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"Uomini che uccidono le donne. Una bacheca mette online i volti", di Gian Antonio Stella

È un pugno allo stomaco il mucchio selvaggio di foto di mariti, fidanzati, conviventi, padri che hanno ammazzato la «loro» donna. Di bacheche zeppe di madri, figlie, fidanzate, amanti assassinate ne avevamo viste tante, in questi mesi. Ma mai una tale carrellata di assassini. Facce banali. Facce normali. Facce serene. Facce spesso «rassicuranti». E proprio per questo, messe tutte insieme, terribili.
La bacheca delle vittime e dei «sicari domestici», che si propone di diventare la banca dati per tutte le donne che si battono contro la violenza e per chi se ne occupa per i più diversi motivi professionali, dai poliziotti ai cronisti alle associazioni, è da oggi online. Si chiama inquantodonna.it ed è stata costruita giorno dopo giorno da Emanuela Valente, che per mesi ha raccolto nomi, foto, storie, documenti processuali, link di articoli, telegiornali, trasmissioni televisive per raccogliere la documentazione più ampia possibile intorno al cosiddetto «femminicidio».
Non ci sono tutte, chiariamo subito, le donne assassinate negli ultimi anni. Proprio perché la curatrice, che via via sta aggiornando l’elenco coi nomi e le storie anche delle vittime di cui non esistono le fotografie, non ha voluto mischiare tutti i casi insieme: «Se una poveretta è stata uccisa in una rapina in banca o per aver litigato su un prestito, ad esempio, ho preferito lasciar perdere. E questo per sottolineare quante siano le donne uccise proprio “in quanto donna”. A causa di un “amore” malato, patologico, delirante. Meglio: a causa dell’idea di “possesso” che avevano i loro assassini».
Spiega il sociologo Marzio Barbagli, che forse meglio di tutti ha studiato la storia della criminalità in Italia, che «in realtà non è che oggi siano uccise più donne rispetto a una volta». Se ogni 100 mila abitanti venivano assassinate 3,4 donne nel 1865, la quota già dimezzata a 1,7 nel 1991 (l’anno più violento degli ultimi decenni) è calata nel 2007, ultimo anno di riferimento statistico, a 1,4: un terzo circa rispetto a un secolo e mezzo fa. Mentre in parallelo il tasso di maschi ammazzati scendeva in modo ancora più vistoso di quasi sei volte: da 20 omicidi ogni 100 mila cittadini subito dopo l’Unità a 3,6 oggi. «Quella che è cambiata però, grazie a Dio, è la percezione della gravità del fenomeno», insiste il criminologo, «insomma, l’omicidio di una donna massacrata “in quanto donna” ci sembra ogni giorno più insopportabile».
Giovanissime e anziane, poco vistose e bellissime, povere e benestanti, remissive o toste, orgogliose o rinunciatarie: erano una diversa dall’altra, le donne assassinate. Facevano le professoresse e le infermiere, le casalinghe e le operaie, le studentesse o le pensionate. E toglie il fiato scorrere quelle immagini di una quotidianità brutalmente interrotta: Elena con un vaso di fiori, Maria Silvana con lo zainetto in montagna, Giulia col vestito da sposa, Anna con un cappellino di paglia, Ilaria che brinda con un calice di prosecco, Lia che coccola il figlioletto nella culla… E fermano il fiato le didascalie che sintetizzano le tragedie da approfondire con un clic: «Emiliana Femiano, 25 anni, estetista. Massacrata con un numero indefinibile di coltellate (almeno 66 di cui 20 al cuore) dall’ex fidanzato che già l’aveva accoltellata un anno prima». «Mirella La Palombara, 43 anni, operaia. Uccisa con dodici colpi di pistola dal marito». «Alice Acquarone, 46 anni, dipendente di una mensa scolastica, mamma. Uccisa dal compagno che le ha fracassato il cranio con una chiave inglese, ha poi avvolto il corpo in un tappeto e lo ha gettato nel cortile condominiale».
