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“L’illusione dello sviluppo senza ricerca”, di Vittorio Silvestrini*

Sul finire della seconda guerra mondiale, il matematico statunitense Vannevar Bush, consulente scientifico del presidente Franklin Delano Roosevelt, scrisse un famoso rapporto che fu poi fatto proprio da Harry Truman, in cui si analizzava l’esperienza del Progetto Manhattan che aveva portato in pochi anni allo sviluppo della bomba atomica; e in cui si proponeva che l’esperienza maturata con quella rilevante impresa venisse utilizzata per impostare la politica scientifica del Paese in tempo di pace.
Il punto di partenza del rapporto era la constatazione di come un migliaio di scienziati, fino al giorno prima impegnati ciascuno nella propria ricerca nella diverse università e laboratori del Paese, organizzati a squadra sotto una sapiente guida, fossero stati capaci di conseguire un raggiungimento conoscitivo, tecnologico e applicativo così rilevante da stravolgere il corso della storia e i connotati della civiltà umana. Il che dimostrava, secondo Bush, che i laboratori universitari in cui si svolge la ricerca fondamentale costituiscono una palestra in cui si sviluppano conoscenze abilità e metodi cui il Paese può accedere all’occorrenza, per conseguire importanti obiettivi strategici di interesse generale. E dunque valeva la pena che, per tenere que- sta palestra efficiente, lo stato investisse risorse pubbliche a sostegno della ricerca libera, «curiosity driven», anche se ciò poteva apparire un lusso.

Le linee di politica scientifica indicate nel rapporto Bush furono fatte proprie dal presidente e dal governo Usa con la messa in campo fra l’altro di importanti strumenti quali la National Science Foundation per il sostegno alle iniziative di ricerca spontanea, nonché i grandi programmi e laboratori di ricerca pura alla scala nazionale e sovranazionale appartenenti alla cosiddetta «big science», di cui i grandi acceleratori di particelle sono un tipico esempio. L’altissimo standard di competenze in- dotto dal sostegno alla ricerca pura ha reso possibile, nella seconda metà del XX secolo, lanciare e portare a termine imprese tecnico-scientifiche di tale sofisticazione e impegno che, al confronto, il Progetto Manhattan appare come una impresa da ragazzi (anche se le motivazioni etico-politiche sono nella maggior parte dei casi quantomeno dubbie): lo sviluppo di armi sempre più sofisticate e distruttive; le imprese spaziali.

Fu subito evidente che il generoso sostegno pubblico alla ricerca di base – sia quella libera «curiosity driven», che quella organizzata in grandi progetti – nei fatti non solo produceva una abbondante messe di nuove conoscenze e nuovi saperi, ma metteva anche a disposizione del sistema produttivo una varietà di nuove tecnologie capaci di elevare da un lato l’impatto sulla qualità della vita; dall’altro di accrescere la competitività del sistema-Paese nel contesto internazionale. Nel caso della ricerca libera, le invenzioni figlie della ricerca scientifica avvengono spesso attraverso il meccanismo cosiddetto della «serendipità», come viene chiamato il processo euristico che porta a una scoperta, mentre era nato per produrne un’altra. Perché questo meccanismo funzioni, è tuttavia necessario che il sistema produttivo si attrezzi – in modo da essere in grado di filtrare, e finalizzare a proprio vantaggio, le potenziali applicazioni della ricerca di base; e ciò richiede che anche gli operatori della produzione siano presenti e attivi sul terreno della ricerca con competenze e laboratori adeguati. Ecco perché nei Paesi più avanzati lo Stato non solo finanza la ricerca libera ma stimola con opportuni incentivi anche il settore privato a investire adeguatamente, per sua parte, in ricerca (applicata).

L’Italia è l’unico fra i Paesi più avanzati ad avere fatto la scelta dello «sviluppo senza ricerca». Una scelta non pienamente consapevole che affonda le sue radici nello stato in cui il Paese si trovava quando, alla metà del XX secolo, avviò il suo nuovo corso dopo il progressivo degrado del ventennio fasci- sta e dopo la più devastante guerra della storia. Eppure, a fronte di questo squallore, una generale, fortissima volontà di riscatto che faceva conto su pochi punti di forza. Abbondanza di manodopera a basso costo per il settore industriale, anche grazie alla migrazione interna; mercato in forte espansione, grazie al generale desiderio di disporre in ogni casa e in ogni famiglia di dispositivi e strumenti già largamente diffusi nei Paesi più ricchi; incentivi alla ricostruzione edile e agli investimenti produttivi, anche grazie agli aiuti internazionali a sostegno della ricostruzione (Piano Marshall); il sapiente ricorso al design industriale; una politica commerciale basata sulla vendita rateale; il ricorso, quando possibile, a misure doganali di carattere protezionistico; ecco i principali ingredienti del «miracolo economico» di cui ha goduto il nostro Paese fra gli anni 50 e 60. Senza che la parola «ricerca» venisse nemmeno pronunciata.

