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“Lasciata sola contro i boss ecco perché non sono più un sindaco della Locride”, di Attilio Bolzoni

Perché è tornata a fare la farmacista? «Perché non mi sentivo più libera di fare il sindaco». Perché continua a vivere nella Locride? «Perché non saprei vivere altrove». Cos’è oggi la sua Calabria? «Una terra lunga lunga e vuota vuota dove i giovani se ne vanno perché la trovano ostile». E non solo loro. «Dal 2000 ci sono stati più di mille atti intimidatori contro amministratori locali calabresi », ricorda Maria Carmela Lanzetta, per sette anni sindaco di Monasterace, ultimo paese della provincia di Reggio sul mare Jonio dove lei — perseguitata dai boss della ’ndrangheta e dai suoi complici — è una di quei personaggi che vorrebbero «una rivolta per cambiare tutto» e sotterrare «la politica del malaffare». Di passaggio per Roma, si porta sempre dietro i fedeli carabinieri della scorta e una delusione per come vanno le cose in fondo a un’Italia sempre più lontana. «Molti non l’hanno ancora capito, ma non occuparsi della Calabria vuol dire non occuparsi dell’intera nazione», dice.
Quando ha conosciuto per la prima volta la ’ndrangheta?
«Vengo da una famiglia dove hanno sequestrato uno zio e una cugina. Poi è toccata a me. La prima volta mi hanno bruciato la farmacia nel 2011, nel 2012 hanno sparato sulla mia auto, qualche mese dopo hanno dato fuoco alle macchine di due assessori e poi ancora scritto sulla porta di casa di un’altra assessore i nomi delle sue figlie. Un inferno».
E si è dimessa per paura?
«La paura c’era, eccome. Ma mi sono dimessa quando un altro assessore ha votato contro la costituzione di parte civile in un processo dove era coinvolto un tecnico comunale. Non ce l’ho fatta più. E poi, dopo anni di isolamento, sono rimasta schiacciata fra le parole vuote delle istituzioni e una politica che non si occupa mai dei problemi delle persone, pensa solo a se stessa. Parlo anche del partito al quale sono iscritta, il Pd».
Eppure è folto il gruppo dei sindaci e degli amministratori calabresi che in questi anni ha spinto verso un cambiamento. Quella di Rosarno, quello di Riace, i sindaci di Isola Capo Rizzuto, di Decollatura, di Gerace e di Bianco…
«Sì tanti, ma che non hanno voce fuori dai loro confini. Ci abbiamo provato in tutti i modi, anche alla vigilia della campagna elettorale del febbraio scorso. Tutti insieme abbiamo mandato un documento al segretario Bersani, non per candidare me o un altro sindaco ma per segnalare “una presenza legata al territorio”. Non necessariamente uno di noi, una personalità di area. Anzi, avevamo fatto un altro passo: più che una rappresentanza in Parlamento chiedevamo di offrire un contributo, volevamo spiegare quale era la nostra realtà. Bersani, alla nostra mail, non ha mai risposto».
Bersani però l’ha più volte citata come «esempio» in tanti dibattiti,
una volta è venuto anche a trovarla a Monasterace quando si era dimessa la prima volta nel 2012.
«Poi non si è mai più fatto sentire. E gli apparati di partito hanno catapultato candidati su candidati — alcuni come Rosy Bindi estranei al nostro territorio — ed è cominciata una campagna elettorale scialba. Dove dei nostri drammi si è parlato poco. Dove di mafia, a volte, non si è parlato mai».
La capolista in Calabria, Rosy Bindi, qualche settimana fa è stasinteressata
ta nominata presidente della Commissione Antimafia. Una scelta tormentata. La sua opinione?
«Una scelta non credibile. Ma non soltanto per lei, ce ne sono altri non credibili lì dentro. La Commissione Antimafia, per come è nata, non ha rappresentato un bel segnale per territori come la Calabria o la Sicilia. Secondo me è inutile, e alla Bindi dovevano dare una poltrona per forza. Dispiace dire queste cose ma una commissione antimafia perché funzioni deve avere credibilità e la Bindi, in materia, questa credibilità non ce l’ha. Penso a commissioni come quella presieduta da Luciano Violante dopo le stragi del 1992. E anche a quella di Francesco Forgione, che ha fatto una bellissima relazione sulla Calabria».
Voi sindaci, l’avete più vista la presidente Bindi nella Locride dopo la campagna elettorale?
«L’abbiamo invitata un giorno d’agosto a un’iniziativa ma non è venuta. Un altro giorno siamo andati a incontrarla a Reggio e, dopo due ore e mezza di anticamera, ci è sembrata fredda, distaccata, di-
ai nostri problemi. Peccato, ha un bel passato alle spalle. E anche se l’hanno catapultata qui per le politiche, in un primo momento avevamo pensato “adesso faremo qualcosa” e invece… Lo ripeto: non avrebbe dovuto accettare quella poltrona solo per la poltrona. Se vuole sfatare questa sensazione di inutilità della sua commissione dovrebbe venire in Calabria e cominciare dal basso, magari anche occuparsi del nostro partito».
Sta dicendo che c’è bisogno anche di un po’ di pulizia nel Pd calabrese?
«Non di pulizia ma di una vera e propria rifondazione».
Tira così una brutta aria laggiù?
«Cupa».
Lei rifarebbe il sindaco?
«Mai più. Mi sono sentita troppo sola. Fra atti intimidatori, minacce e drammi anche solo per cambiare una lampadina in comune ».
Perché è a Roma?
«Un convegno. Sono qui per parlare dei piccoli comuni che sono la forza della democrazia. L’altra politica, quella di Roma, è troppo lontana per capire».
D’ora in poi farà sempre e solo la farmacista?
«Come mia madre. Si è laureata nel 1950 a Bologna partendo da Mammola, un paesino aggrappato alle montagne. E ha aperto la nostra farmacia nel ’54».

