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Giovani disoccupati, è record dal 1992 L’Istat: continuano ad aumentare

Il tasso di disoccupazione giovanile in Italia segna un nuovo record a novembre: si attesta al 37,1%. Si tratta di un record assoluto, ai massimi dal 1992. Lo rileva l’Istat. Tra i 15-24enni le persone in cerca di lavoro sono 641 mila e rappresentano il 10,6% della popolazione in questa fascia d’età. Il tasso di disoccupazione dei 15-24enni, ovvero l’incidenza dei disoccupati sul totale di quelli occupati o in cerca, è pari al 37,1%, in aumento di 0,7 punti percentuali rispetto al mese precedente e di 5,0 punti nel confronto tendenziale.
Il numero di individui inattivi tra i 15 e i 64 anni aumenta dello 0,3% rispetto al mese precedente (+39 mila unità). Il tasso di inattività si attesta al 36,1%, in crescita di 0,1 punti percentuali in termini congiunturali e in diminuzione di 1,2 punti su base annua.

L’esercito dei disoccupati, a novembre, resta invece sostanzialmente stabile su base mensile a quota 2milioni 870mila (-2mila rispetto ad ottobre). Su base annua, la disoccupazione è cresciuta del 21,4%: sono oltre mezzo milione (507mila unità) i disoccupati in più rispetto a novembre 2011. Lo ha comunicato l’Istat, spiegando che la lieve diminuzione della disoccupazione, su base mensile, ha riguardato la sola componente femminile.
Tra novembre 2007 e lo stesso mese del 2012 gli uomini al lavoro sono diminuiti di 746.000 unità passando da 14.126.000 occupati a 13.380.000. È quanto si legge nelle tabelle pubblicate oggi dall’Istat secondo le quali le donne al lavoro sono aumentate di oltre 220.000 unità. Il tasso di occupazione maschile e’ora al 66,3% dal 70,8% del 2007.

L’aumento della disoccupazione e le previsioni negative per il 2013 non sono un fallimento del governo Monti, ha precisato il ministro del Lavoro, Elsa Fornero, intervistata da Radio Capital. «Ci sono forze e tendenze di lungo periodo e noi paghiamo errori di lungo periodo – ha spiegato -. C’è molto nella riforma del lavoro che tende a contrastare la precarietà, soprattutto per giovani e donne, ma si deve dire che il lavoro non si fa a comando ma ricostituendo l’economia e migliorando la formazione».
Dure le reazioni dei sindacati. La Cgil sottolinea che i dati sulla disoccupazione mettono «in evidenza il fallimento delle politiche di solo rigore che hanno alimentato la recessione e le disuguaglianze e colpito prevalentemente le nuove generazioni, che ormai vedono un sostanziale blocco nell’accesso al lavoro». Per la Cisl «l’impatto della crisi e le riforme pensionistiche stanno penalizzando particolarmente l’occupazione giovanile» e «alla luce di questi dati, il lavoro deve essere il primo punto di qualsiasi programma elettorale».

Secondo il segretario confederale della Uil, Guglielmo Loy, «il dato generale è implacabilmente chiaro e quello sulla stagnazione del lavoro giovanile segnala che il disagio occupazionale sta determinando un ulteriore peggioramento delle condizioni economiche e sociali del nostro Paese». Infine il Codacons denuncia che il record della disoccupazione «dipende dalla troppe tasse sulle famiglie» e chiede al nuovo governo di non aumentare l’Iva.

Da lastampa.it

"La popolazione mondiale invecchia sempre più. Nel 2050 due miliardi di anziani", da Redattore Sociale

Nel mondo una persona su nove ha sessant’anni o più, questa percentuale arriverà a una su cinque entro il 2050. In totale oggi sono 810 milioni gli anziani in tutto il mondo e si prevede che il numero arrivi al miliardo in meno di dieci anni e che raddoppi entro il 2050, arrivando a due miliardi. L’invecchiamento della popolazione è un problema che riguarda tutte le regioni e tutti i paesi con vari livelli di sviluppo. La sua progressione è più rapida nei paesi in via di sviluppo, anche tra quelli che hanno un numero elevato di giovani. Attualmente tra i 15 paesi che hanno oltre 10 milioni di anziani, sette sono paesi in via di sviluppo. E la speranza di vita alla nascita è di oltre 80 anni in 33 paesi; cinque anni fa, i paesi che avevano raggiunto questo obiettivo erano solo 19. Lo sottolinea il Rapporto sull’invecchiamento nel XXI secolo del Fondo delle Nazioni Unite per la Popolazione (Unfpa) e l’HelpAge International, presentato oggi a Roma. Il documento,che è il risultato della collaborazione di oltre venti organismi delle Nazioni Unite e altre importanti organizzazioni internazionali impegnate nel settore, analizza la situazione attuale delle persone anziane ed esamina i progressi effettuati nell’adozione di politiche da parte dei governi e altre parti in causa dopo la seconda assemblea mondiale sull’invecchiamento sull’attuazione del Piano di azione internazionale di Madrid sull’invecchiamento, concepito per rispondere alle opportunità e alle sfide di un mondo che invecchia.