Più ancora, però, se possibile, gela il sangue scorrere le foto dei tantissimi «lui». E se qualcosa nei nostri pensieri è rimasto impigliato degli studi di Cesare Lombroso intorno a certe facce che si distinguono «per la esagerazione degli archi sopracciliari, pel naso deviato molto verso destra, le orecchie ad ansa» o certi «uomini bruti che barbugliano e grugniscono», la panoramica del nuovo sito web mostra tutta un’altra categoria di assassini della porta accanto. E se esistono rare facce che ti farebbero cambiar marciapiede la sera, in gran parte quegli omicidi rappresentano in pieno la banalità del male. La ferocia che si nasconde dentro esistenze apparentemente anonime. «Strano, era tanto bravo ragazzo…». «Mai dato problemi sul lavoro…». «Sempre così gentile, così educato…».
Alcuni, come Salvatore Parolisi (il marito assassino di Melania Rea) o Mario Albanese (il camionista che un anno fa uccise a Brescia l’ex moglie Francesca, il suo compagno, una figlia e il suo fidanzatino) son finiti sulle prime pagine. Altri hanno avuto qualche titolino qua e là. Quello che li accomuna, accusa Emanuela Valente, è la volontà di affermare il «dominio» sulla donna assassinata. E spesso l’aver beneficiato di una certa «indulgenza» giudiziaria.
Come «Ruggero Jucker detto Poppy, 36 anni, rampollo della Milano bene, Re della zuppa. Fa a pezzi la fidanzata con un coltello da sushi e lancia pezzi in giardino. Condannato a 30 anni in primo grado, pena patteggiata in appello e scesa a 16 poi ulteriormente ridotta a 13. Ha già usufruito di 720 giorni di libertà come permessi premio e sarà libero nel giugno 2013». O l’impiegato palermitano Renato Di Felice che qualche anno fa uccise la moglie Maria Concetta Pitasi, una ginecologa, durante l’ennesima lite davanti alla figlia. Non aveva mai avuto grane con la giustizia, era descritto come un uomo mite sottoposto dalla consorte a piccole angherie quotidiane, era difeso dalla figlia: «Non ne potevamo più». Dopo due giorni, in attesa del processo, fu mandato a casa perché «non socialmente pericoloso». Mesi in cella dopo la condanna: dieci.
Per non dire di certi recidivi. «Emiliano Santangelo appena esce dal carcere uccide la ragazza che lo aveva fatto condannare per violenza sessuale. Quando Paolo Chieco — condannato a 12 anni e 6 mesi poi ridotti a 8 anni e 4 mesi per il tentato omicidio della convivente Anna Rosa Fontana — ottiene i domiciliari, a 300 metri di distanza dalla casa di Anna Rosa, finisce di ucciderla. E lo stesso fa Luigi Faccetti: condannato a 8 anni per il tentato omicidio della fidanzata, dopo appena 10 mesi ottiene i domiciliari e la uccide con 66 coltellate: 52 in più rispetto alla prima volta». Quasi tutte le donne uccise, accusa la curatrice del sito, avevano subito già minacce e violenze, ma la maggior parte di loro non le aveva denunciate: «Quelle che l’hanno fatto, però, non hanno ricevuto alcuna protezione. Lisa Puzzoli, Silvia Mantovani, Patrizia Maccarini e molte altre sono state uccise dopo aver denunciato chi le minacciava, dopo aver chiesto ripetutamente aiuto. Monica Da Boit ha chiamato il 113, terrorizzata, poche ore prima di essere uccisa ma la pattuglia non è intervenuta. Sonia Balconi è morta per un “guasto elettrico al sistema informatico” che aveva fatto dimenticare le sue denunce…».