La Repubblica 10.11.13

“Pi greco meglio dei videogame i segreti della matematica diventano un gioco da ragazzi”, di Anais Ginori

Provare a far girare una ruota quadrata, creare forme geometriche con le bolle di sapone, imparare il calcolo delle probabilità davanti a un mucchio di caramelle, scoprire la propria data di compleanno tra i decimali del Pi greco. La matematica è un gioco da ragazzi, o almeno così sembra nella sale del museo Vaisseau di Strasburgo dove da qualche giorno è stata inaugurata “Mathémanip”: oltre quattrocento metri quadrati per imparare numeri e forme senza rinunciare al divertimento. Il concetto della mostra viene dalla vicina Germania, dove migliaia di bambini si sono già appassionati nel tentare di risolvere teoremi e rompicapo sempre proposti in forma ludica.
Nella nuova versione francese, il format tedesco “Mathematikum” è stato integrato con altri giochi ed esteso su uno spazio ancora più grande. C’è persino un ristorante dove si può bere “tè al quadrato” e “millefoglie di logica”. Oltre quaranta attività ludiche, un percorso didattico di un paio d’ore che riesce a trasformare una disciplina considerata ostica e difficile e in un piacevole passatempo. Il segreto è imparare attraverso un’esperienza diretta, da cui il titolo della mostra, a metà tra matematica e manipolazioni.
I bambini si sentono apprendisti scienziati lanciando biglie su due piste, una dritta e una concava: il percorso più corto non è sempre quello più rapido. Oppure passano davanti a “L’uomo vitruviano” di Leonardo da Vinci nel quale sono riprodotte le proporzioni “naturali” del corpo umano. Continuando, devono far combaciare forme triangolari e quadrate: è l’applicazione concreta del famoso teorema di Pitagora: “In ogni triangolo rettangolo l’area del quadrato costruito sull’ipotenusa è sempre uguale alla somma delle aree dei quadrati costruiti sui cateti”. «La matematica non deve essere riservata a pochi appassionati», ripete Cédric Villani, 39 anni, vincitore della medaglia Fields, l’equivalente del Nobel, per i suoi lunghi studi sulla formula dell’entropia Boltzmann. Villani è diventato “mathstar” grazie a libri e trasmissioni di facile divulgazione, così Jean-Paul Delahaye, autore “Stupefacenti numeri primi” e Stella Baruk chiamata la “fata della matematica”.
La Francia ha una lunga tradizione in questa disciplina che risale ai Lumi, con personaggi come Jean D’alembert, passando per il gruppo Bourbaki. Nelle edicole si vendono diverse riviste di esercizi per tenersi in allenamento
e periodicamente si disputano i campionati di logica e matematica. Tra pochi giorni uscirà in Francia persino un documentario dal titolo ironico “Comment j’ai détesté les mathématiques”, ovvero “Come ho imparato a detestare la matematica”. Attraverso interviste a grandi rappresentanti della categoria, come Villani, il regista Olivier Peyon spiega un paradosso: molte persone si ostinano a non voler capire algoritmi e nuove tecnologie che però oggi governano il mondo. «L’idea del film — racconta Peyon — è nata quando un mio amico del College de France mi ha detto: “Se nelle scuole si insegnasse davvero lo spirito matematico, tutti i bambini diventerebbero dei ribelli”». Sviluppare la capacità di astrazione e risolvere equazioni significa anche affinare lo spirito critico. E quindi ben venga il gioco matematico, a qualsiasi età.

www.repubblica.it

“Cassa in deroga al collasso le Regioni hanno finito i soldi 350mila lavoratori senza aiuti”, di Federico Fubini

