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"Sprechi e truffe: nel Lazio la sanità è un buco nero", di Roberto Rossi

Il settore rischia di saltare per una crisi finanziaria. Dalla voragine di Storace ai rimborsi falsim storia di un crac annunciato. L’8 gennaio scorso, fuori dai cancelli dell’Idi, un volantino recitava: «….Dopo ben 4 mesi senza stipendio molti nostri colleghi si sono ritrovati senza risorse economiche. C’è chi ha avuto sfratti, blocco utenze e anche chi oramai non riesce più a portare a tavola qualcosa da mangiare. Pertanto abbiamo allestito una dispensa per i nostri colleghi dove sono presenti beni di prima necessità: pane, riso, pannolini, olio… e tutto ciò che potrebbe essere utile alle mamme ed ai loro bambini… Aiutiamo i nostri colleghi a vivere». Siamo a Roma e il San Carlo-Idi non è una fabbrica ma uno dei più importanti centri dermatologici in Italia, un’ospedale di proprietà della Congregazione dei figli dell’Immacolata Concezione convenzionato con il servizio sanitario nazionale. Si trova in via Aurelia 275 e per anni è stato considerato una delle eccellenze italiane. Oggi, invece, rappresenta il simbolo di una crisi che investe l’intera sanità della regione Lazio, malata quasi terminale.
Il morbo che l’ha colpita, che oggi si sta manifestando in tutta la sua virulenza, non è recente. È in circolo da anni. Ha cominciato a manifestarsi durante la giunta di Francesco Storace, dal 2000. L’ex governatore, oggi nuovamente candidato, ha abusato della sanità per creare consensi. Proprio per questo, sotto la sua reggenza, il settore ha generato un buco di oltre dieci miliardi di euro. Oggi, naturalmente, Storace nega, ma basterebbe ricordare i 49 ospedali pubblici venduti e poi riaffittati a caro prezzo alla Regione, le gesta di lady Asl, le fatture gonfiate, le tangenti, il fiume di denaro scomparso senza traccia. Basterebbe ricordare come i bilanci che le aziende sanitarie laziali avrebbero dovuto redigere tra il 2003 e il 2005 vennero approvati solo nel 2006, quando la Corte dei Conti segnalava «la non piena attendibilità delle scritture contabili». Un modo gentile per dire che quei documenti erano falsi e sottolineare l’esistenza di un deficit sanitario sommerso.
Storace lasciò nel 2005 sepolto dagli scandali, ma la polvere sotto al tappeto rimase. Per scongiurare un crac annunciato il ministero dell’Economia obbligò l’Ente, con la giunta Marrazzo, a un piano di rientro lacrime e sangue. Venne accordato un prestito trentennale da 5,5 miliardi (al 5,965%) che la Regione ogni anno rimborsa con rate da 350 milioni. Eppure nonostante l’esperienza precedente una vera inversione di tendenza non è mai arrivata. Si continua sempre a ripianare il debito chiedendo uno sforzo ai cittadini (attraverso l’Irap e l’Irpef) senza far guarire il malato. Tanto è vero che anche per il 2013 il disavanzo tendenziale viaggia verso il miliardo di euro.
SERVIZI SCADENTI
Il paradosso è che nonostante i tanti soldi impiegati in quasi quindici anni, l’offerta del sistema sanitario regionale è tra le più basse d’Italia. Per comprendere di che cosa si sta parlando basta leggere il documento redatto lo scorso marzo dal ministero della Salute sui «Livelli erogati di assistenza sanitaria» (Lea): in cinque dei 21 indicatori utilizzati per verificare la qualità complessiva del sistema, il Lazio si posiziona ultimo in Italia. Come ci dice il medico Roberto Polillo ex segretario nazionale Cgil-Medici, per due anni al ministero della Salute con il secondo governo Prodi, redattore di Quotidiano Sanità dal numero dei posti equivalenti per assistenza agli anziani in strutture residenziali, alla percentuale di parti cesari, dal costo pro capite dell’assistenza collettiva in ambiente di vita e lavoro al numero dei posti per l’assistenza ai disabili, il Lazio presenta le maggiori problematiche. Quando la giunta Polverini si affacciò al capezzale, mettendo mano al sistema sanitario regionale con la delibera 80 del 2010, alcune criticità erano così riassunte: a) un eccesso di offerta ospedaliera con una presenza di posti letto privati che superava il 40% e che realizzava oltre il 50% dei ricoveri; b) massima concentrazione delle strutture ospedaliere e delle alte specialità nell’area metropolitana e forte carenza nelle province; c) bassa qualità delle cure ma costo eccessivo; d) scarsa presenza delle cure primarie nonostante la riconversione di 24 ospedali trasformati in ospedali difettivi e poliambulatori.