Il Corriere della Sera 19.01.13

"Atenei, sulla valutazione Parigi ci ripensa", di Mario Castagna

Mi auguro che l’Aerés venga sostituita da un organismo realmente indipendente nonché pienamente legittimato dal punto di vista scientifico». Con queste durissime parole il ministro francese dell’Università e della Ricerca, Geneviève Fioraso,ha annunciato la soppressione dell’Aerés, l’agenzia nazionale francese per la valutazione e la ricerca scientifica.La decisione del ministro arriva dopo mesi di dure critiche al lavoro dell’agenzia accusata di estrema burocratizzazione e di scarsa trasparenza. Un delirio burocratico, secondo la definizione di molti accademici francesi, che obbliga i ricercatori a lunghissime procedure ai fini della valutazione e che sottrae molto tempo alla ricerca scientifica. Che le cose non andassero bene lo si era già capito nei mesi scorsi quando, durante una consultazione che il ministro aveva organizzato con le università di tutta la Francia, le critiche all’Aerés erano state le più frequenti. In questo aggiornato cahiers de doleances, erano stati numerosi coloro che avevano denunciato l’eccessivo carico di lavoro ma soprattutto l’estrema rigidità delle griglie di valutazione.Anche per questo i rettori avevano organizzato vere e proprie sedute di ripetizioni per insegnare ai lororicercatori a rispondere ai questionari di valutazione e a dipendere, come il ranking del bilancio pubblico nazionale, dal verdetto di un’agenzia che è fuori da ogni controllo democratico. In Italia al posto dell’Aerés c’è la l’Anvur, l’Agenzia Nazionale per la Valutazione dell’Università e della Ricerca. Cambia il nome ma sono uguali le critiche che gli vengono rivolte. «Anche l’agenzia italiana ha molti difetti, forse anche peggiori della burocratizzazione racconta Mario Ricciardi, professore alla facoltà di Giurisprudenza di Milano ed animatore della rivista telematica Roars pecca un po’ di dirigismo quasi sovietico. È oggi un concentrato di potere enorme che decide dell’assunzione dei professori come delle politiche universitarie generali. È il vero ministero dell’Università». Per questo, anche in Italia, sono in molti oggi a chiedere la chiusura dell’agenzia di valutazione. Un invito che, attraverso una petizione online che ha raccolto finora numerose adesioni, è già stata rivolta al futuro governo mentre altri, come il Coordinamento dei Precari dell’Università, si limitano a chiedere solamente le dimissioni del consiglio direttivo. «Secondo me, ma penso di parlare anche a nome di molti, l’Anvur non va cancellata con un tratto di penna. Va però profondamente riformata continua Mario RicciardiNon si può pensare che la valutazione si sostituisca alla politica. Anzi l’agenzia dovrebbe fornire i dati ai responsabili politici per rendere leloro decisioni più consapevoli ed efficaci». In Parlamento l’Anvur è stata al centro di diverse discussioni e nell’ultimo periodo anche la Gelmini, che ha costituito l’agenzia, ha proposto un supplemento di riflessione. «Noi abbiamo introdottola valutazione ed è un vero peccato che essa sia stata sostituita da una burocrazia rigidissima ci spiega Luciano Modica, ex-sottosegretario all’università, che ideò nel 2006 l’agenzia per il governodell’UlivoL’esperienza francese dimostra che il mondo scientifico ha un rapporto difficile con la valutazione, che non può essere banalizzata». Per il momento le voci favorevoli all’abolizione dell’Anvur sono ancora una piccola minoranza, mentre molto più numerose sono le voci di coloro che vorrebbero un profondo cambiamento dell’agenzia. Ma se non si correggono per tempo gli errori il rischio di prendere esempio dalla Francia è molto concreto. E dopo l’abolizione dell’Anvur, la ricerca italiana rischierebbe di aspettare altri anni in attesa di un sistema di valutazione finalmente efficace.

