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Bersani rivendica la diversità del Pd

“Questa campagna elettorale si sta mettendo fuori dai binari, non sono soddisfatto, in questi termini noi non ci stiamo: non stiamo in una campagna fatta solo in termini di politicismo e cabaret”. Così il segretario del Pd, Pierluigi Bersani, parlando ai giovani nell’apertura ufficiale della campagna elettorale del Pd. “Sono abbastanza stanco di dover essere tutti i giorni registrato su temi come ‘io, Monti, la desistenza, il Senato e compagnia cantante’ – ha detto Bersani – Sono abbastanza allibito del fatto che ci sia il cabaret per avere un titolo, mentre siamo davanti a un paese che ha bisogno di essere ricostruito. Noi parleremo dell’Italia e degli italiani”.

Il segretario democratico ha preso la parola in un teatro Ambra Jovinelli gremito di gente. In platea molti giovani, qualche deputato uscente e militanti del Pd. Sul palco con il candidato a Palazzo Chigi, gli unici presenti che stanno prendendo a turno la parola sono Anna Ascani, 26 anni candidata alla Camera in Umbria; Enzo Lattuca, 25 anni, candidato alla Camera in Emilia e Valentina Paris, 30 anni, candidata in Campania alla Camera.

“Non si nasce imparati neanche in politica, ma non c’è bisogno di avere 60 anni per essere imparati”, ha sottolineato Bersani. “La battaglia – ha aggiunto – la vinceremo non perché abbiamo la vittoria in tasca, l’avversario c’è e ha rialzato la testa ma perché susciteremo le nostre forze in tutto il Paese e le nostre forze questa volta sono in grado di battere la destra”.

“Oggi avviamo la riscossa civica morale ed economica del Paese – ha proseguito il segretario – deve tornare l’idea che la buona politica sia possibile. Noi diciamo no ad ogni qualunquismo che porta a posizioni fascistoidi per le quali non c’è destra e sinistra. La barra del Pd deve essere una politica seria e sobria, l’onesta che è una virtù privata ma anche un bene pubblico”. “Se andiamo al governo – ha assicurato ancora Bersani – cominciamo dal fare delle lenzuolate sulla moralità pubblica: ad esempio sulla corruzione due tre norme. Sui conflitti di interesse. Facciamo l’elenco delle principali sette otto norme ad personam e si aboliscono. Finché c’è la personam…”.

Bersani ha sferrato poi l’affondo più duro contro quella che con un immagine forte descrive come il cancro della politica. “Io sono l’unico a non aver messo il nome nel simbolo – ha detto – Sistemi organizzati su una persona che spesso si sceglie da sola sono un tumore che rendono la democrazia ingessata, inefficace e impotente”. “Io sono l’unico candidato che non mette il proprio nome sul simbolo – ha insistito il segretario – Pur essendo stato scelto da 3 milioni e 200 mila persone non metto il nome sul simbolo. Pur non essendo stato scelto come candidato premier da solo non metto il nome sul simbolo”. “Nel Pd Bersani c’è per un po’ ma il Pd ci sarà tra 20-50-100 anni”, ha rivendicato.

“Non sarà una passeggiata, loro suoneranno le loro trombe e noi le nostre campane. La nostra arma atomica è l’appello al popolo delle primarie”, ha detto ancora il segretario. “Ci sono 3 milioni e 200 mila persone che dovremo raggiungere, gli chiederemo di non essere spettatori ma protagonisti. Adesso arriva il momento e credo ci sarà una mobilitazione”. Rivolgendosi alla platea, il leader democratico ha proseguito: “Abbiamo fatto girare con le primarie la ruota del rinnovamento e la confermeremo anche nelle sfide del governo senza mai spezzare il filo tra generazioni purché vengano avanti i giovani”.

