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“Il dovere di proteggere un paese troppo vulnerabile”, di Pietro Greco

Quello che si è verificato ieri in Sardegna è stato un evento meteorologico estremo. Intenso e raro, sul Mediterraneo. Lo hanno battezzato ciclone Cleopatra ed è stato causato da un vortice di aria fredda.Quel vortice si è staccato da una grossa perturbazione proveniente dalle zone artiche e, a contatto con il caldo Mediterraneo, ha fatto sì che si formasse e si scaricasse sulla Sardegna una «bomba d’acqua». Il nome Cleopatra non ha alcun significato scientifico. E «bomba d’acqua» è una pura invenzione giornalistica. Mentre tecnicamente potremmo definire il fenomeno che ha interessato la Sardegna un ciclone: un ciclone extratropicale, per la precisione. Ma la definizione tecnica ci dice poco, perché ogni depressione atmosferica è tecnicamente un ciclone. Dunque dovremmo chiamare ciclone (anzi, ciclone extratropicale) ogni perturbazione che giunge in Italia, che porta con sé vento e pioggia e che è causata dalla bassa pressione. Il che ci aiuta a capire poco quello che è successo ieri sull’isola dove, in alcune zone, sono caduti anche 470 millimetri di acqua a causa di una pressione bassa. Inoltre per ciclone, nell’uso comune, intendiamo ormai i fenomeni meteorologici estremi che si verificano nell’Atlantico (mentre i tifoni sono quelli dell’Indopacifico). In definitiva, dovremmo stabilire una nomenclatura più chiara e precisa per dare un nome chiaro e non ambiguo a questi fenomeni meteorologici estremi che, a quanto pare, vanno aumentando per frequenza e intensità a causa dell’aumento della temperatura media del pianeta. Ma il problema nominalistico non è che l’indizio dell’impreparazione che abbiamo ad affrontare i cambiamenti climatici, con il previsto aumento, per numero e intensità, dei fenomeni meteorologici estremi. Un aumento che è già in atto. L’aumento dei fenomeni meteorologici estremi in Italia si trasforma in aumento del rischio idrogeologico a causa della vulnerabilità del Paese. Una vulnerabilità demografica – la densità della popolazione è alta – e una vulnerabilità orografica: il territorio di quello che Antonio Stoppani chiamava il Bel Paese è montuoso, collinoso e soprattutto fragile. Ma i danni causati dai fenomeni meteorologici estremi non sarebbero così alti se accanto alla frequenza dei fenomeni e alla vulnerabilità dei luoghi non si abbinasse la scarsa percezione del rischio. Facciamo troppo poco per ridurre il rischio idrogeologico e proteggere noi stessi e le nostre cose. Sappiamo che il numero di morti in Sardegna a causa del dissesto idrogeologico è più alto della media nazionale. Ma non abbiamo fatto nulla per cercare di ridurla, quella tragica frequenza statistica. Dunque, non meravigliamoci se una ottantina di terribili tornado negli Stati Uniti nei giorni scorsi abbiano fatto meno vittime di un unico evento meteo, per quanto intenso, in Sardegna. Evitare che a pagare il prezzo dell’alta vulnerabilità e della bassa percezione del rischio siano persone con la loro vita è un valore in sé. Tuttavia accanto a questo valore che non ha prezzo, cambiare nei fatti la nostra percezione del rischio idrogeologico ne ha anche uno, di valori, economico. Anzi, a ben vedere, si tratta di un doppio valore. Uno è, per così dire, passivo: se investiamo dieci, nel giro di pochi anni, otteniamo trenta o quaranta solo perché evitiamo dei danni, alle persone e alle cose. E i morti, i feriti, i danni materiali hanno un forte costo economico. Ma c’è di più. Se modifichiamo la nostra percezione del rischio e trasformiamo la vulnerabilità demografica e orografica in un’opportunità, possiamo creare lavoro. E lavoro qualificato. Abbiamo un territorio fragile? E allora iniziamo a studiarlo e a utilizzare le migliori tecnologie possibili, materiali e immateriali, per renderlo sempre più adatto a sopportare eventi estremi. Abbiamo una fragile cultura del rischio? E allora mobilitiamo i nostri esperti, ecologi, ingegneri, maestri per rafforzare il territorio; per creare sistemi coordinati di pronto allerta (early warning) e pronta azione. Si calcola che per la sola messa in sicurezza del territorio occorrano oltre 40 miliardi di euro. E che ce ne vogliano altri per creare una solida cultura del rischio. Troviamo le risorse e attiviamole. Questo è un progetto – uno dei migliori e più utili progetti possibili – per uscire dal declino avviando un percorso di sviluppo sostenibile che offre lavoro, utile e qualificato. Proviamoci. Lo dobbiamo a coloro che sono morti e ai loro figli. A noi e ai nostri figli.

L’Unità 20.11.13

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“Ora basta silenzi. Non è stata una fatalità”, di MICHELA MURGIA

Davanti a un padre morto affogato abbracciando il figlio di tre anni non si possono scrivere editoriali ponderati. Pensando a un giovane precipitato con l’auto nella voragine di un ponte, o a una famiglia annegata in un seminterrato, non vien fuori altro che rabbia: l’insensatezza di quelle perdite ammutolisce tanto quanto la campagna devastata, i paesi sfollati, i sopravvissuti ospitati in palestre e scuole elementari dove per giorni non si farà lezione.