L’Unità 19.01.13

"Assunzione precari “storici”, oltre 100mila sperano nei giudici europei", di Alessandro Giuliani

Sta assumendo proporzioni mastodontiche la spinta dei precari “storici” della scuola verso la stabilizzazione: a presentare ricorso per l’immissione in ruolo sarebbero ormai oltre 20.000 tra supplenti docenti e Ata. Si tratta di personale che ha svolto almeno 36 mesi di servizio su posti vacanti, esattamente come stabilisce una direttiva comunitaria, la 1999/70/CE, fatta propria da diversi tribunali del vecchio Continente.
L’aspetto curioso della vicenda è che la sentenza della Cassazione del 20 giugno scorso, che nella reiterazione dei contratti dei supplenti docenti e Ata non ha ravvisato alcuna anomalia, sembra aver dato vigore al popolo dei ricorrenti.
La prima risposta è arrivata dall’Anief, che ha subito “bollato” la sentenza dei giudici ermellini figlia di un “istinto comprensibilmente conservatore, come era del resto prevedibile, vista l’introduzione del pareggio di bilancio in Costituzione”. Ma non solo: preso atto che anche la trattativa con la Funzione Pubblica non avrebbe portato ad alcun risultato, in autunno il suo presidente, Marcello Pacifico, si è recato a Bruxelles per consegnare personalmente alla Commissione Ue la documentazione utile a fare da apripista a migliaia di ricorsi.
E le pressioni non hanno tardato a produrre frutti: l’Ue ha infatti aperto una procedura d’infrazione contro l’inosservanza dell’Italia proprio per la violazione della normativa sulla reiterazione dei contratti a tempo determinato.
Ma non finisce qui. Perché il 2013 si è aperto con un altro punto a favore dei precari. Un giudice del tribunale del lavoro di Napoli, Paolo Coppola, che doveva decidere sulla richiesta di assunzione in ruolo di una professoressa precaria, Raffaella Mascolo, ha infatti chiesto di sollevare la questione di pregiudizialitàdavanti alla Corte di Giustizia del Lussemburgo. Tornando così a tirare per la giacca i magistrati europei. I quali sulla questione non sembrano avere troppi dubbi.
Gli ultimi accadimenti sulla vicenda hanno indotto anche altri sindacati della scuola a muoversi. Anche perché il numero di potenziali ricorrenti è altissimo: gli ultimi dati della Ragioneria dello Stato indicano oltre 113mila docenti e Ata precari con oltre 36 mesi di servizio alle spalle.
Il 17 gennaio hanno emesso un chiaro comunicato in merito, prima la Fgu-Gilda degli Insegnanti e poi la Flc-Cgil. Il primo sindacato ha fatto sapere che “la Fgu, che ha già vinto numerose cause di risarcimento riguardanti la stabilizzazione dei precari con oltre tre anni di servizio, è stata legittimata a stare in giudizio davanti alla Corte di Strasburgo a difesa degli insegnanti precari”. Il coordinatore nazionale della Fgu-Gilda, Rino Di Meglio, ha ricordato che ad inizio gennaio il giudice Coppola “ha posto il problema delle continue contraddizioni in cui sono cadute finora le decisioni assunte dalla Corte di Cassazione in questo ambito, sottolineando anche la questione della retroattività dei provvedimenti adottati dal Parlamento italiano e l’incoerenza con quanto previsto dalla normativa europea”.
Anche Mimmo Pantaleo, segretario generale Flc-Cgil, ha ricordato che “il tribunale di Napoli ha riconosciuto alla nostra organizzazione il diritto di costituirsi in giudizio alla Corte di Giustizia Europea in quanto rappresentativa degli interessi di questi lavoratori”. Per il leader del sindacato confederale “questa decisione rende ancora più forte l’impegno della Flc a favore di una battaglia di civiltà per dare sicurezza e futuro alle persone e alla scuola che così può contare su personale qualificato e stabile”. Pantaleo ha sottolineato che la sua organizzazione chiederà “al prossimo Governo prioritariamente un credibile piano pluriennale di stabilizzazione dei precari. Si tratta di una tappa importante che è il frutto di una lunga e diffusa campagna politica e vertenziale promossa dalla FLC a partire dal 2010 contro il Collegato Lavoro voluto dall’allora Ministro Sacconi”, ha concluso Pantaleo.
Ora si entrerà, presumibilmente, in una fase di stand by. Che si concluderà in primavera. Quando il nuovo Governo italiano avrà scoperto le nuove carte. E fatto capire se allinearsi all’Ue. O continuare a lasciare i supplenti in balia del loro destino da precari anche per venti e più anni.