da www.repubblica.it

"La burocrazia frena la ricostruzione", di Ilaria Vesentini

«Le norme e la burocrazia per la ricostruzione non sono semplici, così come non lo è la procedura per la richiesta dei contributi Sfinge. Ma non ci sono alternative. Bisognerebbe cambiare l’Italia per affrontare con burocrazia zero il problema del post sisma». Le parole di Giuliana Gavioli, responsabile del settore biomedicale di Confindustria Modena (nonché dg di BBraun Avitum, big del distretto di Mirandola martoriato dal sisma) sono la sintesi perfetta della distanza incolmabile tra l’utopia di eliminare perizie e autorizzazioni che reclamano i piccoli imprenditori emiliani terremotati e l’iter per gli aiuti stabilito dal commissario straordinario, nel solco della legislazione nazionale ed europea (ma con il meccanismo intermediato dalla Cassa depositi e prestiti, per non toccare il bilancio statale, che ha contribuito a generare confusione). Un gap che spiega il magro risultato incassato dalla prima misura concreta di aiuto alle popolazioni emiliane, quella per la dilazione fiscale: appena 750 milioni di euro richiesti contro i 6 miliardi per la moratoria stanziati dalla Cdp. E spiega anche perché giovedì scorso, di fronte alla piena disponibilità dei 6 miliardi per la ricostruzione a fondo perduto, ancora non c’era una domanda pronta per incassare il finanziamento. Anche se ogni ora che passa – precisa la Regione – va salendo il numero di domande Sfinge completate.
Artigiani, commercianti e agricoltori sono esasperati dall’intrico di decreti, leggi, ordinanze commissariali (95 da giugno a fine dicembre 2012) scritti in burocratese e da iter per le domande di contributo considerate inaffrontabili da chi ha strutture ridotte all’osso, nessuna competenza legale e tecnica interna, non ha a portata di mano archivi e documenti (molti lavorano ancora in container o delocalizzati), non ha più banche disposte a fare credito ed è sopraffatto da una naturale irritazione più che dalla volontà (e dal tempo) di districarsi tra le norme. Una disinformazione collettiva, spesso non arginata dalle stesse associazioni di categoria, cui fa da contraltare il lavoro certosino della squadra di Vasco Errani, che in appena sette mesi ha scritto una cornice legislativa completa per la ricostruzione (sopperendo al vuoto normativo nazionale e con il benestare preventivo della Ue, prima volta nella storia delle emergenze del Paese) «e che ha portato nel cratere 9 miliardi di finanziamenti (2,5 del decreto 74, 6 dalla Cdp e 670 milioni dalla Ue), un risultato che non era scontato – sottolinea Gavioli – anche se non capisco perché qui ci debbano restituire solo l’80% delle spese per il ripristino e in Abruzzo il 100 per cento».
La BBraun – 5 milioni di danni e almeno 300mila euro per consulenze tecniche già spesi dopo il sisma – è tra le imprese “fortunate”, perché costola di una solida multinazionale benvoluta dalle banche, assicurata contro le calamità e con competenze interne in grado di interpretare le normative. Quando a metà novembre è uscita l’ordinanza 74 che modificava la 57 per la ripartenza delle imprese, Gavioli ha seduto attorno a un tavolo i suoi tecnici, consulenti esterni e referenti di Confindustria per esplorare la procedura telematica Sfinge, unica via per inoltrare le domande. «Ci siamo seduti alle 9 di mattina – continua il numero uno del distretto biomedicale – e ci siamo rialzati alle 20 con un lungo elenco di domande. Poi ci siamo riuniti una seconda volta e abbiamo stilato una summa finale di quesiti sottoposti poi ai tecnici regionali, disponibili e competenti. La burocrazia c’è e non può essere bypassata, è nel Dna di questo Paese, lo vedo tutti i giorni confrontandomi con la casamadre tedesca e le leggi americane. Ma, tutto sommato, i documenti richiesti dalla Regione non sono poi diversi da quelli prodotti per le nostre due compagnie assicurative».
Non ha fretta di attingere agli aiuti pubblici Vainer Marchesini della Wam di Cavezzo, altra industria simbolo del terremoto – 75mila mq di capannoni inagibili – che, tra finanze proprie e copertura assicurativa, ha già potuto spendere 8 milioni per ripartire: «Abbiamo fatto la domanda per la moratoria fiscale, quella per i contributi in conto capitale può aspettare, la procedura è complessa e per noi è più urgente ora completare i progetti e chiudere i cantieri». Non è lo stesso per artigiani, «allo stremo», precisa Luigi Mai, presidente di Cna Modena, oltre 600 imprese associate in coda per le pratiche Sfinge e per ripartire: «La domanda non l’ho ancora presentata e come me non l’ha fatto alcuno dei miei colleghi». In difficoltà sono anche ingegneri e geometri: la modulistica per i contributi economici esula in realtà dalle loro competenze (c’è chi ha impiegato due giorni solo per la compilazione di un Mude per i privati, 1.500 euro di spesa che si sommano a quelli delle perizie), alle prese con blocchi frequenti dei sistemi informatici o con la stampa su carta di progetti che su video risultano illeggibili anche per i referenti istituzionali. Proprio per aiutare privati e imprese, la Regione ha avviato nel cratere sportelli di supporto e consulenza nella compilazione delle domande.