Nel 2050 64 paesi avranno oltre il 30% di anziani. Ban Ki Moon: “Conseguenze profonde su società”. “Il rapporto sottolinea che attualmente, solo il Giappone ha una popolazione anziana superiore al 30% del totale, ma si ritiene che entro il 2050, 64 paesi raggiungeranno il Giappone su queste percentuali. Questo cambiamento demografico offre “opportunità ma presenta anche sfide sociali, economiche e culturali. Nella prefazione il segretario Generale delle Nazioni Unite, Ban Ki Moon afferma che “le conseguenze sociali ed economiche di questo fenomeno sono profonde, e vanno ben al di là del singolo anziano e della sua famiglia, dato che coinvolgono la società e la comunità globale come mai prima d’ora”. Il documento sottolinea inoltre che il numero e la percentuale di anziani che aumentano più velocemente di qualsiasi altro gruppo d’età in molti paesi del mondo, “suscitano preoccupazione sulla capacità delle società di far fronte alle sfide associate a questo cambiamento demografico L’invecchiamento della popolazione è uno dei fenomeni più significativi del 21esimo secolo che ha conseguenze importanti e di ampia portata per tutti i settori della società. In tutto il mondo, ogni secondo che passa, ci sono due persone che festeggiano il loro sessantesimo compleanno”.

Nel 2050 l’aspettativa di vita sarà di 83 anni nei paesi sviluppati. Tra le cause dell’invecchiamento i tassi di fertilità in diminuzione e una maggiore durata della vita. L’aspettativa di vita alla nascita è infatti aumentata in modo sostanziale in tutto il mondo: nel lasso di tempo tra il 2010-2015 è di 78 anni nei paesi sviluppati e di 68 nelle regioni in via di sviluppo. Entro il 2045-2050 i neonati avranno un’aspettativa di vita di 83 anni nelle regioni sviluppate e di 74 anni in quelle in via di sviluppo. Ma ci sono differenze sostanziali tra le diverse regioni del mondo. Nel 2012 la percentuale della popolazione africana di 60 anni o più è del 6%, mentre è del 10% in America Latina e nei Caraibi, dell’11% in Asia, del 15% in Oceania, del 19% in America del Nord e 22% in Europa. Si prevede che per il 2050 le stesse percentuali arriveranno al 10% in Africa, 24% in Asia, 24% in Oceania, 25% in America Latina e nei Caraibi, 27% in America del Nord e 34% in Europa.

Le donne sono la maggioranza degli anziani e sono più a rischio discriminazione. Le donne sono la maggioranza degli anziani. Attualmente, per 100 donne sessantenni nel mondo ci sono solo 84 uomini. Per quanto riguarda gli ottantenni invece, si contano solo 61 uomini ogni 100 donne. Il rapporto evidenzia anche che gli uomini e le donne vivono in modo diverso la vecchiaia. I rapporti di genere strutturano tutto il corso della vita, influenzando l’accesso a risorse e opportunità con un impatto che è allo stesso tempo continuo e cumulativo. In molte situazioni, le donne anziane sono più vulnerabili nei confronti delle discriminazioni, hanno minori opportunità di accesso al lavoro e alle cure mediche, maggiore esposizione a maltrattamenti, al non riconoscimento del diritto alla proprietà e all’eredità, alla mancanza di un reddito vitale minimo e di una copertura sociale. Ma gli uomini anziani, soprattutto dopo la pensione, possono a loro volta diventare vulnerabili perché hanno reti di sostegno sociale più deboli e possono essere esposti a raggiri, soprattutto sul piano finanziario. (Redattore Sociale)