Venerdì un gruppo di lavoratori in cassa integrazione si è presentato all’assessorato al Lavoro della Calabria, a Catanzaro, e ha chiesto di vedere un documento: l’attestato che esistevano i fondi per pagare gli ammortizzatori sociali. Quando i funzionari locali hanno preso tempo, i cassaintegrati sono scesi in strada, hanno spostato transenne e cassonetti e hanno bloccato un’arteria di traffico per otto ore. Nel frattempo a Cosenza, altri cassaintegrati sono saliti sul tetto del palazzo dell’Inps e hanno minacciato di buttarsi se non fossero stati pagati.
Solo in Calabria, 20 mila lavoratori in cassa o mobilità hanno smesso da nove mesi di ricevere sussidi che in teoria sarebbero già stati autorizzati.
Ma quello di venerdì è solo un episodio, al Sud sempre più ricorrente, in un quadro più ampio: dal Mezzogiorno al Nord industriale, la cassa integrazione in deroga è al collasso. Centinaia di migliaia di famiglie sono rimaste senza redditi, benché sia stato loro promesso che hanno legalmente titolo a questa forma “eccezionale” di sussidio.
Dal distretto del tessile a Como, al commercio nel Lazio, fino all’edilizia in Campania o in Sicilia, sono probabilmente circa 350 mila i lavoratori che subiscono forti ritardi nel versamento degli ammortizzatori in deroga. La stima è di Guglielmo Loy, segretario confederale della Uil, ma il “probabilmente” su di essa è d’obbligo. Il caos su autorizzazioni, versamenti e fabbisogno finanziario sulla Cig in deroga è tale che né l’Inps (che paga) né il ministero del Lavoro (che regola) hanno il quadro completo della situazione. Non si sa quante persone messe fuori dalle imprese non percepiscono più anche solo i soldi per comprare gli alimenti di base. La sola certezza è che centinaia di migliaia di lavoratori sono lasciati per mesi in un limbo, dopo che era stato garantito loro che potevano contare sugli ammortizzatori sociali.
Solo in questi giorni, benché se ne parli da giugno, il governo ha sbloccato 500 milioni per accelerare i pagamenti degli arretrati. Si aggiungono poi 287 milioni dirottati in extremis dai fondi europei per contribuire alla cassa in deroga in Calabria, Campania, Puglia e Sicilia.
Saranno usati nei prossimi giorni per saldare alcune delle mensilità arretrate. Ma secondo stime (informali) del ministero del Lavoro, solo sul 2013 resta comunque un buco di 330 milioni. In questa fase il costo complessivo della Cig in deroga, secondo stime (ancora una volta, informali) del ministero del Lavoro, è di tre miliardi l’anno. Non è poco, se si considera
che viene finanziata dalla fiscalità generale e non dai versamenti delle imprese presso l’Inps. Questo strumento di emergenza era nato con l’inizio della recessione per le esigenze di piccole aziende di ogni tipo: edilizia, artigiani, negozi, studi di notai o di avvocati. Imprese non hanno mai dovuto versare contributi all’Inps per la cassa integrazione. A titolo di confronto, nel 2012 le medie e grandi imprese industriali hanno versato 3,6 miliardi
per gli ammortizzatori e hanno usato Cig ordinaria e straordinaria per 5,2 miliardi. Per loro il fabbisogno da coprire è dunque di circa la metà rispetto alle piccole imprese.
Ma non è solo la carenza di risorse a provocare quel dramma sociale silenzioso che è il collasso della Cig in deroga. Non era inevitabile che finisse così. A complicare tutto contribuiscono le scelte delle regioni, le incongruenze legali di questo strumento e l’insistenza dei sindacati a usarlo a dispetto delle disfunzioni che comporta.
In questi mesi sono circa 400 mila le persone in cassa in deroga. Secondo Loy della Uil, le regioni dove i versamenti sono meno in ritardo restano Trentito Alto Adige e Friuli e viaggiano con due mesi di arretrati. Del resto questo sistema di welfare non era stato disegnato per un’ondata di crisi aziendali come quella attuale. Si prevedeva al massimo di far fronte a 100 mila cassaintegrati in deroga in ogni dato momento, non quattro volte di più. Poi però le scelte della politica e delle parti sociali hanno complicato tutto ancora di più. Le regioni per esempio hanno potere di autorizzare il ricorso della Cig in deroga se su di esso c’è un accordo fra l’impresa in crisi e il sindacato. In passato le giunte erano anche tenute a finanziare almeno il 30% delle intese che autorizzavano, mentre il resto spettava al governo. Da metà 2012 però i fondi delle regioni sono finiti e lo Stato centrale si è fatto carico della Cig in deroga per intero. Si è giunti dunque a un paradosso: un’amministrazione regionale autorizza una gran quantità di spesa pubblica alla quale deve far fronte un’altra amministrazione. Chi decide, sa che poi non dovrà pagare, magari alzando le imposte sui propri elettori. Non è dunque un caso se questo meccanismo di deresponsabilizzazione ha fatto esplodere il ricorso alla Cig in deroga.
Hanno poi contribuito anche i sindacati, che su questo strumento hanno un potere vincolante: gli ammortizzatori non scattano se il sindacato non firma. Qua e là, di rado, ciò ha prodotto richieste di favori e tangenti per dare via libera alla cassa. Casi, sembrerebbe, sporadici. Ma anche agendo nelle regole, i sindacati tendono a prediligere questo strumento perché conferisce loro un ruolo centrale.
Formalmente la cassa integrazione è un reddito transitorio in attesa che la crisi passi e il lavoratore rientri in azienda. Nella pratica, con la Cig in deroga, diventa sempre meno così: il lavoratore non rientra quasi mai. Se i sindacati e le imprese accettassero la realtà del licenziamento, chi perde il posto avrebbe almeno diritto al sussidio di disoccupazione per 12 o 18 mesi: quello sarebbe sicuro e puntuale, perché coperto da automatismi di legge. Invece si preferisce continuare a fingere che certi posti non siano persi per sempre, a costo di lasciare gli addetti senza ammortizzatori sociali per mesi.
Venerdì, verso le sei di sera, i dimostranti di Catanzaro hanno rimosso i cassonetti dalla strada e sono tornati a casa. La regione Calabria aveva garantito che avrebbe pagato tre dei nove mesi arretrati. A volte una promessa, di questi tempi, fa davvero miracoli.

