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“Aria nuova fra i banchi”, di Marco Lodoli

Per alcuni decenni la scuola è servita anche ad avvicinare le classi sociali: nelle aule convergevano interessi e aspettative, si respirava la stessa cultura, si creavano possibilità per tutti. In fondo al viale si immaginava un mondo senza crudeli differenze, senza meschinità e ingiustizie. La conoscenza era garanzia di crescita intellettuale, e anche sociale ed economica. Chi studiava si sarebbe affermato, o quantomeno avrebbe fatto un passo in avanti rispetto ai padri. Tante volte abbiamo sentito quelle storie un po’ retoriche ma autentiche: il padre tranviere che piangeva e rideva il giorno della laurea in medicina del suo figliolo, la madre che aveva faticato tanto per tirare su quattro figli, che ora sono tutti dottori. Oggi le cose sono cambiate radicalmente. Chi viaggia in prima classe non permette nemmeno che al treno sia agganciata la seconda o la terza: vuole viaggiare solo con i suoi simili, con i meritevoli, gli eccellenti, i vincenti. «A me professò sto discorso del merito mi fa rodere. La meritocrazia, la meritocrazia… ma che significa? E chi non merita? E noi altri che stamo indietro, noi che non je la famo, noi non contiamo niente?». Questo mi dice Antonia e neanche mi guarda quando parla, guarda fuori, verso i palazzoni di questo quartiere di periferia, verso quei prati dove ancora le pecore pascolano tra gli acquedotti romani e il cemento. Qui la divina provvidenza del merito non passa, non illumina, non salva quasi nessuno. Guardo la classe: Michela ha confessato che non può fare i disegni di moda perché a casa non ha un tavolo, nemmeno quello da pranzo. Mangia con la madre e la sorella seduta sul letto, con il vassoio sulle ginocchia, in una casa che è letteralmente un buco. Roberta invece mi racconta che stanotte hanno sparato in faccia al migliore amico del suo fidanzato, «era uno che se faceva grosso, che stava sulle palle a tanti, ma nun era n’animale cattivo, nun se lo meritava de morì così a ventidue anni». Samantha invece trema perché stanno per buttarla fuori di casa, a lei e alla madre e ai due fratelli, lo sfratto ormai è esecutivo e i soldi per pagare l’affitto non ce li hanno, forse già stanotte li aspetta la macchina parcheggiata in uno slargo vicino casa, forse dovranno dormire lì, e lavarsi alla fontanella con gli zingari. La miseria produce paura, aggressività, ignoranza, cinismo. In pochi hanno i libri di scuola, si va avanti a fotocopie, anche se ogni insegnante ha ricevuto solo centocinquanta fogli per tutto l’anno, «perché i tagli si fanno sentire anche sui cinque euro, la scuola non ha più un soldo». In queste scuole di periferia le tragedie si accumulano come legna bagnata che non arde e non scalda, ma fuma e intossica. Tumori, disoccupazione, cirrosi epatica, aborti, droga, incidenti stradali, strozzini, divorzi, risse: tutto s’ammucchia orrendamente, tutto si mette di traverso e oscura il cielo. A ragazzi così segnati, così distratti dalla vita storta, oggi devo spiegare l’iperbole e la metonimia, Re Sole e Versailles, Foscolo e il Neoclassicismo. E loro già sanno che è tutto inutile, che i posti migliori sono già stati assegnati, e anche quelli meno buoni, e persino quelli in piedi. Hanno già nel sangue la polvere del mondo, il disincanto. «E non ci venissero a parlà di eccellenza che je tiro appresso er banco. Tanto ormai s’è capito come funziona sto mondo: mica serve che lavorino trenta milioni de persone, ne abbastano tre, e un po’ di marocchini a pulì uffici e cessi. Il paese deve funzionà come n’azienda? E allora noi non serviamo, siamo solo un peso. Tre milioni de capoccioni, de gente che sa tutto e sa come mette le mani nei computer e nelle banche, e gli altri a spasso. Gli altri a rubà, a spaccià, in galera, ar camposanto, dentro una vita di merda». Forse ha ragione questa ragazza, suo padre ha «un brutto male», come direbbe il buongusto «un cancro che lo spacca, professò», dice lei -, forse è vero che non dobbiamo fare della meritocrazia un ulteriore setaccio: l’oro passa e le pietre vengono buttate via. I ricchi hanno capito al volo l’aria che tira, aria da Titanic, e hanno subito occupato le poche scialuppe di salvataggio: scuole straniere, master, stage, investimenti totali nello studio. L’élite non ha più tempo né voglia di ascoltare le pene della nazione, le voci dei bassifondi: ha intuito il tracollo della scuola pubblica e ha puntato sulle scuole di lusso. E così la scuola non è più il luogo del confronto, della convergenza, dell’appianamento delle differenze e della crescita collettiva. Non si sta più tutti insieme a istruirsi per un futuro migliore, a sognare insieme. Chi ha i soldi il futuro se lo compra, o comunque si prepara a «meritarselo». Chi non ha niente annaspa nel niente e deve anche subire l’affronto dei discorsi sull’eccellenza. Ormai il nostro paese è tornato ad essere ferocemente classista, ai poveri gli si butta un osso e un’emozione della De Filippi, li si lascia nell’abbrutimento e nell’ignoranza, mentre ai ricchi si aprono le belle strade che vanno lontano: lontano da qui, da questa nazione che inizia a puzzare come uno stagno d’acqua morta.