L a Sardegna il silenzio lo sa fa re bene da sempre, tanto che è da due giorni che siamo senza parole. Le uniche che abbiamo usato sono state quelle necessarie a riconoscerci vicini, fratelli e solidali. Eppure il bisogno di dire qualcosa in più sulle ragioni di questo disastro nazionale comincia a vincere anche il più sgomento dei silenzi. Tiene sempre di meno il muro di educata omertà che vorrebbero imporci, come se fosse una prova di buon gusto non parlare di responsabilità delle morti davanti ai morti stessi. «Lasciamo a dopo le polemiche, adesso c’è l’emergenza», dirà chi aveva in carico la responsabilità che l’emergenza non si verificasse. Come se chiedere giustizia sui fatti fosse fare polemica. Come se pretendere risposte fosse un’offesa ai defunti. L’offesa vera davanti a quelle morti è altra: sarebbe affidarsi per l’ennesima volta a un dopo che non arriverà mai, come non è arrivato nelle alluvioni sarde precedenti: disastri ciclici tutt’altro che millenari, al punto che la mia generazione ne ha già viste tre. Quindi stavolta, ci dispiace, ma no: il silenzio beneducato di chi rimanda tutto a dopo non ci sta bene. Li sentiamo già mentre in giacca e cravatta dicono che l’alluvione in Sardegna è stata una terribile fatalità, un evento imponderabile, una disgrazia senza preavviso, una catastrofe fuori da ogni immaginazione, di quelle che accadono una volta ogni mille anni.

Lo diranno di sicuro – ma non lo dicono sempre? – abusando cinicamente della parola «destino» per nascondere dietro quell’alibi la responsabilità di tutte le loro ignavie. Questi signori non lo sanno che il destino è una cosa seria, fuori dalla loro portata, una cosa complessa che richiede di avere la misura del presente, il coraggio di ricordarsi del passato e abbastanza generosità per proiettare i propri sforzi nel futuro. La categoria del destino è quella che ci permette di sognare i figli, di cercare un lavoro, di costruire una casa, piantare un albero, fare un prestito a un amico e amare gli occhi di una donna o di un uomo per tutta la vita o solo per un attimo. Il destino in questi atti è un bene collettivo: non appartiene mai ai singoli, ma sempre alle comunità e vive della consapevolezza che siamo custodi della sorte altrui in qualunque nostro gesto e che quello che accade a ciascuno peserà prima o poi sulla vita di tutti. Il destino non è quindi la pioggia che cade, ma è l’argine invaso dai detriti non sgomberati. Non è il torrente che ingrossa, ma è senz’altro la casa che gli è stata costruita nel letto dove doveva scorrere. Non è il fango che scende a valle, ma di sicuro è la via chiusa tra villette a schiera che gli fa da diga dove non dovevano esserci altro che le braccia aperte della terra, pronte ad assorbire la furia del cielo.

Il destino è un progetto con nomi e cognomi e non è cieco né baro: dipende da noi. Chi oggi chiede spiegazioni non è quindi uno sciacallo inopportuno; è il sindaco lasciato solo che non tollera di sentir chiamare casualità il taglio di tutti i fondi per il piano di adeguamento idrogeologico, una decisione scellerata che appena quattro mesi fa ha lasciato i comuni senza i mezzi per curarsi del dissesto della terra. Chi chiede spiegazioni oggi è il geologo che non vuol più permettere che venga chiamata fatalità l’assenza di un piano regionale di protezione civile, anche se la Sardegna ha una legge che glielo impone dal 1989: in questi ventiquattro anni ci sono state molte alluvioni, l’ultima appena cinque anni fa con quattro morti, ma nessuna giunta regionale ha mai trovato il tempo di farlo. Il destino non è il futuro, questo ci piacerebbe dire ai signori con la giacca e la cravatta che lo stanno usando come alibi, però lo costruisce, prevedendolo. Peccato che la prevenzione non porti alcun consenso politico: è risparmio, non spesa, quindi non fa rumore, non procura alcuna audience emotiva, non ripaga nell’urna. La disgrazia invece vale molte cose: fondi in gran quantità, appalti per la ricostruzione e soprattutto occhi chiusi sulle responsabilità, sempre ipocritamente chiesti in nome del rispetto dei morti. I sardi e le sarde, che oggi hanno dato di sé stessi al mondo una prova di solidarietà che avrebbero di certo preferito risparmiarsi, se guardano l’orizzonte forse non vedranno solo le nubi ancora cariche di pioggia, ma anche il tramonto di un modello di sviluppo fondato sul mattone e sulla speculazione. Davanti a questa evidenza, pagata a prezzo carissimo, la comunità di destino che insieme rappresentiamo non può chiedere a sé stessa l’ennesimo silenzio.