Il processo di industrializzazione del Paese che si è evoluto fino a determinare i connotati odierni del nostro sistema produttivo avviene spontanea- mente in sostanziale continuità col boom economi- co degli anni 50. Un sistema industriale incardinato su settori manifatturieri tecnologicamente maturi, composto prevalentemente da imprese piccolo-medie alla faticosa ricerca di economie di scala attraverso l’organizzazione in distretti, dipartimenti e settori; galassie di subfornitori delle poche grandi industrie presenti sul territorio, con connotazioni merceologiche in qualche misura differenziate sulle varie aree geografiche. Industrie la cui competitività veniva viepiù erosa dalla globalizzazione del mercato. È la progressiva erosione della competitività del nostro apparato industriale la causa prima delle difficoltà di questi ultimi anni.

Mentre il Paese procedeva nel progetto di sviluppo senza ricerca, la comunità scientifica non rinunciarono a offrire di avere un ruolo nel processo di ricostruzione. Su iniziativa dei due decani più prestigiosi fra i fisici italiani – Amaldi e Bernardini – fu elaborato un progetto di promozione della ricerca in fisica nucleare incardinato su tre grandi iniziative: l’elettrosincrotrone di Frascati; la costituzione dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare; i laboratori europei di Ginevra. Iniziative già tutte operative entro gli anni 50, che accrebbero il prestigio dei fisici italiani, già grande per riflesso delle attività dei «Ragazzi di Via Panisperna» e dal ruolo che ebbero nell’ambito del progetto Manhattan.

Iniziative ancor oggi operative su livelli di assoluta eccellenza a livello mondiale. Pur se è vero che nel nostro Paese le risorse allocate alla ricerca fondamentale sono state e sono scarse, questa critica vale però solo in termini quantitativi; in termini qualitativi, la ricerca fondamentale ha svolto egregiamente il suo ruolo. Perché attrezzarsi per tra- durre in iniziative produttive le opportunità offerte dalla ricerca, è un compito che deve essere assolto dalle imprese, e non dalla università e dai laboratori di ricerca. Di grande importanza è il ruolo di quei soggetti di collegamento che a vari livelli – comunicazione e diffusione della cultura scientifica, trasferimento tecnologico, – si occupano di colmare lo iato tra scienza e società. Per svolgere questa funzione è nata la Città della Scienza di Napoli.

Oggi infatti, per recuperare una competitività che si proietti al futuro, non è sufficiente tardiva- mente stimolare l’investimenti soprattutto privati in ricerca applicata. È necessario compiere la delicata transizione da un sistema industriale e pesante ed obsoleto, che dissipa risorse territoriali e ambientali crescenti, che si alimenta di crescente energia e di crescente materia, verso un sistema produttivo leggero e diffuso, ad alto contenuto di ingegno e bassa intensità di energia e di materia. La transizione, in sintesi, verso la società della conoscenza. E ciò richiede, una partecipazione attiva e consapevole di tutti i cittadini.

Presidente della Città della scienza

L’Unità 11.11.13

«Finché c’è l’austerity si potrà fare molto poco», di Bianca DI Giovanni

«I sindacati? La loro è una protesta inevitabilmente generica. Se davvero ci fossero proposte credibili per cambiare la legge di Stabilità sarebbero state prospettate e anche attuate». Vincenzo Visco commenta così le iniziative di lotta contro la legge di Stabilità annunciate dai Confederali. Non che non abbiano le loro ragioni: sul tempo e i soldi sprecati per l’Imu, oppure sulla denuncia dei tagli («ingiusti e irragionevoli») alle pensioni. Tutto condivisibile. Ma il punto è un altro. La vera questione è che oggi non esiste un vero spazio di manovra per politiche economiche nazionali efficaci. «Se non usciamo dalla trappola in cui l’Europa si è infilata negli ultimi anni, non ci sarà ripresa e non ci sarà lavoro». Questa è la realtà con cui gli italiani sono chiamati a confrontarsi. Il quadro di riferimento, cioè i vincoli imposti dall’austerità, lascia poche leve per poter agire.

Vuole dire che l’Italia è a sovranità limitata?
«No. Voglio dire che mantenere i vincoli del Patto di stabilità, in condizioni di continua incertezza, non consente di fare molto di più di quello che si è fatto. Se la ripresa resta asfittica, è difficile fare di più. Forse do- po l’intervento della Bce qualcosa si muoverà, ma ricordo che a livello europeo continuiamo ad essere in un contesto di austerità, con un credito scarso e una domanda che ristagna. Questa è la trappola che abbiamo costruito da un paio d’anni».

Perché dice da un paio d’anni?

«Beh, dalla crisi greca si è fatta una politica restrittiva nei confronti di
quel Paese estesa poi a tutti gli altri. Dopodiché in Italia paghiamo errori demenziali. Questa dannata storia dell’Imu ha distolto risorse da problemi che forse si potevano risolvere. Ancora oggi lo stiamo pagando con interventi poco condivisibili». Intende gli anticipi chiesti alle banche?