La Tecnica della Scuola 19.01.13

"Pannella sale sul taxi di Storace, Bonino resta a piedi", di Marcella Ciarnelli

La senatrice rinuncia a candidarsi e guida la contestazione: il leader della Destra è all’opposto delle posizioni dei radicali su diritti civili e carceri
Alla fine (o per il momento) Marco Pannella ha deciso di accettare la mano tesa di Francesco Storace, che da consumato politico non lascia mai solo chiunque possa portargli voti, ed ha accettato di salire sul taxi messo a disposizione dei radicali dall’ex presidente della Regione Lazio che ci riprova a conquistare la Pisana. Prendendo a bordo tutti quelli che ci stanno a portare consensi, al di là delle distanze abissali degli occasionali compagni di viaggio.
Tant’è che nella stessa lista si troveranno, messo punto ad oggi, gli abituali sostenitori della linea politica di Pdl e Destra con punte di eccellenza come il diplomatico Mario Vattani, quello dal braccio teso e dall’ugola sotto pressione, e la paladina della battaglia contro i consultori, Olimpia Tarzia. Ma si troveranno anche esponenti Radicali, almeno quelli che si riconoscono in Marco Pannella dato che Emma Bonino, assieme ad altri esponenti del Partito tra cui Matteo Mecacci, hanno detto no, e con molta forza, all’innaturale scelta di campo che l’anziano leader ha deciso di sottoscrivere nel totale disinteresse della storia. Sua e del partito.
È spaccato a metà il partito radicale. Bonino contro Pannella, non è la prima volta. Con il vecchio leader reduce da un recente digiuno ma in forze per gestire l’alleanza fuori da ogni schema, che rivendica la necessità di essere presenti nel voto «a tutti i costi» convinto che l’alleanza con Storace «non intaccherà» un patrimonio innegabile di battaglie di civiltà fatte nell’interesse della gente.
Solo che Pannella, in questa fase convulsa in cui l’esserci per lui conta più che da che parte, sembra dimenticare che quando tutte le sue battaglie sono state combattute, proprio Storace, e la sua parte politica, erano il nemico da battere. Gli avversari a cui spiegare che i consultori servono per consentire alle donne gravidanze consapevoli e non vivere l’aborto come l’unica via d’uscita; che la sperimentazione è un diritto di chi poi, a ricerca completata, potrà usufruire di nuovi farmaci; che gli omosessuali sono persone da rispettare con i loro diritti e i loro doveri verso la società; che la situazione delle carceri in Italia è tale da autorizzare a pensare a misure straordinarie e che, comunque, il problema non si risolve certo rimandando a scontare la pena a casa loro gli stranieri detenuti nel nostro Paese. Ci sono fior di dichiarazioni e di verbali anche nell’attività dell’ultimo consiglio regionale in cui appare evidente l’abissale lontananza tra le posizioni di chi «onorato» mette a disposizione il taxi e di chi pensa di poter condurre in porto, in modo indolore, un’alleanza presentata solo come «tecnica» ma che evidentemente tale non può restare. Pena la perdita di identità degli uni o degli altri.
LA RIVOLTA VIA WEB
Pannella non sembra accettare che qualcuno si opponga alla sua devastante intuizione politica. È chiuso nel suo fortino, a testa bassa contro l’opposizione interna che, dice lui, «vuole farmi passare per un dittatore» e preoccupato solo dalla posizione di Emma Bonino. Per rispondere all’intesa con Storace alle regionali del Lazio, «molti» radicali stanno ritirando la propria candidatura alla lista nazionale “Amnistia Giustizia Libertà”, potrebbe farlo anche Emma Bonino, mentre sembra che Berlusconi voglia chiedere a Pannella di essere il suo ministro della Giustizia. Il movimento in subbuglio, la base è delusa. E questa volta non sembra disposta a seguire l’ultima battaglia dell’icona radicale.
«Mi dispiacerebbe se Pannella andasse con Storace. Ho sempre detto che per i Radicali avevamo porte aperte. Gli rinnovo l’appello ora perché i giochi da parte mia non sono ancora chiusi» ha detto il candidato del centrosinistra, Nicola Zingaretti, alla presidenza della Regione commentando l’apertura radicale a Storace che ha definito «un accordo di convenienza, un po’ triste». Quindi «chi si lamenta di essere stato escluso in realtà si è escluso da solo» dato che la richiesta avanzata ai radicali era di discontinuità nelle candidature «che gli altri partiti hanno accolto». Il rischio «armata Brancaleone» è all’orizzonte.
Il Pd Michele Meta: «Nella battaglie civili e antifasciste i Radicali hanno lasciato un segno indelebile che Marco Pannella, se fosse confermato l’orientamento a sostegno di Storace, rischierebbe delittuosamente di macchiare e infangare». «Un partito che ha una storia di autentica passione libertaria non può suicidarsi con i gagliardetti della destra di Storace» ha detto Bruno Tabacci, leader del Centro democratico.

