dei deputati democratici – aveva chiesto martedì sera un sostegno, senza se e senza ma, all’esecutivo di cui il Pd, dopo l’uscita della «nuova» Forza Italia, è diventato socio di maggioranza assoluta.

Con gli occhiali da presbite – quelli per veder da vicino, molto vicino – non c’è dubbio che Enrico Letta esce rinforzato da questo voto, perché ha ottenuto quello che voleva: una prova di compattezza e di fedeltà, non solo da tutto il partito, ma anche dai tre candidati alla segreteria che pure avevano chiesto – prima Renzi, poi Civati, infine Cuperlo – che la Cancellieri facesse un passo indietro. In un teorico – ma nemmeno troppo – incontro sulle quindici riprese, diciamo che il primo round va sicuramente al presidente del Consiglio, anche se il «sindaco ribelle» ha dato di nuovo mostra di responsabilità adeguandosi, come aveva già fatto dopo la vittoria di Bersani alle primarie del 2012, alla linea del partito.

Con gli occhiali da miope, quelli per veder un po’ più da lontano, la realtà è però molto diversa. E mostra un Pd costretto a obbedire per necessità, più che per volontà, a una linea imposta dall’alto e nemmeno dal segretario del partito. Perché se è vero che Epifani ha più volte ribadito che l’unità dei Democratici andava difesa ad ogni costo, è altrettanto innegabile che nel Pd le posizioni di dissenso verso la Cancellieri hanno cominciato a crescere di giorno in giorno, tanto che c’è voluto il drammatico ma fermo richiamo del presidente del Consiglio per invitare i tre contendenti alle primarie, e non solo loro, a rimettere l’arma della richiesta di dimissioni nelle rispettive fondine.

Se questa è la situazione, è chiaro che nel Pd è in atto «un inverno del nostro scontento» che non renderà certo facile né i lavori né il cammino del governo dopo l’8 dicembre, lasciando intravvedere i fotogrammi di un possibile remake di quella carica dei 101 che abbiamo visto, non al cinema, ma al Parlamento lo scorso aprile.

Con questo paio di occhiali, la decisione di portare la ministra al voto di fiducia – esito scontato se non si voleva far cadere l’esecutivo – appare dunque come una prova di debolezza, non di forza. Soprattutto alla luce delle nuove carte spuntate, come per miracolo, poco dopo il voto di ieri. Anziché blindare il Guardasigilli, il presidente del Consiglio avrebbe dovuto far di tutto perché a quel voto non si arrivasse nemmeno, chiedendo al ministro di compiere quel passo indietro che, tra l’altro, lei stessa aveva annunciato qualora fosse stata ritenuta di peso per l’esecutivo. Una scelta difficile, lo sappiamo, perché Annamaria Cancellieri non è stata indagata per la questione delle telefonate ad Antonino Ligresti né è risultata determinante nel passaggio di Giulia Ligresti dal carcere ai domiciliari, come ha detto fin dall’inizio il procuratore generale di Torino Gian Carlo Caselli.

Il punto, impossibile da nascondere, è che in questa vicenda esiste un’ombra ingombrante. Si chiama conflitto di interessi, anche se non ha nulla a che fare con quello che conosciamo purtroppo da vent’anni e che riguarda la commistione tra politica e affari, passando per il nodo delicato e cruciale del controllo dell’informazione. Il conflitto di interessi che emerge e incombe è di altro tipo e riguarda la sfera privata e personale della signora Cancellieri, amica della famiglia Ligresti, e la dimensione pubblica e istituzionale del ministro Cancellieri. Questo, non altro, è il groviglio che il responsabile di Via Arenula avrebbe dovuto sciogliere alla Camera e che invece ha lasciato intatto dopo il suo intervento di ieri. Ma se questo, non altro, è il nodo dell’intero gomitolo, è del tutto evidente che la responsabile della Giustizia ha commesso un errore, perché proprio in virtù del rapporto di amicizia con la famiglia Ligresti e del suo attuale ruolo, il ministro avrebbe dovuto fin dall’inizio dichiarare a tutti, amici compresi, la sua impossibilità a occuparsi del caso di Giulia Ligresti, a differenza di quanto fatto in almeno altre cinquanta vicende simili come ha dichiarato lo stesso Guardasigilli. Perché se è vero che anche i ministri hanno un cuore (parole di Cancellieri) è altrettanto indiscutibile che i cittadini abbiano il diritto di essere sicuri, al di là di ogni ragionevole dubbio, che chi li amministra e li governa lo faccia obbedendo alla legge e non all’amicizia, specialmente quella con i potenti. I rapporti personali con i Ligresti, tanto per essere chiari, avrebbero dovuto essere un freno all’azione del ministro, non una sua giustificazione.