Dal documento emergeva, in sostanza, un mostro di burocrazia, farraginoso, spesso con comparti inutili, non razionale, costosissimo. Ad esempio. Dal sito della società dei trapianti d’organi d’Italia si scopre che nel Lazio ci sono cinque strutture accreditate (il San Camillo-Forlanini, il Sant’Eugenio, il policlinico Umberto Primo, il Bambin Gesù e il Gemelli) per il trapianto del fegato. Strutture anche di un certo rilievo scientifico ma che producono meno interventi dell’Ospedale Molinette di Torino, unico centro accreditato in Piemonte (regione con un milione di abitanti in meno). Oppure: nel Lazio sono presenti 39 strutture di unità di terapia intensiva cardiologica (come si evince dall’elenco dell’associazione medico chirurghi) ma solo sei, come dice Polillo, lavorano ventiquattro ore al giorno. Ricorda, poi, Ignazio Marino, senatore del Pd e membro della Commissione parlamentare sulla Sanità: «Nel Lazio ci sono 1600 Unità Operative, a capo di ognuna della quali c’è un primario. Quante di queste sono davvero necessarie?». E quante create per offrire un posto di prestigio a qualcuno?
Tra l’altro, non è ancora chiaro quanti siano i posti letto esistenti. Per anni ci sono stati dati contrastanti. «In una tabella del ministero della Salute ci dice ancora Polillo i posti letto presenti al primo gennaio 2012 risultano essere 23.041 (di cui 4307 di post acuzie)». Invece nella tabella allegata a un verbale regionale di due mesi prima «i posti letto sarebbero in numero inferiore e cioè 22.833 (di cui 4215 di post acuzie)». La scarsa attendibilità dei dati regionali è una consuetudine: «Ad esempio, i posti letto risultanti al 2006 (dati del ministero della Salute) erano 21.311 mentre quelli censiti con la delibera 80/2010 erano 25mila». Una differenza di oltre 4mila posti letto.
Naturalmente l’inefficienza ha un costo che ricade sui cittadini: secondo il Tribunale per i diritti del malato in un pronto soccorso del Lazio per un codice verde si può aspettare fino a dodici ore, contro le due ore della Toscana e i sessanta minuti della Lombardia, mentre è ancora sotto gli occhi di tutti lo spettacolo di una capitale che, la settimana scorsa, per molte ore è stata senza ambulanze.
MUCCA DA MUNGERE
Ma non è solo un problema di burocratica inefficienza. Per spiegare quel disavanzo monstre c’è anche altro. La sanità nel Lazio, per anni, è stata, una mucca da mungere, il bancomat per comprare consensi elettorali o creare gruppi di potere. Scriveva Angelo Raffaele De Dominicis, procuratore regionale della sezione giurisdizionale del Lazio della Corte dei Conti, nell’ultima relazione sulla Regione Lazio dello scorso febbraio: «Gravissimi fatti illeciti sono stati, altresì, riscontrati durante il 2011 nel settore della spesa sanitaria (…) . Di recente si segnalava ancora nella relazione la Procura regionale per il Lazio ha chiesto alla competente Sezione Giurisdizionale il sequestro conservativo di beni immobili appartenenti alla San Raffaele Spa (ex Tosinvest spa), per 134 milioni di euro, a garanzia del corrispondente danno subito dal Servizio Sanitario Regionale, per effetto di una complessa e articolata indagine relativa alla fittizia o irregolare erogazione di prestazioni di riabilitazione eseguite presso strutture convenzionate, e in particolare presso la casa di cura San Raffaele di Velletri». I rimborsi illeciti al gruppo San Raffaele, sempre secondo il procuratore, «destano particolare sconcerto e preoccupazione ove si consideri che oltre il 68% dell’intero debito sanitario nazionale è costituito dal disavanzo accumulato da due regioni: Lazio e Campania».
Ma il marciume evidenziato dalla Corte dei Conti rappresenta solo una parte. Qualche settimana fa spiegava Enrico Bondi, ex commissario alla Sanità del Lazio, presentatosi qualche mesa fa al capezzale del malato armato di solo bisturi, che c’erano casi, come quello del San Carlo Idi, guarda caso, dove molte fatture, per almeno 110 milioni, venivano pagate due volte: la Regione le pagava all’Idi, e l’Idi le scontava ugualmente, facendosi dare altri soldi, da banche o società di factoring. Le quali ora battono cassa. E non vogliono soltanto quei 110 milioni di euro. «Ma anche i 51 di fatture non riferibili a prestazioni sanitarie, contestate dall’Asl», come sottolineò ancora Bondi, che l’Idi ha comunque scontato. Oltre agli 83 relativi invece a «prestazioni non riconoscibili», sempre anticipati dalle stesse banche. Totale: 244 milioni. E cioè un quinto del disavanzo totale.
La sanità del Lazio è malata cronica, si diceva. Dal San Carlo-Idi alle strutture del gruppo San Raffaele, dal Policlinico Gemelli agli ospedali religiosi riuniti nell’Aris, fino agli ospedali pubblici come il San Filippo Neri e il Cto, tutti vivono di giorno in giorno e col fiato sospeso. La regione ha pochi fondi da utilizzare. Tecnicamente, se fosse un’azienda privata, si potrebbe definirlo un crac. Ma qui si parla di salute, e di una malattia durata anche troppo tempo. Dalla quale ci si può curare. Ma serve che qualcuno lo faccia.