«A prescindere dalla misura, si tratta di interventi straordinari che si adottano per evitare problemi al governo. Questo toglie fiducia alla gente».

Non crede che la gente sia contenta di non pagare l’Imu?
«La gente sarà pure contenta per l’Imu, ma questo è irrilevante in confronto al quadro complessivo di incertezza e sfiducia. Per modificarlo non ci sono molte leve, in nessun Paese del’Europa».

Questa è un’ammissione di impotenza. Sta dando ragione a chi dice di uscire dall’Europa.
«No, chi dice questo non capisce di cosa parla. Fuori dall’euro ci aspetta solo il default. Chi andrà alle prossime elezioni europee con slogan antieuro prometterà agli italiani il fallimento del nostro sistema economico e dei redditi delle famiglie». Allora cosa si dovrebbe fare? «Aprire un dibattito in Europa su come cambiare strada e fare in modo che la Germania esca dal suo arroccamento. Tanto più che sta andando male anche a loro: la crescita della produzione non è stata sostenuta come si aspettavano. Sono rimasti incastrati anche loro. Checché ne dicano pubblicamente, anche i tedeschi sono contenti del taglio dei tassi fatto da Draghi, che ha svalutato l’euro, dando una mano così anche alle loro esportazioni. Non lo ammetteranno mai, ma è così. Che l’Europa debba cambiare ormai è riconosciuto da tutti. Se la crisi arriva a toccare anche la Francia, significa che siamo al limite. D’altro canto Parigi ha sbagliato con Sarkozy a seguire la linea tedesca: non c’entra molto Hollande».

L’Unità 11.11.13

“Cicloni, tsunami e uragani quei due gradi in più che sconvolgono il pianeta”, di Maurizio Ricci

Climaticamente, un’epoca si è chiusa e ogni evento può trasformarsi da ordinario in straordinario. È giusto allarmarsi, ma non sorprendersi: già quattro anni fa, l’Onu aveva diffuso un rapporto che definiva gli anni e i decenni che ci si spalancano davanti come “l’età degli estremi”. Cioè, un’epoca in cui eventi meteorologici che fino a ieri sarebbero apparsi, a memoria d’uomo, eccezionali, inediti, mai visti, diventano sistematici e ordinari. In cui i record (di vento, di pioggia, di caldo) vengono sistematicamente oltrepassati e la contabilità della paura va costantemente aggiornata in una nuova normalità.
Età degli estremi significa che Haiyan, uno dei cicloni più violenti storicamente registrati, si ripeterà nel giro di qualche decennio o, forse, prima. Come succederà per lo tsunami che due anni fa ha investito il Giappone. E per un uragano tropicale fuori rotta, come Sandy, che nel 2012 è arrivato a colpire le fredde coste americane dell’Atlantico del Nord. In altre parole, eventi che si verificavano ogni 100-200 anni si riproporranno ogni 10-20 anni. Gli scettici possono ribattere che, fino a quando non ci sarà un’altra
Sandy e un altro Haiyan, queste sono solo teorie. Però, come dice la teoria, il rialzo della temperatura aumenta l’energia nell’atmosfera e nei mari, accrescendo, ad esempio, l’intensità del vento e delle onde. Vuol dire che avremo più cicloni? No, la previsione è esattamente opposta: ne avremo di meno. Ma ne avremo di più violenti.
Più esattamente: i cicloni che avremo saranno mediamente più violenti di quelli a cui siamo abituati, spesso anche molto più violenti. Una violenza bruta, grezza, naturale che si somma, ma non coincide con la sua capacità di devastazione. Dal nostro punto di vista, infatti, quello che conta sono i danni, le vittime che causa un uragano o una inondazione. Ma confrontare, sotto questo profilo, un evento estremo di oggi e uno di cento anni fa non è possibile. Siamo di più e siamo molto più fragili: buona parte delle città più grandi del mondo — e, con esse, della popolazione mondiale — sono sulle coste, spesso abbarbicate alle coste e, nell’ultimo secolo, cresciute a dismisura. Ed ecco che l’evento estremo (i 300 km all’ora dei venti del tifone filippino, l’onda di Sandy) ha conseguenze ancora più estreme di quelle che le sole dimensioni fisiche giustificherebbero.
La comunità internazionale ha l’occasione di discuterne subito, nella conferenza sul clima che si apre a Varsavia. Ma è difficile
aspettarsi svolte ed è facile, invece, prevedere che quello che più mancherà sarà il senso di urgenza. Ad attutire le paure, infatti, ci sono gli ultimi sviluppi sul fronte della lotta all’effetto serra. Complessivamente, le emissioni di anidride carbonica, che sono all’origine dei mutamenti climatici, continuano ad aumentare.
Ma il ritmo di crescita rallenta. Cosa succede? Due i processi in corso, uno transitorio, l’altro no. Il primo è la lunga recessione che, da cinque anni, investe l’economia mondiale: le industrie producono meno, la gente si muove di meno. Fabbriche e auto, in attesa della ripresa, inquinano meno. Il secondo è la rapidissima trasformazione energetica degli Usa, i maggiori divoratori di energia del pianeta. La rivoluzione dello shale gas — e i suoi prezzi stracciati — significano un abbandono sempre più massiccio delle centrali elettriche a carbone. Anche il metano produce anidride carbonica, ma, poiché ne genera metà del carbone, il beneficio è immediato.
Probabilmente, a Varsavia, gli uomini di Obama faranno sapere che l’America sta rispettando i limiti alle emissioni che si era prefissata. E il rischio è che non ne vengano fissati di nuovi, nella convinzione che, bene o male, il mondo possa riuscire a stare dentro nel limite di riscaldamento di 2 gradi, che molti indicano come il tetto oltre il quale ci aspetta la catastrofe. Ma basta accendere la televisione, in queste ore, per vedere che ai 2 gradi non siamo ancora arrivati, ma le catastrofi già ci sono. E basta anche fare due conti per capire che non continueremo solo a vederle in tv. Il limite dei 2 gradi è una media mondiale, con forti oscillazioni. Che ci riguardano molto da vicino: se è ovvio che ai tropici il riscaldamento sarà superiore ai 2 gradi della media mondiale, questo vale anche per l’Europa. Un gruppo di esperti ha calcolato che quei 2 gradi si tradurranno, in aree significative d’Europa (a cominciare dal Mediterraneo) in oscillazioni anche di 6 gradi. Vuol dire che le estati del futuro saranno quella che noi oggi chiamiamo un’ondata di calore, però pressoché ininterrotta. Estati come quella del 2003, con decine di migliaia di morti, stroncati dal caldo, ci saranno ogni 2-3 anni. L’età degli estremi vale per tutti: Haiyan parla anche a noi.