La Repubblica 10.11.13

“Niente ipocrisie sul Porcellum”, di Claudio Sardo

Votare di nuovo con il Porcellum sarebbe una catastrofe. Perché il Porcellum è ormai il simbolo dell’impotenza della politica, oltre che una delle cause del collasso del sistema. Ma il rischio che il Parlamento non riesca neppure stavolta a cambiare la legge elettorale sta drammaticamente crescendo. Mentre le speranze riposte sulla prossima sentenza della Corte costituzionale appaiono eccessive, dal momento che i giudici possono intervenire solo parzialmente. La prima commissione del Senato affronterà il tema questa settimana. Il Pd ha proposto il doppio turno – ballottaggio tra i due partiti, o coalizioni, meglio piazzati al primo turno – ma non sembra trovare i consensi sufficienti. E il no al doppio turno potrebbe bloccare di nuovo ogni trattati- va sulla riforma. Il problema è che il Porcellum, nonostante i molti opposi- tori dichiarati, gode di numerosi e trasversali consensi non dichiarati. Il Pdl osteggia il doppio turno perché lo ritiene svantaggioso, rifiuta il Mattarellum perché sconta un deficit di presenza nel territorio, e a tutto questo ora si aggiunge anche l’incertezza determinata dallo scontro interno: comunque vadano le cose, la legge Calderoli resta un’assicurazione per Berlusconi, che può comporre così le proprie liste sul- la base di criteri di assoluta fedeltà.

Ma anche Grillo non fa mistero di preferire il Porcellum a tante possibili alternative. Respinge i collegi uninominali, dal momento che il M5S è un partito carismatico e i candidati grillini sono pressoché sconosciuti. Considera il ballottaggio di coalizione un rischio troppo alto (tanto che lo ha già definito Porcellum-bis). E, in fondo, è pronto a contrastare ogni soluzione capace di garantire maggiore stabilità: è l’instabilità il terreno in cui Grillo vive e prospera.

L’amara verità è che anche nel Pd ci sono resistenze e ostilità alla riforma. Alla Leopolda di Renzi si è detto e ripetuto che il Porcellum è sempre meglio di una legge proporzionale. Ma, a parte il fatto che la legge Calderoli è incostituzionale, che non ha uguali nei sistemi democratici, che è percepita dalla stragrande maggioranza degli italiani come un oltraggio – dunque considerarla migliore di una legge imperfetta, o inopportuna, ma comunque dotata degli elementari requisiti di legittimità, è un azzardo che mal si concilia con il senso dello Stato che dovrebbe avere chi si candida a governare il Paese – bisognerebbe smetterla con le battute confuse e generiche sul maggioritario e il proporzionale: è da considerare peggiore del Porcellum anche una legge elettorale sul modello spagnolo, con circoscrizioni piccole, in modo da incrementare sensibilmente la rappresentanza parlamentare dei partiti maggiori? È da considerare peggiore del Porcellum anche un sistema, che pur muovendo da una base proporzionale, premi (senza gli eccessi della legge Calderoli o della legge Acerbo) il partito più votato in modo da favorire la formazione attorno ad esso di una maggioranza?

Non sono domande retoriche per- ché, nel caso malaugurato che Pdl e M5S bocciassero il doppio turno, è su questi terreni che il Pd dovrebbe riaprire il confronto. E, se decidesse di non farlo, allora non potrebbe più dire che il Porcellum è il male assoluto. Diventerebbe semplicemente una carta nelle mani del nuovo gruppo dirigente del Pd, da giocare se serve. Del resto, è già accaduto: quando le elezioni arrivano all’orizzonte, il vincitore più accreditato dai sondaggi è sempre tentato di servirsi del Porcellum, rinviando alla legislatura successiva la necessaria riforma.

È vero che la politica è fatta anche di cinismo e ipocrisie. Ma questi giochi pericolosi sul Porcellum rischiano di trasformarsi in un suicidio. Davvero qualcuno può pensare di «vincere» alcunché in un simile contesto istituzionale, dove nella sfiducia dei cittadini i margini d’azione della politica sono stretti dalle compatibilità esterne e da un’ingovernabilità endemica? Bisognerebbe tornare a parlare il linguaggio della verità. La sinistra soprattutto dovrebbe scrollarsi di dosso quella sudditanza all’ideologia della Seconda Repubblica, che ne ha ridotto di molto la forza di cambiamento. Chi intende inseguire il mito dell’elezione diretta dei governi (e del premier) deve dire con nettezza che vuole stracciare la Costituzione e riscriverla secondo un impianto presidenzialista. E chi invece è convinto che il modello europeo dei governi parlamentari sia ancora la soluzione più equilibrata, nient’affatto antagonista ad un rafforzamento dei poteri del premier, deve trovare il coraggio di contrastare apertamente le soluzioni presidenzialiste, e ancor più le ibridazioni come il cosiddetto «sindaco d’Italia», che semplicemente è in- compatibile con gli ordinamenti costituzionali moderni.