DILAZIONE FISCALE

La moratoria
Tra le iniziative messe in campo a sostegno della popolazione colpita dal sisma del maggio dello scorso anno, ci sono i 6 miliardi stanziati attraverso la Cassa depositi e prestiti per consentire di posticipare il pagamento delle scadenze fiscale al 30 giugno 2013
LA DOTE
6 miliardi
RICOSTRUZIONE

A fondo perduto
L’altra grande partita avviata dalle istituzioni per il ritorno pieno alla normalità riguarda lo stanziamento di ulteriori 6 miliardi di euro cui attingere per la ricostruzione delle strutture danneggiate dalle scosse del terremoto che hanno colpito soprattutto l’area di Modena e Ferrara
LO STANZIAMENTO
6 miliardi

BUROCRAZIA

Richieste col contagocce
La prima misura, quella dei 6 miliardi per sostenere la dilazione fiscale, ha raccolto per ora solo 750mila euro di richieste. La seconda misura, altri 6 miliardi per la ricostruzione, addirittura nessuna: procedure
ritenute farraginose e complesse che scoraggiano i beneficiari
LE DOMANDE
750 milioni

SPESE DI RIPRISTINO

La quota massima
I provvedimenti relativi alla ricostruzione stabiliscono contributi per il ripristino della struttura fino a un massimo dell’80% delle spese previste, a seconda della scala di gravità dei danni subiti. Ma le imprese fanno notare che per il sisma in Abruzzo si arrivava al 100%
LA COPERTURA
80%