L’Unità 08.11.13

“Un’altra breccia nel muro tedesco”, di Federico Fubini

L’Uomo che nessuno dovrebbe perdere di vista si chiama Erkki Liikanen. Ex politico socialdemocratico, quindi commissario europeo, oggi governatore della Banca di Finlandia, Liikanen a 63 anni vive un curioso destino: è diventato l’ago della bilancia della Bce. È lui la quantità marginale che sposta gli equilibri in seno alla Banca centrale europea quando prende posizione. SUGLI esponenti tedeschi si può sempre contare per una voce contro un ammorbidimento delle condizioni monetarie; su quelli dell’Europa del Sud ci si può aspettare, con pari regolarità, la linea opposta. Dunque la posizione di Liikanen, da una parte o dall’altra, segnala dove sta per girare il vento.
Di fronte al rischio di deflazione sul fianco Sud dell’euro, e non solo lì, ieri il finlandese ha scelto ciò che la Bce poteva fare quattro mesi fa: un taglio del tasso principale a cui presta denaro alle banche. Il Consiglio direttivo di Francoforte del resto è un organismo nel quale le regole scritte e quelle effettive non sempre combaciano. In teoria l’Eurotower può muovere sui tassi (e molto altro) con una maggioranza semplice, isolando i due voti tedeschi di Jens Wiedmann e Joerg Asmussen e dei loro alleati di Olanda o Lussemburgo. Nella realtà, la Bce non mai ha deciso niente se i dissenzienti in Consiglio sono più di tre o quattro su 23. Esistono minoranze di blocco implicite, perché la banca centrale non può diventare un corpo estraneo nel cuore della Germania dove risiede.
Anche per questo la Bce a volte prende di sorpresa gli investitori, com’è accaduto ieri. Dopo un primo sussulto al rialzo, le banche italiane sono crollate in Borsa trascinando giù Piazza Affari; a fine giornata, il Dax tedesco era il solo grande listino europeo in progresso. «I mercati si muovono e agiscono come vogliono, qualunque cosa accada », ha commentato Mario Draghi. Il presidente della Bce non ha dimenticato come il 2 agosto 2012 le Borse europee crollarono e gli spread si impennarono quando lui annunciò la svolta sugli acquisti di bond che avrebbe salvato l’euro. Quella caduta d’istinto fu il preludio, nelle settimane e nei mesi seguenti, di uno dei più grandi rimbalzi di sempre.
Neanche la reazione di ieri è una sentenza definitiva. I ribassi
dell’euro potrebbero durare poco, come non durarono in luglio scorso quando Draghi promise che i tassi sarebbero rimasti bassissimi a lungo. Contro il riallineamento fra monete milita l’equivalente di 155 miliardi di dollari che ogni mese la Federal Reserve americana e la Bank of Japan stampano e immettono sul mercato. A questa forza di fuoco finanziaria che schiaccia al ribasso dollaro e yen, la Bce per ora non risponde con strumenti altrettanto forti.
Eppure la crescita del Dax tedesco e il crollo delle banche italiane rivela lo stesso qualcosa della psicologia degli investitori in questa fase. È probabile che i titoli finanziari di Piazza Affari siano caduti perché è in questione il loro modo di ottenere ricavi e profitti. Per loro una fonte importante di utili è la differenza fra il (basso) interesse che versano sui depositi a vista dei clienti e il margine che realizzano investendo quegli stessi fondi in titoli a reddito fisso. «Con tassi quasi a zero, quello spicchio di profittabilità rischia di comprimersi ancora», osserva l’analista di Fidentiis, Fabrizio Bernardi. Il mercato sospetta che le banche italiane diverranno sempre meno redditizie e non attrarranno investitori, se e quando l’anno prossimo la Bce imporrà loro aumenti di capitale. Su di loro resta nel mercato un sospetto di vulnerabilità, dubbi che peraltro Banca d’Italia respinge. D’altra parte, la scivolata dell’euro ieri ha spinto al rialzo il listino tedesco perché è il solo dominato da grandi esportatori e non da gruppi finanziari.
Non tutto però è negativo per gli istituti di credito in Italia, nella mossa della Bce di ieri. L’ultimo taglio dei tassi in maggio ha dimostrato che queste mosse riducono davvero — benché di poco — gli interessi sui prestiti alle imprese. I loro oneri resteranno circa il 2% sopra a quelli dei concorrenti tedeschi. Ma verranno giù, dunque potrebbe rallentare il ritmo dei fallimenti d’impresa e l’aumento delle perdite delle banche sui crediti già concessi. Niente di tutto questo però dissipa l’interrogativo di fondo. Il taglio dei tassi di ieri risponde al rischio che l’inflazione sia troppo bassa o i prezzi inizino a scendere. Quello sarebbe uno scenario di paralisi dell’economia e di aumento progressivo del peso del debito, frutto del crollo dei consumi. Oggi nell’economia di Eurolandia la domanda di beni e servizi è di quasi 300 miliardi di euro inferiori ai livelli del 2009. E’ come se in quattro anni fosse stato spazzato via più di un quinto del Pil italiano. Per farlo riemergere, serve più di un taglio di un quarto di punto ai tassi d’interesse.