La Stampa 20.11.13

“Un cinema su 4 rischia di sparire”, di Paolo Mereghetti

Il capodanno 2014 rischia di essere il più amaro per il cinema italiano. Il 31 dicembre le sale cinematografiche nazionali dovrebbero passare al digitale, altrimenti rischiano di non avere più film da proiettare, da quella data disponibili solo in formato digitale. E a quaranta giorni dalla scadenza, chi ha già sostituito i vecchi proiettori con il digitale non copre il 70 per cento del mercato.
Al 31 ottobre erano passati al digitale 2.434 schermi sui 3.936 in attività, cioè il 61,8 per cento del totale. Ma nelle ultime settimane l’ammodernamento delle strutture sta crescendo con più intensità e «alla fine dell’anno dovremmo arrivare al 70-75 per cento» sostiene Lionello Cerri, presidente dell’Associazione degli esercenti (Anec), che con la Sezione distributori dell’Anica ha favorito un protocollo per aiutare i «ritardatari»: visto che il passaggio al digitale chiede investimenti intorno ai 50 mila euro per sala (una cifra spesso fuori portata per i bilanci delle piccole monosale) e molte leggi regionali di aiuto alla riconversione diventeranno operative nei primi mesi dell’anno prossimo, i distributori chiedono che entro il 31 dicembre sia almeno «registrato l’acquisto dell’impianto digitale» (di fatto l’impegno a installarlo entro i primi quattro mesi dell’anno nuovo) per continuare a erogare quel contributo economico — il Vpf, Virtual print fee — che hanno messo in campo per favorire il passaggio alle nuove tecnologie (e risparmiare la spesa per la stampa delle copie).
Anche se detto così può sembrare complicato, alla fine la situazione è più semplice e insieme più drammatica perché il restante 25%, cioè una sala su 4, rischia la chiusura: l’Italia sta passando come tutto il mondo alla proiezione digitale (che fa risparmiare il costo della stampa delle copie: 800/1.000 euro ognuna), è in ritardo rispetto al resto d’Europa e ai Paesi più «avanzati» cinematograficamente (come gli Usa e la Francia, a cui una volta contendevamo primati di produzione e di pubblico), ma soprattutto rischia di perdere una parte del suo patrimonio di sale. «Perché le statistiche nascondono le disparità — spiega ancora Cerri —. I grandi circuiti di multiplex, come The Space e Uci, che da soli possiedono circa il 40 per cento degli schermi italiani, sono già tutti digitalizzati. A restare drammaticamente indietro sono le sale di certi centri cittadini dove magari sono l’unico luogo di aggregazione. O le piccole sale di provincia, che difendono con le unghie e con i denti il diritto dello spettatore a una programmazione meno debitrice dei soliti blockbuster».
L’educazione (e il rischio di reazioni) impediscono a Cerri di parlare di «programmazione intelligente», ma di fatto è così: una recente ricerca della Fice, l’associazione dei cinema d’essai, ha dimostrato che il 70, l’80 e a volte anche il 90 per cento degli incassi dei film «di qualità» avviene nei loro cinema. Tanto per fare qualche titolo: Viva la libertà , Quartet , Viaggio sola . Ma anche film come La miglior offerta o La grande bellezza hanno incassato rispettivamente il 39 e il 38 per cento del totale nei locali d’essai. Mica bruscolini.
E però quelli d’essai sono proprio i locali più a rischio: piccole imprese familiari che lottano con i denti per far coincidere indipendenza e qualità. «Per loro il rischio chiusura è dietro l’angolo. E non solo per i costi del passaggio al digitale» puntualizza Mario Lorini, presidente della Fice. «I problemi sono tanti, a cominciare da una distribuzione che, come è stato sottolineato anche dalla recente Conferenza nazione del cinema, ha più di un punto di criticità. Per esempio il fatto che alcuni distributori regionali controllino grandi circuiti di sale, innescando conflitti d’interesse che gli altri esercenti pagano sulla propria pelle». Per non parlare, aggiungiamo noi, dell’ambiguità legislativa che non impone un’autentica «libertà di prodotto», così che spesso certi film sono «negati» a questo o quell’esercente in nome di una razionalizzazione del mercato che può nascondere anche alleanze, vendette o «ricatti».
Interrogato sull’argomento Andrea Occhipinti, neopresidente dei distributori italiani, si rifugia in una battuta: «L’Italia è il Paese dei conflitti di interesse» e si impegna a «lavorare per essere sempre più trasparenti», ma lascia l’impressione che i tempi di questa «democratizzazione cinematografica» siano ancora molto lunghi.
Invece il 31 dicembre è dietro l’angolo. E nonostante gli exploit di Checco Zalone. Perché i suoi sei milioni e mezzo di spettatori hanno solo raddrizzato le statistiche annuali: dal primo gennaio al 17 novembre 2013 gli spettatori in Italia sono stati 80 milioni e 991 mila, solo il 4,54 per cento in più dello stesso periodo dell’anno scorso. E i 45 milioni di incassi di Sole a catinelle non sono riusciti a pareggiare i conti del 2012 (meno 0,91 per cento). Come si vede l’entusiasmo di questi giorni andrebbe almeno un po’ ridimensionato.
Certo, nessuno dichiara che non stamperà più un metro di pellicola (anche per le major hollywoodiane è prassi consolidata), ma business is business e se certe operazioni non saranno più convenienti, allora: addio pellicola. Il che per molte sale vorrà dire chiusura. «E a questo punto il problema sarà occupazionale, di qualche migliaio di posti di lavoro in meno, ma non solo» ci tiene a ribadire Lionello Cerri. «La centralità della sala cinematografica non riguarda solo l’industria, ma anche la loro funzione urbanistica, culturale, sociale. Senza locali di spettacolo, le città si spengono — guardate corso Vittorio Emmanuele a Milano dopo le otto di sera —, le persone hanno meno luoghi di aggregazione e l’identità culturale della nazione perde forza e intensità. Devo ricordare che fu proprio il cinema neorealista a restituire dignità politica a un’Italia che non era uscita molto bene dalla seconda guerra mondiale? O che Fellini e De Sica valgono per il brand Italia come Leonardo e Michelangelo? Se chiuderanno le piccole monosale forse le percentuali del fatturato-cinema non cambieranno di molto, ma l’effetto culturale sarà deflagrante».