Il Sole 24 Ore 17.01.13

Bersani: «Solo il Pd corre per governare», di Maria Zegarelli

«Non mi piace come è iniziata questa campagna elettorale tra politicismi e cabaret». Pier Luigi Bersani riflette e voce alta mentre sta per recarsi negli studi di Canale 5 per prendere parte a Italia domanda (in onda quando questo giornale è già in stampa). Chiaro il riferimento ai centristi da una parte e Silvio Berlusconi dall’altra. Non ci sta a farsi tirare per la giacca da chi pretende di occupare palazzo Chigi prendendo meno voti e da chi preferisce fare il matador anziché parlare di programmi seri.
«Non ci sto dice a fare campagna elettorale in questo modo, noi del Pd vogliamo parlare al Paese, un Paese dove c’è bisogno di una ricostruzione nazionale». Pensa a Pier Ferdinando Casini, a Antonio Ingroia, a quei «competitor che hanno obiettivi più piccoli, di interdizione» che puntano a sottrarre voti al Pd, o a continuare come il Cavaliere a difendere i propri interessi personali usando le istituzioni. Secondo Bersani il Pd è un’altra la strada che deve seguire in questa campagna elettorale, «perché quello che noi dobbiamo dire agli italiani è che la nostra è l’unica forza politica tanto solida e radicata nel territorio da poter affrontare la ricostruzione. Questa è la responsabilità che abbiamo sulle nostre spalle». Cosa pensa di questo ritorno di Berlusconi? «Ho visto la sua strategia risponde -: sparare una bufala al giorno. Non intendo seguirlo. Io penso alla mia campagna elettorale, inizieremo domani (oggi per chi legge, ndr) e lo faremo cercando di legare il tema della moralità pubblica a quello della democrazia.
Fra 48 ore sarà chiaro a tutti che il nostro è l’unico partito che non ha il nome sul simbolo ed è ora di capire cosa questo significhi».
Per il candidato premier del centrosinistra, i nomi dei candidati che troneggiano sulle liste, sono il sintomo di una «regressione della democrazia», che «noi dobbiamo arrestare e il modo è quello della partecipazione democratica». Per questo annuncia, aprendo la sua campagna elettorale oggi con i giovani a Roma, che chiamerà tutto il popolo delle primarie a diventare protagonista diretto in questa sfida all’ultimo voto. «Bisognerà andare nelle piazze, casa per casa, perché questo è il modo di far partecipare il nostro popolo». Torna sul voto utile. Casini lo ha accusato di «debolezza» per averne parlato? «Non abbiamo paura di nessuno», risponde. Poi, aggiunge: «Non è piaciuto il modo in cui l’ho detto? Lo spiego così: è evidente a tutti che il compito di battere la destra è sulle nostre spalle, dal Piemonte, al Trentino alla Sicilia, in ogni singola Regione del Paese. Noi siamo gli unici che possiamo farlo e per questo dico: dateci il vostro voto».
Anche sulla desistenza di cui parla Leoluca Orlando delle liste Ingroia nelle Regioni dove si gioca il futuro della prossima legislatura (Lombardia, Sicilia e Campania), il segretario fa chiarezza: in quelle realtà è fondamentale non disperdere i voti del centrosinistra e quindi concentrarsi per sconfiggere l’avanzata della destra, il cui obiettivo evidente è quello di creare una maggioranza zoppa. E di questo si stanno occupando Maurizio Migliavacca e Enrico Letta per cercare con l’ex pm, con i quali i contatti sono continui, un punto di incontro almeno in Lombardia (impossibile in Campania dove De Magistris non ha intenzione di fare passi indietro, idem Orlando in Sicilia). Non di patto si tratta, di cui al Nazareno nessuno vuol parlare, quanto piuttosto di una campagna meno martellante sul voto utile a cui Ingroia guarda con grande preoccupazione. Ingroia, poi, starebbe pensando di appoggiare Ambrosoli al Pirellone per cercare di sconfiggere in questo modo Roberto Maroni. Perché per quanto i sondaggi a un mese dal voto lasciano il tempo che trovano al Pd motivi per dormire tranquilli non ce ne sono. Bersani lo sa ma è convinto che stavolta è possibile farcela e farcela bene: «Noi possiamo vincere anche in quelle Regioni che oggi sembrano difficili da conquistare».
Ma se Casini, che non è Kevin Costner, dice «noi balliamo da soli», il leader Pd ribadisce: «Dobbiamo puntare al 51% dei seggi ma ragionare come se avessimo il 49% perché la prossima legislatura avrà bisogno di riforme e misure di natura costituente e ci sarà bisogno di una larga condivisione». Concetto ribadito ieri durante l’incontro con Riccardo Nencini, per firmare un patto di consultazione tra i due partiti nell’ambito del Pse. Nencini si è presentato con un dono: un piccolo busto in bronzo con Garibaldi navigatore, dell’artista Giampaolo Talani. «È di buon augurio per la prossima navigazione nel mare della campagna elettorale e nel più impegnativo oceano di cinque anni di Governo», ha spiegato il leader socialista. Intanto dopo la battuta del segretario Pd su Berlusconi a Ballarò («cosa ha più di me? I capelli mi pare evidente») è partito quello che sarà il tormentone fra i democrat: su twitter è già comparso l’account pelatiXBersani.