La Repubblica 08.11.13

“Il senso di un partito”, di Claudio Sardo

Chiudere il tesseramento prima che inizi il voto nei circoli del Pd, come proposto da Guglielmo Epifani, sarebbe un segno di trasparenza. E anche un’opportuna autocritica per aver consentito, nella fase dei congressi provinciali, l’umiliante oltraggio agli iscritti da parte di truppe cammellate di vario ceppo. Speriamo che qualche opportunismo non impedisca quest’atto di pulizia in extremis, gettando altro fango sull’ultimo partito che ancora resiste con questo nome.

Tutto ciò può forse sembrare terribilmente inutile o infinitamente piccolo di fronte ai gravi problemi del Paese, ma la verità è che la questione del partito e del suo ruolo resta il vero cuore della battaglia interna al Pd. E non certo perché qualcuno possa ancora immaginare una centralità dei partiti, ma perché la fortissima, persino tumultuosa, domanda di cambiamento che pervade la sinistra (e l’intera società) è di fronte ai nodi irrisolti dell’efficacia del potere e degli strumenti reali che possano dar corpo a una trasformazione sociale.

L’aspirazione a un governo diverso rischia di essere puro spirito se si salta questo passaggio. È vero che le elezioni primarie alludono più a una leadership di governo che non alla guida del partito. È vero anche che il candidato favorito pensa più al governo che al partito. Ma, nonostante il suo folle statuto, è impossibile negare che il congresso debba anzitutto dire cosa il Pd può fare per il futuro del Paese.

C’è chi dice che i partiti non hanno più senso. Che la Costituzione di domani vivrà senza di loro. Che la contesa democratica riguarderà soltanto le leadership. Che il mercato della comunicazione sovrasterà e rimpiazzerà il conflitto sociale. Che, insomma, i corpi sociali non hanno più profondità, né dimensione, ma sono ormai una rete sempre più sfilacciata e insignificante.

Le primarie accentuano anche l’illusione che il marketing elettorale possa sopperire alle lacune politiche o culturali. Ma la svalutazione degli iscritti al partito – che qualcuno vorrebbe persino cancellare, o comunque ridurre al ruolo di allestitori dei gazebo – pone un problema gigantesco proprio alla sinistra e ai suoi valori fondanti: l’uguaglianza, la solidarietà, la persona nelle relazioni sociali che la rendono protagonista. La sinistra ha ancora qualcosa da dire per il futuro dell’Italia, anzi per la sua ricostruzione dopo lo tsunami della crisi? Oppure la sinistra è retaggio del passato, da seppellire anch’essa insieme ai partiti, al Novecento, alla democrazia degli Stati nazionali?

Il Pd non può non dare, al congresso, una risposta a queste domande. E non se la caverà invocando un governo capace di politiche genericamente fondate su maggiore equità. Deve dire con quali forze materiali

intende spostare il baricentro sociale dell’azione politica, con quali strutture è in grado di assicurare una nuova partecipazione democratica. Gli anni passati sono stati anni di populismo, di liberismo sfrenato, di tecnocrazia. Dopo i disastrosi governi Ber-usconi, abbiamo avuto due governi che potremmo definire «forzatamente» neo-centristi. Governi costretti a operare entro bi- nari strettissimi di compatibilità, fortemente condizionati da fattori esterni, che hanno convissuto quotidianamente con la minaccia di un ulteriore commissariamento. Cos’è la sinistra in questo contesto? Una comunicazione più brillante, un volto più giovane, che però non riuscirà mai a discostar- si davvero dal neo-centrismo forzato?

La sinistra non è mai stata nulla, e non sarà nulla in futuro, se costruirà nel tempo nuovo una sua nuova soggettività politica. Il partito di massa del Novecento è morto. E il dilemma tra partito pesante e partito leggero non porta da nessuna parte. Il problema vero della sinistra è investire su se stessa come corpo politico e sociale, dotato di una propria autonomia culturale, capace di attraversare i conflitti, le sofferenze, i bisogni, e ovviamente di rappresentarli. Il parti- to nuovo può avere (anzi dovrà avere) forme inedite. Ma non potrà che rifiutare l’identificazione con il governo, che poi vuol dire assimilazione. Deve al contrario farsi garante dell’autonomia del governo da quei poteri esterni, che sono oggi nettamente preponderanti.

