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"L'antipolitica lascia il segno ma non per tutti", di Stefano Folli

Anche quest’anno il sondaggio di Ipr Marketing sul consenso ai sindaci e ai presidenti di regione insegna qualcosa. Forse più di altre volte perché la crisi economica ha colpito duro gli enti locali, ha messo in discussione antichi equilibri, ha obbligato a riconsiderare numerosi criteri amministrativi. Come se non bastasse, il vento degli scandali ha investito le regioni e ha scoperchiato parecchi tabernacoli. Due amministrazioni sono state travolte, nel Lazio e in Lombardia, una terza (il Molise) dovrà tornare alle urne.

Una classe dirigente territoriale è sotto pressione, come se non più dei politici che agiscono a livello nazionale. E allora ecco le cifre che devono confermare o smentire giudizi e pregiudizi su come vengono ammministrate le nostre città e le nostre regioni. Al solito, la domanda del sondaggio è semplice e diretta: votereste di nuovo questo sindaco e/o questo presidente di regione? Il paragone è con il punteggio realizzato il giorno dell’elezione. Si può restare ai piani alti della graduatoria anche se si è perso qualche punto nel favore della popolazione, ma solo se si era stati eletti con una percentuale rilevante.
Ebbene, cominciando dalle regioni, un’occhiata ai tabelloni ci dice che la crisi di credibilità successiva agli scandali non ha delegittimato né il personale politico né l’istituto in se stesso. È chiaro che la tempesta ha lasciato il segno e l’intero impianto del decentramento regionale andrà rivisto nella prossima legislatura: non già per annichilirlo e ritornare a un brutale centralismo, bensì per renderlo più vicino alcittadino e più in grado di erogare servizi a un costo contenuto, cancellando la vergogna degli sprechi palesi e occulti.

E tuttavia l’istituto regge, così come la fiducia in una buona parte degli eletti. Il sondaggio dice che a metà circa della legislatura regionale otto presidenti godono ancora di una soglia di fiducia che garantirebbe loro la rielezione, se si votasse oggi. Sono i “governatori” di Toscana, Veneto, Emilia Romagna, Marche, Liguria, Basilicata, Umbria, Campania e Puglia. Il consenso maggiore va al toscano Rossi, che mantiene (salvo una lieve limatura) il 59% di gradimento realizzato nel voto del 201o. Al secondo posto c’è un leghista pragmatico come il veneto Zaia, che ottiene il 58% e perde poco rispetto al 60,2 dell’elezione. Chiude questo ventaglio degli otto rieleggibili il pugliese Vendola, che agguanta un utile 50%, incrementando il 48,7 del 2010.
Nel complesso sei presidenti di centrosinistra e due di centrodestra (oltre a Zaia, fra i primi otto c’è il campano Caldoro). Sotto la soglia critica del 50% ci sono Calabria, Friuli V.G., Piemonte, Abruzzo e Sardegna: tutte regioni amministrate dal centrodestra. Nel complesso possiamo dedurne che gli italiani vogliono che le regioni continuino a esistere, purchè sappiano innovarsi e anche correggere i propri gravi errori. Non è più tempo di un federalismo retorico e mal costruito, utile più a consolidare centri di potere antagonisti che a corrispondere alle esigenze dei cittadini. Speriamo che questo pro-memoria, ora che siamo alla vigilia delle elezioni politiche, giunga ad orecchie attente.

Quanto agli amministratori comunali, i risultati sono ovviamente dettati da fatti, persone e circostanze che variano da luogo a luogo. In linea generale si può dire che chi, pur essendo al secondo mandato, riesce a mantenere un livello di consenso alto, merita una particolare menzione. È il caso del primo classificato, il salernitano De Luca, che realizza ben il 72 per cento. Ma non è da meno Flavio Tosi, sindaco di Verona, che al secondo mandato incrementa di un 8,7% (!) il dato del giorno in cui è stato rieletto nel 2012.
Sono cifre rilevanti che testimoniano una verità: viene premiato chi è affezionato alla sua città, chi se ne occupa attraverso un duro lavoro sul territorio. Questa sembra anche la situazione di Giuliano Pisapia, peraltro al suo primo mandato, che a Milano risulta più popolare oggi del giorno in cui i suoi concittadini lo hanno eletto: più 4,9 per cento. Mentre Graziano Delrio, secondo mandato a Reggio Emilia, sale al 54,5 nonostante le fatiche del suo contemporaneo incarico come presidente dell’Anci, l’associazione dei Comuni.

Ci sono anche esempi contrari che acquistano un valore politico che non si può non sottolineare. A Parma, ad esempio, impressiona la caduta di Pizzarotti, il sindaco eletto a sorpresa nel 2012 nella lista di Beppe Grillo. Tante attese, tante promesse di un nuovo modo di governare e oggi meno 7,2 nel consenso dei cittadini. Pizzarotti è ancora al 53%, ma l’impatto con la realtà è stato devastante. E poi c’è il caso di Palazzo Vecchio. Come è noto, uno dei nomi nuovi della politica italiana, il fiorentino Matteo Renzi, si è ritagliato un posto nel cuore dei “media” grazie ai brillanti risultati del duello con Bersani alle primarie del Pd: sconfitto con onore al secondo turno dopo un successo smagliante al primo. Eppure Renzi come sindaco di Firenze è stato retrocesso: dal 59,5% il giorno del voto all’attuale 52. Abbastanza per essere virtualmente rieletto, ma ben 7,5 punti persi per strada.
Come mai? Molti sospettano che le ambizioni nazionali abbiano distratto – a dir poco – Renzi dagli impegni come amministratore comunale. Per lui è un campanello d’allarme da non sottovalutare. Al contrario il romano Alemanno, da tanti considerato sconfitto in partenza se si presenterà di nuovo per il Campidoglio, riesce a conquistare un 50% (meno 3,7) che non è poi male dopo le tragicomiche vicende della nevicata, lo scorso inverno.