L’Unità 17.01.13

"Così è cambiata la spesa degli italiani", di Ettore Livini

Il decreto Salva-Italia? Una passeggiata da Abc dell’economia. Il salvataggio della Grecia? Un lavoretto alla portata di uno studente di ragioneria. Il vero capolavoro finanziario del 2012, roba da Nobel dell’economia, è un altro: la silenziosa finanziaria – valore 50 miliardi – con cui le famiglie tricolori hanno tappato i buchi nei conti di casa, ridisegnando la loro vita in versione “low-cost”.
Le forbici di questo gigantesco fiscal-compact fai-da-te non hanno risparmiato nessuna voce dei bilanci domestici: abbiamo limato le spese per la tavola, mandato in spending review carie e otturazioni, siamo andati a caccia di mini-polizze sul web, di sigarette in saldo e di distributori di benzina no-logo per tagliare i costi del pieno. Risultato: un’austerity autogestita che sta rivoluzionando un euro alla volta i nostri consumi. Ingredienti: venti miliardi di risparmi sulle spese ineludibili (cibo e salute in primis) e di 30 di tagli su quelle rinviabili (tipo l’acquisto di casa o auto).
La necessità aguzza l’ingegno. E davanti a un bilancio familiare gravato nel 2012 da 288 euro di tasse in più a testa, da un aumento del 13% delle bollette e da un calo del 4,4% del potere d’acquisto, gli italiani hanno deciso di mettere a dieta per prima cosa i loro menù. Una voce che da sola (dati Istat) vale il 19% delle uscite annue dei conti domestici. Come hanno fatto? Non eliminando portate o riducendo le porzioni, ma imparando a pagare meno.
A beneficiarne, non a caso, sono stati i tempi laici del risparmio alimentare, quegli hard discount che – negli ultimi anni di vacche grasse – sembravano destinati all’estinzione : gli incassi di Lidl & C. sono cresciuti tra gennaio e ottobre dell’1,6%, un miracolo rispetto al crollo delle vendite degli iper (-6,7%) e dei super (-2,6%). Non solo. Quando giriamo tra gli scaffali abbiamo imparato ad andare a colpo sicuro sui marchi commerciali “low cost”. Spesso uguali in tutto e per tutto ai cugini di marca, salvo che per il prezzo, più basso in media del 18%. Il loro giro d’affari è salito del 5,8% nel 2012 a fronte di consumi alimentari calati in valore dell’1,2%.
La spending review degli italiani – che hanno comprato il 3,6% in più di un piatto “povero” come la pasta e ridotto del 5% gli acquisti di carne – ha costretto le aziende ad adeguarsi a suon di
sconti. Carrefour riduce l’Iva dal 4 al 10% ad anziani e famiglie numerose, Esselunga “regala” 8 euro ogni 40 di scontrino, Euronics ha distribuito buoni per acquisti alimentari da 10 a mille euro a chi compra i suoi elettrodomestici. E in rete impazzano i siti come www.risparmiosuper.it in grado di consigliare in ogni angolo d’Italia dove è il posto più conveniente per fare la spesa.
Gas, auto e casa Mattone, dolore. Ogni tre euro spesi dalle famiglie, quasi uno se ne va per la casa. E la finanziaria low-cost del 2012 ha potuto fare ben poco per risparmiare a questa voce. L’Imu ha fatto decollare del 36,8% le tasse sugli immobili. E per ridurre i danni, l’unica soluzione
è stata non comprarli. In un anno le compravendite sono crollate di 18 miliardi. Chi può, ha fatto economia in altro modo: rispolverando il business degli affitta- camere. Nel 2012 – secondo i dati Immobiliare.it – il numero degli italiani che ha affittato una stanza del suo appartamento è cresciuto del 14%.
Anche sul fronte delle bollette il buio è pesto. E a disposizione delle neo-formiche tricolori è rimasta un’arma sola: le rate. All’Eni è boom di richieste (+48%) per il pagamento scaglionato della bolletta. All’Enel siamo a + 30%. Chi proprio non ce la fa a sbarcare il lunario, ha smesso di pagare quelle del mutuo. Il tasso di sofferenza sui prestiti immobiliari delle banche è cresciuto in un anno dall’1,6% all’1,9%.
Altro capitolo dei nostri bilanci finito nel mirino dell’austerity fai-da-te è quello l’auto. Anche qui il segreto numero uno per risparmiare è chiaro: basta non comprarne una nuova. L’hanno capito in tanti, se è vero che lo scorso anno nel Belpaese si sono venduti 7 miliardi di euro di veicoli in meno. E chi ce l’ha già? No problem. In primis abbiamo imparato a lasciare la macchina più spesso nel box: in dodici mesi gli italiani hanno comprato 3,4 miliardi di litri di carburante in meno per un risparmio potenziale di 6 miliardi. Sacrificio vanificato dall’impennata delle accise (+22% per la verde) che in realtà ha gonfiato di 4 miliardi il caropieno. E’ stato boom invece per gli acquisti di benzina no-logo, meno cara in genere di 6-10 centesimi al litro. I distributori lowcost sono quasi raddoppiati in un anno e oggi sono oltre 2mila.
Salute in saldo
La salute non ha prezzo. Ma davanti all’ennesimo rialzo dei ticket, l’effetto Ryanair ha sfondato anche nel mondo della sanità. «Il business dei poliambulatori e dell’odontoiatria a basso costo ma di qualità è cresciuto del 70% nel 2012», assicura Andrea Cinosi, presidente di Assolowcost. I numeri spiegano da soli il perché. Sistemare una caria o fare un “ponte” nei laboratori associati spuntati come funghi in tutta Italia costa «il 40% in meno dei dentisti tradizionali ». Le visite specialistiche nei tanti ambulatori privati nati lo scorso anno costano il 30% in più di quelle dell’Asl «ma si possono fare subito senza attese, pagando la metà di quanto si spende dal professionista di grido».
Il fenomeno è contagioso. I contrabbandieri di Taranto, colti con le mani del sacco dalla Finanza, hanno inventato il mercato delle “bionde” low cost”: distribuivano nella caselle della posta il loro catalogo (una stecca di sigarette 30 euro invece di 50) e accettavano ordini via Sms per procedere poi alla consegna a domicilio.
In rete è spuntato www.psicologolowcost. com, l’agorà virtuale dove si possono affrontare con uno specialista i contraccolpi mentali della crisi senza sborsare un occhio della testa. E per chi ha paura di non farcela – incrociando tutte le dita del caso – no problem: www.funeralionline.it ha lanciato le esequie a basso costo. Prezzi a partire da 1.400 euro tutto compreso, inclusa la scelta (basta farla prima del decesso) tra tre diversi tipi di legno per il feretro.