Il Corriere della Sera 20.11.13

«Politica miope e abuso del territorio. Così si distrugge un’intera isola», di Paolo Conti

«Il grande problema della Sardegna è l’uso sconsiderato e incondizionato del territorio, senza alcuna preoccupazione per le conseguenze che derivano da certi interventi non solo edilizi. Colpa di una mancanza di una cultura diffusa, soprattutto da parte della classe politica. Da questo punto di vista si può dire che la Sardegna sia stata colpevolmente dimenticata. E anche consapevolmente, per i grandi appetiti immobiliari che suscita… Da sempre arriva molto denaro per costruire sulle coste, ora ne è in vista tanto dai Paesi Arabi…».
Il professor Angelo Aru, 83 anni, è il decano dei geologi sardi, autore negli anni 90 della Carta dei suoli della Sardegna e del progetto Medalus sulla desertificazione dell’isola, ma ha lavorato anche in Somalia, Venezuela e Cina. Sarà uno dei principali relatori del convegno «Sardegna domani!» organizzato dal Fai, Fondo Ambiente Italiano, a Cagliari per giovedì 28 novembre. L’età non gli impedisce una straordinaria capacità di analisi e una invidiabile prontezza nel citare dati, errori, omissioni.
Il professor Aru non è il tipo da prendersela «solo» con l’acqua caduta dal cielo: «Queste piogge convettive scaricano una immensa massa d’acqua in spazi di solito più vasti di quanto sia accaduto in queste ore. Ma non sono eventi straordinari, a mia memoria si sono verificati diverse volte. Il punto è l’uso, anzi l’abuso, del territorio: privo di programmazione e di attenzione verso le leggi naturali che lo regolano. Si costruisce ovunque, in particolare sulle aree di recenti alluvioni ai lati dei fiumi».
Ed è facile capire dove sia il vero pericolo secondo il professore: «Quelle aree rappresentano le casse di espansione di un corso d’acqua. Dovrebbe essere rigorosamente vietato costruire lì. Invece non si fa altro. Ed è una follia, lo vediamo proprio nel caso delle alluvioni» In pi ù c’è un aspetto non secondario. Ovvero la questione della fertilità: «Le zone alluvionate diventano le migliori aree agricole possibili. Conservarle sarebbe di immensa importanza strategica per l’economia della nostra regione. Nel mondo cresce la popolazione e diminuiscono le zone coltivabili. Invece, si ricorre solo al cemento, quando l’agricoltura sarà l’investimento del futuro.». E nemmeno l’esperienza sembra servire.
Prendiamo il caso dell’alluvione del 1999 a Capoterra, a 17 chilometri da Cagliari. Il professore è indignato: «Hanno continuato a costruire nella zona delle recenti alluvioni dimenticandosi che i bambini delle scuole in quell’area non morirono annegati solo perché l’ondata di piena si annunciò con anticipo.»
Seguendo il ragionamento e gli studi di Aru si scopre, per esempio, che persino la pastorizia può provocare un gravissimo danno all’equilibrio geologico. Anche qui siamo nell’ambito delle scelte politiche sbagliate. Per aumentare artificialmente le superfici a pascolo, si consentono arature anche a quote elevate e su aree in pendenza. Bisogna ricordarsi sempre che i suoli, così come si offrono in natura, sono i migliori regolatori dei deflussi a valle delle acque meteoriche. Quando si distrugge l’ecosistema montano, appunto arando la superficie, si mette a nudo il suolo minerale e si distrugge la sostanza organica originaria. E così il coefficiente di deflusso delle acque aumenta a dismisura, con tutto il materiale che viene trasportato».
Quindi erosione del territorio, perdita delle sue caratteristiche organiche, frane e smottamenti a valle. E nemmeno i rimboschimenti funzionano sempre bene, tanto per sfatare uno dei mille luoghi comuni che circondano la questione ambientale. Spiega il professore: «Molto spesso si ricorre a essenze resinose non adatte all’ambiente ecologico, che faticano a crescere e non risolvono il problema del territorio. Non si può collocare qualsiasi pianta ovunque. La biodiversità ha delle regole da rispettare»
E naturalmente c’è il problema dei problemi, in un’isola in cui il 96.7% del territorio non è edificato ma dove il 57% delle costruzioni totali riguarda la sola area costiera: case vacanze spesso vuote per mesi e mesi. Il professore propone un esempio tra i tanti: «Penso all’agglomerato di Costa Rei, a Villasimius. Un insieme di costruzioni assolutamente privo di una logica urbanistica in cui l’eccesso di cemento ha obliterato tutti gli sbocchi dell’acqua, come impongono le leggi naturali. Perché l’acqua ha sempre bisogno della sua strada. Lo vediamo drammaticamente in queste ore…»