In tema di istituzioni, non se ne può più di giochi di prestigio con le parole. Ad esempio, non basta evocare un astratto modello bipolare, senza tener conto dei liberi orientamenti della società. Il nostro sistema politico è oggi quantomeno tripolare e non è ragionevole pronosticare la scomparsa in tempi brevi del movimento di Grillo. Il bipolarismo non può essere una costrizione indotta da una legge elettorale: la Prima Repubblica è stata a lungo fortemente bipolare pur impedendo l’alternanza di governo. La crisi della Prima Repubblica è stata anche una crisi del suo bipolarismo. La cosiddetta Seconda Repubblica ci ha dato bipolarimo e alternanza, ma in un quadro di frammentazione e instabilità crescente. Adesso dobbiamo scegliere: consentire ad uno dei tre poli in competizione di governare senza larghe intese oppure bloccare l’alternanza destra-sinistra aprendo praterie al populismo anti-europeo? Questa è la scelta di sistema che dobbiamo compiere senza sotterfugi. Il doppio turno all’interno di un sistema parlamentare è la nostra opportunità migliore, se vogliamo riagganciare l’Europa. Ma, se la strada fosse sbarrata, non per questo dovremmo smettere di cercare nei modelli europei una riforma che superi il Porcellum e che consenta il governo del Cancelliere o del Primo ministro. Chi pensa di cavalcare il Porcellum per conquistare il potere, come chi pensa con espedienti di rendere quasi inevitabili le grandi coalizioni, forse ha perso di vista l’interesse dell’Italia.

L’Unità 10.11.13

“La scuola italiana ha un punto debole”, di P.A. da La Tecnica della Scuola

Sarebbe la secondaria di primo grado che, a cinquant’anni dalla sua nascita, scricchiola sotto i colpi dei test internazionali, impietosi nel descrivere il crollo del rendimento dei preadolescenti nel passaggio dalle elementari alle medie. Le cause? l’età avanzata dei docenti. Mentre nella scuola primaria i bambini viaggiano ancora abbastanza alla pari con loro coetanei europei e no, le differenze socioculturali esplodono proprio alle medie dove fra l’altro si scopre che più la famiglia è istruita, tanto migliori sono i risultati scolastici. E siccome, dice il Corriere della Sera in una sua inchiesta, il livello d’istruzione delle famiglie italiane è molto basso (più della metà degli italiani adulti non ha un diploma di scuola superiore, contro una media Ocse del 27%), il successo scolastico finisce per arridere ai pochi fortunati che hanno i genitori diplomati o laureati, mentre tutti gli altri sono condannati a fare la parte degli asini.
Tuttavia la scuola elementare italiana rimane un punto di riferimento, come dicono i i risultati dell’indagine PIRLS 2011 sulle capacità di lettura dei bambini di 10 anni. In base a questa rilevazione, gli alunni italiani raggiungono un punteggio medio di 541, staccando nettamente i coetanei spagnoli (513) e francesi (520), a pari merito con i tedeschi . Se si confrontano questi risultati con quelli dell’ultimo test Pisa sulle competenze dei quindicenni nei Paesi Ocse si vede come, sul fronte della cosiddetta «literacy» (ovvero le competenze linguistiche), i nostri ragazzi nel giro di pochi anni perdano molte posizioni, finendo sotto la media Ocse (486 contro 493 punti), facendosi largamente sorpassare dai colleghi inglesi (494), francesi (496), tedeschi (497): indietro restano solo gli spagnoli (481), mentre a distanze siderali svettano i «soliti primi della classe»: asiatici e Paesi del Nord Europa (sul podio, Cina, Corea e Finlandia, rispettivamente a quota 556, 539 e 536).
Né le cose migliorano quando si passa alle cosiddetta «numeracy». Basta guardare i risultati dell’indagine TIMSS 2011sulle capacità matematiche e scientifiche dei bambini di 10 anni e dei 14enni. Anche in questo caso i bambini delle elementari si piazzano piuttosto bene in matematica, sopra la media dei 500 punti (508). Mentre gli adolescenti finiscono, anche se di poco, sotto il valore di riferimento medio (a quota 498). Idem per le scienze. Secondo il «Rapporto sulla scuola italiana» della Fondazione Agnelli pubblicato da Laterza nel 2011, l’Italia è il Paese con il calo degli apprendimenti più netto fra elementari e medie.
Il problema a questo punto è però, dice il Corriere, quello di capire le cause di tanto insuccesso che si manifesta proprio nel passaggio dalla primaria alla secondaria e per pesare anche nella secondaria di secondo grado.
Una delle possibili ragioni di questo scollamento, indicata da più parti, sta nell’età avanzata dei docenti. Mancano, in generale, insegnanti giovani (l’età media in Italia è di oltre 50 anni contro i 43 della media europea) , anche per via del sistema di reclutamento legato alle liste del precariato. Professori anziani, con insufficienti conoscenze informatiche, che faticano ad entrare in contatto con i cosiddetti nativi digitali (come del resto faticano anche i loro genitori incapaci di trovare una strada per comunicare con i loro figli «marziani», tutti app, videogiochi e social network). Resta da spiegare come sia possibile che a 15 anni sei ragazzi su dieci non sappiano da cosa dipende l’alternarsi del giorno e della notte…

La Tecnica della Scuola 10.11.13

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L’«anello debole» della scuola italiana
«Rapporto sulla scuola italiana» (Fondazione Agnelli)