L’Unità 18.01.13

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“La spesa record del sindaco di Roma: venti milioni di euro l’anno. I mille consulenti di Alemanno”, di Daniele Autieri

Non bastavano 19mila dipendenti, 6mila funzionari e 280 dirigenti superpagati per mandare avanti il pachiderma amministrativo del Comune di Roma. Nonostante un esercito tanto nutrito il Campidoglio di Gianni Alemanno ha spalancato le porte alla carica dei consulenti: 1.020 negli ultimi due anni, costati alle tasche dei contribuenti 20,7 milioni di euro.
A dispetto del debito, del bilancio approvato con dieci mesi di ritardo e dei tagli ai servizi sociali, il Comune di Roma non ha avuto problemi a foraggiare la platea dei collaboratori. Una prassi tanto diffusa in Campidoglio da coinvolgere persino l’ufficio incaricato di verificare la congruità dei compensi assegnati agli esterni. Proprio l’Organismo indipendente di valutazione, istituito nel 2010 da Alemanno e presieduto dal direttore generale del Comune, Liborio Iudicello, è guidato da due consulenti con una pluriennale esperienza nella pubblica amministrazione, Livio Barnabò e Francesco Verbaro, ai quali il Campidoglio ha riconosciuto un compenso di 40mila euro.
La loro storia è solo una goccia nel mare. I casi clamorosi non mancano. Uno di questi è Alexander Marco Andrew Sciarra. Nato a Londra il 21 febbraio 1973, Sciarra ha ottenuto un primo incarico dall’aprile al dicembre 2010 con un compenso di 49.959. Il suo compito — si legge nella determinazione dirigenziale 293 del 31 marzo 2010 — era «lo studio delle nuove attività istituzionali di cui sarà investita l’Assemblea Capitolina (in virtù dell’attuazione della legge per Roma Capitale)». La Giunta Alemanno ha giustificato l’assegnazione diretta adducendo la complessità dell’incarico e le «non comuni competenze» di Sciarra nel settore oggetto della consulenza. In realtà, scorrendo il curriculum allegato alla determinazione, l’uomo «ha conseguito una laurea in scienze della comunicazione all’università Lumsa, un master in geopolitica e sicurezza globale all’università La Sapienza e un diploma di liceo linguistico con buona conoscenza di lingua inglese e spagnola».
Tante competenze gli hanno comunque assicurato il rinnovo della consulenza prima per tutto il 2011 e poi anche per il 2012. La determinazione dirigenziale RQ/14336/2012 dell’Ufficio dell’Assemblea capitolina rivela che l’ammontare pagato a Sciarra per il solo mese di dicembre 2012 è pari a 5.596,25 euro.
A diretto supporto delle funzioni attribuite al sindaco è invece Giancarlo Del Sole che dopo un incarico da 20mila euro nel 2010, ne ha firmato un altro da 40mila per l’anno seguente, ed è stato inserito nel Comitato tecnico del piano strategico per la mobilità sostenibile. L’elenco è lungo, i tariffari oltre le medie di mercato e i giustificativi alle voci di spesa disparati. Si parte dai membri delle commissioni di vigilanza dei parcheggi pubblici che dal dipartimento Mobilità e Trasporti ricevono in media 3mila euro ciascuno, agli incarichi di rilevazione dei numeri civici nell’ambito delle indagini statistiche sulla toponomastica del Comune di Roma. Incarichi che possono valere anche 7mila euro l’anno.
Cifre più rotonde girano nell’ufficio del “Commissario delegato all’emergenza traffico e mobilità”, carica che la presidenza del Consiglio assegna al sindaco di Roma. A supporto della struttura ci sono 7 consulenti che costano 283.680 euro. Tra loro il magistrato amministrativo Giuseppe Rotondo, che ha ricevuto in qualità di «esperto» 40mila euro nel 2010 e altrettanti nel 2011, e Andrea Benedetto, che ha invece ottenuto dall’amministrazione due contratti annuali da 50mila euro ciascuno.
Tanti soldi li ha spesi anche il Dipartimento Patrimonio che per una consulenza trimestrale «sull’evoluzione del sistema di gestione del database patrimoniale» (dicembre 2010 — marzo 2011) ha riconosciuto a Sandro Incurvati 61.800 euro. E poi ancora denari per periti, architetti, avvocati, ricercatori, geometri, insegnanti, linguisti, sedicenti esperti di comunicazione e strategie finanziarie. Tutti con competenze che nessuno dei 25mila dipendenti del Campidoglio possiede. Possibile?

La Repubblica 18.01.13

"Quanto pesa il piccolo schermo", di Gianni Riotta

Quanto peserà la televisione nella campagna elettorale 2013? Sarà decisiva per i risultati o prevarranno i new media, web, blog, twitter, Facebook, YouTube? La domanda corre dopo il ritorno di Silvio Berlusconi sugli schermi e la rimonta sul Pd di Pierluigi Bersani che i sondaggi stimano tra il 2 e il 3%. E tornano le fruste risposte che circolano dal 1993. Chi crede e chi teme che la tv aiuti Berlusconi, chi spera e chi depreca che i talk show corrida diano una mano alla sinistra, chi invece, ultimi in ordine di tempo, irride la tv come obsoleta e giura che a decidere sul filo di lana sarà internet.
Per trovare la soluzione, occorre sgombrare un quarto di secolo di equivoci. Per cominciare non è vero che Berlusconi abbia dominato per anni «perché ha le televisioni». Questa analisi rozza, muove da una corretta premessa, che cioè il conflitto di interessi tv aiuti la destra. E’ vero, e va regolato l’equilibrio proprietario dei network per impedire che un giocatore solo sia politico e imprenditore della comunicazione.

Ma chi guarda agli esiti elettorali dal 1994 con serenità, sa che Berlusconi ha sempre vinto partendo dall’opposizione, nel 1994, nel 2001 e nel 2008, e ha sempre perduto dopo avere nominato i vertici della tv pubblica, al massimo del consenso tv quindi, 1996 e 2006. Se la tv fosse dirimente, un esito del genere sarebbe impossibile.

La verità è che l’analisi del centro destra, da Forza Italia al Pdl, come semplice «partito di plastica», che tanti danni ha fatto a sinistra, è smentita dalla realtà. Berlusconi e i suoi alleati hanno oggi intorno al 25% dei consensi. L’Spd tedesca, storico partito che risale fino al remoto Programma di Gotha criticato da Karl Marx, non va per ora oltre al 29 per la sfida contro la Merkel. La destra scommette per una sorpresa al Senato sull’area forte del paese, Piemonte, Lombardia, Veneto, come sul Sud, Campania e Sicilia, grazie a un radicamento sociale, a ceti, dinamici o parassitari, con cui la sinistra non sa bene dialogare. Certo che la tv conta: ma in quanto amplifica i messaggi concreti e li fa arrivare a chi, altrimenti, non li ascolterebbe. Ma senza un leader, un messaggio politico, una coalizione sociale, tutta la tv del mondo non basta.

La Lega di Bossi si radicò senza tv. Romano Prodi, considerato da tutti gli «esperti» un candidato senza alcun appeal mediatico, sbaragliò per due volte Berlusconi, mago delle tv, perché il suo messaggio pacato persuase la sua coalizione. Vale anche in tv la micidiale «Prima Legge» coniata dalla studioso Melvin Kranzberg «la tecnologia non è buona, né cattiva e neppure neutrale». Non è la tv a decidere, arbitro assoluto, l’esito di un’elezione, ma il suo intervento influenza i risultati. Obama ha messo a rischio la vittoria su Romney col primo dibattito flop, ma poi ha comunque prevalso. Beppe Grillo, che rivendica il primato politico digitale, e guida un ottimo blog e un discreto account twitter, deve però il successo in Sicilia non alla rete, ma alla vecchia tv: sono gli show da artista del video a renderlo popolare anche in aree della popolazione non avvezze ai computer.