L’Unità 21.11.13

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“Gli Standard della Moralità”, di ANTONIO POLITO
Bisognerà mettersi d’accordo sugli standard di moralità pubblica, se vogliamo uscire dall’incubo di questo ventennio. Gli italiani non ne possono più dei livelli record di corruzione, favoritismo e nepotismo; ma il mondo politico è diviso sulle sanzioni. A un estremo ci sono quelli che perdonerebbero tutti per condonare se stessi; all’altro i Torquemada che condannerebbero chiunque pur di guadagnarsi il favore popolare. In mezzo c’è il Pd. Come dimostra il caso Cancellieri, la linea di frontiera passa di lì. E non è solo frutto di tatticismo, Renzi che vuole fare le scarpe a Letta, Cuperlo che vuole farle a Renzi, più una pletora di personaggi minori in cerca di fama. C’è qualcosa di più profondo.
Una deputata democratica confessava qualche giorno fa il suo imbarazzo: «Mia madre mi ha detto che se salviamo la Cancellieri non ci voterà mai più. Mio marito mi ha detto che non ci voterà più se l’abbandoniamo». È questa incertezza sui principi a spiegare perché il Pd assomigli sempre più a un’agorà e sempre meno a un partito, una piazza dove tutti votano a piacere e molti obbediscono a impulsi esterni. In quale altro partito il segretario avrebbe rinunciato a presentarsi con una sua proposta all’assemblea che doveva decidere sulla sfiducia? C’è dovuto andare il presidente del Consiglio, per ricordare a tutti che se un partito al governo vota con l’opposizione contro il governo, non c’è più il governo. Civati l’ha definito un «ricatto», ma è l’Abc della politica.
Bisogna dunque cercare criteri per giudizi rigorosi ma equanimi, sottratti alla faziosità di quella lotta politica che, anche in assenza di atti giudiziari, non esita a sfruttare brogliacci di polizia, fughe di notizie, voci.
La prima regola è che i fatti contano più delle parole. Dopo quella telefonata — durante la quale il ministro non ha parlato come un ministro — la Cancellieri compì atti contrari ai propri doveri d’ufficio? Secondo la Procura, secondo i vertici del sistema penitenziario, e da ieri secondo il Parlamento, non li ha compiuti. Si fanno spesso paragoni con Paesi più virtuosi ed esigenti, dove i ministri si dimettono per non aver regolarizzato una colf o per aver copiato a un esame. Ma in Paesi con telefoni meno intercettati, la sanzione politica riguarda pur sempre atti effettivi, accertati, gli unici su cui può giudicare l’opinione pubblica. Sui peccati compiuti con pensieri e parole si risponde solo in confessionale, o alla propria coscienza. Anche nel diritto penale le intercettazioni sono considerate uno strumento di ricerca della prova, non la prova.
Seconda regola aurea: l’indignazione non può essere a corrente alternata. Faceva ieri un certo effetto vedere Montecitorio che si dilaniava sulle telefonate della Cancellieri e non sulle responsabilità della tragedia in Sardegna. Nei famosi «Paesi civili» sempre invocati, ci si dimette per una mancata prevenzione o un tardivo soccorso. Da noi ormai si accetta un disastro ambientale all’anno come una fatalità. Non è anche questo uno standard inaccettabile di moralità pubblica? Coloro che imputano alla Cancellieri di aver trascurato gli altri detenuti per favorirne una, sono gli stessi che (Grillo e Renzi in testa) si opposero all’amnistia proposta dal ministro per alleviare la scandalosa condizione di tutti i detenuti italiani. Quando avrà finito con i tabulati telefonici, la politica discuterà con la stessa passione del piano-carceri?