Il Sole 24 Ore 07.01.13

"Università, lo spettro della valutazione", di Sabino Cassese

Uno spettro si aggira per l’Italia: lo spettro della valutazione. S’era cominciato bene. Dopo una sperimentazione parziale, nel 2006 era stata costituita l’Anvur. L’Anvur cioè l’Agenzia di valutazione del sistema universitario e della ricerca. Suo scopo era di giudicare i risultati dell’attività svolta dalle università, per distribuire una parte dei finanziamenti ministeriali. Dunque, la valutazione centralizzata si riferiva a strutture, non a persone, riviste o altro, e doveva limitare la discrezionalità del ministero nella distribuzione dei fondi pubblici, per evitare che questi fossero assegnati con metodi sbagliati o clientelari.
Successivamente, con una serie di atti che vanno dal 2009 ad oggi, in parte imputabili al ministero dell’Università, in parte adottati dall’Anvur, ambedue presi da un delirio centralizzatore, la nuova agenzia si è messa a determinare tutt’altre cose, tra cui la scientificità della ricerca e i criteri, parametri e indicatori per la valutazione degli aspiranti commissari e dei candidati, ai fini delle procedure di abilitazione dei futuri insegnanti universitari. L’arma rivolta contro le cattive scelte politiche è stata rovesciata e rivolta dal ministero e dall’Anvur contro il mondo accademico.
Ma anche questi passi potevano condurre a risultati utili, se non se ne fosse fatto un altro, che porterà l’intera macchina della valutazione nel precipizio: è stato attribuito valore legale alla valutazione centralizzata, opera dell’Anvur e degli organismi collegati. L’assegnazione di un valore legale alla valutazione centralizzata consacra giuridicamente classificazioni in ordini gerarchici o categorie di riviste e di persone, fissando rigidamente livelli e giudizi che sono opinabili. Ad esempio, perché è importante una rivista, piuttosto che l’articolo che vi è pubblicato? Perché giudicare una rivista e non le sue singole annate? Vanno classificate anche le riviste straniere, e come? Il lungo silenzio scientifico di uno studioso non potrebbe essere dovuto a una “pausa creativa”?
In secondo luogo, in questo modo, ministero, Anvur e organi collegati, invece di svolgere l’utile funzione di fornire dati e indicatori agli studiosi, ai dipartimenti universitari e alle università stesse, accentra in larga misura la funzione di misurazione, valutazione e selezione, senza peraltro dare garanzie circa la bontà degli esiti della propria attività.
In terzo luogo, così, la valutazione centralizzata subisce una torsione: nata per limitare le scelte del ministero e orientarle alla distribuzione di mezzi finanziari alle università migliori, serve ora, all’opposto, a limitare o guidare la valutazione che le università e le singole comunità scientifiche debbono esprimere per reclutare i futuri insegnanti.
In quarto luogo, la strada della legalizzazione della valutazione centralizzata conduce inesorabilmente al giudice amministrativo. Così, giudice ultimo della valutazione di fisici, medici, psicologi, storici, non sarà l’Anvur, ma il tribunale ammi-nistrativo, al quale si rivolgeranno i molti scontenti. Con la paradossale conclusione che, mentre si predica di abolire il valore legale dei titoli di studio, si conferisce, invece, valore legale alla valutazione.
È naturale che, assunto l’Anvur il ruolo di Minosse all’entrata dell’Inferno, vengano avanzati ora dubbi sulla sua legittimazione, sui criteri di scelta dei suoi componenti, sulla selezione dei membri dei comitati di settore, sulla trasparenza delle sue procedure, sulla bontà dei dati con i quali giudica e manda, sulla completezza delle sue istruttorie, sulla motivazione delle sue decisioni.
Anvur e ministero hanno fatto un grosso errore trasformando la valutazione, che è necessaria come parte del lavoro scientifico, in un esercizio burocratico centralizzato. L’Anvur avrebbe dovuto raccogliere dati e indicatori, ponendoli a disposizione delle comunità scientifiche e dei singoli studiosi, oltre che delle commissioni di selezione del personale universitario. Avrebbe dovuto aiutare, in tal modo, il mondo universitario a fare scelte più attente. Non avrebbe dovuto stabilire scale di merito, dando ad esse valore vincolante e in parte sostituendosi al giudizio detto dei pari, cioè degli studiosi.
Ministero e Anvur potrebbero essere ancora in tempo per rimediare, togliendo ogni valore legale alle valutazioni centralizzate rivolte all’università e alle comunità scientifiche, senza farsi prendere dal desiderio di dare i voti a tutto e a tutti. L’Anvur raccolga i dati e i prodotti delle comunità scientifiche, elabori indicatori, standardizzi, aiuti e agevoli la valutazione da parte di università, commissioni, dipartimenti. Solo così la valutazione, che è utile, ed anzi, necessaria, sarà salva.

La Repubblica 07.01.13

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“Nuova rivoluzione nelle scuole dal 2014 fondi solo alle migliori”, di SALVO INTRAVAIA

Rivoluzione in vista per la scuola italiana sul modello della riforma delle università: gli istituti migliori avranno più soldi. La novità viene dal fondo di Funzionamento, è stata introdotta nella legge di Stabilità varata a Natale e dovrebbe scattare dal 2014. In Italia non esiste però un meccanismo in grado di valutare scientificamente le performance dei singoli istituti. La scuola si prepara all’ennesima rivoluzione: più soldi agli istituti migliori. La novità per il cosiddetto fondo di Funzionamento delle oltre 9mila istituzioni scolastiche italiane dovrebbe scattare dal 2014. Una idea che richiama alla mente lo stesso sistema, lanciato dall’ex ministero dell’Istruzione Mariastella Gelmini, che oggi assegna più risorse alle università italiane più meritevoli. Peccato che in Italia non esista un meccanismo in grado di valutare scientificamente le performance dei singoli istituti. Un fatto che porta i sindacati a bollare questa norma – introdotta nella legge di Stabilità varata lo scorso 24 dicembre, comma 149 dell’articolo 1 – come una cosa “irrealizzabile”.
Il provvedimento è chiaro: “A decorrere dal 2014 i risultati conseguiti dalle singole istituzioni sono presi in considerazione ai fini della distribuzione delle risorse per il funzionamento”. Un ragionamento che non fa una piega. Ma che per Massimo Di Menna, a capo della Uil scuola, «si tratta di una norma scritta in modo approssimativo». «La cosa migliore – spiega – è che il prossimo governo non tenga conto di questa norma scritta con superficialità». La posta in gioco è alta, basta citare i dati di due anni fa quando le scuole ricevettero dal ministero – e dagli enti locali – quasi 2 miliardi e mezzo di euro per le cosiddette spese di Funzionamento didattico e amministrativo. Con queste risorse la scuola riesce a coprire a malapena le spese l’acquisto della cancelleria e del materiale di pulizia, le spese postali e telefoniche e quelle per l’acquisto di libri e riviste scientifiche, dei materiali e la manutenzione degli strumenti da utilizzare nei laboratori. Ma non solo: le spese di funzionamento servono a fare camminare la macchina scolastica. «Non riusciamo a comprendere – confessa Domenico Pantaleo, leader della Flc Cgil – la logica di questa norma e cosa si intenda per “risultati”».
«In Italia – continua – non c’è un sistema di valutazione collaudato. E poi, che senso ha legare le risorse per il funzionamento ad ipotetici risultati
ancora tutti da verificare?». Gli unici dati al momento disponibili per valutare le performance delle scuole sono i risultati dei test Invalsi in Italiano e Matematica sugli alunni della scuola elementare, media e superiore e i dati sui promossi e bocciati.
Ma è fin troppo evidente che le prove standardizzate risentono delle condizioni socio-economico-culturali del contesto: non è la stessa cosa fare scuola a Scampia o al centro di Milano. Per valutare le scuole meritevoli si potrebbe anche ricorrere ai dati sulla dispersione scolastica, appoggiarsi ai risultati dei test internazionali o mettere in piedi un complesso sistema di valutazione ad hoc.
«Un sistema di valutazione serve senz’altro – osserva Di Menna – ma sarebbe serio costruirlo in 4 anni e spendendo quanto si spende in Francia». «E ammesso che si possano verificare gli apprendimenti, qual è la ratio che porta a tagliare le risorse alle scuole con risultati peggiori? Semmai, occorrerebbe assegnare a
queste scuole più risorse».

La Repubblica 07.01.13

"La bellezza ci può salvare", di Francesca Sironi

Il nostro patrimonio artistico in rovina è la risorsa da cui partire per risollevare l’Italia dalla crisi. Ecco la ricetta degli esperti: con opere, palazzi e luoghi su cui investire subito. Parma è tutta in ghingheri. Il 2013 sarà l’anno verdiano, bicentenario della nascita del compositore Giuseppe Verdi. Si preparano concerti, incontri, cocktail colti per gli amanti della musica. Intanto, a Busseto, suo paese natale, rischia di essere messo in vendita Palazzo Orlandi, la casa in cui il maestro visse con l’amante Giuseppina Strepponi. Se non arriveranno dei fondi regionali, i giovani Orlandi non potranno che cedere ad altri l’onerosa eredità. Non sono i soli a dover fare i conti con il peso del passato.