In una stagione di polarizzazione delle coscienze, è quasi impossibile che un cittadino di destra voti a sinistra e viceversa. La tv e il web mobilitano la base e richiamano dall’astensione i simpatizzanti delusi. Lo studio dei Big Data conta i propri consensi e quelli dell’avversario per accertarsi di avere un voto in più. Bersani e Pd hanno galvanizzato la base democratica con una perfetta stagione di primarie con Matteo Renzi, consolidando gli elettori tradizionali, fidelizzandone di nuovi. Ora Berlusconi parla ai suoi, evoca la loro cultura e le loro idee: sa di averli irritati, ma sa che non sono diventati di sinistra. Non è «la tv» a farlo rimontare, sono i loro interessi e valori che si risvegliano a voto vicino.

E’ giusto che tv private e pubbliche offrano eguale spazio ai candidati, ma non sarà un minuto in più o uno in meno a decidere delle elezioni. Sarà l’uso raziocinante che i leader faranno del mezzo tv, e i riformisti di Monti e Bersani, privi di tv private, dovranno lavorare a una riforma tv di equilibrio e professionalità. Il populismo tv, ormai rodato da vent’anni, premia i candidati con messaggio diretto, «di pancia», Berlusconi e Grillo.

Qui, e sarà l’effetto sorpresa, entra in gioco il web. I dati del Censis e di McKinsey confermano che la maggioranza degli italiani è online e la rete muta la televisione. Da mezzo unidirezionale, il leader parla i cittadini ascoltano magari commentando tra moglie e marito sul sofà, la tv diventa assemblea. Durante il confronto Bersani-Renzi, durante lo show che ha dato a Berlusconi voti e a Santoro audience (simbiosi Paguro Bernardo Attinia perfetta) giornalisti e cittadini hanno commentato online la tv, creando quella che lo studioso Weinberger chiama «camera intelligente», dibattito dove i ragionamenti vanno via via raffinandosi. La convergenza «old e new media», tv e web, è il teatro di battaglia 2013.

Infine ci sarebbero i faccia a faccia. Berlusconi li chiede quando è in svantaggio e nega quando è in vantaggio. La sinistra può essere tentata di rendergli la pariglia. Vanno invece imposti, se non per legge almeno per consuetudine come in America. Leader, messaggi, coalizioni di interessi e valori sociali in contrasto davanti alla tv, con il paese che si confronta online preparandosi al voto: così funziona la democrazia del XXI secolo e prima ne accettiamo il codice più in fretta rinnoveremo la classe politica e metteremo alla prova la nostra cittadinanza.

La stampa 18-01.13

Bersani: Ogni persona ha diritto alla propria quota di trasformazione del mondo: questo è il lavoro

Pier Luigi Brersani apre all’Ambra Jovinelli di Roma la campagna elettorale del PD incontrando i giovani che voteranno per la prima volta. “Facciamo vedere all’Italia cosa abbiamo fatto in termini di rinnovamento, come abbiamo sconfitto il Porcellum”, ha detto il segretario del PD prima di far salire sul palco tre giovanissimi futuri deputati.

Sul palco, accanto a Bersani: Anna Ascani, 25enne di Perugia, Enzo Lattuca, 24 anni, di Cesena, e Valentina Paris, 31 anni, di Avellino. Tutti e tre si sono tutti guadagnati un posto in lista con le elezioni primarie.

“Questa campagna – ha dichiarato Bersani – si sta mettendo sui binari sbagliati. Io non ci sto a una campagna di politicismo e di cabaret, all’inseguimento di una qualsiasi affermazione per avere un titolo. Sono allibito dell’inseguimento di qualsiasi affermazione o di affermazioni alla qualsiasi mentre c’è un Paese che ha bisogno d’altro. Io parlerò testardamente dell’Italia e degli italiani, che stanno vivendo un momento difficile. Come dice la canzone di Gianna Nannini, Inno, ..mi ricordo di te”.

Venti anni di “inganno, leggerezza insostenibile e deriva morale” sono stati gli anni del governo di centrodestra. “Il nostro obiettivo profondo – ha ribadito Bersani – si chiama riscossa civica e morale. Si chiama onestà, quella cosa che ti consente di guardarti allo specchio, che ti hanno insegnato tuo padre e tua madre. Che è una virtù privata ma è un bene pubblico. E’ un valore politico l’onestà..

Non si nasce imparati, ma non c’è bisogno di avere sessant’anni per essere imparati. Cari ragassi e ragasse, noi ci rivolgiamo a voi non come se foste un target – ha detto ironicamente – ma come a dei protagonisti veri, perchè la politica deve generare nuova classe dirigente.

Abbiamo bisogno di avanguardie delle tante energie presenti nel Paese. I giovani devono riconciliarsi con la politica, perchè una buona politica è possibile. La nostra politica deve avere il loro volto. Questa campagna deve avviare la ricostruzione morale ed economica del Paese.
Arriviamo a questa sfida con la testa alta – ha esortato il segretario democratico – abbiamo messo coerenza e passione, rifiutiamo sempre ogni forma di qualunquismo che porta inevitabilmente verso posizioni fascistoidi”.

Bersani ha poi espresso la convinzione che il centrosinistra vincerà con le proprie forze la battaglia elettorale, “non perché abbiamo la vittoria in tasca. Sappiamo che l’avversario c’è e rialzerà la testa. Vinceremo perché mobiliteremo tutte le nostre forze, e queste sono in grado di farci vincere e di battere la destra”.

Parlando della crisi economica e del lavoro nel nostro Paese, Bersani ha dichiarato: “La crisi non se ne andrà in un giorno, ha avuto origine da squilibri, disuguaglianze, ma oggi abbiamo la possibilità di cominciare a invertire le scelte anche su scala europea. Io l’ho detto in tutte le lingue – ha ricordato – tutte le volte che il Sud si è avvicinato al Nord l’Italia si è avvicinata al l’Europa.