"La zattera dei naufraghi", di Pietro Spataro

La verità di nasconde in un dettaglio: ove vincessimo. Sta in queste due parole pronunciate da Berlusconi per annunciare l’accordo con Maroni, il senso di un disperato ritorno al passato. Non c’è bisogno di indicare il candidato premier, spiega il Cavaliere, lo faremo a suo tempo ove vincessimo. È la prima volta che l’uomo che ha marchiato la Seconda Repubblica, che ha usato in modo spregiudicato le proprie capacità mediatiche e che ha guidato la politica con le armi del marketing, ammette prima della partita la propria sconfitta. Quel patto, siglato a notte fonda nelle stanze di Arcore, non ha infatti alcun orizzonte davanti, è privo di qualsiasi strategia, si ferma sulle macerie dell’oggi e dimostra in modo chiaro lo spirito di sopravvivenza che ormai anima i due partiti che hanno governato l’Italia e sono stati travolti dalla crisi più grave. Berlusconi e Maroni si aggrappano l’un l’altro, sulla zattera dei naufraghi, nel tentativo di salvarsi. La Lega temeva di non avere il quorum e il Pdl rischiava di vedere ulteriormente ridotto il suo già esile potere di contrasto come forza di opposizione di un futuro governo di centrosinistra. Alleati per forza, quindi, ma senza alcuna forza.
In questa condizione sapere chi debba essere il candidato premier diventa davvero un fatto irrilevante. Maroni ha ottenuto che non sia Berlusconi. Berlusconi ha lanciato per l’ennesima volta Alfano. Maroni ha rilanciato perfidamente Tremonti. Solo nomi al vento, che non hanno alcuna chance di varcare la soglia di Palazzo Chigi. Uomini votati alla sconfitta in questa pericolante coazione a ripetere. Sarà difficile infatti sia per l’uno che per l’altro riuscire a spiegare ai propri elettori in fuga il senso di un’operazione così confusa e raccogliticcia. Berlusconi, dopo mille giravolte e incapace ostinatamente di farsi da parte per favorire un’evoluzione di tipo europeo del centrodestra, oggi si ritrova a cedere senza colpo ferire la sfida della Lombardia a Maroni che ha già in mano il Veneto e il Piemonte. È costretto a subire comunque l’onta della mancata candidatura a premier.
Sono lontani i giorni in cui il Cavaliere, nelle cene di Arcore con Bossi, dettava ogni scelta, comandava al Pirellone con Formigoni e in Veneto con Galan e forte del suo potere di interdizione finanziaria teneva a bada ogni sussulto, ogni richiesta, ogni ambizione. È la triste parabola di un leader che agli esordi era riuscito a interpretare lo spirito del tempo unendo le spinte degli egoismi sociali e il disprezzo per le regole, l’individualismo sfrenato e una certa rapacità imprenditoriale, il tutto condito da una vocazione presidenzialista di cui il Porcellum è stato il corollario indecente. Tramonta miseramente il grande illusionista della «rivoluzione liberale» che ha buttato per strada ogni elemento moderato per costruire nel tempo una destra ribellista, ideologica e antipolitica. E che oggi torna, tra pulsioni secessioniste e ossessioni anti-europeiste, in questo piccolo patto.
Se il Cavaliere, stretto in un cul de sac, forse non aveva altra scelta, sicuramente per Maroni il rospo da ingoiare è abbastanza più grande e il rischio personale più alto. L’«uomo della ramazza» si gioca in un colpo solo la sua immagine di leghista buono, arrivato a mettere ordine dopo gli scandali di Belsito e quelli che ancora in queste ore terremotano il partito di Roma ladrona. Piegandosi di nuovo a Berlusconi, rischia di frantumare anche i residui di quell’identità leghista che è stata il motore sociale del successo nel Nord. Non a caso la base è in rivolta perché non sopporta la nuova stretta di mano con il padrone di Arcore: sui social network è un fiorire di accuse di tradimento e di sbatter di porte per questa svolta improvvisa. Il sogno dei «barbari sognanti» si infrange, insomma, contro lo scoglio di un neo-berlusconismo senza più potere. Finisce in soffitta il lavoro di ristrutturazione della Lega che Maroni aveva tentato puntando sugli uomini meno compromessi con il vecchio regime, come il sindaco di Verona Tosi. Certo, il leader leghista incassa la candidatura per la Regione Lombardia ma proprio qui si gioca davvero tutto. È assai probabile che, in questa discesa agli inferi, perda sia quella, sia la leadership e quindi la possibilità di recuperare un elettorato ormai diviso tra l’astensionismo e la nuova demagogia anti-casta del grillismo.
Quali effetti avrà questa «alleanza dei perdenti» su un sistema politico in movimento è difficile dirlo. Sicuramente, essendo improbabile qualsiasi suo ruolo attivo nella formazione della nuova maggioranza di governo, porterà in scena una forte aggressività e darà spazio a nuove pulsioni antidemocratiche. Tutto questo, unito alle spinte regressive che guidano Grillo, rischia di condizionare non poco la vita del prossimo Parlamento. Davanti a questo vento populista che aleggia sul Paese e che stando ai sondaggi – tra Pdl, Lega e Cinque Stelle – potrebbe sfiorare il 40%, diventa ancor più incomprensibile la scelta di Mario Monti e del centro moderato, se dovesse tradursi in una vera equidistanza. Il né di qua né di là oggi è del tutto insensato. In certi momenti non è solo utile sapere, agenda alla mano, che fare. Ma soprattutto con chi stare per impedire che l’Italia precipiti nel baratro dell’ingovernabilità.