In Italia sono oltre 30 mila i beni culturali censiti, tesori da proteggere e far conoscere ai turisti. Ma raramente la loro tutela viene vista come una priorità: «Mentendo, i governi continuano a dirsi fieri dell’importanza del patrimonio culturale, e intanto lo abbandonano», ricorda Salvatore Settis. L’autore di “Paesaggio Costituzione Cemento” illustra la cornice politica del disastro. Altri sette esperti raccontano a “l’Espresso” i gioielli da salvare e le priorità per il futuro esecutivo. Nonostante l’arte sia una delle risorse nazionali, non c’è un governo che abbia mostrato l’intenzione di tornare a investire: «Non è che investiamo poco, è che disinvestiamo. E’ una peculiarità italiana, sotto la foglia di fico della crisi. Ma Obama ha detto che alla crisi si reagisce aumentando i fondi per la cultura, governi di destra come quelli di Sarkozy e della Merkel li hanno incrementati come una leva contro la crisi. La destra italiana invece ritiene la cultura un lusso inutile: la prova del nove è che il governo “tecnico” ha continuato le politiche di Berlusconi», ricorda l’ex direttore della Normale di Pisa.

In attesa delle elezioni, Settis propone le sue linee guida per un intervento pubblico: «La priorità numero uno è rinsanguare le Soprintendenze con nuove assunzioni, e iniettare risorse economiche nel sistema». Poi ci vuole una strategia: «Per applicare la Costituzione e trovare i fondi serve una grande concertazione fra Stato, Regioni, Comuni e altre istituzioni; fra pubblico e privato. Occorre avere un’idea strategica, e non tappare i buchi ogni volta che crolla un muro di Pompei». Se da una parte non si fa che tagliare, dall’altra aumenta l’interesse degli italiani: «La sensibilità dei governi, con la devastante sequenza dei ministri Bondi-Galan-Ornaghi, è precipitata nel nulla. Cresce invece l’attenzione dei cittadini: sono almeno 30 mila le associazioni sorte a difesa del nostro patrimonio».

Ora, non resta che cambiare. Iniziando dagli spunti che “l’Espresso” ha raccolto in queste pagine. Antiche città diventate discariche, ville del settecento minacciate da nuove fabbriche, biblioteche saccheggiate e monumenti all’asta. Le rovine d’Italia aumentano, sotto gli occhi di tutti. In queste pagine intellettuali, critici, storici dell’arte elencano le priorità, i luoghi da salvare per il loro valore simbolico, storico e culturale. Un viaggio da Nord a Sud che mostra le condizioni precarie del nostro patrimonio e ricorda la grande ricchezza su cui dovremmo investire.

Philippe Daverio
Meglio un inceneritore o una villa del Seicento?
La sua ultima battaglia è nel ravennate, comune di Russi. Un impianto di biogas contro una villa del settecento. Gli interessi di un’azienda e dell’amministrazione comunale contro quelli dei cittadini. In mezzo lui, Philippe Daverio, 63 anni, per buona parte passati tra cantieri, aule universitarie, programmi tv e campagne, come l’ultima, intitolata “Save Italy”. Da Palazzo San Giacomo di Russi, Daverio lancia i suoi strali contro la pratica dei Comuni di usare gli oneri di urbanizzazione come risorsa per la spesa corrente, ovvero di lasciar spazio a nuove costruzioni, nuove fabbriche, pur di coprire i buchi di bilancio. «Ai dirigenti comunali non gliene frega niente dell’arte, hanno bisogno di soldi. E dimenticano che così rovinano la qualità della vita dei loro cittadini». Uno scontro antico: il valore dell’arte contro lo sviluppo industriale, i vincoli dei beni culturali contro la volontà degli imprenditori locali. «Ma sono opposizioni sbagliate! La Baviera è l’area più produttiva d’Europa, eppure è pulita e ben conservata.

D’altra parte è vero che i legacci delle soprintendenze, così come sono, non servono a nulla. Vincoliamo tutto, per poi lasciar crollare anche i monumenti più importanti». Il discorso diventa concreto se si pensa all’Emilia dopo il terremoto: «Sarà il vero dibattito dei prossimi mesi. Bisognerà ricostruire tutti quegli orrendi capannoni o si potrà immaginare uno sviluppo diverso? ». La posizione di Daverio è scomoda per molti, «politically uncorrect» ricorda lui, decisa nel sostenere che agli impianti industriali semivuoti per via della crisi dovremmo opporre la ricchezza del nostro patrimonio artistico. «Ma bisogna decidere come trattarla, questa eredità. Se vederla come un peso o come una risorsa.
La maggior parte delle persone ne canta le lodi ma poi in realtà le sta fra i piedi» dice, riprendendo il discorso di Settis. Per fortuna, forse, qualcosa è cambiato: «Faccio il grillo parlante su questi temi da dieci anni. E ho l’impressione che l’attenzione sia sempre più alta. Prima parlavo nel vuoto, oggi si radunano ovunque nuovi comitati di cittadini, mi chiamano le amministrazioni, discuto con gli urbanisti senza esser più trattato come un pazzo. La crisi si sta dimostrando un’occasione per guardare allo sviluppo da un’altra prospettiva». Ed è con quest’ottica, per cui è meglio un castello che una cava di sabbia (Rivalta), un Bramante che nuove villette (Genazzano) o delle cascine storiche piuttosto che nuove autostrade, che Daverio ha elaborato il suo elenco. Ricordando, «Come quel vecchio signore con la barba, che pensare di tornare indietro è per definizione essere reazionari».

Andrea Carandini
Roma e Pompei, le più maltrattate
Ha la foga di un ribelle, nonostante l’età, Andrea Carandini, uno dei più famosi e amati archeologi italiani, quando parla della situazione dei beni culturali: «E’ un disastro. Come sperano di far funzionare un ministero con 86 milioni di euro per la tutela di tutto il patrimonio italiano? Non è nemmeno la metà di quanto servirebbe alla sola Grande Brera. A questo punto aboliamolo». In che prospettiva dovrebbe lavorare il ministero? «Prevenire costa sempre molto meno che restaurare. Finché ho collaborato con la direzione del dicastero ho cercato di impostare tutto secondo la lezione di Giovanni Urbani: un programma di conservazione dei nostri straordinari beni. Ma ora hanno abolito addirittura i comitati scientifici, importantissimi per i loro consigli tecnici, che costavano in tutto 10 mila euro l’anno. Come si può andare avanti così?».
Che ritorno avrebbe il nostro Paese se investisse nella tutela? «Nuovi posti di lavoro, semplicemente. La cultura è l’unico settore in cui l’Italia non ha da temere la concorrenza globale. E’ da miopi non capire che per il nostro Paese lo sviluppo è possibile solo nel terziario. Oggi arrivano milioni di turisti stranieri, ma sono respinti da un’accoglienza che non è dignitosa» Pensa a Pompei? «Anche, ovviamente, a Pompei. Il nostro biglietto da visita, così maltrattato, ma anche alle altre aree archeologiche, che più di tutti i monumenti soffrono se non c’è manutenzione. La Domus Aurea, Ostia Antica, Villa Adriana. Sono tutte in condizioni drammatiche».
Cosa manca, oggi? «Bisognerebbe avere fondi e funzionari. Avevamo calcolato in 500 milioni di euro l’anno la spesa per mantenere il patrimonio: ne abbiamo un quinto. Ma quella che serve, soprattutto, è una prospettiva. Avete mai sentito il primo ministro Monti parlare di cultura? No. Sembra una parola tabù».