La Repubblica 11.11.13

“Un disastro che mette a rischio la tenuta sociale del Paese”, di Bill Emmott

Oltre alla questione più importante – il terribile costo umano – la tragedia del tifone Haiyan alle Filippine segna la fine di una serie di buone notizie per una nazione del Sud-Est asiatico che finora non aveva condiviso troppi successi della regione. Speriamo che la forza e la credibilità che le precedenti buone notizie avevano portato al governo del presidente Benigno Aquino III gli permettano di tenere insieme il Paese e recuperare rapidamente.

Corruzione, cattiva gestione, guerre separatiste e guardaroba pieni di scarpe di Imelda Marcos, hanno per decenni reso le Filippine il peggior attore del Sud-Est asiatico.

Un Paese che, nonostante i cento milioni di abitanti, è stato talvolta guardato con un misto di disprezzo e pietà dai suoi vicini, specialmente l’influente, disciplinata e ricca città-stato di Singapore. Ma negli ultimi anni tutto questo ha iniziato a cambiare.

L’anno scorso il governo finalmente ha firmato la pace con il Fronte di Liberazione Islamico Moro, forza separatista che ha condotto una lotta armata per più di 25 anni nella regione meridionale del Mindanao, conflitto ignorato dal resto del mondo nonostante abbia ucciso più di 120 mila persone. C’è molto lavoro da fare prima che la pace sia finalmente garantita, ma dato che il patto promette di dare al Mindanao un alto livello di autonomia, analoga a quella della Catalogna in Spagna, sembra davvero uno spartiacque.

Nel frattempo le Filippine hanno mostrato una forte crescita, grazie a un’espansione annuale del prodotto interno lordo maggiore del 4% in nove degli ultimi 12 anni, e con previsioni della Banca di Sviluppo Asiatico per il 7% nel 2013. La sua valutazione di credito internazionale è stata innalzata di grado quest’anno da tutte le tre maggiori agenzie internazionali, l’ultima, Moody’s, giusto un mese fa. Grazie alle tasse crescenti e ai soldi inviati dai numerosi filippini che lavorano all’estero, il Paese è anche diventato un creditore netto mondiale, con riserve di valuta straniera che superano i debiti.

Questo sviluppo economica non è avvenuta prima del tempo. Le Filippine si trovano in una regione dove è facile scontrarsi con i vicini – l’ultima lite è sul territorio sottomarino con la Cina – e hanno dovuto chiedere aiuto diplomatico agli Stati Uniti, di cui un tempo erano colonia, per fronteggiare i cinesi. Regimi corrotti, troppo disfunzionali e screditati per garantire che le necessarie infrastrutture venissero costruite, in precedenza avevano reso difficile la creazione di alleanze.