Il lavoro in particolare – ha proseguito – è il principio guida dell’azione di governo del centrosinistra. Non è solo lo strumento con cui mantieni la famiglia e ti sostieni. E’ la libertà, è la dignità. Come dice la Costituzione, il lavoro è la quota che ognuno ha per trasformare il mondo. Per i giovani – ha detto il leader democratico – la disoccupazione è micidiale. E non possiamo stupirci del loro fatalismo. Bisogna ricostruire il percorso formazione-lavoro, mettere più ordine tra lavoro precario e stabile, migliorare le regole del mercato del lavoro, cosa che si poteva fare e non si è fatto nel corso del governo Monti. Ogni persona deve avere il proprio diritto a una quota di trasformazione del mondo.

Anche il tema della sostenibilità del welfare deve essere importante per le nuove generazioni. Bisogna ricostruirlo secondo principi di uguaglianza – ha ribadito – davanti all’istruzione e alla sanità per noi non può esserci né povero né ricco.
Sui diritti e la legalità – ha aggiunto – ci vogliono lenzuolate, non una agenda: il falso in bilancio, l’antiriciclaggio, la trasparenza della P.A., il conflitto di interessi, l’abolizione di 7-8 leggi ad personam così come le unioni civili per le coppie omosessuali, lo ius soli e la parità di genere”.

Per il leader PD i giovani saranno i protagonisti “ma senza spezzare il filo della memoria e il filo delle generazioni. Avevo promesso che la ruota avrebbe girato e sta girando. Questa nuova generazione – ha concluso – deve essere la testa e le gambe su cui cammina la nuova classe dirigente.

A lavoro allora, viva il Partito democratico!”

www.partitodemocratico.it

"Tremonti senza pudore: è tornato il grande mistificatore", di Emilio Barucci

Non se ne sentiva proprio il bisogno, dopo il pifferaio magico Berlusocni, ricompare anche Tremonti il mistificatore della realtà. Con una violenta intervista a Panorama Tremonti maneggia i fatti a piacimento per dimostrare che le cose andavano meglio quando era lui a governare e si lancia in una dura invettiva contro Monti paragonandolo a un podestà dell’Italia per conto della Germania (gauleiter), un po’ come Mussolini lo era per Hitler. Vale la pena di sottolineare le brutalità del paragone: Monti sarebbe espressione di un potere autoritario incarnato dalla Germania. È facile immaginare quale sarebbe la sua politica europea: una guerra di liberazione dalla dominazione tedesca.
Nell’intervista Tremonti ci propone una personale ricostruzione della vita economica del paese negli ultimi anni. Una ricostruzione che suona più o meno cosi: fino a quando siamo stati noi al governo le cose andavano bene, la crescita non era male, il debito pubblico era sotto controllo, la coesione sociale era salvaguardata, poi nell’autunno 2011 la crisi si è abbattuta sull’Italia. Una crisi politica che ha trovato terreno fertile nella crisi dell’euro. Monti avrebbe solo aggravato la situazione.
Questa ricostruzione merita di essere discussa nel merito. Partiamo da un dato: Tremonti è stato ministro dell’economia dal 2001 in avanti per circa sette anni. Ebbene, sotto la sua regia, dal 2001 al 2005 il debito pubblico in rapporto al Pil è calato di appena tre punti (da 109 a 106), dal 2008 al 2011 è invece salito da 106 a 120. Nella sua prima esperienza, il tasso di crescita del Pil è stato pari appena allo 0.78% annuo, nella sua seconda esperienza è stato pari a -1.2%. Non regge la favola della tempesta perfetta della crisi dell’euro (che sarebbe causata da un’architettura europea costruita male): nel 2001 il Pil pro capite italiano era superiore a quello medio dell’area euro (118 contro 112), nel 2011 il Pil italiano è inferiore a quello medio dell’area euro (100 contro 108). Un dato impietoso. Non si tratta solo di una crisi politica ma anche economica strutturale. È l’ora di farla finita con la mistificazione del nemico
esterno (prima la globalizzazione adesso la Germania), la verità è che l’economia italiana negli ultimi anni ha subito una violenta ristrutturazione che non è stata per nulla governata. Tremonti ne porta ampia responsabilità per il tempo in cui è stato ministro e perché non ha mai messo in campo una vera politica economica per il paese. Nella sua azione ha avuto un solo obiettivo, quello di contenere il debito pubblico, un obiettivo che ha spesso perseguito con operazioni di ingegneria finanziaria, per il resto ha fatto ben poco. Da buon esperto di scienza delle finanze, ma privo di una vera cultura economica, ha solo curato i conti pubblici, le politiche per la crescita e i temi dell’equità non sono mai rientrati tra le sue priorità. Sotto la sua regia il governo dell’economia è stato gestito esclusivamente in una logica di potere a favore delle parti dell’elettorato che sostenevano il governo. Per cogliere la pochezza della sua proposta vale la pena ricordare la sicumera con cui Tremonti nel bel mezzo della crisi (agosto 2011) sanciva che la soluzione dei problemi dell’Italia passavano per la modifica dell’articolo 41 della Costituzione stabilendo che l’iniziativa economica è libera salvo quello che è espressamente proibito.
Veniamo alla capitolazione ingloriosa del 2011. Tremonti sostiene che la crisi italiana sarebbe stata politica. Non c’è dubbio che lo sia ma si scorda di dire che si è trattato di una crisi tutta interna alla maggioranza di centrodestra che oramai da un paio di anni era imballata per gli scandali giudiziari e privati del primo ministro. Un non governo che ha portato al dileggio internazionale e alle pressioni dei mercati finanziari. La verità è che nessuno in Europa credeva alla capacità di Berlusconi e di Tremonti di affrontare la crisi dell’euro. Certo Monti non ha salvato il Paese ma ha dato un contributo importante al recupero di credibilità internazionale, prova ne sia che nel novembre 2011 lo spread italiano era superiore a quello spagnolo di 150 punti base e che adesso siamo sotto di ben 90 punti. Ce n’è per dissentire su alcune delle sue misure ma di qui a paragonarlo a un gauleiter ce ne vuole. Di fronte ai problemi del paese sarebbe bene che chi ne porta le responsabilità recuperasse un po’ di senso del pudore e, forse, della realtà.