Il Corriere della Sera 20.11.13

“Il codice del maltempo”, di Giovanni Valentini

Diluvio, alluvione, ciclone, bomba o inferno d’acqua. Di fronte al cataclisma in Sardegna, sono inadeguati gli strumenti, i mezzi e le risorse. Ma ormai sono inadeguate anche le parole. Saltano i parametri del linguaggio convenzionale. E sul piano mediatico, i vecchi schemi non riescono più a rappresentare i nuovi fenomeni, producendo un “buco” comunicativo nel circuito dell’informazione.
C’è un misto di incredulità, di fatalismo e di rassegnazione che contagia in questi casi l’opinione pubblica, come se un disastro di tale portata fosse un fenomeno soprannaturale, un castigo della storia oppure una maledizione divina. O comunque, un fatto altrui, remoto e distante non solo geograficamente. La liturgia della solidarietà, tanto doverosa quanto spontanea, contempla perciò il mistero della rimozione insieme alla recita di una litania a cui noi stessi — giornalisti, osservatori, commentatori — non riusciamo a sottrarci.
La verità è che questo atteggiamento mentale tende a esorcizzare la violenza e la crudeltà di certi eventi, per accantonare magari inconsapevolmente le nostre responsabilità individuali e collettive. Per tentare di cancellare il “peccato generazionale” di una distruzione sistematica dell’ambiente e della natura. Per trascurare o ignorare la manomissione del clima su scala planetaria, l’inquinamento atmosferico, il surriscaldamento della Terra.
C’è anche qualche colpa degli ecologisti in tutto questo. L’allarmismo, il catastrofismo, il millenarismo di una cultura apocalittica che spesso appare troppo radicale ed estremistica. E magari incapace di fornire risposte concrete e costruttive, per coniugare la difesa dell’ambiente con il progresso civile, l’occupazione, il benessere, secondo un equo ordine di priorità. Ma, dall’altra parte, c’è la barriera dell’indifferenza, dell’egoismo, dell’utilitarismo miope e gretto di un’organizzazione sociale che pratica lo sfruttamento intensivo delle risorse — ambientali, economiche e perfino morali — all’insegna del profitto più immediato.
In un mondo globale che tende a surriscaldarsi come una gigantesca sfera di fuoco, e non solo in termini climatici, la nostra fragile Penisola protesa nel Mar Mediterraneo diventa sempre più precaria e vulnerabile. Un Paese a rischio, in emergenza continua. Un Belpaese ridotto brutalmente a Malpaese. Il dissesto idrogeologico si chiama in realtà urbanizzazione selvaggia; cementificazione delle coste e dei fiumi; abbandono dell’agricoltura; incuria e degrado. Qui manca la prevenzione e manca soprattutto l’ordinaria manutenzione. Nella cosiddetta legge di Stabilità, il governo stanzia un obolo di 30 milioni di euro per la difesa del suolo, ma rischia di doverne spendere molti di più per riparare parzialmente i danni prodotti da terremoti, frane e alluvioni. E infatti, una risoluzione approvata all’unanimità dalla Commissione Ambiente della Camera, di cui è primo firmatario il presidente Ermete Realacci, ne reclama almeno 500 per mettere in sicurezza il territorio nazionale. Ma certamente lo Stato non potrà restituire la vita alle vittime, né risarcire il lutto delle loro famiglie e neppure curare lo choc dei 2700 sfollati.
Con un lugubre cinismo governativo, ora il giovane ministro dell’Ambiente proclama: «Avevamo avvertito di morti possibili». E il valoroso capo della Protezione civile assicura burocraticamente che «si è trattato di un evento eccezionale », com’è certamente un diluvio universale di quaranta centimetri di pioggia in poche ore. Ma non basta «avvertire», ministro Orlando, ammesso pure che l’allarme sia stato lanciato con tempestività ed efficacia. Né si può liquidare questa tragedia, prefetto Gabrielli, archiviandola sotto la categoria dell’eccezionalità.
Quelle che generalmente chiamiamo “calamità naturali”, senza trovare più neppure le parole per raccontarle e commentarle, non sono prodotte soltanto dalla mitica furia degli elementi. C’è un concorso di colpa dell’uomo che manipola il territorio, non lo governa e non lo custodisce. E c’è anche la corresponsabilità politica di chi, per dovere d’ufficio, non provvede a gestirlo con leggi, risorse e strumenti adeguati.
Davanti alle vittime e agli sfollati della Sardegna, non è il caso oggi di alimentare vecchie o nuove polemiche. Ma, proprio mentre è in corso a Varsavia la Conferenza dell’Onu sul clima, non si può fare a meno di ricordare che sono passati inutilmente sei anni da quando fu convocata in Italia nel 2007 una Conferenza governativa sui cambiamenti climatici per elaborare un “Piano nazionale di adattamento e di prevenzione”. E poi i governi successivi arrivarono quasi ad azzerare i fondi che erano stati già stanziati per aprire mille cantieri contro il dissesto idrogeologico e per la difesa del suolo.
È tempo dunque che la tutela dell’ambiente diventi politica generale. Cioè perno, asse portante, della politica economica e sociale. Questa è la via obbligata per la ripresa del Paese, della produzione e dell’occupazione, nella prospettiva di quella “Green Economy” che postula un nuovo modello di sviluppo.

La Repubblica 20.11.13

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“Mare sempre più caldo e gelo siberiano in quel mix fatale l’origine della catastrofe”, ANTONIO CIANCIULLO

«È stato un muro d’acqua che si è abbattuto sulle case e sulle strade della Sardegna con enorme violenza: purtroppo non c’è da stupirsi, perché negli ultimi 15 anni l’intensità delle piogge è aumentata fino a 9 volte rispetto al trentennio precedente». Giampiero Maracchi, ordinario di climatologia all’università di Firenze, guarda agli eventi drammatici di questi giorni come alla conferma di una tendenza che si va delineando in modo sempre più netto.
Cosa sta cambiando sulle nostre teste?
«Quando si parla di cambiamento climatico a molti sembra un fatto sfuggente e un po’ misterioso, qualcosa che magari riguarda posti esotici come le piccole isole del Pacifico che rischiano di essere sommerse dall’innalzamento dei mari. Invece ce lo troviamo in casa. I numeri confermano anno dopo anno il peggioramento della situazione».
I numeri della temperatura o delle piogge?
«Tutti e due, perch é c’è un legame stretto tra i due cicli. I mari sono diventati più caldi di circa un grado. Un grado può sembrare poco, ma in realtà, calcolando i volumi di acqua in gioco, parliamo di un’enorme quantità di energia. Energia che non se ne sta buona buona negli oceani, ma torna continuamente in gioco nell’interazione tra il sistema marino e l’atmosfera».
Come funziona questa interazione?
«Il calore del mare si trasforma in umidità che sale e aggiunge energia a quella già presente in atmosfera. Così quando l’aria fredda che viene da Nord si scontra con l’aria umida e calda proveniente dall’Africa si forma un muro di pioggia e il calore del mare alimenta il processo. In Sardegna sono caduti 450 millimetri di pioggia in poche ore».
È una quantità che si fa fatica a immaginare.
«Proviamo a pensarla in termini di peso. Vuol dire che sono 4.500 tonnellate concentrate su un ettaro, cioè su una superficie di cento metri per cento, corrispondente a un grande edificio. Estendendo questo trattamento a una città si ottiene l’immagine di un bombardamento, di una pressione che inevitabilmente produce vittime».
Quindi resta solo la prevenzione, il taglio dei gas serra? Ma i tempi sono lunghi anche perché il vertice Onu in difesa dell’atmosfera, in corso in questi giorni a Varsavia, con ogni probabilità deciderà di rinviare al 2020 l’inizio della cura.