«Anello debole», «maglia nera» della scuola italiana. Le metafore contro la scuola media si sprecano. Nata 50 anni fa con l’intenzione, sacrosanta, di porre fine all’odioso doppio percorso (di eredità fascista) che condannava i figli dei contadini e degli operai all’avviamento professionale riservando la «scuola di mezzo» solo a chi era destinato (per storia familiare) a proseguire gli studi, la media unica è invecchiata, ed è invecchiata male. Doveva offrire un’istruzione di qualità per tutti ma ci è riuscita solo a metà: ha innalzato sì il livello di scolarità ma non ha saputo garantire a tutti i ragazzi le stesse opportunità di successo scolastico. Con il risultato che mentre nella scuola primaria i bambini viaggiano ancora abbastanza alla pari, le differenze socioculturali esplodono proprio alle medie: quanto più la famiglia è istruita, tanto migliori sono i risultati scolastici. E siccome il livello d’istruzione delle famiglie italiane è molto basso (quasi metà degli italiani adulti non ha un diploma di scuola superiore, contro una media Ocse del 27%), il successo scolastico finisce per arridere ai pochi fortunati che hanno i genitori diplomati o laureati, mentre tutti gli altri sono condannati a fare la parte degli asini, soprattutto se confrontati con i loro coetanei di altri Paesi.

Guarda le slides tratte dalla ricerca «I numeri da cambiare» elaborata dall’Associazione TreeLLLe e dalla Fondazione Rocca

LETTORI ESPERTI ALLE ELEMENTARI, ASINI ALLE MEDIE? – E dire che alle elementari partiamo alla grande. Basta guardare i risultati dell’indagine PIRLS 2011 sulle capacità di letturadei bambini di 10 anni. In base a questa rilevazione, gli alunni italiani raggiungono un punteggio medio di 541, staccando nettamente i coetanei spagnoli (513) e francesi (520), a parimerito con i tedeschi . Se si confrontano questi risultati con quelli dell’ultimo test Pisa sulle competenze dei quindicenni nei Paesi Ocse si vede come, sul fronte della cosiddetta «literacy» (ovvero le competenze linguistiche), i nostri ragazzi nel giro di pochi anni perdano molte posizioni, finendo sotto la media Ocse (486 contro 493 punti), facendosi largamente sorpassare dai colleghi inglesi (494), francesi (496), tedeschi (497): indietro restano solo gli spagnoli (481), mentre a distanze siderali svettano i «soliti primi della classe»: asiatici e Paesi del Nord Europa (sul podio, Cina, Corea e Finlandia, rispettivamente a quota 556, 539 e 536).

BOCCIATI IN MATEMATICA – Né le cose migliorano quando si passa alle cosiddetta «numeracy». Basta guardare i risultati dell’indagine TIMSS 2011sulle capacità matematiche e scientifiche dei bambini di 10 anni e dei 14enni. Anche in questo caso i bambini delle elementari si piazzano piuttosto bene in matematica, sopra la media dei 500 punti (508). Mentre gli adolescenti finiscono, anche se di poco, sotto il valore di riferimento medio (a quota 498). Idem per le scienze. Secondo il «Rapporto sulla scuola italiana» della Fondazione Agnelli pubblicato da Laterza nel 2011, l’Italia è il Paese con il calo degli apprendimenti più netto fra elementari e medie.

PROF VECCHI, ADOLESCENTI ANNOIATI – Andando a ricercare le cause di risultati così poco lusinghieri, nello stesso studio si vede come i preadolescenti italiani siano molto più a disagio dei loro coetanei a scuola. Una delle possibili ragioni di questo scollamento, indicata da più parti, sta nell’età avanzata dei docenti. Mancano, in generale, insegnanti giovani (l’età media in Italia è di oltre 50 anni contro i 43 della media europea) , anche per via del sistema di reclutamento legato alle liste del precariato. Professori anziani, con insufficienti conoscenze informatiche, che faticano ad entrare in contatto con i cosiddetti nativi digitali (come del resto faticano anche i loro genitori incapaci di trovare una strada per comunicare con i loro figli «marziani», tutti app, videogiochi e social network). Resta da spiegare come sia possibile che a 15 anni sei ragazzi su dieci non sappiano da cosa dipende l’alternarsi del giorno e della notte…

Il Corriere della Sera 10.11.13

“Roma e Berlino, la politica guarda solo agli anziani”, di Stefano Lepri

Italia e Germania hanno un importante tratto in comune: tra gli elettori acquistano sempre più peso gli anziani. È naturale che gli anziani si preoccupino del patrimonio e della pensione più che del lavoro e dell’impresa. Così in Italia si parla troppo di tasse sulla casa, e meno di altre tasse. Invece in Germania meno famiglie possiedono la casa, molte hanno il risparmio investito in assicurazioni vita e fondi pensione: il calo dei tassi Bce è impopolare, perché ne fa calare i rendimenti.

Su questo fanno poi leva interessi finanziari che guadagnano dal prolungarsi della crisi dell’euro, e ostacolano Mario Draghi quando tenta di risolverla.

