Borsa che scende, «spread» che sale. Può sembrare una alchimia finanziaria lontana dalla vita di tutti i giorni, dai bilanci di imprese e famiglie. Purtroppo non è così, come abbiamo sperimentato negli ultimi cinque anni. Forse il modo migliore per rendersi conto dell’importanza di quest’infausta congiunzione consiste nel partire da una constatazione semplice e apparentemente incredibile: mediamente l’Italia deve restituire ai suoi creditori un miliardo di euro al giorno, domeniche escluse, ossia circa 300 miliardi l’anno per i prossimi 6-7 anni.
Come fa l’Italia a restituire somme così ingenti? Immediatamente prima della scadenza, «rifinanzia» il debito, ossia si fa prestare, con le aste sul debito pubblico, una somma all’incirca pari a quella in scadenza, con questa rimborsa Btp, Cct, Bot e quant’altro, giunti al termine della loro vita. Sono ormai vent’anni che l’Italia fa così e ha gestito tutto sommato in maniera soddisfacente, dal punto di vista finanziario, un debito enorme.
Grazie all’euro, il mercato ha a lungo attribuito il medesimo rischio al debito sovrano di tutti paesi della nuova moneta, e, per conseguenza, il costo di questo rifinanziamento è stato relativamente moderato.
In un certo senso ci siamo fatti scudo dei bassi tassi applicati ai tedeschi.
Dalla metà del 2011 le cosa sono cambiate, sotto la spinta delle crisi greca, irlandese, portoghese e spagnola: i mercati hanno cominciato a guardare dentro alle strutture finanziarie dei paesi debitori. E quello che hanno visto per l’Italia proprio non li ha soddisfatti. Per conseguenza, il rifinanziamento del debito ha cominciato a costarci molto più caro di prima. Si consideri che, per ogni miliardo preso a prestito dallo Stato italiano – e quindi per ogni giorno lavorativo – 100 punti in più di «spread» equivalgono a un costo addizionale di 10 milioni di euro. 500 punti di spread si traducono in un aggravio di circa 50 milioni al giorno, ossia 18 miliardi l’anno: per procurarseli, lo Stato deve tagliare le spese o aumentare le entrate. A luglio 2011 si profilò un’ulteriore complicazione: alle aste si presentarono assai pochi aspiranti compratori, divenne difficile, anche a tassi estremamente elevati, trovare chi, un giorno dopo l’altro, volesse prestar soldi allo Stato italiano.
Questo è il baratro finanziario in cui l’Italia non è caduta perché è riuscita contemporaneamente a ridurre lo spread e migliorare i propri conti pubblici. La minaccia è però sempre lì, una sorta di infezione in agguato che può attaccare il «sistema nervoso centrale» della finanza pubblica e far precipitare nel caos il paese in poche settimane.
Di fronte a questa situazione viene sussurrata, ma a voce sempre più alta, da alcune forze politiche l’eventualità di non pagare, di non restituire il debito in scadenza, una sorta di rinascita del «menefreghismo» di marca fascista che, in una canzonetta di quel regime, proponeva precisamente la non restituzione del debito («Albione, la dea della sterlina/ s’ostina vuol sempre lei ragione/ ma Benito Mussolini/ se l’italici destini/ sono in gioco può ripetere così:/ me ne frego non so se ben mi spiego»).
Il menefreghismo applicato al debito rappresenterebbe il suicidio finanziario, e non solo, del Paese per almeno tre motivi. Il primo – del quale si è avuto un segno premonitore con le forti cadute dei titoli bancari nella giornata di ieri – sarebbe rappresentato dal crollo delle banche, che hanno investito gran parte delle risorse finanziarie a loro disposizione precisamente in titoli del debito pubblico italiano, il cui valore precipiterebbe. Il secondo sarebbe la distruzione della cospicua parte dei risparmi finanziari degli italiani, investita in titoli statali. Il terzo sarebbe l’evidente difficoltà del Paese a trovare all’estero nuovi prestatori, dei quali avrebbe disperato bisogno.
L’Italia sarebbe costretta a riadottare la lira – o una nuova moneta nazionale – che si svaluterebbe immediatamente nei confronti dell’euro e del dollaro.