L’Unità 08.01.13

Signora giudice, ha scritto proprio una brutta storia", di Michela Murgia

Salvatore Parolisi è stato condannato per l’omicidio di Melania Rea? Dipende dai punti di vista. Certo, in un’ottica giuridica la sentenza contro di lui non è nulla di meno che una condanna all’ergastolo, ma le motivazioni che sono state depositate dal giudice Tommasini raccontano piuttosto la storia di un’assoluzione civile.
Raccontano, perché è questo che le motivazioni alle sentenze devono fare, e lo fanno nello stesso modo in cui lo fanno i romanzi, al punto che alcuni romanzieri italiani tengono appositi corsi ai giudici per insegnare loro a scriverle in modo narrativo.

Se dovessimo quindi vederla dal punto di vista letterario, la ricostruzione del caso Rea mostra una trama che lascia interdetti, perché l’omicida vi appare come una figura fragile e deviata, preda di incontrollabili istinti, ma sottomessa e vessata dalla personalità forte di una moglie che lo umiliava di continuo. Melania Rea viene descritta invece come un’Erinni che faceva vivere il marito «in una sorta di sudditanza morale e fisica, già peraltro esistente per il divario economico e culturale ravvisabile tra le rispettive famiglie d’origine».

In che modo venire da famiglie di diversa condizione socio-economica dovrebbe determinare sudditanza morale e addirittura fisica tra due coniugi non è per nulla chiaro, ma il giudice lo racconta come se il rapporto fosse logico. Tutte le ipotesi di premeditazione per odio, avidità e desiderio di vivere senza impedimenti un’altra relazione sono venute a cadere in questa nuova narrazione: quello di Parolisi è un «delitto d’impeto», un altro di quei «delitti passionali» che tante aggravanti fanno cadere nei processi per femminicidio. Di passione, intesa come brama sessuale, nella narrazione del giudice Tommasini ce n’è proprio tanta.

Pure troppa per essere letterariamente credibile, al punto che viene presentato come verosimile un uomo che si eccita alla vista della moglie occupata in funzioni fisiologiche in un prato e vuole accoppiarsi sul posto a dispetto della figlia minore che poco distante dorme in auto. Ma persino il lettore di gialli di serie B riterrebbe fuori luogo che nel 2013 il rifiuto di Melania Rea ad avere rapporti sessuali in una situazione come quella venga raccontato come «l’ennesima umiliazione» inferta al marito e che l’omicidio feroce che ne è derivato sia motivato come reazione istintiva a un’umana passione respinta con sprezzo. Nella narrazione della sentenza del giudice Tommasini Melania Rea non è morta perché Parolisi la odiava, la tradiva e non sopportava che i soldi in casa li avesse lei.

È morta invece perché ha rifiutato di soddisfare le «impellenti esigenze sessuali» di un uomo certamente bugiardo e avido, ma che lei umiliava ripetutamente e che aveva nei suoi confronti un rapporto di «sudditanza fisica e morale». È Melania Rea che è morta, ma nelle motivazioni della sentenza la vittima alla fine è Salvatore Parolisi. Che brutta storia ha scritto, signora giudice.