Silvia Ronchey
Cultura bizantina da riscoprire
Alla basilica di Torcello i turisti si mettono in tasca tessere di mosaico come se nulla fosse e se le portano a casa. Le chiese rupestri di Cales, nel casertano, una città che nel terzo secolo avanti Cristo contava 65 mila abitanti ed oggi è invasa dai rifiuti, non hanno più affreschi: sono stati strappati con una motosega. E la casina del Cardinal Bessarione, a Roma, viene prestata ai politici per delle cene galanti mentre i visitatori entrano solo su prenotazione. Tale è la sorte della dimora romana «dell’uomo che ha permesso all’Europa di leggere Omero» e delle altre vestigia dell’impero d’Oriente nel nostro Paese. Parole di Silvia Ronchey, una delle massime esperte di civiltà bizantina. Una cultura che ha lasciato in Italia, soprattutto al Sud, centinaia di tracce. Una presenza importante «e scomoda» racconta la Ronchey: «Censurata dal papato di Roma perché portava idee pericolose, come il rifiuto da parte della Chiesa d’Oriente del potere temporale. E dimenticata quando, all’indomani dell’Unità, si costituirono le discipline di studio. Bisanzio venne cancellata: era un influsso troppo diverso da quella presunta italianità sorgiva che si voleva ritrovare». Oggi però gli studi bizantini stanno vivendo una nuova primavera, anche tra i giovani. «Ormai è largamente riconosciuto l’influsso che gli artisti di Bisanzio ebbero sulla pittura italiana tardo-medioevale, ed è ugualmente condivisa l’idea che se non fosse stato per quei monasteri bizantini dove i codici greci e romani venivano copiati e tramandati, oggi sapremmo molto poco di Omero, Cicerone o Menandro». Una prova della rinnovata passione è proprio l’elenco dei luoghi da salvare. Le segnalazioni infatti arrivano dal gruppo Facebook dell’Associazione Culturale Bisanzio: dopo aver pubblicato la richiesta, la professoressa Ronchey ha ricevuto decine di messaggi. «La cultura bizantina può essere fonte di grande ispirazione. Alcuni temi, come l’importanza del bene pubblico, la tolleranza religiosa, la capacità di contemperare le differenze erano parte del dibattito comune negli undici secoli dell’impero bizantino».

Flavio Caroli
La terra di Leonardo e Sofonisba
Abita a Milano, ha una casa nel cremonese ed è l’autore di una delle storia dell’arte più vendute d’Italia. Facile identikit di Flavio Caroli, strappato per venti minuti alla tournée di presentazione del suo ultimo libro, “Il volto dell’Occidente”. Come ha scelto i cinque monumenti da salvare che propone ai lettori dell’Espresso? «I primi tre per la loro importanza, e gli ultimi due, lo ammetto, perché vi sono molto legato sentimentalmente, essendo vicini a casa mia». Il primo è a Mantova. Sono le opere del Mantegna che, secondo Caroli, «non sono affatto in buono stato» dopo il terremoto della scorsa primavera. Da Mantova al salernitano. «La Certosa di Cava dei Tirreni non è molto conosciuta ma conserva un meraviglioso polittico di Cesare da Sesto, malmesso e poco illuminato. Ed è un peccato per la stessa Badia, un monumento straordinario che è difficile da visitare e per nulla pubblicizzato». Il terzo riferimento è all’arte contemporanea. Di che tutela hanno bisogno opere prodotte pochi anni fa? «La situazione della Villa Panza di Biumo, a Varese, non è certo drammatica. Ma ci tengo a citarla perché le sue collezioni sono molto costose da mantenere. Basti pensare ai neon di Fleming o agli spazi di Maria Nordman ospitati nei rustici». Gli altri due luoghi sono quasi sconosciuti. «Già. Il primo è la Cascina Pozzobonelli, a Milano. Un nome che a pochissimi evoca qualcosa. Eppure si tratta di un reperto di architettura bramantesca che ho sempre trovato bellissimo, ed è stato rovinato dalle enormi costruzioni che lo hanno inglobato. Ormai è praticamente impossibile vedere il porticato: uno scempio». L’ultima segnalazione sarà per molti una vera scoperta. «Ho voluto parlare della chiesetta di Caruberto, vicino a San Martino del Lago, a Cremona, perché ha dei deliziosi affreschi tardogotici. Presi casa qui perché sapevo che queste terre erano di Ruberto Ponzone, nonno della pittrice Sofonisba Anguissola, vissuta a cavallo fra il ‘500 e il ‘600». Non è solo per Sofonisba che ha scelto Cremona come luogo d’elezione. «No infatti: la chiesetta dista poco più di un chilometro dal castello in cui viveva Cecilia Gallerani, la Dama con l’Ermellino. Qui il dipinto di Leonardo rimase a lungo custodito». Storie che intrecciano passato e presente. Ad indicare che non sono solo i monumenti che conosciamo a dover essere tutelati. Ma anche tutti quelli che potremmo ancora riscoprire.

Paolo Coen
Quanto contano i volontari dell’arte
Paolo Coen è un docente di Storia dell’Arte dell’Università della Calabria e un blogger molto seguito dai giovani in Rete. A loro pensa quando parla del campo di concentramento di Tarsia, in provincia di Cosenza, un relitto dimenticato del nostro recente passato. «Io ci porto sempre i miei studenti. Trovo incredibile che questo luogo sia così poco conosciuto», racconta: «Durante la guerra vennero internate qui 2.800 persone. Dopo il ’45 la terra intorno alle baracche è diventata un pascolo e in mezzo ci hanno fatto passare la Salerno-Reggio Calabria». Oggi l’area è stata recintata ed aperta al pubblico grazie a un gruppo di volontari. «Ed è sempre grazie ai volontari, insieme ai custodi, che è tenuto aperto Palazzo Carignano a Torino, che non è solo il luogo di nascita di Vittorio Emanuele II e del parlamento subalpino, ma anche uno splendido esempio dell’arte architettonica di Guarino Guarini». Ville, palazzi. In Italia ce ne sono talmente tanti che alcuni, come la dimora Bellavista di Buggiano, fra Lucca e Pistoia, potrebbe diventare a breve un casinò, perché «i vigili del fuoco, che sono i proprietari, non sanno che farsene». Il suo appello si rivolge poi a Napoli, perché si prenda cura delle sue chiese «che sembrano cadute in abbandono» come succede a San Giovanni a Carbonara «che contiene straordinarie sculture rinascimentali». E torna, infine, alla Calabria, che si è aggiudicata i Bronzi di Riace ma ancora non riesce ad esporli come si deve: «Diciamolo, una volta per tutte. L’operazione dei Bronzi è fallita». Ora lo Stato ha investito altri 14 milioni per rifare il museo. «Ma per vederli chissà quanto dovremo ancora aspettare».

Ilaria Borletti Buitoni
Scavi, regge, cittadelle. Il cuore del Fai
La sede milanese del Fondo Ambientale Italiano è impressionante. Non solo per la bellezza degli spazi, ma anche per il numero di persone, e di giovani, che si incontrano nei corridoi. Al primo piano, seduta al fianco di una borsa carica di appunti di viaggio, c’è la presidente, Ilaria Borletti Buitoni, appena tornata da una serie di visite in Campania. «Sono stata a Pompei e l’ho trovata in condizioni pessime. La metto in cima alla mia lista dei luoghi da salvare. Quella di Pompei è una situazione vergognosa: sembra un cantiere, non un’area archeologica. Quasi tutte le domus sono chiuse, le vie attraversate da cani randagi, i bagni tenuti in modo orrendo. Mi vergognavo di fronte alle frotte di turisti stranieri. In Campania ci sono molte mete che andrebbero valorizzate, la Regione dovrebbe investire per fare conoscere il suo patrimonio diffuso: l’idea del grande circuito archeologico mi sembra l’unica che possa funzionare». La sua terza scelta è per la Reggia di Carditello. «Un vero scandalo. Sono stati spesi milioni per un restauro di cui non è rimasto niente: hanno rubato tutto. Ci sono dei volontari coraggiosi che la tengono aperta e pulita ma non c’è scampo. Penso sia un luogo simbolico: soldi pubblici buttati ed oggi la reggia è in vendita. Il curatore si è rifiutato di scendere sotto i 10 milioni di euro nonostante le prime due aste siano andate deserte». Ma i cittadini che ne pensano? «Sono arrabbiati. La campagna del Fai per “I Luoghi del Cuore” ha ricevuto oltre 500 mila segnalazioni. Gli italiani hanno un attaccamento incredibile ai monumenti delle loro città. La degradazione di questi beni non è solo un danno al Paese; è anche una sfida persa per far vivere meglio i cittadini».