Il presidente Aquino viene dalla più famosa famiglia politica del Paese. Suo padre Benigno fu assassinato nel 1983 perché si opponeva all’allora dittatore Ferdinand Marcos, e sua madre Corazon condusse la rivoluzione «potere al popolo» che nel 1986 rovesciò Marcos e la rese il primo Presidente democraticamente eletto. Fin dalla sua elezione nel 2010, il compito di ripulire il Paese dalla corruzione è stato rinforzato e le infrastrutture hanno iniziato a essere ricostruite.

Ora, di fronte ai danni compiuti dal tifone Haiyan, il compito del presidente Aquino di tenere insieme il Paese e ricostruirlo è più grande e più duro che mai. Eppure disastri naturali di questo tipo hanno alcune caratteristiche che rendono il recupero più semplice. Prima di tutto l’aiuto e assistenza materiale che viene da grandi e piccole potenze, e che per lo meno sospende le baruffe diplomatiche. È quel che è successo circa tre anni fa, quando il Giappone fu colpito da terremoto e tsunami, e lo stesso è probabile che accada nel caso delle Filippine.

Una seconda caratteristica è che l’effetto economico dei disastri naturali è temporaneo e relativamente poco importante. Con una forte posizione di credito e supporto internazionale, le Filippine saranno in buona posizione per ricostruirsi in fretta e potranno installare migliori infrastrutture e edifici più moderni di prima. Il boom della ricostruzione neutralizzerà, e forse supererà, i costi economici di breve termine.

L’effetto economico, ripeto, non è importante. Quello su cui bisogna concentrarsi è l’impatto umano e sociale di un disastro naturale come questo. Il vero pericolo per le Filippine è che la tragedia sia una nuova fonte di divisioni, risentimenti e rabbia, causati da qualsiasi ingiustizia o corruzione percepita nel periodo successivo al disastro e nella ricostruzione. Per affrontare questo pericolo, saranno necessarie tutta la determinazione e le capacità politiche ereditate dal Presidente Aquino.

La stampa 11.11.13

Suraya e le donne nell’inferno afgano “Italiani, adesso non andate via”, di Adriano Sofri