La Repubblica 17.01.13

"La Cig a Melfi mette a rischio tutto l'indotto", di Massimo Franchi

Sarà, come dice Marchionne, che la notizia dei due anni di cassa integrazione a Melfi era scontata. Però il giorno dopo i mercati reagiscono allo stesso modo di chi è rimasto sorpreso. E vendono. Il titolo Fiat che è ancora a piazza Affari, in attesa di sapere dove sarà quotata la nuova società nata dalla fusione con Chrysler, ieri ha chiuso a -1,99%, il peggiore fra i titoli industriali. Ad incidere sono arrivati i dati sulle vendite di auto in Europa che per l’ennesimo mese consecutivo vedono la Fiat arrancare. CGIL: SERVE CONFRONTO Ma la preoccupazione per il futuro dell’intero settore auto è fortissima. Ieri anche la Cgil nazionale ha fatto sentire la sua voce nella vicenda di Melfi. «Pur compatibilmente alla necessità di sospendere la produzione per adattare le linee, il fermo comporterà un lunghissimo periodo di inattività e di cassa integrazione per i lavoratori. Tutto ciò avviene in assenza di una chiara esplicitazione del piano industriale e delle intenzioni produttive della Fiat in merito allo stabilimento di Melfi. C’è dunque preoccupazione immediata per il futuro dei lavoratori diretti, ma altrettanta inquietudine la crea la situazione dell’indotto, già oggi pesantemente gravato dalla cassa integrazione straordinaria. Un ulteriore aggravamento delle condizioni di fornitura per l’indotto continua la nota di Corso Italia comporterebbe un inevitabile ricorso a nuova cassa integrazione che, in questo caso, non potrebbe che essere in deroga, con tutti i problemi e le conseguenze che questo comporta». Più volte la confederazione, si ricorda nella nota, «ha chiesto di affrontare questi nodi e di aprire un confronto senza preclusioni sul futuro dello stabilimento lucano e del suo indotto. L’assenza di chiarezza e di confronto conclude la Cgil è la peggiore scelta di politica industriale che l’azienda potrebbe compiere». Si diceva dei dati del mercato continentale. Il mese di dicembre ha visto un calo delle vendite complessive di auto del 16,3% rispetto a un anno prima. Il gruppo Fiat ha fatto peggio, con un meno 17,8%, con la quota di mercato che è scesa al 6,2% rispetto al 6,3% dello stesso mese 2011. Nell’intero 2012 il gruppo torinese ha venduto 779.606 auto, il 16,1% in meno rispetto al 2011. La quota dei 12 mesi è passata al 6,5% contro il 7,1% del 2011. Fiat sarà ormai un’azienda globale come vuole Marchionne. Ma quando si tratta di motivare dati negativi, l’essere una fabbrica del Belpaese torna ancora comodo. E così il comunicato del Lingotto spiega che il calo è dovuto alla «pesante penalizzazione del mercato italiano». Ieri intanto a Torino è andato in scena il terzo incontro della trattativa per il rinnovo del contratto di primo livello per gli 86mila lavoratori del gruppo in Italia. Fim, Uilm, Fismic, Ugl (la Fiom è esclusa in quanto non firmataria del precedente contratto) sono concordi nel chiedere che l’aumento di 4O euro lordi riguardi la retribuzione mensile e non sia legato alla presenza. Si è comunque alla stretta finale e l’impressione è che oggi, o al più tardi domani, arriverà la firma Martedì o giovedì poi arriverà la sentenza del giudice Elena Boghetich di Roma sul ricorso della Fiom contro la procedura di mobilità per i 19 lavoratori a Pomigliano. Come anticipato da l’Unità gli avvocati Fiat ha sostenuto che la procedura non equivale a dei licenziamenti, mentre i legali Fiom hanno ribattuto che anche una procedura di mobilità fa parte della reazione che l’articolo 5 della legge contro la discriminazione vieta.