L’Unità 19.01.13

"Crisi, il fallimento della destra", di Paolo Guerrieri

Dopo il fondo monetario e l’ocse anche dalla Banca d’Italia è venuta la conferma che il 2013 sarà un anno molto difficile per l’economia italiana. Come si legge nel Bollettino economico pubblicato ieri, continuerà la fase recessiva con una diminuzione del Pil stimata intorno all’1%, e un percorso di crescita comincerà a delinearsi solo dalla fine di quest’anno. Sarà in grado di generare nel 2014 una modesta e timida ripresa, intorno allo 0,7 per cento, contornata da ampi margini di incertezza.
Anche il tasso di disoccupazione conti- nuerà ad aumentare oltre il 12% l’anno prossimo, per l’incremento, tra l’altro, delle persone in cerca di lavoro.
La diagnosi degli analisti di via Nazionale individua, non c’è dubbio, condizioni di salute della nostra economia davvero preoccupanti e tali da richiedere cure e interventi assai complessi e proiettati a medio termine. La perdurante fragilità della nostra economia è ovviamente imputabile a molteplici e complesse cause. Tra quelle più a breve, vanno certo messe in primo piano – come fa anche la Banca d’Italia – il perdurante stato di crisi dell’area euro e le severe politiche restrittive imposte ai Paesi fortemente indebitati come il nostro. Altrettanto determinanti, tuttavia, sono fattori di più lungo periodo, legati ai problemi strutturali della nostra economia. Si pensi all’enorme stock di debito pubblico, alla fragilità del sistema produttivo e della ricerca, alla carenza di infrastrutture, all’inefficienza del sistema di welfare e della Pubblica amministrazione, al dualismo territoriale, solo per sottolineare i più rilevanti.
Ora è opportuno e doveroso ricordare come tali fattori siano stati del tutto trascurati in tutti questi anni e in particolare nell’ultimo decennio, dominato pressoché interamente dai governi di centrodestra guidati da Silvio Berlusconi. Pressoché nulla venne fatto in quegli anni per fronteggiare le gravi carenze strutturali del sistema economico italiano né venne messa in campo alcuna efficace strategia di politica economica. Si arrivò così a sprecare del tutto quella fase storica dell’economia europea e globale (2001-2008) così favorevole in quanto caratterizzata da elevate dinamiche di crescita e bassi tassi d’interesse, anche perché allineati a quelli tedeschi. Una inerzia che è poi costata cara in termini di ulteriore forte indebolimento dei nostri fondamentali.
Il dato che meglio riassume questa debolezza è il negativo andamento, sempre in quegli anni, della produttività totale dei fattori, che esprime la capacità di un’economia di combinare in maniera efficiente la dotazione complessiva di capitale e lavoro e rappresenta l’ingrediente primo della crescita di un paese. Nell’intero periodo che va dal 2001 al 2011 l’indice segnala il costante e drammatico arretramento della nostra economia, ancora più preoccupante se confrontato con le performance dei nostri maggiori partner europei, che fecero registrare dinamiche della produttività totale dei fattori significativamente positive e di molto superiori – anche due o tre volte – a quelle del nostro Paese.
Sono dati di fatto e un’esperienza fallimentare che vanno oggi ricordati di fronte all’offerta politica, piena di slogan e vuota di contenuto, fatta in questa campagna elettorale da Berlusconi e dalle forze di centrodestra. Si basa su riduzioni impossibili delle imposte e tentativi vari di far dimenticare i cattivi governi del passato. Ma i cittadini italiani non meritano un simile trattamento. L’Italia e la sua economia hanno in realtà bisogno di voltare pagina. A differenza di altri Paesi, all’Italia non basterà certo tornare alla situazione precedente la grande crisi perché quegli anni, come abbiamo ricordato, sono tutti da dimenticare.
Qualunque sia il giudizio complessivo che si possa dare del governo Monti non vi è dubbio che esso abbia avuto il merito, certo non marginale, di averci evitato il baratro di un vero e proprio crack finanziario. Ma ora c’è bisogno di andare oltre l’emergenza. Occorre formulare nuove finalità di politica economica che sappiano innanzi tutto fronteggiare quelle carenze strutturali del Paese così a lungo trascurate e che sono alla base del ristagno e delle disuguaglianze nella nostra società. È necessaria un’opera di vera e propria ricostruzione. Il Paese possiede talenti e risorse in grado di sostenere questi cambiamenti. L’impegno che le forze progressiste e riformiste assumono in vista della nuova legislatura è di rendere possibile questo nuovo corso.