La nuova soggettività della sinistra è la questione più concreta che ha di fronte di Pd. Il rischio è che, dopo aver recitato lo spartito del liberismo di sinistra, dopo aver cantato il federalismo di sinistra, ora si riduca a sussurrare di un populismo di sinistra. La destra suona la musica e la sinistra esegue. Magari tentando, dove possibile, di attenuare gli effetti sociali di politiche altrui.

È questo il contesto plausibile di una rivincita della sinistra europea? Questo è piuttosto lo scenario di una sconfitta storica. Il Pd invece ha nel suo dna potenzialità molto importanti. La sua stessa identità «democratica» è una risorsa che può aiutare la famiglia progressista europea – in crisi non meno che nel nostro Paese – ad affrontare l’egemonia perdurante della destra e i populismi emergenti. La sinistra può essere più forte se è capace di attingere risorse anche oltre l’orizzonte socialista. Ma certo non può pensare di liquidare quella storia e quel deposito di cultura sociale e istituzionale. Si parte da lì. Ed è una buona notizia che il congresso del Pse, alla vigilia delle prossime elezioni europee, si svolga a Roma. L’importante è che il Pd sia in campo. E non venga invece ridotto ad un campo indistinto, popolato solo da individui incapaci di rappresentare se stessi e di essere una comunità politica.

L’Unità 07.11.13

“Europa, sinistra batti un colpo”, di Laura Pennacchi

Le dure critiche in materia di politica economica che l’amministrazione Obama fa alla Germania della Merkel non sono estemporanee. Non a caso è più forte la denuncia secondo cui le elevate esportazioni tedesche, combinate con gli effetti ultra restrittivi dell’austerità, aggravano le difficoltà nel rilanciare la crescita in tutti i Paesi europei.

Questa denuncia viene fatta da tempo dagli economisti eterodossi rispetto alla linea dominante in Europa. Se mai stupisce che la sinistra europea, e italiana, non faccia proprie a gran voce tali critiche rilanciando la propria immagine «progressista» dell’Europa, con il rischio di lasciare in campo, come dice Andriani, solo due posizioni di destra, l’una per l’appunto votata all’austerità, l’altra coltivante populismo antieuro e nazionalismo (nella quale confluiscono sia gli anatemi alla Berlusconi sia quelli alla Grillo). Eppure, l’associazione imposta dalla Germania tra «austerità» restrittiva e «riforme strutturali» si fonda su una visione mercantilistica che va attentamente soppesata, risalendo alle origini degli squilibri presenti nel continente europeo già agli inizi degli anni 90, quando venne tracciato il percorso che avrebbe dato vita all’euro. Il regime globale di accumulazione costruito negli anni 90 era intrinsecamente instabile, basato su global imbalances. All’Est, dopo la crisi asiatica del 1997-1998, la decisione di affrancarsi dalla dipendenza dai capitali occidentali e di difendere la propria sovranità aveva spinto i paesi, con la Cina in testa, a creare surplus delle bilance dei pagamenti mediante una crescita trainata dalle esportazioni, dando così vita ai giganteschi flussi di capitale verso gli Usa destinati a finanziare l’alimentazione locale del credito, attraverso le operazioni di «securitisation» e l’espansione dei derivati tramite le grandi banche. All’Ovest il recupero di un’alta profittabilità era stato imposto dall’approccio della shareholder value e alimentata con l’intensa pressione verso il basso sul lavoro e sui salari, mentre il dinamismo della domanda era stato assicurato con consumi finanziati a debito, sostenuto dall’espansione del credito e dai bassi tassi di interesse.

Ma specifici imbalances erano e sono presenti in Europa, tra paesi strutturalmente in deficit delle bilance commerciali e dei pagamenti e paesi strutturalmente in attivo. La Germania, dopo aver risposto ai costi della riunificazione – per sostenere i quali impose a tutta l’Europa gli alti tassi di interesse che generarono l’implosione nel 1992 del Serpente Monetario Europeo – con una ristrutturazione «mercantilistica» che portò alle stelle la sua competitività mentre manteneva repressa la domanda interna, con l’ingresso nell’Euro ha potuto beneficiare di un cambio sottovalutato rispetto al marco, accentuando la vocazione alle esportazioni. Contemporaneamente, proprio nella fase in cui i paesi del Sud-Est asiatico lanciavano l’offensiva commerciale volta a ridurre il peso del loro debito, il cambio fisso minò la profittabilità degli altri paesi europei, in alcuni dei quali, come la Spagna, l’atrofizzazione della base industriale veniva sollecitata dalla destinazione – ad opera non in ultimo delle banche tedesche – di enormi flussi finanziari nelle costruzioni e nelle bolle immobiliari. L’eterogeneità economica dell’Eurozona ne è risultata rafforzata, in particolare mediante accelerati fenomeni di deindustrializzazione nei paesi sudeuroepi. Paradossalmente oggi lo stesso meccanismo della moneta unica accentua le divergenze: il tasso di cambio tende a risultare troppo alto per i paesi deboli e basso per quelli forti che ne traggono vantaggio, il che spiega le sbalorditive performance nel commercio estero di Germania e Olanda. Poiché gran parte dell’attivo della loro bilancia dei pagamenti corrisponde a passivi di altri paesi europei è chiaro che la Germania non è più la locomotiva di Europa: essa utilizza la domanda interna di altri paesi europei per la propria crescita.