Luciano Canfora
Biblioteche storiche allo sbando
Lo scandalo è scoppiato in maggio a Napoli, quando si è scoperto che per mesi il direttore della biblioteca dei Girolamini aveva sottratto migliaia di volumi per venderli sul mercato nero. Notte dopo notte, Marino Massimo De Caro e sette complici sono passati sotto le telecamere della videosorveglianza con carrelli pieni di libri antichi dal valore inestimabile. Secondo la procura ne avrebbero rubati 3500. «Ladrocini che dimostrano come la biblioteca fosse allo sbando», commenta il filologo e storico antico Luciano Canfora: «E la Girolamini non è la sola. Sono decine in Italia le biblioteche storiche che andrebbero salvaguardate e controllate». Le biblioteche storiche non sono le sole a soffrire: «Abbiamo un’altra preziosa risorsa del tutto dimenticata: le biblioteche dei grandi licei, le più sacrificate con i tagli alla scuola». Bibliotecari assenti, volumi accatastati, nessuna cura: «Al Liceo Dante di Firenze, ad esempio, la collezione è ricchissima, ma non ha spazio». Come non lo hanno gli studenti, pronti ad invadere anche la biblioteca nazionale di Napoli: «Ingaggiai un’aspra polemica col direttore dell’istituto, perché trovo del tutto sbagliato che ragazzi con bottigliette d’acqua e fotocopie stiano fra tesori unici del ‘500 e del ‘600. Mi rispose che gli studenti hanno diritto a studiare. Certo, ma da un’altra parte, ribatto io». Spesso a mettere a rischio i libri bastano gli “Orari a battaglia navale”, come li definisce il filologo, o i trasferimenti coatti in spazi inaccessibili, come è successo alla biblioteca di Bari: «Un tempo era malmessa nel palazzo dell’Università ma oggi è completamente isolata nella cittadella della cultura, così mal collegata con i mezzi pubblici al centro che ormai non ci va più nessuno. Le sale sono vuote. Ed è ovvio che così si arriverà a una decadenza progressiva».

L’Espresso 04.01.13

"Bersani in testa. E le classi sociali esistono ancora", di Carlo Buttaroni

Dopo la presentazione del simbolo e l’ufficialità della «lista Monti», i sondaggi realizzati da Tecné per Sky Tg24 registrano una crescita dei consensi per il premier uscente. Se l’aumento sia determinato prevalentemente dall’annuncio oppure abbia un carattere «strutturale», si vedrà nei prossimi giorni. Allo stato, tuttavia, quasi 26 punti separano la coalizione di Monti da quella di Bersani e 11 la dividono da quella guidata da Berlusconi. Distanze molto ampie. E forse anche per questo, Pier Ferdinando Casini e il premier uscente hanno dichiarato che destra e sinistra sono categorie politiche superate, cercando di rovesciare i termini di un confronto che, lasciato sul piano bipolare tradizionale, confinerebbe l’area di «centro» in uno spazio politico ristretto.
Ma le posizioni di Casini e Monti derivano da una scelta di strategia elettorale, oppure destra e sinistra sono veramente concetti superati? Per quasi cinquant’anni le vicende politiche dell’Italia hanno posto uno di fronte l’altro Dc e Pci, interpreti di visioni e interpretazioni diverse della società e dei suoi bisogni. Negli ultimi vent’anni il confronto è stato tra il centrosinistra a trazione ulivista-Pd e il centrodestra interpretato da Silvio Berlusconi. Un bipolarismo sicuramente diverso da quello che lo aveva preceduto, ma che faceva comunque riferimento ad agende politiche alternative e a una diversa gerarchia delle priorità sociali ed economiche. Per i cittadini gli uni erano la sinistra, gli altri la destra. Sono categorie politiche che provengono dal Novecento ma che tuttora conservano una loro forza.
Per la grande maggioranza delle persone destra e sinistra hanno ancora un significato che esprime differenze che hanno a che fare con la visione dei diritti e dei doveri, con la concezione del futuro, con una certa idea della storia e delle tradizioni, con la gerarchia dei valori e dei bisogni. Norberto Bobbio, in uno dei suoi più celebri saggi, scriveva che di fronte all’idea di eguaglianza, destra e sinistra operano su piani diversi. Non è di sinistra solo chi sostiene il principio che tutti gli uomini devono essere uguali, ma anche coloro che, pur riconoscendo le diversità, ritengono più importante ciò che li accomuna. Al contrario, gli inegualitari sono coloro che ritengono più importante, per attuare una buona convivenza, promuovere le diversità.
Le differenze tra destra e sinistra, naturalmente, non si esauriscono intorno al concetto di eguaglianza, ma si ritrovano anche in altri significati. Per esempio nell’idea di «luogo» e di «tempo». Come ci ricorda Marcello Veneziani, infatti, l’uomo di destra si considera prevalentemente «figlio di un luogo» segno di continuità, di trasmissione di principi superiori al mutamento; l’uomo di sinistra, invece, si considera «figlio di un tempo», protagonista di un’epoca e di una generazione. E mentre il primo coltiva l’idea di «governo del luogo e della tradizione», il secondo promuove il «governo del tempo» e delle sue trasformazioni.
Nell’opinione pubblica, destra e sinistra conservano il senso di un’identità collettiva. Forse proprio per ridurre questa forza evocatrice che allo stesso tempo è sociale e politica i leader centristi contestano il concetto di «destra e sinistra». L’idea non è nuova e si accompagna a quella retorica che si esercita periodicamente a celebrare il declino delle «classi sociali», ritenendole inadeguate a cogliere l’essenza delle trasformazioni che attraversano le società globalizzate.
Ad alimentare il mito della fine delle «classi» certamente hanno contribuito le trasformazioni che hanno riguardato la struttura economica e sociale, con la vorticosa terziarizzazione dell’occupazione, che ha segnato il declino dei settori industriali con più alta occupazione operaia. Si pensi alla siderurgia, alla cantieristica navale, ai porti, alle miniere, al settore auto. Ma se c’è necessità di una nuova griglia interpretativa, capace di cogliere i paradigmi della nuova società, i suoi nuovi perimetri e le sue nuove istanze, questo non significa che non esistano più le classi sociali, né che non ci siano più politiche di destra e politiche di sinistra. D’altronde, le «classi» non descrivono solo una posizione gerarchica riferita all’occupazione e al reddito, non sono semplicemente un oggetto o un’unità di misura, bensì rappresentano un sistema complesso di relazioni, in grado di esprimersi anche (ma non solo) sul terreno del comportamento di voto.
Come molti studi, a livello internazionale, hanno recentemente dimostrato, la collocazione sociale continua a essere centrale nell’interpretazione degli orientamenti politici, tanto che la «scelta di classe» non si orienta solo su un partito ma ruota anche (soprattutto) intorno all’opzione della partecipazione elettorale vera e propria.
Un esempio, in questo senso, è rappresentato proprio dall’Italia. Nel nostro Paese la partecipazione al voto è stata sempre alta, ma negli ultimi vent’anni la quota di voti inespressi è cresciuta in maniera costante e la composizione sociale dell’astensionismo si è andata sempre più caratterizzando da cittadini con bassa scolarizzazione e relativa marginalità nel mercato del lavoro.
Il ruolo delle «classi sociali», anche se mutato rispetto al passato, quindi, non è scomparso né attenuato. Al contrario, di fronte all’incalzare della crisi sociale ed economica, si sta riproponendo con forza come perimetro delle domande che emergono dalla società. Domande rispetto alle quali la politica è chiamata a dare le sue risposte.
Più di quanto sia stato in anni recenti, «destra e sinistra» sono coordinate che collocano, su un piano o sull’altro, un certo tipo di problema e un certo tipo di risposta, che corrispondono a scale di priorità diverse. Sotto questo punto di vista la distanza tra Bersani e Monti è più ampia di quanto appaia a prima vista. Perché Bersani è riferimento di figure sociali che si esprimono anche attraverso il voto, come dimostrano i dati dell’indagine Tecné per Sky Tg24. E la stessa cosa vale per Berlusconi, Grillo, Ingroia. E per lo stesso Monti. Nel momento in cui, a gruppi sociali diversi (come i lavoratori dipendenti o i disoccupati) corrisponde un comportamento politico diverso, più orientato a destra o, al contrario a sinistra, come si può dire che destra e sinistra sono categorie superate?
Sicuramente non lo sono per gli elettori. Semmai uno dei problemi del nostro sistema politico riguarda proprio la progressiva attenuazione delle differenze, che c’è stata negli ultimi anni, che ha reso i partiti troppo simili tra loro. E, quindi, indistinguibili. Oggi, la sfida è anche quella di far tornare la politica a essere agenzia di senso. E per fare questo la presunta equidistanza o il superamento dei termini «destra e sinistra», non aiuta a comprendere e a scegliere.