L’Unità 18.01.13

"Il salto che è necessario", di Claudio Sardo

I Governi Berlusconi hanno trascinato il paese sull’orlo del baratro. Hanno fatto pagare ai cittadini italiani il prezzo più alto della crisi: i numeri di questi anni sulla decrescita, sulla perdita di competitività, sull’aumento delle tasse, del debito e della disoccupazione, sulla compressione dei diritti e dei servizi descrivono la portata del fallimento della destra. Assai più grave in termini relativi che nel resto d’Europa. Il governo Monti ha posto un argine. Ha affrontato l’emergenza con dignità e con errori. Non ha risolto la crisi ma ha restituito una chance all’Italia.
Ora tocca al centrosinistra riportare il Paese nel posto che gli compete in Europa. Ricostruire una speranza civica e un senso di coesione sociale. Avviare una nuova fase di sviluppo, immettendo qualità, ricerca e soprattutto lavoro. Chiamare a raccolta tutte le forze disponibili a riportare l’Italia in serie A.
Aprire una nuova pagina è il compito storico oggi sulle spalle della sinistra. È una missione che può essere compiuta solo con spirito di apertura e di inclusione, senza settarismi, senza autosufficienza. Perché si tratta di una grande impresa di cambiamento, che chiede consenso, coraggio, onestà, solidarietà. Di questo bisogna parlare in campagna elettorale. Nelle strade, nelle piazze, nei luoghi di lavoro e di incontro, nelle case. Berlusconi è disposto a vestirsi da clown pur di far dimenticare i disastri compiuti. Ma non ci riuscirà se saremo capaci di parlare del Paese reale, dell’economia reale, delle sofferenze reali e delle speranze che ancora non sono spente tra i giovani, nelle famiglie, tra gli imprenditori, i professionisti, i professori, nel mondo del lavoro e della cultura. Berlusconi è così spudorato da ripresentarsi, insieme al socio Tremonti, delirando di complotti internazionali. Negando ogni responsabilità, anzi scaricandola sugli altri. Tornando a braccetto con alleati impresentabili, come se la catastrofe italiana – il Paese con la crescita più bassa al mondo dopo Haiti nell’ultimo decennio – dipendesse da un accidente. Bisogna sfuggire ai suoi
argomenti, alle sue battute di pessimo gusto, al sua palude comunicativa. Lui tutto può fare tranne che parlare dell’Italia vera. Deve spostare l’attenzione su un mondo di specchi e di apparenze, riflesso da qualche programma televisivo. È in questo scenografia che può addirittura riproporre l’abolizione dell’Imu dopo averla istituita e sorvolando sul fatto che i cittadini più ricchi devono pagarla per ragioni di equità.
Noi non vogliamo eliminare la destra. Né mancare di rispetto ai suoi elettori. Pensiamo che in un sistema migliore anche il centrodestra potrebbe essere un competitore migliore, capace di guidare il governo quando sarà il suo turno, anziché far precipitare il Paese, dividerlo, dissipare il patrimonio di legalità, violentare il diritto in nome di interessi privati.
Ma ora la speranza dell’Italia, di un cambiamento possibile, è il centrosinistra. La sfida è davanti a noi. Tocca a noi parlare, essere all’altezza, avere la visione, la forza e la passione necessari. Dove c’è la disuguaglianza dobbiamo ridurre le distanze, non per rivalsa ma perché l’equità è condizione di sviluppo. Dove c’è illegalità, dobbiamo portare moralità, rispetto della legge, lotta senza quartiere alle mafie e alla corruzione: anche a costo di qualche rottura, di qualche incomprensione, di qualche strappo nelle tante zone grige delle relazioni sociali. Dove c’è la crisi del lavoro dobbiamo portare un nuova alleanza per l’Italia, per il made in Italy, per la qualità: politiche industriali serie e politiche fiscali selettive possono dare assai più in termini di competitività del Paese che non una inefficace riforma del mercato del lavoro, stile Fornero. Dove c’è la sfiducia verso la politica e verso le istituzioni, dobbiamo riportare i diritti – diritti civili e sociali – cercando anche di ricostruire quello spirito di condivisione, che ha ispirato la Costituzione più bella del mondo.
Non sarà una campagna elettorale facile. Non è vero che il Pd ha la vittoria in tasca. Non è vero che il Pd ha già vinto e agli avversari tocca solo mettere bastoni tra le ruote, puntando su pareggi, inciampi, pasticci. È vero invece che il centrosinistra ha il dovere di portare agli italiani e di discutere con loro un progetto per uscire da queste macerie. Se questa è la crisi economica e sociale più lunga e pesante dal dopoguerra, è necessario recuperare l’animo dei ricostruttori del dopoguerra. Che pena – e che vergogna! – sentire ancora Berlusconi che punta il dito contro Camusso, contro Saviano, contro le cooperative, e ovviamente contro tutte le trasmissioni che non gli piacciono. In realtà il suo disegno è vivere nella rissa televisiva, prolungarla pur di nascondere le ingiustizie e le sofferenze sociali, pur di impedire discussioni razionali su ciò che è meglio fare, con scarse risorse, perché l’Italia riparta davvero.
La riscossa civica non è l’applauso a un leader. Non è un partito personale. Non è un populismo diverso da quello berlusconiano. È il ritorno ad una democrazia partecipata e decidente. È rinnovamento. È coesione sociale. È la rete dei solidarietà che non lascia l’individuo solo davanti al mercato. È una nuova idea di pubblico. Se passeranno questi messaggi l’Italia potrà cambiare e darsi un governo della ricostruzione.