Questa visione mercantilistica è l’altra faccia di una versione del neoliberismo, di matrice hayekiana, detta «ordoliberale», la quale associa alla dottrina dell’austerità – attribuente solo al settore pubblico la possibilità di generare deficit cronici, riconoscendo, al contrario, ai mercati un’intrinseca capacità di rientrare dai propri eccessi (il che peraltro è stato drammaticamente contraddetto proprio dalla crisi globale) – la teoria delle riforme strutturali, sostanzialmente riproponente una supply side economics gravitante su liberalizzazioni, concorrenza, privatizzazioni. L’imputata è sempre la spesa pubblica (specie sociale), ridurre la quale sarebbe il prerequisito primario per liberare l’offerta, sollecitare la concorrenza e la competizione, stimolare l’investimento privato e così alla fine attivare la crescita, anche se soltanto dopo moltissimi anni (come purtroppo accadrà in Italia). I problemi della domanda sono fuori dell’attenzione, il modello sociale europeo viene decretato defunto, gli investimenti pubblici non vengono nemmeno presi in considerazione, le sofferenze occupazionali che a lungo si debbono vivere sono viste come un male necessario.

È per invertire queste tendenze e combattere più efficacemente le divergenze di competitività e di produttività fra paesi che la linea dell’austerità in Europa va sottoposta a una rivoluzione e non a semplici aggiustamenti: va perseguito un New Deal europeo. Questa è la strada che propongono di percorrere sia il piano del lavoro della Cgil sia il Piano Marshall per l’Europa lanciato dalla Dgb tedesca, il quale ha al suo centro un piano di investimenti inter e intraeuropei per la trasformazione e la modernizzazione dell’ordinamento economico. Al mercantilismo obbediente al principio che l’obiettivo dei governi e delle loro politiche economiche non sia l’elevamento del benessere e della qualità della vita dei cittadini, ma incrementare le esportazioni per aumentare la competitività e la potenza del Paese, va opposta una diversa visione dell’economia e delle strutture che generano la crescita e, conseguentemente, una diversa visione della politica economica. Una visione «progressista» con l’obiettivo di combattere la disoccupazione e creare lavoro, ponendo le basi di un nuovo modello di sviluppo, considerando insieme domanda e offerta, privilegiando la domanda interna su quella estera, non sacrificando i consumi collettivi a quelli individuali, investendo primariamente sui beni pubblici, i beni comuni, i beni sociali.