La caratteristica comune spinge dunque i due Paesi in direzioni opposte, e aggrava le incomprensioni. Ai tedeschi pare insensato cancellare l’Imu, irresponsabile non mettere mano a tutto quello che non funziona nel nostro Stato. A noi – ma anche ad altri – sembra assurdo che la Germania protesti contro il basso costo del denaro, aiuto importante per uscire dalla crisi.

Forse è l’anteprima di problemi che investiranno tutti i Paesi avanzati. Lo spunto italiano fa prevedere a Tyler Cowen, brillante economista liberista, che anche negli Usa prima o poi il dibattito politico si concentrerà sulle tasse patrimoniali, pur se per ragioni diverse: come via per correggere le crescenti disuguaglianze generate da un’economia più dinamica (il nuovo sindaco di New York ci sta pensando).

In Europa, dove la crescita langue, le ragioni del patrimonio – abbondante, accumulato in decenni di benessere – possono contrastare con quelle della produzione. Ci ragiona anche il Fmi. Se si vogliono chiamare a raccolta tutte le risorse disponibili per rilanciare lo sviluppo, occorre che contribuiscano anche le ricchezze non direttamente impegnate nelle imprese. Però le resistenze saranno forti.

Può darsi che una collaborazione tra sinistra e destra serva ad affrontare in modo equilibrato la sfida nuova. Tuttavia, se confrontiamo la contesa sulla legge di Stabilità con le trattative per una nuova «grande coalizione» a Berlino, il parallelismo tra i due Paesi in gran parte cade. Sono rare le somiglianze: ad esempio, come il Pd chiede di modificare la riforma Fornero votata due anni fa, i socialdemocratici si pentono di aver detto sì all’aumento a 67 anni dell’età di pensione durante la precedente esperienza di governo con Angela Merkel.

Nell’insieme, i due grandi partiti tedeschi stanno confrontando solide ragioni di destra con solide ragioni di sinistra. I socialdemocratici vogliono aumentare le tasse ai ricchi per finanziare istruzione e ricerca; propongono un salario minimo per proteggere i più deboli. I cristiano-democratici hanno promesso di non aumentare le tasse; temono che un salario minimo danneggi le piccole imprese e scoraggi le assunzioni.

Lasciamo stare che agli occhi del resto del mondo – e del Tesoro Usa in prima fila – sarebbe bene accontentare entrambi: niente aumenti di tasse e più spese sociali. Nella terribile asimmetria causata insieme dalle difficoltà dell’euro e dall’eredità del passato, il bilancio pubblico tedesco offre spazi che la politica tedesca esita ad usare, il bilancio italiano obbliga al rigore pur se i nostri partiti fanno a gara nel dimenticarselo.

Trovare qualcosa per i giovani è arduo, dentro il diluvio di emendamenti presentati in Senato. Dei 4 miliardi di maggiori spese per il 2014 solo la metà può forse essere utile per la crescita; i partiti premono per nuovi oneri finanziati con espedienti. Ed è in nome di questo che si vuole convincere l’Europa a concederci deroghe? Come se non bastasse, c’è Beppe Grillo che promette il Paese della cuccagna.