L’Unità 17.01.13

"Evasione e demagogia", di Massimo Riva

È uno strumento tecnico per rendere più imparziali i controlli sulla fedeltà fiscale dei contribuenti. E invece, sotto la pressione della campagna elettorale, il redditometro è diventato innanzi tutto un test per misurare l’affidabilità della classe di governo. Con risultati disastrosi sul piano di quel minimo di decenza che dovrebbe esserci nel rapsua fra il principe e i sudditi. Ne disconosce la paternità Silvio Berlusconi che pure, insieme a Giulio Tremonti, aveva gettato il primo seme legislativo della contestata creatura. Ma anche chi lo ha appena dato alla luce, Mario Monti, lo rigetta quasi fosse frutto non di una scelta consenziente ma di una violenza subita contro la propria volontà.
Si fa presto a citare le sagge parole di De Gasperi quando diceva che il politico si distingue dallo statista perché l’uno guarda alle elezioni e l’altro al futuro del paese. Alla prova dei fatti (e delle urne) non c’è scampo: la cattiva moneta berlusconiana sta scacciando anche quella sedicente buona spacciata finora dai cosiddetti ‘tecnici’.
Una simile regressione del dibattito politico lascia francamente sbalorditi soprattutto perché – nell’ossessione di lisciare comunque il pelo agli elettori – si rischia di gettare alle ortiche uno strumento che per la dinamica rappresenta un eccellente passo in avanti quanto a correttezza di rapporti fra Erario e contribuenti. In Italia per lunghi decenni l’amministrazione fiscale ha svolto le sue campagne di verifica delle singole posizioni reddituali secondo criteri propri e ignoti al pubblico. E perciò giustamente mal tollerati perché esposti al sospetto di scelte arbitrarie o, peggio ancora, strumentalizzate secondo fini inconfessabili. Piaccia o no, il redditometro opera un taglio netto con questo passato oscuro e poco raccomandabile in una democrazia sana e trasparente. Ai controlli ora si procederà in forza di canoni dichiarati in partenza e fondati su un metodo di riscontro che tutti – a parole – riconoscono come il più ovvio ed efficace per stanare gli evasori: quello della congruità del rapporto fra redditi dichiarati e spese effettuate.
Ed è proprio su questo punto che risulta particolarmente indigesto il voltafaccia di chi ha governato
o governa ora il paese. Non si può coltivare la giusta indignazione degli italiani menando vanto di aver scoperto qualche furbetto che viaggia in Ferrari con un reddito dichiarato di 20mila euro e poi fare repentina marcia indietro di fronte all’esigenza di rendere razionale e sistematica la lotta all’evasione sol perché si temono contraccolpi nelle urne. Questo modo di operare non è serio e comporta un’abdicazione al ruolo essenziale della politica che si sostanzia nel rendere chiari e visibili ai cittadini i fini dell’azione di governo e gli strumenti più consoni a realizzarla.
Naturalmente è possibile ed anzi probabile che gli schemi seguiti nella costruzione del redditometro contengano errori anche tecnici di valutazione che potranno e dovranno essere rivisti in base all’esperienza pratica. Ma il vero e fondamentale errore commesso da chi governa è stato quello di non aver spiegato con precisione le caratteristiche di questa novità e di non aver utilizzato tutti i buoni argomenti a disposizione per chiarire che non si tratta affatto di uno strumento di ‘polizia’ ma, al contrario, di ‘pulizia’ fiscale. Come dimostra il fatto che i controlli in base a questo nuovo sistema riguarderanno non oltre 40mila contribuenti l’anno su una platea di qualche decina di milioni. E quindi serviranno non ad aprire ma a prevenire il sorgere di un contenzioso formale tra il Fisco e il cittadino: sempre che quest’ultimo, ovviamente, abbia i conti in regola e nulla da nascondere.
Insomma, soltanto gli evasori più incalliti hanno giustificato motivo per temere il redditometro. Viceversa, si è lasciato che la demagogia preelettorale prendesse sempre più campo alimentando la paura di chissà quale persecuzione fiscale anche fra coloro che non avrebbero ragione di temere alcunché. Ed ora, anziché combatterla, ci si arrende a questa insana psicosi collettiva in un sonno della ragione che costituisce il peggior epilogo per il governo dei tecnici.