Il Corriere della Sera 21.11.13

“La tempesta per il governo non è finita”, di Marcello Sorgi

Pagato a carissimo prezzo, agli occhi dell’opinione pubblica, il salvataggio della Cancellieri, e appresso a lei del governo, che non avrebbe retto alle sue dimissioni, non è servito purtroppo a ridare un po’ di stabilità a Letta e al suo sofferente esecutivo. A giudicare dal tenore del dibattito di ieri alla Camera, anzi, dopo la rottura del centrodestra maturata nel fine settimana, il virus corrosivo della divisione adesso ha di nuovo aggredito il centrosinistra.

L’idea che con la nascita di una destra di governo, alternativa a quella populista e berlusconiana che si accinge a passare all’opposizione, la maggioranza sarebbe subito diventata più omogenea e più forte, al momento è ancora lontana dalla realtà. Le due destre infatti marciano divise per colpire unite. E soprattutto quella di governo, il Nuovo Centrodestra che avrebbe dovuto incassare il salvataggio della Cancellieri come una propria vittoria, sembra in primo luogo preoccupato di non apparire subalterno al premier e al suo partito. Di qui attacchi simmetrici a Renzi, trattato da avversario, non come possibile nuovo alleato dei prossimi mesi, e additato, per propri interessi congressuali, come vero responsabile della messa in stato d’accusa della Guardasigilli.

Nel centrosinistra inoltre il voto di ieri lascia uno strascico di polemiche e un forte desiderio di rivincite che non tarderanno a manifestarsi. Bastava guardare i visi lunghi dei parlamentari del Pd, che hanno votato per pura disciplina la fiducia alla ministra, o ascoltare l’intervento alla Camera del segretario Epifani – concluso con un invito alla Cancellieri ad adoperarsi per fugare le ombre rimaste sul suo comportamento nei confronti dei Ligresti -, per capire che quello a cui si è assistito a Montecitorio è solo il primo tempo di una partita, che necessariamente si concluderà con le primarie dell’8 dicembre e l’annunciata ascesa del sindaco di Firenze alla segreteria del Pd. Si vedranno allora, dicono tutti, le vere intenzioni del nuovo leader. Ma se anche Renzi all’inizio avesse pensato di stare a guardare, anche per non dar ragione a tutti quelli che si aspettano che alla prima occasione faccia cadere il governo, ciò che è accaduto tra martedì e ieri – con la decisione di Letta di «metterci la faccia», malgrado il sindaco, e prossimo segretario, lo avesse invitato a fare esattamente il contrario, e con dalemiani e bersaniani che giravano per il Transatlantico facendo il gesto «tiè!» -, non costituisce certo un invito al futuro leader a porgere l’altra guancia.

Si dirà che forse era troppo presto, per aspettarsi un rasserenamento della tempesta continua in cui il governo è costretto a navigare fin quasi dalla sua nascita. Ed è vero. Tra qualche giorno, quando le due destre si divideranno sul voto per la legge di stabilità, e quando Berlusconi, dichiarato decaduto, sarà fuori dal Parlamento, il nuovo quadro politico fondato sull’asse tra Letta e Alfano, a cui si deve il salvataggio della Cancellieri, e sulla prosecuzione del governo fino al 2015, dovrebbe prendere corpo e consistenza. E a quel punto si capirà quale dei due nuovi poli della politica italiana sarà più forte, tra quello dei due «dioscuri» di Palazzo Chigi, su cui vigila il Quirinale, e quello movimentista di Renzi, che guarda più alla società civile e alla competizione con Berlusconi e Grillo, che non alle responsabilità istituzionali del partito che si accinge a guidare. Ma intanto, nelle due settimane e mezza che allineano, una dopo l’altra, le tre scadenze dell’approvazione della legge di stabilità, del voto sulla decadenza di Berlusconi e delle primarie del Pd, conviene tenersi pronti a continuare a ballare: perché la tempesta non è affatto finita e il governo dovrà ancora navigare alla cappa.