L’Unità 07.11.13

“Un insulto all’Italia”, di Adriano Prosperi

L’uomo che per un ventennio ha dominato politica e affari, che è stato presidente del Consiglio e che oggi è il referente di un partito di governo, ha dichiarato che i suoi figli «si sentono come dovevano sentirsi le famiglie ebree in Germania durante il regime di Hitler».
È una frase che lascia a bocca aperta. Come si fa a spiegare a lui e soprattutto a chi lo ascolta la differenza che c’è tra le conseguenze di una condanna per evasione fiscale e lo sterminio di milioni e milioni di esseri umani? Non è possibile. Si è disarmati. Il presidente della comunità ebraica di Roma Riccardo Pacifici ha detto giustamente che più che agli ebrei Berlusconi dovrebbe delle scuse a se stesso. E Renzo Gattegna, presidente dell’unione delle comunità ebraiche italiane, ha provato a spiegare la differenza che passa tra l’Italia democratica di oggi e la Germania nazista. Spiegare pacatamente perché quelle parole sono insensate è un buon esercizio: ma bisogna mettere in guardia chi prova a correggere e spiegare. Perché così facendo, assumendo che si possa discutere e dialogare con chi dice parole del genere, si rischia di renderlo pubblicamente credibile. Forse solo un disprezzo silenzioso può esprimere lo sconcerto e l’indignazione che proviamo, il senso di vergogna che ci sentiamo gravare addosso come italiani, anzi prima ancora come esseri umani.
Ma la cosa è accaduta. Quelle parole sono state dette e immediatamente rilanciate dai media. Siamo davanti a un fatto pubblico, non a una battuta di ubriachi al bar. Non mancheranno esegeti pronti a giustificarle come espressione di una sofferenza umana da meditare pensosamente, da usare come ricatto politico per chiedere una grazia presidenziale o un ennesimo sfregio alla giustizia. Bisogna dunque chiedersi perché sia stato possibile che accadesse; bisogna chiedersi anche e soprattutto come si deve reagire a un fatto come questo. Lo dobbiamo a noi stessi, a chi osserva le cose italiane e ci giudica per quello che vede. Lo dobbiamo anche e soprattutto a coloro che questo tempo chiameranno antico. Ci saranno in futuro storici che interrogheranno questo tempo nostro: avranno certamente strumenti più raffinati dei nostri. Saranno in grado di spiegare la malattia sociale italiana che ha preso il nome di quell’uomo individuandone le cause, così come noi siamo capaci di spiegare certe degenerazioni e follie del Medioevo perché sappiamo ad esempio quali allucinazioni potesse dare la segale cornuta del pane che mangiavano. Questo nostro modernissimo Medioevo che si nutre soprattutto di chiacchiere e immagini televisive, ci pone invece davanti a episodi come questo, dove l’indecenza privata si mescola con una forte componente di responsabilità collettive. Di indecente c’è la mancanza di pudore di un padre che tira in ballo i figli e se ne fa scudo: non solo, attribuisce loro pensieri e sentimenti che se fossero veramente da loro condivisi farebbero emergere un vuoto di cultura e di sensibilità tale da rendere urgente un ciclo di recupero scolastico e di alfabetizzazione elementare. C’è da chiedersi se quei figli accetteranno in silenzio l’attribuzione di quei pensieri: perché anche all’interno dei rapporti più intimi c’è un momento in cui ognuno deve tutelarsi e prendersi le sue responsabilità. Non abbiamo dimenticato che, prima ancora dell’avvio del processo Ruby, ci fu una lettera pubblica con cui la signora Veronica Lario rese noto lo scandalo di quelle che definì le vergini offerte al drago: lei lo fece in nome del rispetto dovuto a se stessa.
Quella frase ha espresso e addebitato a presunti pensieri dei figli una forma di grave, inaudito negazionismo. Da un lato le file sterminate di milioni e milioni di uomini, donne, bambini che entravano nelle camere a gas e finivano poi nei forni crematori, dall’altro come un piatto della stessa bilancia i figli di Berlusconi e il loro stato d’animo in seguito alla condanna del padre. Dovrebbe por mente a questo chi si è interrogato anche di recente su come si possa rendere giustizia alla memoria delle vittime e impedire quell’estrema, definitiva ingiustizia che è la negazione o la minimizzazione della Shoah. Si metta a prova su questo caso l’adeguatezza della misura penale di cui si parla nel paese e si dovrà discutere in Parlamento. Quale punizione spetterebbe a chi, per la sua posizione sociale, per i media che governa e i giornalisti che paga, per il numero di cittadini italiani che ancora pendono dalle sue labbra, ha messo in circolazione nel linguaggio pubblico non una semplice minimizzazione ma una vera e propria ridicolizzazione della più grande tragedia del nostro tempo? In casi come questi una amministrazione della giustizia meno torpida e priva di fantasia di quella che da noi è capace solo di misure carcerarie dovrebbe imporre forme di alfabetizzazione civile: per esempio corsi accelerati di storia contemporanea, servizio di assistenza ai visitatori della risiera di San Sabba, l’obbligo di imparare a memoria un congruo numero di pagine di «Se questo è un uomo».
Ma c’è un punto in cui il nodo delle responsabilità si aggroviglia, diventa un fatto di moralità pubblica e di responsabilità politica. Abbiamo sentito disquisire in questi giorni sul limite che divide privato e pubblico, sulle ragioni che dovrebbero impedire la permanenza al governo di un ministro non molto attento all’esistenza di quel limite. Ma si tratta di un fuscello rispetto alla trave che sta nell’occhio del Partito Democratico: una trave che si chiama alleanza di governo con Berlusconi e i suoi devoti.