Suraya Pakzad ha 41 anni. La sua “Voice of Women Organization” offre assistenza legale e rifugi a donne minacciate ed evase dalla prigione domestica. «Sono una di 15 fratelli, di tre madri, due morte di parto. Mio padre volle la stessa educazione per maschi e femmine. Mi hanno sposata a 14 anni. Ho 6 figli, il primo avuto a 15 anni, è ingegnere elettronico. Ho potuto laurearmi a Kabul, scrivevo poesie, poi sono stata spinta verso cose dure. Mio marito è stato rispettoso. La vita che ho scelto ti fa prendere sulle spalle le disgrazie di tutte, a ogni ora, come in un pronto soccorso». Le uccisioni di donne sono meno frequenti che in Italia — quelle riconosciute. Le brutalità sono infinite. «Io rispetto la legge, ma la maggioranza delle donne sono in carcere senza aver commesso alcun reato. Per tentato adulterio — averlo pensato! 99 donne erano nel carcere di Herat per questo. Dopo è difficile farle riaccettare dalle famiglie. Le forze internazionali non possono restare in eterno, ma l’Afghanistan non è pronto. La frontiera col Pakistan è lunga. Vanno via in un momento delicatissimo. Hanno speso vite, soldi, tempo, e perderemo tutto. Resteranno signori della guerra e fondamentalisti. E questa volta, contro persone che hanno avuto voglia di libertà, dovranno essere più vendicativi. Non amo i toni queruli, ma dico: non ci lasciate. Un giorno avremo soldatesse afgane che andranno nel mondo a fare le peacekeeper».
Maria Bashir ha 43 anni, è a capo della Procura di Herat. Si guadagnò ammirazione e odio nel 2005 indagando il marito-padrone di Nadja Anjuman, poetessa uccisa a 25 anni. A Herat spose bambine e giovani violate si danno ancora fuoco, o si impiccano. La nostra, dice Bashir, è la condizione di chi passa dal buio alla luce. Bisogna abituare gli occhi. Abbiamo vissuto una interminabile guerra intestina, subìto governi che schiacciavano le donne, ne spegnevano la voce. Mi chiedete del reato che va sotto il nome di prostituzione: nel codice penale un rapporto sessuale a pagamento viene punito, e purtroppo anche fra due persone non sposate consenzienti. È la legge, poi c’è la nostra ragionevolezza. Abbiamo da 8 mesi un ufficio per le violenze domestiche, abbiamo mandato a processo 168 uomini. C’è una forte preoccupazione per il 2014, soprattutto per donne e bambini. Io continuo a meravigliarmi di trovarmi in questo posto. Mi riempio di farmaci mattina e sera, ieri ero attaccata a una flebo, subisco pressioni pesantissime. Ho fatto arrestare un notabile per corruzione, il giorno dopo mi ha chiamato l’uomo più potente di Herat e mi ha intimato di rilasciarlo entro le 10 di questa mattina, ha chiamato il governatore, il capo della polizia, tutti, ha minacciato di far assediare il palazzo». Dice che gli italiani hanno lavorato bene, in particolare per donne, scuole, sanità. «La differenza, oltre alla cordialità, sta nel disinteresse. I loro aiuti non hanno un secondo fine».
Fino all’11 settembre 2001 l’Occidente non era turbato dall’esistenza di un grande paese in cui era proibito ascoltare musica e le bambine non potevano andare a scuola. L’11 settembre fu, per le bambine e la musica afgana, una orribile provvidenza. Entro il 2014 gli internazionali lasceranno. Tuttavia il 2013 è stato l’anno peggiore per gli attacchi dei Taliban e per
la condizione delle donne. C’è un esercito afgano che ha raggiunto un numero ingente ma una preparazione e un armamento inadeguati. C’è una polizia afgana ancora più inadeguata per preparazione e trattamento. La corruzione è fortissima.
Il maresciallo che rientra da Farah dopo sei mesi era col capitano La Rosa; dice che uscire dalla base è stato sempre più rischioso. Victor, 28 anni, del genio guastatori, era accanto a Roberto Marchini quando un ordigno lo uccise nel luglio 2011, a Bakwa. I Taliban avevano costretto a chiudere tutto, dice, era rimasto solo un barbiere: misero un pacco-bomba in mano al figlio di otto anni e lo fecero esplodere. Gli insurgents lanciano razzi da rampe artigianali anche metalliche, nel qual caso sono meno imprecisi. Ma gli ordigni esplosivi sono la loro arma principale. È una gara ininterrotta fra bracconieri e guardiacaccia. Ripulire dagli Ied — gli ordigni artigianali — non serve solo a proteggere i militari: le vittime principali sono i civili, e in particolare i bambini. Se il Predator è essenziale per avvistare le attività sospette, è a terra e sottoterra, e a vista d’uomo (e di donna, come Marina e Fabiola) che si rilevano, si disinnescano o si fanno brillare gli ordigni. Il filo di rame sulla sabbia, invisibile se non col riflesso del sole. È un lavoro di Sisifo che si ripete ogni giorno. Spesso sono le persone locali ad avvisare, fu così nel 2010, quando persero la vita Mauro Gigli e Pierdavide De Cillis. Marina, addetta al controllo visivo e mitragliera: «Mi è capitato che i bambini lanciassero pietre. Poi scoprivo che cercavano attenzioni e merendine». «Vogliono soprattutto penne, fanno segno, per scrivere», dice Sebastiano R. Ormai in quasi tutti i villaggi ci sono forze afgane. Fabiola: «Abbiamo insegnato quello che sapevamo, ora sta a loro fare il loro dovere». Salvatore E. è di Capaci: «Ero in bicicletta quando sentii quell’esplosione». «Quando torno a casa — dice — ho qualcosa in più che loro non potranno mai sapere». La sede del IV Genio Guastatori è a Palermo, Caserma Scianna, il comandante è il colonnello Pisciotta, che con quel cognome è friulano e però si è innamorato della Sicilia e dell’Afghanistan. «Vidi un documentario sulle donne bruciate, la sera lessi “Mille splendidi soli” e piansi come un bambino». Lo racconta tranquillamente, davanti ai suoi, gente che maneggia ordigni micidiali e si commuove con gli aquiloni: trascrivo volentieri questa versione del valor militare.
Alla facoltà di giornalismo — classe mista, ragazze a capo coperto e spigliate
— ci chiedono dei giornali internazionali che fanno passare tutti
gli afgani per terroristi o terrorizzati, e della democrazia che spia miliardi di conversazioni private, anche le loro. Si sono ridotti gli scambi con le università italiane: si può migliorare? Spero di sì, dico, c’è qualche difficoltà, quando i ricchi diventano meno ricchi pensano di essere diventati poveri, comunque vedremo… Al comando Isaf della Regione Nord è il generale Michele Pellegrino, 52 anni. «Lei chiama polizia internazionale
— dice — quello che noi chiamiamo uso etico delle armi, cui l’Onu offre l’unico contesto legale. Qui ha consentito di intervenire in una Guerra dei Trent’anni che ha martoriato la società. Si sono ricostituite istituzioni, tenute elezioni via via più libere. Le Forze Armate possono servire anche a questo. Del resto, una difesa in un contesto di alleanze che ripari dalla minaccia di guerra è sempre necessaria. L’esercito europeo è un traguardo inevitabile, ma fa i conti con il tempo, siamo gocce nel fluire della storia. La visione di Spinelli, De Gasperi, Adenauer, superava campanilismi, resistenze di paesi servi della propria storia, mentalità di supremazia. L’Europa economica si completerà in quella politica e della sicurezza comune. Da noi l’esercito di leva mise insieme ricco e povero, nord e sud, colto e incolto. L’esercito di professione, che qualcuno temette, è stato un passaggio d’epoca positivo. La preparazione dei soldati è più concreta e approfondita, e le missioni internazionali sono il banco di prova. L’orizzonte umano di chi vive questa esperienza si fa più largo».
Infatti. Ho sentito tante volte in questi giorni discutere di come raccontare
(o tacere) le bambine e i bambini afgani ai propri figli in Italia. Troveranno il modo giusto.