La Stampa 21.11.13

“Berlino minaccia l’Unione Europea”, di Guido Carandini

Sovente è bene dimenticare un brutto passato, ma è un errore cancellarlo per la insana paura di un suo ripetersi. Soprattutto quando il passato è quello degli ormai lontani anni in cui compariva in Germania il libro intitolato Mein Kampf di Hitler, colpevolmente ignorato fino alla sua presa del potere nel 1933, dato che conteneva l’intero programma al quale egli si sarebbe dedicato durante la dittatura nazista, associandosi a quella fascista, e scatenando la più micidiale e distruttiva guerra dell’intera storia umana. Venti milioni di vittime di guerra e razziali, e l’Europa in macerie.
Si, è verissimo, la storia non si ripete, e dal ritorno alla pace nel 1945 a oggi il mondo si è trasformato in modo così radicale da far apparire
Mein Kampf– con i suoi progetti di sterminio e di conquista dell’Europa da parte della Germania, quale unica potenza in grado di fermare il temuto predominio degli Stati Uniti – una pura manifestazione di psicopatia paranoica. Ma che questa sia penetrata nell’anima dell’intero popolo tedesco, rendendolo totalmente complice di Hitler, è cosa che la storiografia non ha ancora spiegato in modo sufficiente, forse perché ha trascurato uno dei concetti essenziali che ispiravano il suo progetto. Quello di assicurare al popolo tedesco un lebensraum, uno spazio vitale
per il suo sviluppo, enormemente maggiore di quello della sua patria, conquistandolo con le armi nell’est europeo. Hitler affermava esplicitamente in quel testo di voler dotare il suo popolo di un territorio non minore di quello di cui godeva negli Stati Uniti il suo avversario popolo americano. Insomma una espansione imperialista intra-europea che assicurasse ai tedeschi, il popolo ariano eletto, un dominio mondiale a scapito di quello giudaico-americano. Quando la guerra è finita il popolo tedesco si è risvegliato, ferito e in miseria, dall’incubo paranoide in cui era precipitato, e il suo unico spazio vitale si è rivelato essere quello di una nazione distrutta e divisa dal muro di Berlino, ma in una Europa pacificata e dedita alla ricostruzione morale e materiale.
A quel punto il popolo tedesco ha dovuto compiere la sua completa conversione, come quello italiano, ai valori della modernità e ai principi della civiltà capitalista democratica dell’Europa vincitrice. La quale, dopo la caduta di quel muro, avrebbe accolto anche la intera nazione tedesca fra i suoi membri più attivi e convinti di portare avanti il grande progetto federalista di una Unione continentale di popoli che per secoli si erano combattuti, ma ora dovevano gareggiare fra loro nella conquista dello sviluppo economico e del benessere sociale.
Ma il sogno tedesco di un suo lebensraum dove era finito nel frattempo? L’est europeo era perduto per sempre, ma era sorto inaspettatamente un nuovo gigantesco spazio vitale disponibile alla conquista non più da parte di panzer divisionen, ma di grandi industrie e di potenti finanze, cioè il mercato globale. E l’Europa unita era naturalmente candidata a essere uno dei maggiori contendenti nella conquista di occasioni di crescita in quel
lebensraum mondiale, a condizione però di agire concordemente, dandosi le istituzioni politiche ed economiche di un vero grande Stato federale. Ma questo non è avvenuto, e per opposizione di chi? Della Germania ovviamente, la principale avversaria di una Banca Centrale Europea dotata di tutti i poteri di ogni vera Banca centrale, compreso quello, largamente usato in Gran Bretagna e negli Stati Uniti, di stampare moneta per finanziare una politica espansiva nelle fasi di recessione.
E perché mai la Germania è invece contro quella politica e impone, in accordo con il nord-Europa, la più rigida austerità ai danni del centro-Europa? È consentito sospettare che il precipizio economico che minaccia i Paesi di quest’area, l’Italia in primo luogo, e la loro progressiva deindustrializzazione, rientrino in un disegno di riservare il nuovo immenso lebensraum esclusivamente ai Paesi del Nord guidati dalla Germania? A pensar male si fa peccato, ma almeno può spingere qualcuno a pentirsi di aver inserito nella propria Costituzione un lucchetto alla ripresa e di aver gettato via la chiave.