La Repubblica 07.11.13

“La promessa di Bill il rosso: New York città degli eguali”, di Vittorio Zucconi

Proprio nel momento della vergogna per il caso Datagate, l’America estrae dal cilindro della propria democrazia vivente uno sconosciuto sindaco di New York che riaccende ammirazione, entusiasmi e speranze. Bill de Blasio, l’ex funzionario del Comune addetto alle lagnanze dei cittadini. Il figlio di quella Brooklyn guardata per generazioni come la sorella minore della superba Manhattan nato oltre il ponte del potere, ripropone tutto quello che il mondo invidia a New York e che l’Europa non riesce a imitare: la capacità di rinnovarsi.
Tre mesi or sono, all’inizio della campagna elettorale per sostituire il miliardario Bloomberg, appena due newyorkesi su dieci conoscevano il nome di de Blasio e la sua corsa alla massima poltrona della città appariva poco più che velleitaria. Martedì sera, quel voto di tre elettori su quattro, il 73,8%, quasi cinquanta punti percentuali più della vittima sacrificale repubblicana, ha sbalordito persino i suoi sondaggisti che pure lo davano come sicuro vincitore. Neppure l’Obama trionfale del 2008 aveva saputo fare altrettanto e si deve tornare al mitico Fiorello La Guardia per ritrovare un plebiscito così massiccio.
Il vento tumultuoso che ha spinto questo figlio di un padre tedesco che preferì l’identità e il nome italiani della madre, che ha scelto il graffiante «rap» bianco dei Beasty Boys come colonna sonora della vittoria, è quello che periodicamente si alza nelle democrazie dove il sistema elettorale non imbriglia, ma intercetta, addirittura impone il cambiamento. Che cosa farà, chi sarà il de Blasio sindaco di una città che gli lascia due miliardi di dollari di debito ed è già fra le più tassate degli Stati Uniti è ovviamente impossibile dire. Le sue promesse sono state molte a tutti e l’esperienza fatta con Barack Obama ha insegnato a distinguere fra la storia personale e le realizzazioni, a diffidare dei simboli in attesa della sostanza.
Governare New York è come governare un mondo, se non il mondo. Non esiste problema che non si riversi su questa città delle città e de Blasio rappresenta oggi tutto quello che i newyorkesi vorrebbero essere e quello che vogliono sentirsi dire da chi li dovrà guidare. È il prodotto di una multietnicità, di un meticciato, che è la sostanza, la natura stessa di New York, non una debolezza. È il democratico classico, vintage, di sinistra, che vuole più eguaglianza, più giustizia per i dimenticati e per gli ultimi, dunque più distribuzione della ricchezza raggrumata nei castelli del potere finanziario a Times Square e nelle rocche di Park Avenue e della East Side. È però anche il newyorkese «no nonsense», poche storie, che prima solidarizza con i manifestanti di Occupy Wall Street per lamentare la concentrazione di danaro nei pochi rapaci e poi si affretta a chiarire che «Wall Street è la principale industria della nostra città», apparentemente contraddicendosi. Uno che sa bene da che parte è imburrata la fetta del pane e da che parte sarebbe tempo di spalmare più burro.
Ma New York è la mela che fiorisce e matura nella contraddizione, la metropoli che vive perennemente sospesa nella formula dickensiana del «migliore dei tempi e del peggiori dei tempi » e anche i suoi elettori, che vanno dalla sinistra più rumorosa ai finanzieri che hanno alimentato la sua campagna, lo sanno benissimo. Quello che importa ai residenti di una città che neppure chi rase al suolo i suoi monumenti più orgogliosi riuscì ad abbattere perché confuse il cemento con la gente, è che le acque si muovano. Che la ruota della politica giri, che la palude non ristagni nella soffocante stabilità di altre nazioni immobili.
New York elegge, dopo il lungo regno, di un conservatore moderato e illuminato come Bloomberg, il suo opposto in Bill de Blasio non perché gli elettori siano improvvisamente divenuti rivoluzionari dopo essere stati reazionari. Ma perché sente di dover mutare pelle.
Sempre grazie al sistema elettorale del maggioritario secco, dove un solo vincitore deve emergere da subito, la apparente rivoluzione di New York è soltanto la conferma della propria natura e della intuizione di fondo che sta alla base della propria fortuna: la necessità vitale dell’alternanza. C’è, direbbe l’Ecclesiaste, un tempo per fare soldi e un tempo per distribuirli, un tempo per diventare ricchi e un tempo per prendersi cura dei poveri, un tempo per i finanzieri bancarottieri di Wall Street e un tempo per i sindacati che chiedono aumenti di paga. E se anche Bill de Blasio, il gigante italiano delle speranze, dovesse fallire – come già New York è fallita, e ha fatto fallire, più volte nella propria storia – se ne eleggerà un altro, uno completamente diverso. Perché è il cambiamento quello che tiene viva la città di tutte le città.

La Repubblica 07.11.13

“Il Ministero boccia molte università telematiche: rischiano il ritiro dell’accredito” da repubblica.it

Due università telematiche accreditate (su sei controllate) rischiano di perdere la certificazione statale. Altre tre devono investire e allargare corsi e qualità della didattica per mantenerlo. Una sola è «in linea con gli standard europei». Le cinque “telematiche” rimaste fuori attendono valutazione. Il ministro dell’Istruzione (e dell’Università) Maria Chiara Carrozza ha preso in mano il dossier preparato dall’Anvur — l’Agenzia di valutazione del sistema universitario — e ha chiesto al suo staff di controllare i giudizi espressi. In alcuni casi sono pesanti, in altri sottolineano conflitti di interessi e in generale rivelano che tutti gli Atenei telematici italiani devono introdurre «modifiche o integrazioni».

Delle undici università telematiche accreditate in Italia, sei sono concentrate a Roma: Guglielmo Marconi, San Raffaele, UniNettuno, Unitelma Sapienza, Unicusano e Universitas Mercatorum. A Novedrate (Como) c’è l’E-campus, a Firenze l’Italian university Line, a Torrevecchia Teatina (Chieti) il Leonardo da Vinci, quindi la Giustino Fortunato di Benevento e la Pegaso di Napoli. Le altre (decine, tra cui la famosa Cepu), non hanno alcun tipo di riconoscimento pubblico. L’ultima notizia sul Cepu, la più famosa scuola privata per il recupero degli esami universitari non dati e il ripasso sulle materie scolastiche in cui si zoppica, sono stati i licenziamenti di cinque tutor della sede di Firenze: erano andati a protestare alla Cgil per il dimezzamento dello stipendio. Contratti a termine, i tutor erano pagati 380 euro al mese per 25-30 ore di lezioni a settimana.