La Repubblica 20.11.13
«La diminuzione dell’uso dei combustibili fossili è la prima iniziativa da prendere per evitare guai peggiori. Ma non è l’unica: bisogna ridurre i danni attuali, bloccare la crescita delle aree urbanizzate e migliorare l’informazione. Alla fine dell’Ottocento le mamme non erano particolarmente attente a insegnare ai bambini come attraversare le strade: il numero dei morti prodotti dalle carrozze era tutto sommato trascurabile. Oggi una delle preoccupazioni principali per chi ha figli piccoli e vive in città è spiegare bene che attraversare la strada può essere pericoloso».
E per le piogge cosa bisogna insegnare?
«Ovviamente in caso di nubifragio i sottopassaggi diventano luoghi pericolosi, ma bisogna stare attenti se la casa in cui si vive ha dietro una collina poco stabile. Se si sta accanto a un fiume o, peggio ancora, a un torrente che può avere più facilmente una crescita rapidissima. Oppure se si è in una zona con una forte pendenza, con la possibilità che un fiume d’acqua si incanali all’improvviso tra le case».

La Repubblica 20.11.13

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“L’ultima occasione per i figli dell’Europa”, di Piero Ottone

Chi non prova emozione, davanti alla lapide esposta sulla piazza di Ventotene? Quando infuriava la guerra più sanguinosa della storia, gli antifascisti esiliati sull’isola sognavano un’Europa unita, e la lapide ricorda il loro nobile auspicio: l’Europa unificata, gli Stati Uniti d’Europa, tesi verso ideali di civiltà e di benessere. Ma l’unione europea non è stata soltanto, attraverso gli anni, il sogno di alcuni intellettuali: è stata anche un progetto politico, per fronteggiare le insidie e i pericoli che ci minacciavano. Uno storico inglese, Brendan Simms, in un libro uscito proprio in questi giorni con un titolo laconico,
Europe, rievoca le vicende di due grandi disegni che miravano alla creazione di una federazione europea, il primo sul terreno militare, con la Comunità di difesa, il secondo, ancora in atto, sul terreno dell’economia, con l’euro. Entrambi i progetti sono nati per fronteggiare grandi minacce, nel primo caso di natura politica, l’aggressività dell’imperialismo sovietico, nel secondo di natura economica, la concorrenza degli americani, dei cinesi, del Terzo mondo. Ma l’esercito europeo è morto prima di nascere, non ha mai visto la luce, e l’euro è rimasto a met à strada, ha vita grama. Perché? La risposta è facile. L’Europa è un gran bel sogno, è un nobile ideale, e quel manifesto di Ventotene è una sua nobile testimonianza, ma il progetto di federazione europea è troppo ambizioso per diventare realtà: è il sogno di idealisti piuttosto che una possibilità concreta. Non credo che sia mai successo nella storia che singole comunità nazionali si siano unificate volontariamente, per dare vita a un grande superstato, attraverso pacifiche operazioni diplomatiche. Come non riuscirono a unificarsi, nell’antichità, le città-stato elleniche, che aspiravano a fronteggiare la potenza romana, così non riescono a unirsi in una federazione, oggidì, gli Stati europei. Le federazioni fra gli Stati, quando avvengono, sono il risultato di eventi tumultuosi, di guerre (lacrime e sangue, disse Bismarck), non di decisioni prese intorno a un tavolo con un pacifico negoziato; e sempre presuppongono che uno Stato prevalga sugli altri, che li annetta. Così è stato anche quando esistevano affinità di lingua e di cultura: pensiamo agli Stati Uniti d’America, che nonostante le tante affinità fra Nord e Sud poterono nascere solo attraverso una guerra. Tanto più improbabile è il sogno di una federazione europea che ambisca a riunire tedeschi, inglesi e francesi, cioè popoli di fisionomia ben diversa l’uno dal-l ’altro, per non dir nulla, come un politologo osservava ironicamente qualche giorno fa, di italiani e finlandesi, che appartengono a mondi diversi.
Tutto chiaro, si direbbe. Eppure uomini politici e commentatori continuano ad auspicare con bella costanza la federazione europea, come se fosse solo questione di buona volontà e di pazienza: qualche riunione e il gioco è fatto. Ancora pochi giorni fa, il nostro presidente del Consiglio, Enrico Letta, indicava negli Stati Uniti d’Europa la terapia dell’euro, come se fossero dietro l’angolo. Solo negli ultimi giorni, finalmente, qualcuno ha trovato il coraggio di ammettere che la federazione europea è un sogno irrealizzabile. Era tempo. Perché inseguendo un obiettivo impossibile si perde tempo, e il tempo è prezioso. La crisi che imperversa, e investe tutti i continenti, esige provvedimenti immediati: in Europa più ancora che altrove, perché l’euro, nonostante gli alti e bassi, è in difficoltà.
Un’immagine apparsa di recente sulla copertina dell’Economist rende l’idea: gli statisti europei, tenendosi sotto braccio, corrono ridendo verso il precipizio, ignari del pericolo che incombe. Angela Merkel, cancelliere tedesco, guida senza rivali il suo paese, che soffre meno degli altri, non è assillato da problemi urgenti. Intanto, la deflazione fa vittime sul continente, la situazione peggiora. Disoccupazione, fallimenti: corriamo ignari verso il precipizio. Crescono i movimenti non solo contro l’euro, ma contro l’unione europea: forse avremo fra qualche mese un parlamento europeo con una maggioranza antieuropeista. Sono destinati a crescere i movimenti populisti: Beppe Grillo è l’esempio di casa nostra. Ma vi sono provvedimenti politici e finanziari, meno ambiziosi della federazione ma più incisivi di quelli adottati finora, che possono contrastare la deriva, arginarla; è possibile creare strumenti finanziari supernazionali, e dotarli di vasti poteri, senza aspettare la federazione che non verrà mai.
Lasciamo da parte i sogni di federazione, che possono solo distrarci dalla realtà: i governi degli Stati europei devono tenere i piedi per terra, e agire con provvedimenti attuabili, sempre più urgenti. Se i tedeschi, che sono al centro dell’Europa, temporeggiano, bisognerà svegliarli.