La Repubblica 21.11.13

“Ripartono gli investimenti: 40 milioni per 30 anni”, di Massimo Frontera

La riattivazione di un canale di finanziamento costante e di lungo è periodo è la principale positiva novità del Dl Istruzione a favore dell’edilizia scolastica e dell’edilizia universitaria, cui sono dedicati gli articoli 10, 10-bis e 10-ter. La novità sta nella possibilità di attivare mutui trentennali agevolati con le banche, a cominciare dai tre istituti indicati nel Dl e cioè la Banca europea per gli investimenti, la Banca di Sviluppo del Consiglio d’Europa e la Cassa depositi e prestiti.
Quaranta milioni l’anno
La somma di 40 milioni di euro all’anno per 30 anni rappresenta una iniezione di risorse che l’Ance (Associazione nazionale dei costruttori edili), applicando un modello di calcolo sperimentato per investimenti infrastrutturali, ha quantificato in una dote di 850 milioni al settore. Una boccata d’ossigeno non da poco, anche perché il contributo copre per intero l’ammortamento dell’investimento (cioè capitale e interessi).
Nella versione iniziale del Decreto 104, la possibilità era riservata a interventi di ristrutturazione straordinaria e messa in sicurezza di scuole esistenti. Nella versione modificata dalla Camera (e ratificata dal Senato) la disposizione è stata totalmente “sblindata” confermando la possibilità di investire anche in nuove scuole, includendo gli impegnativi interventi di adeguamento antisismico e, infine, abbracciando anche il comparto dell’edilizia universitaria (il cui programma statale, espressamente dedicato, ha messo in evidenza difficoltà e rallentamenti).
Pagamenti semplificati
Oltre al potenziamento dello strumento, è stata semplificata la procedura di pagamento: sarà appunto lo Stato a regolare l’ammortamento direttamente all’istituto finanziatore, per conto delle Regioni. Gli interventi vanno previsti dalla programmazione delle Regioni nel periodo 2013-2015.
L’attuazione della misura dovrà attendere un decreto interministeriale (Mef-Miur-Infrastrutture) in uscita entro il 12 febbraio (cioè tre mesi dall’entrata in vigore della legge di conversione).
La misura va letta come ulteriore tassello alle precedenti norme a favore dell’edilizia scolastica che il ministro Maria Chiara Carrozza è riuscita a includere nel Dl fare (69/2013). Sono due le misure di rilevo: i 150 milioni a fondo perduto (appena assegnati) per la manutenzione di quasi 700 scuole in Italia; i 300 milioni all’anno nel triennio 2014-2016 che arriveranno dall’Inail a titolo di investimento (quindi con un ritorno economico per l’Istituto), in base a un’apposita convenzione, che però non è ancora all’orizzonte.
Monitoraggio rafforzato
Il decreto prevede anche un rafforzamento del monitoraggio degli interventi. Una volta l’anno il Parlamento riceverà una relazione interministeriale sullo stato di avanzamento dei cantieri e sulla relativa spesa. Potenziato anche lo stanziamento di 3,5 milioni di euro all’anno tra il 2014 e il 2016 per «l’individuazione di un modello unico di rilevamento e potenziamento della rete di monitoraggio e di prevenzione del rischio sismico». Sarà un Dpcm a spiegare come deve essere condotto il monitoraggio. Infine, il Dl dà tempo fino al 30 giugno 2014 per stipulare in forma olografa le convenzioni attuative degli interventi urgenti in attuazione di delibere Cipe del 2010.