La Repubblica 17.01.13

"La bella Italia che non seduce gli italiani", di Massimo Gramellini

E così, dopo aver visitato la Roma dei Papi e il mondo esoterico di Leonardo, nel nuovo thriller di Dan Brown si passeggia tra le strade di Firenze e le pagine infernali di Dante. Dan Brown non sarà un maestro di stile, ma è un’autorità indiscussa in materia di fatturato. Se ogni volta mette l’Italia sullo sfondo dei suoi polpettoni è perché sa che l’Italia fa vendere in tutto il mondo. Non l’Italia di oggi, naturalmente, mediocre sobborgo d’Occidente come tanti altri. L’Italia del passato: le città d’arte del Rinascimento e l’Antica Roma. Gli unici due momenti della storia in cui siamo stati la locomotiva dell’umanità.

E a questo punto, ossessiva, scatta la solita domanda: perché? Perché, se l’Italia fa vendere, a guadagnarci devono essere sempre gli altri? Perché i miti del passato italiano affascinano gli scrittori e i registi stranieri, ma non i nostri?

Al di là delle letture dantesche di Benigni, che sono un’eccezione magnifica ma non esportabile, perché l’Inferno ispira romanzi a Dan Brown e non a Sandro Veronesi (cito lui in quanto bravo e pure toscano), tantomeno al sottoscritto che al massimo potrebbe narrare le imprese di Pulici e Cavour? Perché i telefilm sui Borgia li fanno gli anglosassoni e non un pronipote di Machiavelli? Perché le gesta del Gladiatore sono state narrate da Ridley Scott e non dall’epico Tornatore? Persino lo scrittore-archeologo Valerio Massimo Manfredi, nonostante qualche incursione sporadica nella romanità, preferisce mettere al centro delle proprie saghe i greci Alessandro e Ulisse. Se la tomba dell’eroe di Russell Crowe, scoperta tre anni fa lungo la Flaminia, si trasformerà in un’attrattiva turistica sarà per merito delle associazioni straniere che stanno raccogliendo i fondi necessari al restauro, nel disinteresse impotente del ministero della Cultura, che in Italia dovrebbe contare quanto quello del petrolio in Arabia Saudita, mentre l’opinione comune lo considera una poltrona di serie B.

Ma questo rifiuto pervicace di dare al mondo l’immagine dell’Italia che piace al mondo non riguarda solo gli artisti e i politici. Investe tutti noi. Un bravo psicanalista ci troverebbe materiale per i suoi studi. Sul lettino si dovrebbe sdraiare una nazione intera che si rifiuta orgogliosamente di essere come la vogliono gli altri e desidera invece con tutte le sue forze conformarsi al modello globale, condannandosi alla marginalità. Per quale ragione il passato che affascina e stimola la curiosità e l’ammirazione di turisti cinesi e best-selleristi americani ci risuona così pigro e indifferente? Perché rifiutiamo di essere il gigantesco museo a cielo aperto, arricchito da ristoranti e negozi a tema, che il mondo vorrebbe che fossimo? Forse è presbiopia esistenziale.

L’antica Roma e il Rinascimento, incanti da esplorare per chi vive al di là dell’Oceano, per noi che ci abitiamo in mezzo si riducono a scenari scontati: le piazze del Bernini sono garage e il Colosseo uno spartitraffico. O è la scuola che, facendone oggetto di studio anziché di svago, ci ha reso noioso ciò che dovrebbe essere glorioso. Ma forse la presbiopia e la scuola c’entrano relativamente: siamo noi che, per una sorta di imbarazzo difficile da spiegare, ci ostiniamo a fuggire dai cliché – sole, ruderi, arte e buona tavola – a cui il mondo vuole inchiodarci per poterci amare e invidiare.

L’Italia capitale universale della bellezza e del piacere è l’unico Paese che può scampare al destino periferico che attende, dopo duemila anni di protagonismo, la stanca Europa. Ma per farlo dovrebbe finalmente accettare di essere la memoria di se stessa. Serve una riconversione psicologica, premessa di quella industriale. Serve un sogno antico e grande, mentre qui si continua a parlare soltanto di spread.

La Stampa 17.01.13