La Stampa 10.11.13

“Il “sacco” dell’Atac frodi e clientele della banda del bus”, di Corrado Zunino

L’Azienda tramvie e autobus del Comune di Roma fondata dal sindaco Ernesto Nathan nel 1909, la storica e contemporanea Atac, non è neppure più una greppia per i partiti. A forza di prelevare, di sistemare, di regalare, a forza di maxiprocessi aperti in serie, di gare d’appalto contestate e poi smontate dal Tar del Lazio, di bilanci in cui tutti hanno messo le mani, ecco, a forza di tutto questo l’Atac di Nathan oggi è semplicemente un’ex azienda collassata.
LA GENEROSA Atac oggi ha nel suo ventre 854 assunti, in quattro anni e con raccomandazione della destra di Roma, con il “gruppo Alemanno” capace di depredare con un’intensità e una rapidità senza precedenti, corti di velociraptor cresciute attorno al sindaco del Fronte della gioventù. Oggi un’azienda così viene tenuta in vita dalle banche solo per la spartizione a breve delle sue spoglie pubbliche, un certo patrimonio immobiliare ovviamente lasciato a marcire.
Dice il sindaco in carica Ignazio Marino: «Non sarà mai più come prima, cambieremo tutto, ho già cambiato». E ha chiesto in queste ore una dettagliata relazione all’amministratore delegato da lui insediato. Il problema è che il nuovo ad Danilo Broggi, che pure ha tuonato per imporre una linea gerarchica in discontinuità, lo scorso 27 settembre ha firmato un organigramma
in cui i “falsi stampatori di ticket” — la doppia fatturazione dei biglietti, 70 milioni extra in nero utili per finanziare la politica romana — erano ancora tutti lì. Alla guida della direzione “gestione e manutenzione della bigliettazione elettronica” Broggi il 27 settembre ha confermato Gianluigi Di Lorenzo, manager di punta della Erg in Italia, la società australiana che per prima ha fornito il software per i biglietti. Quando l’ad lo ha ribadito al suo posto, Di Lorenzo aveva già ricevuto un avviso di garanzia. Ecco, l’azienda Erg sul fronte fattura ed emissione dei biglietti ha comandato per quindici anni (e comanda tuttora) all’esterno e all’interno della sbrindellata Atac. Ieri, infatti, i pm Pioletti e Condemi, titolari dell’inchiesta, hanno deciso di acquisire tutti gli atti che riguardano il rapporto tra Atac ed Erg (entrata nel ’98 con Rutelli sindaco a 30 milioni l’anno e, visto che l’azienda pubblica non controllava più gli incassi, portata in seno al Campidoglio nel 2003, sindaco Veltroni).
Un’azienda di trasporto che sposta quattro milioni di persone al giorno, molti dei quali viaggiano con biglietti falsi venduti dalla stessa Atac che si possono obliterare all’infinito, oggi non ha un euro per pagare gli straordinari e rinnovare un parco mezzi da rottamazione. Con 12mila dipendenti — un’enormità —, l’azienda perde 150 milioni l’anno. E sulla testa della pubblica società per azioni ci sono almeno tre robuste inchieste penali. Sui ticket falsi c’è già la richiesta di rinvio a giudizio di 15 persone per truffa e falso. Poi — stessa questione, altra indagine — s’indaga sul black out del software che i ticket genera. Ma l’inchiesta — prima giornalistica e poi di procura — che ha disegnato le attitudini di questa azienda da prima e terza Repubblica è quella sulle assunzioni. È esplosa nel dicembre 2010 (abuso d’ufficio): 854 chiamate dirette (altre 954, separatamente, le aveva fatte l’Azienda municipalizzata ambiente, l’Ama).
Tra gli imbarcati Atac, si è scoperto, l’ex amministratore e contemporaneamente consulente Adalberto Bertucci garantì per dieci: il figlio, il genero, il nipote, la cognata del figlio, l’ex segretaria, il figlio dell’ex segretaria, la nuora dell’ex segretaria, la figlia della segretaria del figlio, poi l’ex vicesindaco di Guidonia e il vicesindaco di Montelibretti, tutti amici suoi, ras di provincia del Pdl. Il sindaco di Roma Alemanno in proprio allargò l’azienda all’ingresso del figlio del suo caposcorta (la figlia, invece, fu accasata all’Ama). E l’ex capo di gabinetto di Alemanno, su regia di Luigi Bisignani, di Atac diventò amministratore delegato. L’assessore alla Mobilità di quella giunta, Sergio Marchi, ne piazzò otto. Riuscì a far entrare persino l’ex fidanzata di un suo collaboratore. La ex. Almeno sette tra deputati e senatori del Pdl sistemarono famigli, collaboratori e amanti. L’eurodeputato Antonio Tajani fece assumere l’ex assistente parlamentare, il deputato Vincenzo Piso — presente alla cena a casa di Riccardo Mancini in cui si è decisa l’accelerazione dei falsi ticket da far circolare — un collaboratore. Il deputato Gianni Sammarco, già coordinatore romano del Pdl, ha regalato allo scandalone quell’esprit sexy capace di seppellire una tragedia sotto un dar di gomiti. Fece entrare in Atac, come segretaria personale del direttore industriale Marco Coletti, Giulia Pellegrino, 25 anni. Bellissima. Venne segnalata in virtù di un curriculum riassunto dalla foto in cui la si vede ballare in hot pants e cappellino militare sopra la pedana di una discoteca. Una cubista, quello che mancava all’Atac. «Sono una hostess nei locali», puntualizzerà lei piccata, «accompagno i clienti ai tavoli».
Nelle assunzioni del generone Atac ci sarà anche la cordata dei neo-post fascisti. Come Francesco Bianco, ex Nuclei armati rivoluzionari, preso in Trambus e spostato in azienda. Detto che in quelle liste c’erano molti parenti di sindacalisti — soprattutto Uil e Cisl — e che in passato anche il figlio dell’ex caposcorta di Walter Veltroni fu arruolato presso la rimessa di Grottarossa, il filone neo-post fascista è centrale nella storia dell’Atac deviata. Il dominus dell’affaire biglietti falsi è stato infatti quel Mancini, già avanguardista nazionale, che voleva trasformare l’Eur spa in una macchina da guerra e sarebbe stato arrestato per le tangenti sui filobus della Breda.
Il sindaco Marino sembra non avere la forza per spezzare i legami con questo passato, visto che ha confermato Roberto Grappelli presidente dell’azienda sconquassata. In mezzo agli stipendi assurdi dell’alta dirigenza dell’azienda, Grappelli ne prende tre, due garantiti dai suoi ruoli nell’Ogr Officine grandi revisioni (e non si capisce a cosa serva un’officina interna quando poi il cambio delle gomme dei bus è stato appaltato fuori). E Grappelli ha pure il bonus per gli obiettivi (ecco, 150 milioni persi ogni anno è fin qui l’obiettivo raggiunto). In questa Atac che ha garantito a sette dirigenti liquidazioni da 4 milioni «anche in caso decidano di cambiare lavoro», che anticipa al costruttore Parnasi venti milioni per cambiare sede e poi non la cambia (ma non ottiene indietro l’anticipo), che gestisce il personale con superminimi ad personam che raddoppiano lo stipendio, tredici dirigenti si sono appena rifiutati di aderire alla spending review pretesa dall’assessore Improta: nessuna riduzione del dieci per cento sugli stipendi, «quei soldi ce li meritiamo tutti».

La Repubblica 10.11.13