La Stampa 08.01.13

"L’assessore padano razzista da curva", di Gad Lerner

Non c’è luogo più adatto dello stadio di Busto Arsizio per misurare quant’è sgangherata l’ennesima riedizione del patto elettorale fra il Pdl e la Lega, destinato a sciogliersi già il 25 febbraio prossimo all’indomani del voto. Mentre i milanisti Berlusconi e Maroni lodavano la protesta di Boateng e dei suoi compagni di squadra contro gli ululati della curva, la polizia scopriva che tra quegli energumeni si agitava un assessore comunale della Lega, tale Riccardo Grittini.Grittini è un giovane padano seguace delle teorie xenofobe del suo maestro di pensiero Matteo Salvini. Quello, per intenderci, che nel 2009 proponeva l’apartheid sui vagoni della metropolitana milanese per i non residenti; e che ciò non di meno Maroni ha voluto al fianco come capo della Lega Lombarda. Non stiamo parlando di singole pecore nere, ma di militanti bene inseriti nel movimento, del quale esprimono l’ideologia.
Non sarà certo uno scrupolo di civiltà a frenare il patron del Milan, intento a limitare i danni della sua rovinosa caduta di credibilità morale e politica. Berlusconi ha scommesso sull’analoga difficoltà del suo partner Maroni, alle prese con la passione per i rimborsi spese dei leghisti eletti in Parlamento e nei Consigli regionali. Altro che ramazza verde. Per ripulire la politica loro al Senato preferivano acquistare lavatrici a sbafo; mentre in Lombardia facevano la cresta su tutto, dai banchetti nuziali ai singoli caffè. Figuriamoci se da quelle parti il razzismo possa costituire un discrimine insormontabile solo perché colpisce dei giocatori di colore del Milan, dopo un ventennio in cui hanno considerato redditizio legittimarlo dall’alto del potere, iniettando il veleno dell’odio nella loro base sociale.
Per convincere l’elettorato leghista a turarsi il naso e rivotare la coalizione guidata da Berlusconi, adesso Maroni ricorre a un nuovo esercizio di fantasia: la macroregione del Nord che sorgerebbe grazie alla sua vittoria in Lombardia, anello di congiunzione con il Veneto di Zaia e il Piemonte di Cota. Dopo la secessione e l’indipendenza, dopo la devolution e il federalismo, dopo la Padania e le altre nazionalità posticce, quest’ultima formula magica nordista si presenta per quel che è: una superstizione priva di fondamento storico e culturale per incantare i creduloni, visti gli esiti nefasti delle promesse del passato.
Il fatto che Berlusconi sottoscriva questo accordo rinunciando alla candidatura a premier testimonia solo quanto egli stesso consideri remota l’eventualità di una vittoria. Più modestamente avverte il bisogno di farsi scudo con un congruo numero di corazzieri nel nuovo Parlamento, a tutela della sua immunità giudiziaria e proprietaria. Per conseguire tale obiettivo irrinunciabile non conosce altra strada che il ritorno al forzaleghismo, con la ruota di scorta di La Russa e dei clan meridionali rimastigli fedeli dopo la sconfitta in Sicilia.
Ma il calcolo di asserragliarsi nella ridotta settentrionale, a costo di sottoscrivere una impossibile politica fiscale separatista che lo penalizzerà al Sud, non tiene conto di uno scomodo dato di realtà: è proprio da Milano e dalla Lombardia che ha preso le mosse il fenomeno di rigetto del forzaleghismo. Sono le forze sociali che vent’anni fa aderirono al progetto antipolitico e populista dell’asse Berlusconi-Bossi quelle che oggi vivono più intensamente il disincanto del suo fallimento. Qui è crollato fragorosamente il sistema di interessi economici e il blocco culturale impersonato da Formigoni. Se anche, come pare, il Celeste fosse pronto a rimangiarsi con disinvoltura l’appoggio promesso a Gabriele Albertini, pur di garantirsi un provvidenziale seggio al Senato, è verosimile che gli elettori di Comunione e Liberazione si orientino piuttosto verso la novità Monti. Per loro il forzaleghismo ha perduto la forza attrattiva, insieme allo smalto modernizzatore. Né potranno essere un Alfano o un Tremonti a resuscitarlo.
La rinuncia di Maroni a tentare una partita autonoma su scala nazionale, improvvisando l’anacronistica candidatura di Tremonti a Palazzo Chigi, conferma che il leader della Lega sta giocando disperatamente il tutto per tutto. L’ambizioso segretario veneto Tosi asseconda senza convinzione il sostegno fornito al Berlusconi decadente. Perciò una vittoriosa riscossa civica di Umberto Ambrosoli contro la destra lombarda che si divide fra Maroni e Albertini, avrebbe anche l’effetto di determinare la fine del movimento leghista così come l’abbiamo conosciuto. L’alleanza di malavoglia fra Berlusconi e Maroni reca una data di scadenza ravvicinata, per volontà dei suoi stessi sostenitori.
Sul campo di calcio di Busto Arsizio il sacrosanto scatto d’ira di Boateng ha rivelato come la destra non riesca tuttora a contenere le pulsioni reazionarie che si agitano al suo interno, sebbene le riconosca impresentabili. In una società matura queste manifestazioni d’inciviltà sono per fortuna ridotte a fenomeno minoritario. I capipopolo che per vent’anni le hanno coltivate, promuovendo assessori i teppisti da stadio e gli affaristi, ora si aggrappano l’uno all’altro nella vana speranza di continuare la recita. Altro che macroregione del Nord, il loro futuro si giocherà nei campetti di provincia.