L’Unità 19.01.13

“Salvate l’ultima cartiera” la lotta degli operai per la fabbrica sospesa, di Jenner Meletti

La luce rossa del tramonto illumina la “fabbrica sospesa” e la fa ancora più bella. Sembra il ponte di Brooklyn, la cartiera disegnata da Pier Luigi Nervi. I tiranti in ferro reggono dall’alto il tetto della fabbrica. «Era anche un grande ingegnere, l’architetto Nervi. Il giorno del terremoto i muri hanno ballato e per un attimo abbiamo visto il cielo. Poi tutto è tornato al suo posto. Nessuna crepa nel cemento, nessun danno». Sono orgogliosi e arrabbiati, gli operai di questa che per sole tre settimane sarà l’ultima cartiera italiana a produrre carta per i giornali. «Il 25 novembre — raccontano Gianpaolo Franzini della Rsu Cgil e Giovanni Mantovanelli, che ha passato una vita qui dentro — al palazzo Te è stata chiusa una mostra, “Architettura come sfida”, dedicata proprio alla nostra fabbrica gioiello. I turisti venivano anche qui alla Burgo, facevano le foto è quasi ci invidiavano. Eravamo gli operai che lavoravano nella fabbrica raccontata nei libri di architettura di mezzo mondo. Appena finita la mostra, è arrivato l’annuncio di una decisione che forse era stata presa da tempo: tutti a casa, noi 188 lavoratori, quasi tutti capi famiglia e altri 120 dell’indotto».
Compie 50 anni proprio in questo 2013, la fabbrica ponte di Pier Luigi Nervi. Nessuno sa se questa sua creatura in ferro e cemento potrà continuare a vivere o se resterà solo nelle riviste di architettura. «Noi vogliamo — raccontano gli operai ai tavoli arancioni della sala mensa — che continui ad essere una fabbrica, e con noi dentro. Il 9 febbraio sarà l’ultimo giorno di lavoro ma non siamo rassegnati. Sappiamo però che con questo prodotto, la carta per i quotidiani, non possiamo andare avanti». «I giornali — dice Gianpaolo Franzini — erano la nostra forza e adesso sono il nostro tallone d’Achille. Comprano meno carta, e la cercano soprattutto all’estero. Importiamo dalla Francia e dalla Germania. Loro hanno fatto investimenti, noi no».
L’ultimo cliente importante era, fino alla fine del 2012, la Rcs. «Acquistava il 55 per cento del nostro prodotto. Poi la Burgo ha deciso di aumentare il prezzo: da 485 euro a tonnellata si doveva passare a 520. La Rcs ha risposto che poteva pagare fra i 450 ed i 460 euro e così il contratto non è stato rinnovato». La crisi arriva da lontano, e questi operai non sono rimasti a guardare. «Negli anni ‘80 abbiamo fatto scioperi non per un aumento in busta paga, ma per obbligare l’azienda a risparmiare sui costi dell’energia. Allora si usava, come materia prima, la pasta legno, con abeti e pioppi macinati e ridotti in poltiglia. Una tonnellata costava due terzi in più rispetto al “deink”, la tecnica che permette di trasformare in carta nuova la carta riciclata. E sul lavoro non ci siamo mai tirati indietro. Qui si va a ciclo continuo e nel 2002 abbiamo fatto un accordo preciso: la produzione si ferma solo Primo maggio, e si lavora in tutti gli altri 364 giorni».