L’Unità 18.01.13

"Consigli non richiesti a Monti", di Massimo Gramellini

Mi rivolgo all’uomo, oltre che all’agenda. Uno statista come lei avrebbe potuto evitare di salire in politica e rimanersene al livello del mare, nel giardino dei senatori a vita, a cui una regola non scritta suggerisce di non sporcarsi il mantello nelle campagne elettorali. Oppure avrebbe potuto affrontare l’arrampicata in solitudine, con una compagnia selezionata fra le eccellenze italiane allergiche alla Casta. Voi del loden contro tutti: anche la sconfitta sarebbe stata un onore, l’inizio di qualcosa. Invece si è lasciato incastrare in una cordata di mestieranti, il gatto Fini e la volpe Casini. Due strenui difensori della famiglia, in particolare della loro, che bazzicano la politica da quando io andavo all’università e lei forse nemmeno ci insegnava.

Prima che i tartassati della classe media tornino a rifugiarsi in massa sotto le insegne di cartapesta dell’astuto pifferaio, accolga qualche suggerimento tecnico. Rinfoderi quel tono asettico, a metà fra lo specialista in dispetti e l’analista fiscale. L’Italia non è una banca, anche se in tanti l’hanno rapinata. Metta la vita nelle sue parole, indicando un traguardo che sia una vittoria da sognare e non sempre e soltanto una sconfitta da evitare. Non ascolti il gatto e la volpe: con i voti della Chiesa non si diventa capi del governo, ma chierichetti. Ed eviti, se può, di correre il rischio di tutte le agende, che si usano un anno e poi si buttano.

La Stampa 18.01.13

"Ma adesso il Pd si riprenda la scena", di Curzio Maltese

In tutte le campagne elettorali, quando i sondaggi indicano un vincitore abbastanza sicuro, questo occupa il centro della scena dei media. Com’è naturale, l’attenzione dell’opinione pubblica si concentra su chi guiderà il governo, sulla personalità del leader e i suoi programmi, lasciando nel cono d’ombra i probabili sconfitti. In Italia sta accadendo l’esatto contrario. Il centro della scena elettorale è fragorosamente occupato dai perdenti designati, Berlusconi in testa. Mentre i probabili vincitori, Bersani e il Pd, non fanno notizia. Il Pd, primo partito accreditato di ampio margine sugli inseguitori, addirittura fa meno notizia non solo di Berlusconi, ma perfino di Monti, di Grillo e di Ingroia, col suo 4 o 5 per cento. Perché?
Una parte di responsabilità l’abbiamo noi dei media. Vent’anni di berlusconismo hanno abituato tv e giornali a campagne elettorali dove i problemi reali sono banditi per lasciare il posto a un carnevale di trovate e annunci, un festival di gesti simbolici e battute. Un terreno sul quale il berlusconismo e i populismi nati al seguito sguazzano in allegria. Non saremmo qui a parlare tutti di Berlusconi se non vi fosse stato il duello rusticano ad Annozero che ha risollevato le sorti di un contendente ormai in teoria fuori gioco. Si è trattato di un puro evento televisivo, fatto di pantomime e sceneggiate, cioè di nulla. Nel corso della trasmissione, un mediocre avanspettacolo senza contenuti, non è emersa una sola novità concreta sul programma del centrodestra. È stato soltanto uno show personale di Berlusconi, di fronte a presunti nemici. Eppure tanto è bastato per espellere dalla campagna elettorale ogni tema serio. L’Europa e il mondo guardano al voto italiano con preoccupazione, in attesa di sapere come una grande nazione pensa di salvarsi dalla bancarotta, e in Italia si dibatte se tizio o caio abbiano fatto migliore figura alla corrida televisiva quotidiana. I conduttori di talk show vanno a caccia delle clownerie di Berlusconi o di Grillo come gli impresari del circo inseguono la donna cannone, per vendere i biglietti. E purtroppo i giornali vanno loro dietro, in un continuo gioco al ribasso.
Ma una volta ammesse le nostre colpe, Bersani e il Pd dovrebbero riconoscere che se non fanno notizia è anche per propria incapacità. Alla vigilia del voto per le presidenziali, in Francia per settimane non s’è parlato d’altro che delle figura di Hollande e dei provvedimenti annunciati. Bersani e il Pd non riescono invece a occupare la scena, a inventarsi un modo per comunicare il programma e per restituire serietà e concretezza al confronto politico. Finora hanno fatto da spettatori scettici alle trovate degli avversari, sicuri comunque di vincere. Magari troppo sicuri di vincere, com’è accaduto già in passato. La creatività politica del Pd e del suo leader pare essersi esaurita nel cammino verso le primarie. Nel confronto con Renzi, Bersani aveva messo in campo idee e progetti e finalmente un po’ di carisma. Il duello fra i candidati del centrosinistra sembrava perfino aver imposto un nuovo stile alla tele politica, con il successo del confronto all’americana. Il tono e i contenuti dello scontro si erano di conseguenza distaccati dall’anomalo carnevale elettorale all’italiana, per avvicinarsi alla norma delle grandi democrazie. A parte il tema populista della rottamazione, presto archiviato dopo i gesti simbolici di Veltroni e D’Alema, si era discusso di problemi veri: tasse, lavoro, politica industriale, diritti, riforme, laicità. Ma al pronti via, cominciata la vera campagna elettorale, il Pd e Bersani sono tornati nella nebbia dell’indefinito. Quali sono le ricette per rilanciare il Paese? Che cosa ci attende con Bersani a Palazzo Chigi dalla prossima primavera? Gli elettori non lo sanno e a questo punto non importa se per propria ignoranza o per inadeguatezza del Pd.
Le novità interessanti con le quali il centrosinistra aveva caratterizzato la corsa delle primarie sono sparite e la scena è regredita ad arena per vecchi trucchi di anziani gladiatori. A guardare il teatrino televisivo quotidiano di un leader di settantasei anni, viene quasi da rimpiangere anche il tema della rottamazione. Ora, è possibile che tutto questo non provochi alla fine chissà quali cataclismi elettorali. Per ora il margine di vantaggio del Pd e del centrosinistra, per quanto progressivamente erosi dal grigiore della campagna, rimane solido. Ma se vuole confermare i pronostici favorevoli, il Pd deve uscire dall’ombra, farsi venire qualche idea nuova e imprimere una svolta alla campagna. Nella nostra politica le anomalie non si contano. Ma non è mai successo, in Italia come altrove, che un soggetto politico incapace di imporsi al centro del dibattito elettorale vincesse poi alla conta dei voti.