La Repubblica 11.11.13

“Manovra, cosa si può fare”, di Massimo D’Antoni

Gli emendamenti presentati alla commissione Bilancio del Senato sono più di tremila. Un tempo, quando si chiamava ancora Legge finanziaria, era in voga la metafora dell’assalto alla diligenza. Quest’anno c’è poco da assaltare. Innanzitutto perché ogni emendamento che chieda una maggiore spesa de- ve indicare la copertura, cioè specificare nel dettaglio da quali risparmi di spesa o maggiori entrate si prende- ranno le risorse. Ma questa non è una novità, è così da tempo. La novità è che quest’anno ancor più che in passato pesa la rigidità del vincolo di bilancio: quel 3% del rapporto tra deficit e Pil che è stato individuato come un obiettivo e che ci consentirà di presentarsi al decisivo 2014 della presidenza italiana con le carte in regola. Non si sgarra, e quindi è prevedibile che una parte rilevante degli emendamenti presentati non passerà il vaglio severo degli uffici legislativi e della Ragioneria.

Ma ricapitoliamo le partite da tenere d’occhio nell’ambito della maggioranza di governo. Da un lato il Pdl (o Forza Italia che dir si voglia) preso dallo scontro tra lealisti e governativi, sembra più interessato alla tempistica della discussione in rapporto al voto sulla decadenza di Berlusconi che al contenuto della legge di stabilità. Entrambe le componenti del partito, anche se forse per ragioni diverse, sono interessate a incassare la cambiale della seconda rata Imu. Il governo è intenzionato a mantenere l’impegno e togliere l’Imu sull’abitazione principale, anche se è probabile che sempre sull’abitazione principale peserà, in altra forma, una parte consistente della copertura necessaria. Per il resto, da questo lato ci aspettiamo emendamenti anche provocatori (come quello sulla «vendita delle spiagge») che servono ad alzare il prezzo della permanenza al governo.
Dall’altro lato c’è il Pd, molto attento ai provvedimenti sul mondo del lavoro e le politiche sociali. A questo proposito, la misura più rilevante in termini di assorbimento di risorse è quella sul cuneo fiscale. La platea di beneficiari, i lavoratori dipendenti, è così ampia che il miliardo e 700 milioni previsti si traducono in un alleggerimento di imposta modesto, che non arriva a 200 euro per i contribuenti per i quali il beneficio è massimo, ovvero chi ha un reddito intorno ai 15 mila euro annui. Anche se il Pd in Senato ha presentato un emendamento che cerca di accentuare il carattere redistributivo della misura, concentrandone gli effetti sulle fasce di reddito più basse, le risorse disponibili consentono di spostare ben poco. Come era forse prevedibile fin dall’inizio, l’intervento sul cuneo, vista anche la freddezza con cui è stato accolto dagli stessi che lo chiedevano a gran voce, rischia di restare senza padri politici; è ormai il pensiero di molti che quelle risorse sarebbero meglio spese altrimenti.

Il capitolo delle spese sociali resta tra quelli di maggiore sofferenza: tra programmi rifinanziati in modo parziale e domanda di nuovi interventi che facciano fronte alla difficile situazione del Paese, mancano all’appello diverse centinaia di milioni che non è facile reperire. Vedremo nei prossimi giorni quali sono le proposte avanzate dai parlamentari del Pd.

Un altro snodo importante è quello delle pensioni: da un lato l’indicizzazione dei redditi pensionistici compresi tra i 1.500 e i 3.000 euro lordi mensili (oltre tale livello l’indicizzazione è di fatto bloccata); dall’altro la questione, rilevante più per il carattere simbolico che per il gettito che può portare, delle cosiddette «pensioni d’oro». E infine c’è la questione gli esodati, strascico irrisolto della riforma Fornero.

Pur nei limiti descritti, lo spazio per qualche miglioramento della Legge di stabilità in direzione di una maggiore equità non manca.

Su tutto quanto abbiamo detto pesa però la consapevolezza che a questo giro è possibile giocare soltanto una partita per così dire in difesa, cercando di minimizzare i danni. D’altra parte, dovrebbe essere ormai chiaro che, entro i vincoli esistenti e in mancanza di «tesoretti» cui attingere, non è dalla politica di bilancio che dobbiamo aspettarci una spinta decisiva alla ripresa. L’obiettivo strategico deve essere quello di modificare il segno complessivo della politica economica europea. Ma, lo sappiamo ormai, questa è una partita che si gioca a Bruxelles più che a Roma.