Il Sole 24 Ore 20.11.13

Primarie Pd, saranno allestiti 119 seggi in tutta la provincia

L’elenco dei seggi e le regole per il voto, da giovedì 21 novembre, su www.pdmodena.it. Si è messa in moto, nel modenese, la complessa macchina organizzativa in vista delle primarie per la scelta del segretario nazionale e dell’Assemblea nazionale del Pd fissate per domenica 8 dicembre. Da giovedì 21 novembre saranno on line sul sito del Pd modenese, all’indirizzo www.pdmodena.it, l’elenco dei 119 seggi e le regole di voto per partecipare alle primarie del Pd. Ecco un sunto delle principali novità:

Dove sono i seggi – Sono 119 i seggi che verranno allestiti in tutta la provincia, 23 (più un seggio speciale per i fuori sede allestito presso la Federazione) nella sola città di Modena e 13 in quella di Carpi. Ad ogni seggio Pd vengono associate le sezioni elettorali corrispondenti di modo che tutti coloro che vorranno partecipare alla consultazione Pd sapranno qual è il seggio in cui possono votare in base al numero della sezione elettorale a cui sono assegnati nelle elezioni generali. L’elenco dei seggi sarà consultabile da giovedì 21 novembre sul sito del Pd modenese.

Quando si vota – Si voterà nella sola giornata di domenica 8 dicembre. I seggi saranno aperti dalle 8.00 del mattino alle 20.00 della sera con orario continuato. Alla chiusura dei seggi inizieranno le operazioni di scrutinio.

Chi vota – Possono partecipare al voto tutte le elettrici e gli elettori che “dichiarino di riconoscersi nella proposta politica del partito, di sostenerlo alle elezioni e accettino di essere registrate nell’Albo pubblico delle elettrici e degli elettori del Pd”. Votano quindi tutti i cittadini italiani, i cittadini dell’Unione europea residenti in Italia, i cittadini extracomunitari in possesso del permesso di soggiorno, che abbiano compiuto il 16esimo anno di età. Votano sia iscritti che non iscritti al partito.

Documenti necessari – L’elettore deve presentarsi al suo seggio di riferimento munito di carta d’identità, tessera elettorale e, se iscritto, tessera di iscrizione al Pd. Gli iscritti al partito non sono tenuti, infatti, al versamento di 2 euro, contributo minimo alle spese organizzative che viene, invece, richiesto agli altri elettori.

Pre-registrazioni – A differenza delle primarie del 2012, non è necessaria la pre-registrazione. E’, comunque, possibile pre-registrarsi on line all’Albo dei elettori del Pd andando sul sito www.primariepd2013.it entro le ore 12.00 di venerdì 6 dicembre. La pre-registrazione consente di snellire l’attesa al seggio. E’ prevista anche la possibilità di effettuare on line il versamento del contributo: non più 2 euro, ma 2 euro e 50 centesimi (con l’aggiunta, ovviamente, della commissione che varia a seconda della propria carta di credito). Chi si pre-registra on line, può comunque decidere di pagare i 2 euro al seggio al momento del voto.

Voto fuori sede – Tutti coloro che l’ 8 dicembre dovessero trovarsi per motivi di lavoro o di studio in una provincia diversa da quella di residenza, per poter votare alle primarie Pd dovranno effettuare la registrazione online all’Albo degli elettori entro e non oltre le ore 12.00 di venerdì 6 dicembre 2013 sul sito internet www.primariepd2013.it nell’apposita sezione dedicata ai fuori sede, indicando la propria residenza e in quale comune intendono recarsi a votare. In tal modo, il registro degli elettori preregistrati online del seggio in cui dovranno recarsi a votare sarà automaticamente aggiornato con il loro nominativo, mentre al seggio originario associato alla propria residenza sarà data comunicazione di tale richiesta. Lo studente e il lavoratore fuori sede, impossibilitato ad accedere ad Internet, può registrarsi anche presso la sede provinciale del Pd in via Scaglia est 15, a Modena, sempre entro e non oltre le ore 12.00 di venerdì 6 dicembre.