Stipendi di 1.600 euro per chi lavora anche a Natale, 1.200 per chi non fa i turni. Ogni giorno, nel grande padiglione di Nervi — dove il tetto sollevato permette di avere un grande spazio senza colonne di sostegno — si rinnova il miracolo della carta che ritrova vita. «La prima cernita permette di togliere la plastica e altri rifiuti, come gli involucri delle riviste. La carta finisce in una “cassa da flusso” che usa 80.000 litri di acqua al giorno. La prendiamo dal lago di Mezzo e poi la rimettiamo dentro dopo averla depurata. Carta liberata dall’inchiostro, pressata e poi passata fra stretti cilindri. C’è la “calandra” che liscia e alla fine ci sono gli espulsori che hanno nomi difficili ma che noi operai chiamiamo semplicemente Anna e Bice. Anna manda sui carrelli elevatori le bobine più piccole, quelle da cinque quintali. Bice invece espelle le bobine grandi, da 19-20 quintali. In media, in una bobina, ci sono 64.000 metri di carta. E tutto il processo di rinascita dura in tutto quattro, al massimo cinque ore».
Tante altre macchine sono state chiamate con nomi femminili e ai tavoli della mensa si ricordano cento storie. «La Norma era lo strumento che serviva a scortecciare gli alberi. Nel 1951 ci fu un’alluvione e i tronchi di abeti e pioppi finirono nel lago. I nostri nonni raccontavano che ci misero due settimane, a recuperarli». In questi giorni sono tanti i Tir, anche stranieri, che escono carichi dalla cartiera. Si svuotano i magazzini prima di bloccare la produzione. «Come in passato, noi lavoratori abbiamo fatto proposte precise per il futuro della cartiera. Il nuovo prodotto potrebbe essere il “test liner”, quel cartoncino che si usa per le scatole da scarpe, per separare la frutta dalle cassette di plastica… Potremmo lavorare sul “patinatino”, che serve per la carta delle riviste». Ci sono state due ore di sciopero, la settimana prossima ci sarà un corteo dalla cartiera al centro. Ma nessuno si illude. «Per spiegare la situazione agli altri lavoratori — dice Franzini — ho detto che se anche lavorassimo gratis per un anno l’azienda risparmierebbe 8 milioni, mentre il deficit è di 15 milioni all’anno». «Solidarietà e lotta / la Burgo non si tocca». Poi il buio nasconde lo striscione appeso alla cancellata.

La Repubblica 19.01.13