La Repubblica 20.11.13

“L’Spd ha ceduto Merkel senza limiti”, di Gian Enrico Rusconi

La Grande Coalizione che si sta preparando in Germania è costruita su un pesante scambio politico. La socialdemocrazia infatti intende occuparsi esclusivamente della politica sociale interna, mentre la democrazia cristiana di Angela Merkel continuerà a gestire la politica finanziaria, economica e i rapporti con l’Europa – come prima. Il collegamento dei due aspetti – politica interna e politica europea – funziona però a senso unico. Infatti soltanto grazie alla «politica del rigore» verso l’Europa sarà possibile la generosa politica sociale interna.

La Grande Coalizione che si sta preparando in Germania è costruita su un pesante scambio politico.

La socialdemocrazia infatti intende occuparsi esclusivamente della politica sociale interna, mentre la democrazia cristiana di Angela Merkel continuerà a gestire la politica finanziaria, economica e i rapporti con l’Europa – come prima. Il collegamento dei due aspetti – politica interna e politica europea – funziona però a senso unico. Infatti soltanto grazie alla «politica del rigore» verso l’Europa sarà possibile la generosa politica sociale interna.

L’adesione incondizionata della socialdemocrazia alla linea Merkel e lo scambio politico che la sottende preannunciano che non ci sarà spazio per una incisiva politica europea che sia sotto il segno della solidarietà. Ma oggi in Germania chi parla di «solidarietà per l’Europa» viene zittito e rimproverato di difendere «l’Europa dei debiti». L’Europa degli altri. Gli elettori tedeschi – socialdemocratici compresi – sono convinti di dover stare in guardia da popoli europei spendaccioni, inefficienti, inaffidabili.

Non so se la classe dirigente socialdemocratica la pensa davvero così. Qualche tenue voce discorde si sente. Ma certamente il gruppo dirigente non ha fatto molto per spiegare al suo elettorato che le cose in Europa non stanno esattamente così. I tedeschi non sono semplicemente i più bravi. Ma alla fine l’unica preoccupazione della Spd ora è quella di riguadagnare il consenso interno perduto – evitando di pensare ad una politica europea più impegnativa e lungimirante. Una politica dello struzzo.

Non c’è dubbio che il programma sociale proposto dalla Spd sia di grande rilievo (salario minimo, sostegni familiari, pensione di solidarietà, aiuti ai ceti economicamente più deboli, nuova politica energetica, doppia cittadinanza per i migranti ecc.) ma la sua attuazione è strettamente vincolata al mantenimento dell’attuale linea del governo Merkel, intransigente verso gli altri partner europei, a cominciare da quelli in difficoltà. In particolare viene respinta qualunque misura che alteri l’attuale equilibrio economico-finanziario tra i partner di cui oggettivamente gode la Germania. In altre parole: no agli eurobond, no a qualunque forma più o meno mascherata di mutualità dei debiti sovrani dei Stati dell’eurozona, riforma del sistema bancario soltanto secondo i criteri tedeschi e critica ormai aperta alla Bce di Mario Draghi, che per l’occasione è tornato ad essere chiamato «l’italiano». Ma non pare che i dirigenti Spd (con buona pace di Martin Schulz, presidente dell’europarlamento) abbiano idee molto diverse. O si impegnino a farle valere.

Enrico Letta giorni fa al Congresso della Spd a Lipsia è stato abile a dire che «l’Italia non è e non vuole essere un Paese assistito»; «l’Italia ce la fa da sola, ed è per questo che ora può chiedere con forza una svolta dell’Europa sulla crescita». E’ quanto volevano sentire i socialdemocratici, tanto più che elegantemente il presidente del consiglio aveva taciuto su quello che i tedeschi oggi non vogliono sentire: le critiche loro rivolte per gli squilibri prodotti dal surplus delle loro esportazioni. Peccato che Letta, appena tornato in Italia, abbia dovuto subire la doccia fredda delle critiche di Bruxelles, il suo governo sia incappato in una serie di crisi di varia natura che agli occhi tedeschi confermano la permanente «inaffidabilità» dell’Italia politica. L’effetto Lipsia è già scomparso.