“Non lasciamo impuniti gli evasori fiscali”, di Carlo Troilo

L’evasione fiscale in Italia (dati del Ministero dell’economia) supera i 120 miliardi l’anno. Per avere un’idea di cosa significhi questa cifra, con essa si potrebbero dare oltre 1.000 euro al mese. E a ciascuno degli otto milioni di poveri censiti dall’Istat: si potrebbe, in altre parole, «abolire la povertà». Dopo decenni di inefficaci redditometri e altre misure inefficaci, va detto chiaramente che una lotta vera all’evasione presuppone la chiara affermazione che essa costituisce il più grave dei reati economici, sia dal punto di vista morale sia per il danno economico che provo- ca al Paese; e dunque va severamente punita sul pia- no penale (l’ultimo rapporto Ires ci dice che il 70% degli italiani è a favore della introduzione di uno specifico reato, specie per i «grandi evasori»). Negli Usa l’evasione è quasi inesistente perché ogni anno finiscono in carcere – con condanne sempre superiori ai tre anni – almeno 1.000 evasori.
La corruzione, secondo la Corte dei Conti, pesa sull’economia italiana per 60 miliardi l’anno: le «bustarelle» fanno impennare del 40% il costo delle gran- di opere. Un livello di corruzione che ci pone agli ultimissimi posti nelle graduatorie internazionali e che ha indotto Papa Bergoglio (che essendo argentino di corruzione ne sa qualcosa) a parlare della «dea tan- gente». Anche in questo caso, la severità delle condanne è il solo deterrente efficace.

Il costo della politica ha dimensioni ben note. Limitandosi a due delle misure annunciate più volte da tutti i governi recenti – l’abolizione del livello elettivo delle provincie (con loro i 3.500 consiglieri) e la trasformazione del Senato in «camera delle autonomie locali» – si potrebbero risparmiare almeno dieci miliardi.

Recuperando appena il 25% su evasione e corruzione, a questi 10 miliardi se ne potrebbero aggiungere altri 40.

Solo intervenendo su queste tre voci (ma è noto che vi sono infinite altre aree di sprechi e di privilegi) lo Stato disporrebbe così ogni anno di 50 miliardi di euro per ridurre il debito pubblico e/o investire fortemente nei settori decisivi per una nuova fase di sviluppo economico.

Mi sembrano ottime ragioni per chiedere ai candidati alla segreteria del Pd (il vincitore, oltre che segretario del partito, sarà sperabilmente anche il prossimo presidente del Consiglio) che almeno su questi tre punti dicano con assoluta chiarezza quali sono i loro programmi.

Anche per poter ricominciare a sperare, in un momento in cui il governo si esibisce in una serie di manovre pur di eludere la soluzione delle questioni che ho evocato. Per simmetria, anche in questo caso ne cito solo tre. La prima è la creazione di un groviglio di nuove imposte locali in cui è impossibile districarsi e che in realtà servono a coprire il buco creato con l’improvvida abolizione dell’Imu prima casa. La seconda – anch’essa un gioco delle tre carte – è la finta privatizzazione di parti delle imprese controllate dallo Stato: finta perché l’acquirente, la Cassa Depositi e Prestiti, è a sua volta un ente di proprietà pubblica. La terza è un ulteriore giro di vite sulle «pensioni d’oro», che sarebbe accettabile se non fosse che fra queste il governo include anche pensioni di 2.000 euro, frutto del versamento, per decenni, di consistenti contributi previdenziali: un vero accanimento contro «i soliti noti».

Mi auguro vivamente che i candidati alla segrete- ria del Pd dicano con chiarezza – in attesa di un programma che riguardi anche altri temi non di carattere economico, come le riforme istituzionali e i tanti diritti civili negati agli italiani – cosa intendono fare per porre fine a queste autentiche vergogne nazionali.
PS. Personalmente sono un garantista, favorevole a depenalizzare il maggior numero possibile di reati e ad abolire subito la Fini-Giovanardi. Ma garantismo non vuol dire lasciare impuniti reati odiosi come l’evasione.

L’Unità 20.11.13