L’Unità 07.01.13

"Il Nordest scommette sulle donne", di Franca Barbieri

La palma d’oro va al Trentino-Alto Adige. A seguire, sul podio, Friuli-Venezia Giulia e Marche. Il potenziale femminile trova valore sulla “via d’Oriente”. Regioni in cui le donne lavorano di più e realizzano il giusto mix tra famiglia e ufficio: a Trento e Bolzano, per esempio, il 39% delle lavoratrici è part-time e per gli uomini non è tabù stare in congedo per accudire un figlio. Capacità in larga parte inespresse, invece, al Sud: la Campania evidenzia le maggiori criticità, a causa degli scarsi aiuti alle madri (solo il 2,7% dei bambini entra all’asilo), che affossano l’occupazione rosa al 27 per cento.
A tracciare la cartina dell’Italia del potenziale femminile è il centro studi Red-Sintesi, che ha messo sotto la lente 4 aree tematiche – mercato del lavoro, benessere economico, istruzione, politiche di conciliazione – miscelando una ventina di indicatori, dal tasso di occupazione alla percentuale di laureate, fino all’indice di povertà economica.
Il risultato rispecchia in maniera evidente la frattura Nord-Sud: nel ranking finale, dove le Regioni sono riposizionate rispetto al valore Italia pari a 100, la prima area del Mezzogiorno, l’Abruzzo, è ottava, seguita dal Molise, mentre le altre sono sul fondo della classifica (tra la Sardegna, 15esima, e la Campania, ultima, si collocano Basilicata, Puglia, Calabria e Sicilia).
Mentre è sulla rotta orientale che le donne trovano migliori punteggi, soprattutto negli indicatori legati al benessere economico: Marche, Emilia-Romagna e Veneto scalano la classifica grazie a redditi elevati, una buona propensione al risparmio e un basso numero di donne povere.
Spostando poi il focus sui singoli indicatori esaminati da Red-Sintesi, ci sono alcune aree in cui il Sud fa eccezione rispetto al trend generale: è il caso dell’accesso a professioni a elevata specializzazione, dove nelle prime posizioni si trovano Campania, Sicilia, Molise e Calabria. «Questo perché – dice Catia Ventura, ricercatrice di Red-Sintesi – mentre nel Nord si ha una maggiore partecipazione femminile a tutti i livelli, nel Sud le donne subiscono una forte selezione, che porta solo le più istruite ad avere reali possibilità d’inserimento».
Certe zone del Mezzogiorno si riscattano anche sul fronte istruzione: grazie a elevate percentuali di iscritte alla scuola superiore, a tassi di abbandono modesti e a un buon coinvolgimento delle disoccupate nei corsi di formazione, le migliori performance arrivano da Abruzzo, Molise e Basilicata.
A contendere, infine, il primato di buona conciliazione tra lavoro e famiglia al Trentino-Alto Adige, troviamo a sorpresa la Sardegna. In questa Regione la quota di lavoratrici part-time è allineata alla media nazionale (intorno al 31%), ma le altre variabili vanno decisamente meglio. Il 17% dei congedi parentali dei dipendenti riguarda i papà (rispetto al 10,8%) e solo il 10% delle donne non attive per motivi di cura dichiara di non cercare lavoro per mancanza di servizi.
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Nota metodologica: L’indice finale è dato da una media pesata di ogni area, il tutto riproporzionato rispetto
al valore Italia posto pari a 100. 4 aree tematiche: mercato del lavoro, peso 0,26; benessere economico, peso 0,27; Istruzione, peso 0,23; Conciliazione famiglia/lavoro, peso 0,24. È stato utilizzato un metodo multicriterio basato sulla costruzione di una funzione di utilità per ogni variabile, attribuendo punteggio 0 alla regione con il valore peggiore e 1 alla regione con il valore migliore. Il resto della funzione è stato costruito attraverso una funzioni di regressione.
I RECORD
61,5%
Occupazione record in Emilia
L’Emilia Romagna è la regione che registra il più alto tasso di occupazione femminile: 61,5% rispetto a una media nazionale del 47,1 per cento
15,3%
Poche Neet in Trentino Alto Adige
Le giovani donne tra i 15 e i 29 anni, che non studiano, non hanno un impiego né cercano un’occupazione sono il 25% a livello nazionale, percentuale che scende al 15,3% in Trentino Alto Adige
29,9%
Imprenditrici in Molise
Il più alto livello di imprenditorialità femminile si registra nel Molise, dove il rapporto tra imprese “rosa” e il totale delle aziende sfiora il 30% (23,5% la media nazionale)
40,8%
Alti profili in Campania
Il peso delle occupate in ambito di imprenditoria, alta dirigenza, professioni intellettuali, scientifiche e tecniche sulle occupate totali è a livelli record
in Campania
31,8%
Capofamiglia donne nelle Marche
Il rapporto tra risparmi e reddito familiare dei nuclei con capofamiglia donna è più alto nelle Marche: 30,8% rispetto a una media Italia del 20,1%
0,9%
Indice di povertà in Valle d’Aosta
È sotto l’1% la percentuale di donne al di sotto della soglia di povertà in Valle d’Aosta, si tratta del valore più basso in Italia, mentre all’opposto si trovano Basilicata e Campania (oltre il 35 per cento)
31,9%
Laureate record nel Lazio
Le donne tra i 30 e i 34 anni con titolo di studio universitario sono al top nel Lazio (31,9%), rispetto al 24,2% dell’Italia; la percentuale più bassa si registra in Campania (14,6 per cento)
26,8%
Congedi ai papà in Sicilia
Utilizzo record dei congedi parentali da parte dei lavoratori padri in Sicilia, dove la percentuale di beneficiari maschi è oltre un quarto del totale. La media italiana è al 10,8 per cento
Nuove regole al debutto
CONGEDI A ORE
Da inizio anno i congedi parentali – che spettano a tutti i dipendenti del settore pubblico e privato, che siano genitori naturali, adottivi o affidatari per un periodo massimo di 10 mesi tra i due genitori – potranno essere utilizzati ad ore. È necessario, però, che i contratti collettivi nazionali di lavoro stabiliscano la regolamentazione e i criteri di calcolo della base oraria. Nella comunicazione che il lavoratore deve inoltrare al datore di lavoro almeno 15 giorni prima dell’astensione, vanno indicati l’inizio e la fine del congedo.
Per il congedo parentale spetta al genitore che ne fa richiesta il 30% della retribuzione percepita. Il congedo può essere chieso fino ai 3 anni del bambino.
VOUCHER BABY SITTER
La Riforma del lavoro ha introdotto, in via sperimenta per quest’anno, il 2014 e il 2015, la possibilità di concedere alla madre lavoratrice – al termine del congedo obbligatorio, per gli 11 mesi successivi e in alternativa al congedo parentale – voucher per l’acquisto di servizi di baby sitting. L’importo è di 300 euro al mese, per un periodo massimo di 6 mesi. Il contributo, secondo quanto fissato dal decreto interministeriale Lavoro/Economia firmato il 22 dicembre, sarà erogato attraverso il sistema dei buoni lavoro, mentre in caso di fruizione della rete pubblica dei servizi per l’infanzia o dei servizi accreditati sarà pagata direttamente la struttura precelta. Le richieste vanno presentate online, in un click day fissato dall’Inps, con risorse assegnate in base all’Isee
Le norme per favorire la conciliazione famiglia-lavoro in vigore dal 2013
CONGEDO AI PAPÀ
Per il padre lavoratore previsto un giorno obbligatorio di permesso entro cinque mesi dalla nascita del figlio. Altri due giorni facoltativi possono essere richiesti nel periodo di astensione obbligatoria della madre lavoratrice. Questi congedi non possono essere fruiti a ore. Al padre spetta il 100% del salario. Il lavoratore è obbligato a comunicare almeno 15 giorni prima al datore di lavoro quali saranno i giorni di astensione.La misura ha carattere sperimentale per il triennio 2013-2015. Le nuove regole di sostegno alla genitorialità (congedo ai padri e voucher baby sitter) sono rese operative dal decreto interministeriale firmato il 22 dicembre scorso nei limiti delle risorse stanziate dalla legge, pari a 78 milioni l’anno.
PERMESSI PER MALATTIA
È stata semplificata la gestione operativa dei certificati medici per l’assenza del lavoratore a causa della malattia del figlio (Dl 179/12), che dovrà essere inviata per via telematica all’Inps direttamente dal medico del Servizio sanitario nazionale che ha in cura il figlio, per poi essere inviata ai datori di lavoro e all’indirizzo di posta elettronica del lavoratore o della lavoratrice che ne facciano richiesta (per la piena operativi atteso un Dpcm entro il 30 giugno 2013). I congedi per la malattia del bambino spettano alla madre o, in alternativa, al padre nei primi tre anni di vita del bambino senza limiti di tempo. Si possono, invece, chiedere solo 5 giorni lavorativi l’anno, per ciascun genitore, se il bambino ha tra 4 e 8 anni.
Il Sole 24 Ore 07.01.13