Con il precipitare di una crisi tanto inattesa quanto ingovernabile, molti tedeschi hanno la sgradevole sensazione che i partner europei chiedano alla Germania di fare qualcosa che contraddice la lettera e lo spirito dei Trattati dell’Unione consensualmente sottoscritti. Sono convinti di avere saputo reagire meglio di altri alla crisi, esclusivamente per meriti propri, proponendosi quindi come modello da imitare e invitando i partner europei a fare i loro «compiti a casa». Sentono minacciata la loro ritrovata sovranità nazionale, che ritenevano d’avere messo in sicurezza dentro a un’Europa orientata secondo l’immagine ideale che essi se ne erano fatta. Adesso si sentono ingiustamente circondati da ostilità. La tentazione di «fare da soli» sta diventando forte, ma sinora è rimossa.

Con quali argomenti si può criticare questo atteggiamento, senza disconoscerne gli aspetti di verità? Con un solo argomento: ricordando che l’Europa è stata costruita e funziona sulla interdipendenza tra i membri che non può essere automaticamente determinata dai mercati o affidata a norme consensualmente stabilite in congiunture molto diverse, norme che ora si rivelano inadeguate allo scopo. Non mi risulta che gli uffici studi della Spd abbiano prodotto o quanto meno dato rilevanza pubblica e pubblicistica ad analisi che sviluppano questa tesi. (Salvo qualche generica evocazione di un nuovo piano Marshall non meglio precisato).

In breve non mi pare che i socialdemocratici tedeschi posseggano una solida visione politica ed economica europea, che sia non dico alternativa ma significativamente autonoma rispetto a quella merkeliana. Una visione che tenga conto anche delle considerazioni fatte da analisti e commentatori internazionali, senza alcun pregiudizio anti- tedesco, che spiegano come e perché la situazione di interdipendenza oggettiva tra le economie europee ha subito in questi ultimi anni distorsioni che hanno favorito l’economia tedesca a svantaggio di altre. No, non è questione di «arroganza» o «egemonia» teutonica. Si tratta di prendere sul serio il fatto che l’interdipendenza delle economie e dei loro meccanismi, su cui è stata costruita l’Europa, esige oggi di essere governata in modo diverso. Non senza o addirittura contro i tedeschi, ma insieme a loro.

Ma al momento attuale l’intransigenza della Germania sulle proprie posizioni acquisite, l’impressionante immobilismo della Francia, l’impotenza e l’inefficienza dell’Italia e l’atteggiamento solo fiscal-burocratico di Bruxelles stanno creando le premesse perché il prossimo Parlamento europeo si riempia di nemici dell’euro e dell’Europa e venga di fatto paralizzato. Se neppure questa fosca prospettiva è in grado di dare uno scossone ai responsabili politici europei, l’Europa che abbiamo sognato si approssima alla sua fine.

La Stampa 19.11.13

“Macroregioni? La scuola parte per prima”, di Alessandra Ricciardi

Da tempo ormai, a destra come a sinistra, si prefigura una nuova forma di federalismo, in cui la polverizzazione di funzioni e centri di spesa tra gli enti locali è ridotta attraverso l’accentramento dei poteri decisionali presso regioni capofila. Una riorganizzazione dello stato pensata innanzitutto per la sanità dove sono macroscopiche le differenze di costi tra le prestazioni sul territorio. E che a breve potrebbe partire proprio nella scuola. Con il decreto di riorganizzazione del ministero dell’istruzione, che ItaliaOggi ha letto, si accorpano 8 regioni, assegnando il compito di guida a quelle con maggior popolazione studentesca. Perderanno la direzione generale Friuli Venezia Giulia, Umbria, Molise e Basilicata. La struttura organizzativa sul territorio sarà la stessa salvo non avere più un proprio direttore generale. Nascono così le direzioni interregionali di Veneto e Friuli, Marche e Umbria, Abruzzo e Molise, Puglia e Basilicata. Le proteste e i distinguo non hanno tardato a farsi sentire. Per tutti, la governatrice del Friuli Venezia Giulia, Debora Serracchiani, ha rivendicato la specificità del proprio territorio. Facile immaginare il fuoco di sbarramento che caratterizzerà l’iter del provvedimento.

La revisione dell’assetto ministeriale ha l’obiettivo di centrare i risparmi di spesa previsti con la spending review: il dicastero guidato da Maria Chiara Carrozza conta ad oggi 27 direttori generali (uno di diretta collaborazione del ministro), 222 dirigenti di seconda fascia -amministrativi (compresi i dieci dell’ufficio di diretta collaborazione e dell’Organismo di valutazione), 191 tecnici. I dipendenti per gli altri livelli sono quasi 6 mila. I tagli alle direzioni generali hanno riflessi anche a livello centrale, dove sparisce quella per la formazione tecnica e professionale. I dipartimenti individuati sono tre: il Dipartimento per il sistema educativo di istruzione e formazione, che accorpa le funzioni dell’Istruzione e formazione tecnica superiore (già soppressa) con quelle degli Ordinamenti, che si riferisce a tutti gli ordini di scuola; il Dipartimento per la formazione superiore e per la ricerca, scompare la direzione generale per l’Alta formazione artistica, musicale e coreutica (Afam).

Il terzo Dipartimento è quello per la Programmazione e la gestione delle risorse umane, finanziarie e strumentali. Soppressa la Risorse finanziarie. Per i contratti la competenza passa ai Sistemi informativi.

da ItaliaOggi 19.11.13