A questo punto, i risparmi non divorati dalla svalutazione del debito pubblico sarebbero distrutti da un’inflazione galoppante in quanto i prezzi dei beni importati andrebbero alle stelle, a cominciare da quelli dei prodotti petroliferi. Certo, le merci italiane ritornerebbero temporaneamente competitive, ma le imprese dovrebbero rapidamente rialzare i prezzi per l’aumento dei costi delle materie prime importate. La messa al bando dall’Unione Europea e la chiusura delle frontiere dei nostri partners alle merci italiane ne sarebbero ulteriori, possibili conseguenze.
Dietro al baratro finanziario si profilerebbe così un abisso economico-sociale, e quindi anche politico, un’eventualità della quale i cittadini devono prendere coscienza. Il segretario del Pdl, Angelino Alfano ha affermato che il suo partito non vuole «mandare il paese a scatafascio». A scatafascio però sicuramente andrebbe se il suo partito imboccasse la deriva populista, eco sinistra di un menefreghismo lontano e disastroso. Il che, allo stato degli atti, non sembra proprio di poter escludere.
La Stampa 11.12.12
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“La tattica del rinvio”, di Piero Colaprico
Rimandare, troncare, addomesticare. Sono i tre verbi principali che Silvio Berlusconi coniuga nei processi. HA APPENA dichiarato che si ricandida ed ecco che Ruby fa saltare un’udienza del processo, ormai in dirittura d’arrivo. «Non vedo l’ora di andare a deporre», aveva detto Karima El Mahroung, nota un tempo nei night milanesi come Ruby Rubacuori. Aveva anche assicurato, parlando da neo-mamma, che lei che c’era stata, e aveva visto, sua figlia ad Arcore non ce la manderebbe proprio.
Come avrebbe potuto reagire questa ex ragazza cresciuta in strada sotto il martellante contro- esame del pubblici ministeri Ilda Boccassini e Antonio Sangermano? E come non ricordare che sempre in questi giorni anche Giampiero Tarantini, imprenditore nei guai per coca, donne e ricatti, ha appena chiesto in quel di Bari un giudizio senza pubblico? No, non sfileranno più le sue ragazze a pagamento trasportate a Palazzo Grazioli e a Villa Certosa.
Con un’immagine a pezzi in Italia e all’estero, Berlusconi sta giocando l’ultima, difficilissima partita tra politica e giustizia. Come sempre declinate alla sua maniera, ma non è più come sempre. «La verità è che, se Berlusconi non fosse entrato in politica, noi oggi saremo sotto un ponte o in galera», aveva detto Fedele Confalonieri (Repubblica, 25 giugno 2000). Una frase che torna attuale. Per comprendere meglio quello che sta accadendo «oggi», con Ruby che si eclissa, basta ricordare che cosa è successo «ieri».
È dai tempi di All Iberian, società estera della galassia arcoriana, che l’imputato Berlusconi si
difende «dal» processo. Allora, epoca Tangentopoli, vennero scoperti i soldi che arrivavano a All Iberian da un conto all’estero del segretario socialista Bettino Craxi. Berlusconi giurò sulla testa dei suoi parenti più stretti di non c’entrare nulla. Poi, però, a fatica, è emersa la realtà: è stato attraverso All Iberian, e il «comparto B very discret» di Fininvest, che si è arrivati infatti alla condanna di David Mills, avvocato inglese, in cambio di 600mila dollari testimone reticente nei processi italiani.
Silvio Berlusconi può solo essere definito il presunto corruttore: il suo processo è stato raso al suolo da «prescrizione breve» e «legittimo impedimento», ma gli sforzi legislativi del centrodestra non sono tuttavia riusciti a insabbiare ogni magagna di quel «comparto B». Sempre da lì è sbocciata, lo scorso ottobre, la prima, clamorosa condanna. Con un Berlusconi che, stando alla sentenza, ha mostrato «nell’esecuzione del disegno criminoso» una «particolare capacità a delinquere» ed è stato punito con quattro anni per frode fiscale.C’era stato un tempo in cui i suoi ombrelli «ad personam» funzionavano. L’avevano riparato persino dallo scandalo del Lodo Mondadori, lasciando però — attenzione — incenerire l’avvocato Cesare Previti. Ma per conto di chi aveva corrotto i giudici il condannato Previti? È da qui, dalla risposta, che si approda al tribunale civile di Milano: due gradi di giudizio hanno stabilito che a trarre benefici notevolissimi dalla sentenza aggiustata era stato il cliente principale di Previti, e cioè Silvio Berlusconi. Il quale ha procurato un danno enorme al suo diretto concorrente Carlo De Benedetti. E deve, con le sue aziende, risarcirlo per una cifra di circa 560 milioni di euro: e che cosa succede, nell’attesa della pronuncia della Cassazione?