"La fabbrica del bene tra carità e diritti", di Adriano Sofri

La crisi moltiplica i circoli viziosi, fino a quando non si trovi il modo di spezzarli. In uno, l’impoverimento rende sempre più preziose le attività solidali (“di mutuo soccorso”, ha scritto Gad Lerner) cui però mancano sempre più le risorse materiali e umane. Nessuno saprebbe tenere un vero conto di come una società di tagli e gratta e vinci vada avanti attraverso la solidarietà, famigliare prima di tutto, e poi di vicini, volontari, associazioni. Quanto ai conti internazionali più autorevoli sulla filantropia, paiono anch’essi azzardati, misurando denaro e comportamenti, entità di donazioni, tempo dedicato alla buona volontà, cura dello straniero. Un’accreditata classifica sulla beneficenza è redatta dalla britannica
Charities Aid Foundation.
Alla vigilia di Natale veniva citata con enfasi la caduta dell’Italia dal 29° posto del 2010 al 104° del 2011. Una degradazione troppo forte, anche considerando l’incidenza della solidarietà col terremoto in Abruzzo. Ora il consuntivo del 2012 ha riportato l’Italia al 57° posto. A parte lo sconcerto per gli alti e bassi, teniamo un posto assai mediocre fra i paesi “avanzati”. Si annuncia dunque come una novità importante per l’Italia la formazione alla “filantropia strategica”, “beneficenza scientifica”. Si è tentati di sorridere dell’annessione della carità a scienza e strategia, o sentirci odore d’affari, come si irrideva alle brave dame (“pour faire une bonne dame patronnesse, il faut être bonne, mais sans faiblesse…”).
La carità, spiegano gli esperti, è altra cosa dalla filantropia: se non fraintendo, è la famosa differenza fra dare un pesce all’affamato, o insegnargli a pescare. Di più: il passaggio della filantropia dalla spontaneità alla scienza vuole insegnare ai sazi a insegnare a pescare. Ci si potrà vedere un passo verso il superamento del divario enorme fra l’Italia — e l’Europa in genere — e gli Stati Uniti, dove la combinazione fra individuo e comunità produce un ingente investimento nella beneficenza in senso lato. Le donazioni restano una vocazione eminentemente americana e, ai nostri occhi, mirabolante. Nel novembre del 2011 i signori Dorothy e Robert King hanno donato 150 milioni di dollari all’università di Stanford, di cui lui è ex alunno, per un programma destinato ad alleviare la povertà nei paesi in via di sviluppo. Nell’ottobre 2012 il finanziere John Paulson (hedge fund ecc.) ha donato 100 milioni di dollari all’organizzazione no-profit che cura la manutenzione del Central Park. Decine di personaggi fra i più ricchi del mondo — ma tutti americani — hanno aderito all’impegno promosso da Bill Gates e Warren Buffett a devolvere almeno il 50 per cento della propria ricchezza a scopi di filantropia. Compreso il giovane Zuckerberg, che intanto ha dato 100 milioni alle scuole di Newark da cui proviene. La vecchia Europa “socialista” può contrapporre una propria idea di “redistribuzione” della ricchezza sociale alla “restituzione” cui si ispira la filantropia americana, affidandosi la prima all’equità del governo, la seconda alla benevolenza dei privati. I risultati però non ci danno ragione, in particolare nella pratica delle successioni ereditarie. Una differenza più particolare riguarda l’Italia, o la Spagna. La nostra carità ha un’impronta più cattolica e castigata, controriformata. La beneficenza è stata essenzialmente affare della Chiesa, cui lo Stato la delegava volentieri, per convenienza e per servilismo. Diversa è anche la gratificazione del riconoscimento pubblico. Da noi la discrezione, così spesso ipocrita, sta a metà fra modestia evangelica (non sappia la tua mano destra, fa’ il bene e scordalo ecc.) e vergogna di essere ricchi; e la vergogna oscilla anche lei fra l’altruismo e l’imbarazzo sull’origine della ricchezza. Alla discrezione di precetto lo Stato aderisce con entusiasmo, astenendosi dal tassare solo una piccola percentuale della ricchezza devoluta in beneficenza dai singoli. C’è il luogo comune del differente trattamento fiscale della beneficenza. Ne leggo una smentita drastica nel libro di Francesco Antinucci, “Cosa pensano gli americani” (Laterza 2012): “Consiglio la lettura dell’opuscolo dell’Agenzia delle Entrate, sulle Erogazioni liberali… Ci sono differenze tra Italia e Stati Uniti, ma sostanzialmente i due trattamenti si equivalgono. Anzi, in alcuni casi, quello italiano è addirittura più vantaggioso per il donatore. Per esempio, l’importantissima classe di donazioni alle università e agli enti di ricerca scientifica, in Italia è deducibile dal reddito senza alcuna limitazione, mentre negli Stati Uniti è soggetta alla soglia del 50 per cento del reddito. Invece, in Italia, le persone fisiche possono detrarre soltanto fino al 10 per cento del reddito, le imprese senza alcuna limitazione. In America, resta il 50 per cento del reddito per tutti, persone fisiche e imprese”. La differenza è rilevante, dal momento che, come informa lo stesso Antinucci, le donazioni personali negli Stati Uniti coprono l’88 per cento del totale. Abbastanza incongruamente, l’Europa applica le norme più disparate, dal 25 per cento di deduzione in Spagna al 100 in Austria. Del resto, benché la facilitazione fiscale incida, non è la causa principale dell’impulso alla donazione, che è piuttosto culturale e, in senso lato, religioso.
Ezio Mauro sottolineava qui nello scorso novembre la distinzione della democrazia dei diritti “dalla ‘democrazia compassionevole’ e anche dalla ‘Big society’ che sostituiscono la benevolenza individuale e dei gruppi sociali all’organizzazione dello Stato sociale, la carità ai diritti. La beneficenza non ha bisogno della democrazia ma in democrazia, la solidarietà sociale ha bisogno di qualcosa di più della beneficenza: i diritti”. Il rischio è che la crisi tagli diritti e carità. Fece allora scalpore in Spagna il gesto di Amancio Ortega Gaona, fondatore e presidente del più grande gruppo tessile, Inditex, produttore fra altri del marchio Zara, terzo uomo più ricco del mondo per la classifica di Bloomberg, nella quale ha spodestato Warren Buffett, quello che vorrebbe pagare più tasse della sua segretaria. Il signor Ortega, leggendariamente alieno da interviste e comparse pubbliche, ha regalato alla Caritas spagnola 20 milioni di euro. La cifra era imponente, ma non ha impedito a molti commentatori di calcolare che corrispondeva allo 0,05 per cento del suo patrimonio, e che un comune cittadino spagnolo con un patrimonio di 10 mila euro, in proporzione avrebbe dato in beneficenza 5 euro. Le monete hanno sempre due facce.
O tre, con quella politica. La “filantropia strategica”, quella attenta all’efficacia delle risorse investite, quella in cui uomini e donne di formidabile successo trasferiscono talento e passione facendone il proprio impegno primario, da Bill Gates in giù, può ottenere risultati magnifici, in particolare nell’istruzione e negli scambi col mondo povero. Possono imparare e insegnare a pescare. Ma resta il vecchio dilemma. Resta quello che ha fame, qui e ora, e bisogna dargli un pesce. (Teniamo la parabola, anche se il problema sta diventando per ricchi e poveri la scomparsa dei pesci). Bisogna che ci siano delle mense con un pasto caldo, delle stanze con una branda e una coperta.
Non è solo un urgente problema sociale, ma diventa un problema politico, esemplificato vistosamente da quel genere di beneficenza selettiva — razzista, per dirla intera — su cui Alba Dorata in Grecia e filiali altrove lucrano il proprio seguito popolare. La parola d’ordine: “I Greci prima di tutto”, o “Gli Italiani”, o “I Padani”, e così via (che vuol dire: “I Greci e basta”, “i Padani e basta”…) fa una presa molto più forte e torbida quando si rivolge agli impoveriti. C’è dunque anche una carità, o una filantropia, che baratta un piccolo bene con un grande male, e rende odiosa se stessa. Chi abbia frequentato i luoghi in cui la carità si esercita all’ingrosso, sa in quale terribile tentazione di iniquità siano indotti i suoi benevoli attori. E poche forme di potere sono rischiose quanto quella di chi ha in mano un pane superfluo davanti alla fila degli affamati.