La Repubblica 08.01.13

Cultura: Ghizzoni, con Tremonti motivo in più per temere ritorno del centrodestra

“La cultura italiana da oggi ha un motivo in più per temere il ritorno al governo della coalizione di centrodestra. – lo dichiara la deputata del Pd Manuela Ghizzoni, presidente della Commissione Cultura, Scienza e Istruzione della Camera dei Deputati, commentando l’annuncio di Maroni di candidare Tremonti come Premier. – Se verrà confermata la notizia che il candidato premier della coalizione di centrodestra sarà Giulio Tremonti, gli italiani sapranno che fine farà la cultura nel nostro Paese. – ha commentato Ghizzoni – Secondo l’ex ministro dell’Economia “con la cultura non si mangia”. In Italia, negli anni passati, lui ha contribuito a far sì che neppure si sopravvivesse. Nel resto delle democrazie avanzate, invece, di cultura si vive: nel Regno Unito la cultura genera un Pil di 78 miliardi e riesce a occupare 850mila persone, in Francia produce un Pil di 81 miliardi, mentre in Germania porta il Pil a 69,5 miliardi e recluta oltre un milione di persone. Nel complesso i dati europei sottolineano che i settori culturali contribuiscono al 4,5% del Pil europeo e danno lavoro a 8,5 milioni di persone, fornendo una strategia per la crescita economica.

Se l’accordo tra Maroni e Berlusconi dovesse chiudersi con la candidatura di Tremonti, gli italiani – conclude la presidente Ghizzoni – avrebbero una ulteriore certezza che la coalizione di centrodestra sta cercando di portare il nostro Paese verso l’impoverimento.”

Elezioni: Ghizzoni, risultati "primarie cultura" in agenda PD

“Se non ora, quando sarà il momento giusto per rimettere la cultura nell’agenda politica italiana? – se lo chiede la deputata del Pd Manuela Ghizzoni, presidente della Commissione Cultura, Scienza e Istruzione della Camera dei Deputati, il giorno dell’apertura delle “primarie per la cultura” lanciate dal Fai – L’impegno del Partito Democratico, che ha sempre lavorato e per rilanciare quello che in Italia dovrebbe a pieno titolo essere considerata un’industria culturale e della creatività, è di recepire anche le indicazioni che giungeranno dalle “primarie per la cultura”. Perché non bastano due righe di compiacimento per il nostro patrimonio culturale a rendere accettabili programmi che non prevedono investimenti né in termini economici, né di valorizzazione delle risorse professionali. È inquietante che la strada per la crescita prevista da Monti non contempli la cultura: se veramente vuole continuare a guardare all’Europa dovrebbe acquisirne anche le strategie per lo sviluppo, che prevedono un potenziamento del lavoro nei settori della cultura e delle professioni creative. Dopo anni di governo Berlusconi, in cui la cultura non solo era considerata il fanalino di coda dell’economia, ma era un vero e proprio peso, Monti e il suo ministro competente si sono limitati a cancellarla dalle priorità, proseguendo con la politica dei tagli. È arrivato il momento – conclude Ghizzoni – di mandare al governo chi si è impegnato per far ripartire un comparto strategico del nostro Paese che, con gli adeguati investimenti e la giusta attenzione, può arrivare al 5% del pil nazionale e portare a raddoppiare l’occupazione del settore.”