Esattamente quello che succede dai tempi di All Iberian. Al Senato è stato prontamente messo nero su bianco il desiderio di «immunità » di Berlusconi. I suoi hanno ipotizzato di trasformare il ricorso alla Corte di giustizia del Lussemburgo in una specie di «quarto grado di giudizio» qui, in Italia. Un’idea talmente sballata che il governo Monti l’ha messa fuori della porta in un amen. E che com’è andata a finire? Che un amen è stato pronunciato dai berlusconiani per il governo Monti. Dopo essersi rimangiato il «passo indietro», Berlusconi è invece tornato a mostrarsi tra Milanello e Malindi. È, oggi come ieri, in campagna elettorale, e bloccare i processi gli serve.
La Repubblica 11.12.12
Lavoro: Ghizzoni, dignità a istruzione professionale e garanzie per diritto allo studio
Necessario assicurare diritto all’istruzione superiore e pari opportunità per i giovani. “È necessario ridare dignità all’istruzione professionale, troppo spesso mortificata, e sviluppare l’istruzione tecnica superiore ITS, ma è altresì necessario garantire politiche di sostegno al diritto allo studio, per assicurare pari opportunità ai giovani “capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi”. Sul diritto all’istruzione il nostro Paese è ancora lontano dal rispetto della Carta costituzionale ed è ancor più lontano dai livelli europei. – lo dichiara Manuela Ghizzoni, presidente della Commissione Cultura, Scienze e Istruzione della Camera dei Deputati, commentando le parole della Ministro Fornero – I dati Ocse rilevano che maggiore è il livello di istruzione più facile è la permanenza nel mondo del lavoro e la garanzia di reddito, anche in un periodo di recessione, e – spiega la presidente della Commisisone Cultura – denunciano un dato socialmente odioso che vede una probabilità doppia di conseguire un titolo di istruzione superiore per un giovane di cui almeno un genitore è laureato. È dunque necessario che la politica faccia quanto possibile affinché non vi siano discriminazioni sociali nell’accesso all’istruzione terziaria, per garantire il dettato costituzionale e reali pari opportunità per tutti i giovani di talento.”
“Se anche il violino diventa precario”, di Bruno Ugolini
Non c’è solo la marea d’insegnanti precari e di altri lavoratori pubblici di cui si parla in questi giorni. Esistono anche precari speciali, magari considerati dei privilegiati, perché fanno un mestiere appassionante. Sono i musicisti. Non parlo solo, che so, del primo violino della orchestra della Scala che abbiamo potuto sorprendere mentre corrispondeva ai gesti impetuosi di Daniel Barenboim nel Lohengrin. Esistono molti altri musicisti che non hanno raggiunto quel posto e che conducono una vita precaria. E la loro condizione, dal punto di vista del reddito, dei diritti e delle tutele, non è molto dissimile da quella di tanti giovani informatici, o pony express, o commessi in negozi, o in operai di ditte in appalto. Ha spiegato la loro condizione tempo fa su www.rassegna.it una giovane poco più che trentenne, Sabina Morelli. Una ragazza che ha cominciato a studíare col violino quando aveva otto anni. Credeva di poter iniziare una vita professionale ricca di emozioni. Non ha fatto altro che condurre “un continuo peregrinare in cerca di lavoro, passando da un’orchestra all’altra”. Una vita da nomadi. Un tirare a campare facendo quelle che chiama «marchette», «ovvero suonando qua e là, rigorosamente in nero, spesso in condizioni poco consone (al freddo per esempio) e, soprattutto, senza gioia». Racconta come lei e molti altri ricevano chiamate del tipo: «Vieni a suonare tre giorni». Poi «ti pagano 200 euro in contanti, nei casi fortunati la sera stessa, ma più spesso dopo sei mesi. Oppure, ti fanno un rimborso spese di 80 euro, sul quale comunque non si pagano le tasse, e poi il resto te lo danno in nero. Naturalmente senza alcuna garanzia, per cui se ti ammali, addio». Sabina racconta, ad esempio, di un’esperienza emblematica con un’ orchestra italiana, diretta da un musicista di fama