La Repubblica 07.01.13

"Lavoro non silenziamo la questione sociale", di Bruno Ugolini

Ha suscitato un interesse particolare lo spazio dedicato da Giorgio Napolitano alla “questione sociale” nel suo messaggio di fine d’anno. E sarebbe bene che quella «questione» e la ricerca di soluzioni idonee fosse al centro della già intrapresa competizione elettorale. Per non correre il rischio di «silenziare» non tanto le voci di esponenti del Pd come Fassina o della Cgil, quanto quelle dell’esercito dei precari, dei disoccupati, dei prepensionati senza pensione e senza busta paga, dei tanti pensionati con pensioni da fame. Certo la triplice lista di centro sostiene, con Monti, di avere le soluzioni giuste e moderne, veramente riformiste, contrapposte a quelle conservatrici addebitate ai Fassina e alla Cgil. Sono le proposte, par di capire, inserite nelle recente riforma sul lavoro, nonché nell’altrettanto recente riforma delle pensioni. Ma allora sarebbe il caso di discutere sui risultati già ottenuti, a prova della validità di tali interventi, considerati frutto di vero e forte riformismo. Purtroppo il bilancio dello spread sociale (a differenza dell’altro spread) è assai deludente. Siamo di fronte a un miliardo di ore di cassa integrazione, il 12% in più rispetto al 2011. La disoccupazione ha superato l’11%, con un aumento di quasi 2 punti e mezzo sul 2011. L’82% delle assunzioni riguarda il rapporto di lavoro non a tempo indeterminato. Ha scritto Enzo Marro cronista scrupoloso del «Corriere della sera»: «Purtroppo i risultati non si vedono e molti (sindacati, imprese, esperti) dubitano che si vedranno». Mentre Pierre Carniti, in un ampio saggio sul sito di «Eguaglianza e libertà» ha affermato: «L’ossessivo perseguimento di una crescente flessibilità del lavoro ha avuto come effetto di determinare soprattutto una maggiore precarietà ed un conseguente peggioramento nella distribuzione dei redditi». E allora non basta agitare vessilli modernisti, bisogna discutere di fatti e soluzioni concreti. Anche a proposito del grado di conservatorismo presente nei sindacati. È proprio vero che Cisl e Uil sarebbero all’avanguardia del rinnovamento? Susanna Camusso, ad esempio, ha in un suo recente libro-intervista, ammesso errori e difficoltà del suo sindacato nell’affrontare la questione dei precarisenza saper esplorare tutte le vie della contrattazione. Ma Cisl e Uil come hanno operato in questo campo, quali maree di adesioni hanno trovato fra i giovani senza lavoro? Ed è possibile indicare come emblema del loro non conservatorismo il «Patto per l’Italia» firmato con Berlusconi nella precedente legislatura e in sostanza rinnovato nella legislatura appena conclusa con la quasi uscita dal campo dello stesso Berlusconi? Chi è stato «complice» (parola cara all’ex ministro Sacconi)? Quali risultati concreti a favore del mondo del lavoro hanno ottenuto, rompendo con la Cgil e assumendo la linea del dialogo permanente col centrodestra? Coloro che poi accusano la Cgil di essere ancorata a schemi antichi dovrebbero anche ricordare le battaglie condotte nel pubblico impiego, a fianco di Massimo d’Antona, per introdurre criteri contrapposti al sistema clientelare e burocratico imperante. E potrebbero esaminare accordi recenti, come quello siglato alla Coop Adriatica (qui senza Cisl e Uil) dove la Filcams Cgil ha contrattato la flessibilità, cercando di conciliare le richieste dell’azienda con le esigenze dei singoli lavoratori.Conl’adozione di una conclusioneimportante ovverosia la consultazione dei lavoratori che per il 70% hanno approvato l’intesa. Altre esperienze che testimoniano soluzioni innovatrici che mirano a dare una risposta alle attese dei giovani precari riguardano il contratto dei dipendenti degli studi professionali e l’accordo per i lavoratori di aziende che fanno recupero crediti. Sono stati rievocati da Elena Lattuada, segretaria Cgil che tra l’altro, in un’intervista apparsa sul «Diariodel lavoro» ha parlato di un seminario svoltosi a Milano in cui si è discusso di proposte atte a innovare il sistema di contrattazione. Onde recuperare «margini per remunerare la produttività, permettendo di allargare la platea a soggetti che oggi ne sono esclusi». Un modo per colmare il solco tra i tutelati e i precari non tutelati. È quel solco utilizzato, appunto da chi oggi «sale in politica» e punta il dito contro la Cgil, sola colpevole di una frantumazione ossessiva del mondo del lavoro. Dimenticando quanti tra sindacati e personalitàpolitiche hanno cooperato a politiche governative che a quella frantumazione hanno dato un appoggio enorme.

l’Unità 07.01.13