L’Unità 10.11.13

«La Resistenza delle donne», di Lidia Bellodi

Era il 18 febbraio del 1945, l’appuntamento era per le 10 di mattina in piazza. Fu lì che trovai le donne. Si avvicinò la mia amica Silvana: «Dobbiamo fare una cosa noi donne mi disse però bisogna avere pazienza e stare attenti con chi si parla, perché questa cosa deve riuscire. Avvicina le persone per bene, che sai come la pensano, e chiedi di fare un po’ di passaparola, perché la cosa si allarghi, perché dovremo essere in tante.» E fu così che tutto cominciò. Con tanta titubanza e tanta paura fu così che quella domenica mattina, il 18 febbraio, ci trovammo verso le dieci. Fu anche difficile per me uscire, dovevo raccontar bugie a mia madre, perché in casa nessuno sapeva che facevo parte di questa organizzazione. Insomma, quel mattino, in tre, io, Silvana e Vittorina Dondi, che abitava a Ospitale sulla strada che porta a San Biagio verso la foce del Po, siamo partite. (…) E fu così: lei con un cartone con scritto sopra «Vogliamo pane, abbiamo fame, basta con la guerra!», siamo partite. (…)
Quando siamo arrivate in piazza eravamo in tante, e si vedeva da lontano, perché la piazza è grande, da là in fondo, si vedeva che la gente arrivava, arrivava dai vicoli come abbiamo fatto noi, da un’altra discesa che sbuca in piazza. (…)
Era domenica mattina, c’era solamente un gruppetto di uomini davanti al tabaccaio Gatti, erano i contadini che venivano in piazza. Mi ricordo che erano sbalorditi perché non sapevano cosa stesse succedendo. Non so se la porta del Comune era stata manomessa da qualcuno, so solo che siamo riuscite a sfondarla e poi su a precipizio per le scale! Abbiamo riempito il Comune di donne. (…) Al terzo piano c’erano le donne che buttavano fuori dalla finestra tutto quanto, le scrivanie, le carte… c’era il putiferio. Ho detto: «Silvana, ma se arrivano i fascisti, vengono dentro e ci ammazzano tutte!». (…) Mi ricordo che siamo scese e siamo andate al primo piano: c’era una porta con un bell’ambiente largo pieno di scaffali con dei libri, i libroni dell’Anagrafe. E Silvana gridava: “Quelli, son quelli! Aprite le finestre, buttateli giù che andiamo giù!”.
(…) Silvana si mise a strappare le pagine, ma erano dure e non ce la faceva. Allora Vittorina prese un mazzo di fogli… «Lidia, Lidia, accendi!» “Accendi?” ho detto. «Ma nessuno mi ha detto di prendere dei fiammiferi? Con che cosa li accendo, adesso? ». Fu lì che da un vicolo spuntò un ragazzo che mi butta una scatolina di cerini. I cerini a quei tempi! Allora abbiamo acceso questi libri. Intanto che il falò arde ecco che arriva, da via De Amicis, un fascista di corsa con un fucile impugnato. Siamo scappate. (…) Iniziò il caos degli urli, degli spari. (…) Siamo tornate a casa da dove siam venute. So che hanno picchiato e ferito tre donne e ne hanno arrestate una decina. (…) Tutti avevamo paura. Il bello è che c’erano le scritte «State attenti, il nemico vi ascolta». Per me i nemici erano loro. (…)
In quello stesso periodo mio marito era stato arrestato e doveva essere fucilato. Ma arrivarono gli inglesi due giorni prima, della fucilazione. Noi eravamo in un rifugio sotto un filare. Eravamo lì dalla sera prima, tutti quanti, perché Silvana era venuta a dirci che sarebbero arrivati gli alleati. Eravamo in tre famiglie con tanti bambini. Mia madre era incinta. Mi ricordo che aveva fatto un sacco di pane abbrustolito, l’aveva biscottato nel forno, e l’aveva messo in un sacco bianco. Stavo per raccontare una favola ai bambini, lì al buoi, quando sentiamo un Vooom Vooom. Mia sorella scatta: «Io voglio andare a vedere cosa c’è», dice. «Non ti sognare di andare fuori!» dice papà. La prende per una gamba, ma lei rientra dentro con la testa e dice: «Papà, papà vuota il sacco del pane perché voglio fare la bandiera bianca! Ci sono i carri armati che stanno arrivando! Ma sono tanti!».E meno male che ha avuto il coraggio di uscire a guardare perché stavano per passare sopra di noi e saremmo morti tutti come topi. Ci ha salvati mia sorella. E il nonno, mi ricordo, disse: «Ci hanno mitragliato la casa». Non vedevano bene, perché era nascosta dai pollai e pensavano che ci fossero i tedeschi. E così fu l’arrivo, fu la liberazione. Avevamo la casa a pezzi ma c’eravamo tutti: «E lascia che sia! Ci siamo tutti. Siamo in tanti, in questa casa, e ci siamo tutti».
E fu così.

L’Unità 11.10.13