Nelle sue analisi periodiche l’Anvur ha fin qui messo sotto esame le sei realtà telematiche arrivate a cinque anni di attività. Molte università “e-learning” si stanno consorziando, o comunque stanno stringendo accordi, con università tradizionali. La San Raffaele di Roma ha rapporti con Tor Vergata, ma la sua didattica — tre corsi di laurea — è affidata a docenti a contratto e a ricercatori a tempo determinato. «Servono docenti di livello superiore», sottolinea l’Anvur, «e spazi adeguati sia per i loro uffici che per le attività comuni». La proprietà confonde i laboratori per l’attivit à in proprio con quelli didattici, comunque non di sufficiente qualità. La romana Universitas mercatorum, parauniversità (definizione dell’Anvur) legata alle camere di commercio italiane, serve a qualificare chi già lavora in una piccola e media impresa. Il giudizio è sostanzialmente positivo anche se — per esempio — il corso di laurea in “gestione d’impresa” non prevede insegnamenti fondamentali quali Scienza delle finanze, Politica economica ed Econometria: «Bisogna allinearsi agli standard europei». L’Anvur suggerisce alla Mercatorum di distinguere tra attività di ricerca svolte per conto della compagine societaria e quelle assegnate all’ateneo sulla base di bandi di gara. Per la Nicolò Cusano, siamo sempre a Roma, l’Agenzia di valutazione chiede cambiamenti rapidi: «Non pu ò servirsi solo di docenti a contratto e ricercatori».

L’Italian university Line di Firenze, fondata dalle università di Firenze, Milano Bicocca, Macerata e Palermo, dalla Lumsa di Roma, «non ha espresso una progettualità adeguata a supporto della fase di lancio dell’iniziativa: sembra mancare la coesione necessaria ad assegnare alla Iul un ruolo riconosciuto all’interno dei rispettivi atenei fondatori». E se il suo bacino potenziale è ampio, «in pratica le iniziative fin qui prodotte hanno coinvolto un numero ristrettissimo di studenti». In assenza di un piano strategico volto a stabilire obiettivi e a perseguire il reclutamento di studenti, «vengono meno le ragioni d’essere dell’iniziativa». Per la Iul si parla di trascuratezza organizzativa (rendicontazione, comunicazione, reporting) a fronte di una infrastruttura tecnologica comunque di prim’ordine. E ai soci fondatori si chiede di sostenere l’università telematica, altrimenti è meglio che escano. «Allo stato attuale Iul non sarebbe in grado di soddisfare i requisiti».

La napoletana Pegaso, che ha stipulato addirittura 385 convenzioni (con l’Università del Molise, ma anche con atenei lituani, ucraini, albanesi, con Asl e ordini professionali), paga una crescita troppo rapida del numero di iscritti: «Il fenomeno non è accompagnato da un adeguato livello di qualità dell’erogazione della didattica e da criteri di selezione rigorosi per gli esami e la tesi finale». Ancora, la Pegaso rischia di produrre titoli legali «il cui contenuto non è comparabile con quello delle altre istituzioni universitarie». Un creditificio, utile solo a far crescere le carriere lavorative di chi, già con un mestiere, si iscrive all’università telematica. Tre videolezioni valgono un credito formativo: «Un format altamente riduttivo», dice l’Anvur. La quantità non va d’accordo con la qualità, si legge. «Nel 2011 hanno conseguito il titolo di laurea ben 1928 studenti: non vi è alcuna proporzione ragionevole rispetto alla dimensione del corpo docente». L’attività di ricerca «appare concentrata su un numero limitatissimo di docenti». Il ragionamento della scuola non statale — la struttura di costo resta prevalentemente fissa e i margini di profitto crescono con l’aumento della base di utenti — «appare in netto contrasto con i principi dell’educazione superiore». Il corso di laurea in Giurisprudenza, per esemplificare, si qualifica come un corso di tipo “remedial” per studenti lavoratori espulsi dal sistema universitario, cui si offre un percorso che presenta innegabili facilitazioni nell’acquisizione dei 50 crediti e nell’impegno richiesto per superare gli esami». Punto e a capo.

La Giustino Fortunato di Benevento, il cui rettore è l’ex ministro Augusto Fantozzi e la cui specializzazione è Giurisprudenza, ha convenzioni su singole borse di studio con l’IUniversità di Bari e la spagnola Università de Cantabria. Ha, sostiene l’Anvur, docenti più qualificati e almeno il quindici per cento di “lezioni frontali” (in classe). Il resto, in differita (telematico). Le criticità qui vengono segnalate nei rapporti con l’ente finanziatore e l’Anvur, che gradisce affiancare l’“e-learning” all’insegnamento tradizionale, stigmatizza la concorrenza che l’università telematica sta facendo a quella tradizionale del Sannio: «Meglio una possibile collaborazione per economie di scala».