La Repubblica 18.01.13

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“Se il Cavaliere restasse senza platea”, di ROBERTO SAVIANO

LA COSA sorprendente di questa campagna elettorale è che l’ex primo ministro, lo stesso che ha avuto a disposizione decenni di comunicazione televisiva e giornalistica, oggi torna a pretendere e ottenere un pulpito. E da esso conquisti anche larga audience. Accade poi che, grazie a quel pulpito, sembra guadagnare come decorazioni al merito, un’immagine nuova, diversa, svecchiata. Quella che doveva apparire come la più logora e stantia delle proposte politiche, d’improvviso sembra diventare, per un trucco mediatico, il nuovo che attrae. Lo si segue in televisione, si cliccano i video delle sue interviste, si resta lì, incollati allo schermo, ipnotizzati, invece di cambiare canale,
per decenza. Ci dovrebbe essere un unanime “ancora lui, basta” e invece no. E ciò che tutti un anno fa credevamo sarebbe stata l’unica reazione possibile alla incredibile ricomparsa sulla scena politica di Silvio Berlusconi non si sta verificando. Una certa indignazione – naturalmente – talvolta una presa di distanza, ma non rifiuto, non rigetto.
Quando Berlusconi va in tv sa esattamente cosa fare: la verità è l’ultimo dei suoi problemi, il giudizio sui suoi governi, il disastro economico, le leggi ad personam, i fatti – insomma – possono essere tranquillamente aggirati anche grazie all’inconsapevolezza dei suoi interlocutori. Il Cavaliere mette su sipari, sceneggiate, battutine. È smaliziato, non ha paura di dire fesserie, non ha paura di essere insultato, di cadere in luoghi comuni, di ripetere storielle false sulle quali è già stato smascherato. Occupa la scena. E c’è chi cade nel tranello: questo trucco da prim’attore, incredibilmente, ancora una volta crea una sorta di strana empatia, di immedesimazione. C’è chi dice: sarà anche un buffone, ma meglio lui dei sedicenti buoni.
E allora sedie spolverate, segni delle manette, lavagnette in testa. Torna lui, lui che ci ha ridotti sul lastrico, lui che ha candidato chiunque, lui che ha detto tutto e il contrario di tutto ed è stato smentito mille volte. Eppure quei pulpiti diventano per lui nuove possibilità di partenza: chi vuole ostacolare questo processo già visto e già vissuto dovrebbe evitare di fare il suo gioco, di prestarsi al ruolo di spalla – come al teatro – dovrebbe impedirgli di montare e smontare sipari.
Più Berlusconi va in tv, più dileggia chi gli sta di fronte, più piace. Perché sa disinnescare chi lo intervista. Non ha paura, anzi sembra divertito dalla paura degli altri. Sente l’odore del sangue dei suoi avversari e attacca. In una competizione in genere vince chi non ha nulla da perdere e lui, screditato sul piano nazionale, internazionale, politico e personale; con processi pendenti che riguardano le sue aziende e le sue abitudini privatissime; con l’impero economico che cola a picco, è l’unico vero soggetto che da questa situazione non ha nulla da perdere e tutto da guadagnare. E se la sta giocando fino in fondo. Appunto, giocando. È divertito, esaltato.
Berlusconi non può più essere considerato un interlocutore, chi lo fa gli dà la possibilità di mentire laddove i fatti lo hanno già condannato. Fatti politici, ancor prima che giudiziari. Più lo si fa parlare, più lo si aiuta, più si asseconda la sua pretesa alla presenza perenne, all’onnipresenza televisiva come fosse un diritto da garantire a un candidato, cosa che non è. E tutto come se prima di questo momento non avesse mai avuto la possibilità di farci conoscere le sue idee e i suoi programmi. Come se non avesse avuto modo di esprimersi, da primo ministro, sui temi che oggi sta affrontando spacciandosi da outsider, da nuovo che avanza, da nuovo che sgomita e lotta per riconquistare lo spazio che gli è dovuto. Ha avuto una maggioranza che gli avrebbe consentito di poter modificare le leve e cambiare tutto. E non lo ha fatto. Ha solo legittimato quel “liberi tutti” fatto di evasione e deresponsabilizzazione che ha reso il nostro paese un paese povero. Povero di infrastrutture, povero di risorse, povero di speranza e invivibile per la maggior parte degli italiani. Anche per chi Berlusconi lo ha votato, anche per chi in lui si è riconosciuto.
E allora smettiamola di prenderlo sul serio, smettiamola di ridere alle sue battute per tremare poi all’idea che possa riconquistare terreno. Trattiamolo piuttosto per quello che è: un bambino di settantasei anni. Quando i bambini esagerano con le parolacce, con i capricci, i genitori li ignorano, fingono di non aver sentito. È l’unico modo perché il bambino perda il gusto della provocazione. La stessa cosa dovremmo fare con lui: farlo parlare, ma senza prestargli attenzione. Evitiamo i sorrisi alle sue battute stantie, perché non possa più ostentare sicurezza davanti ai suoi, perché non possa più spacciare la falsa tesi secondo cui i politici sono tutti uguali. Non sarò mai per la censura: Berlusconi ovviamente deve parlare in tv – certo dovrebbe farlo nelle regole sempre infrante della par condicio – come tutti i leader delle coalizioni. Siamo noi che dobbiamo smetterla di giocare con lui. Lasciamolo senza platea.

La Repubblica 18.01.13