internazionale. «Abbiamo suonato a Londra, alla Royal Albert Hall, e sono stata pagata 50 euro con ritenuta d’acconto e i restanti 200 (250 é il cachet standard di questa orchestra) in nero dopo due mesi». La riforma pensioni della Fornero non ha pensato a lei: «Ho pochissimi contributi versati dalle poche orchestre stabili con cui ho lavorato, che sono le uniche che pagano regolarmente, anche se sempre con contratti precari di una, due settimane al massimo». La sua condizione è suffragata dai tanti commenti che hanno condiviso il suo racconto. E c’è chi tra le difficoltà della professione rammenta lo strumento: «Un violino decente (escluso l’archetto) per un diploma non può costare meno di 6-7.000 euro. Spesa che se hai il papà che te lo può pagare è un conto, altrimenti a 20 anni ti attacchi». Non sono casi isolati di vite difficili. Il Siam-Cgil (Sindacato italiano artisti della musica) ricorda come il 95% dei musicisti professionisti in Italia sia rappresentato da lavoratori intermittenti. Sarà possibile mutare questi destini? Leggiamo su «Conquiste del lavoro», quotidiano della Cisl, una recensione di Michele Checchi a un saggio di Guy Standing, sociologo inglese («Precari, la nuova classe esplosiva», Il Mulino). Secondo l’autore, la classe precaria «dovrebbe avere rappresentatività, agire in forme solidali, trovare interlocutori che sappiano ripensare il lavoro nel suo ruolo fondante». I progressisti di tutto il mondo dovrebbero rendersi fautori di quella che Standing chiama «una politica per il paradiso». Ora, paradisi a parte, si potrebbe pensare non tanto a posti fissi anche per i violinisti nomadi, ma a tutele e diritti. Nel recente dibattito per le primarie del centrosinistra il tema dei precari è stato appena toccato. Nella stessa «Carta d’intenti, Italia bene comune» Bersani, Renzi e Vendola affermano però che «La battaglia per la dignita’ e l’autonomia del lavoro… riguarda oggi la lavoratrice precaria come l’operaio sindacalizzato, il piccolo imprenditore o artigiano non meno dell’impiegato pubblico, il giovane professionista sottopagato al pari dell’insegnante o della ricercatrice universitaria». E ci s’impegna a spezzare «la spirale perversa tra bassa produttività e compressione dei salari e dei diritti, aiutando le produzioni a competere sul lato della qualità e dell’innovazione». Così come si promette una legge sulla rappresentanza poiché «Non possiamo consentire né che si continui con l’arbitrio della condotta di aziende che discriminano i lavoratori, né che ci sia una rappresentanza sindacale che prescinda dal voto dei lavoratori sui contratti». Ottimi intenti da accompagnare ad ancor più concrete proposte sul futuro di Sabina e dei tanti tra sorelle e fratelli del vasto pianeta precari.
L’Unità 10.12.12
“In classe anche il pomeriggio. La scuola dell’anti sciopero”, di Elvira Serra
Al liceo Fermi di Arona il mondo va alla rovescia. Gli studenti vogliono trattenersi in classe oltre il trillo della campanella (malgrado qualcuno, pendolare, ritorni a casa alle sei del pomeriggio). E lo fanno non per una partita di basket o per organizzare una festa, ma per imparare. Non bastasse: a loro piace. «Eravamo scesi in piazza il 24 novembre contro i tagli alla scuola. Ma volevamo fare qualcosa in più. Siamo persone colte, ci tenevamo a una protesta intellettuale, nobile, perché non passasse il messaggio che ogni scusa è buona per saltare le lezioni. Semmai è il contrario: ci teniamo così tanto alla scuola che siamo disposti a passarci più tempo», spiega nell’aula magna Nicolò Simoni, rappresentante di istituto e, in futuro, aspirante sindaco. Con lui una quarantina di compagni del triennio: classico, scientifico tradizionale o con opzione per le scienze applicate.
Una settimana fa hanno deciso di aderire alla iniziativa di un gruppo di insegnanti che a novembre, quando si discuteva dell’articolo 3 del ddl di stabilità che voleva aumentare di sei ore settimanali l’orario in classe dei prof, ha sospeso le attività extracurricolari. Adesso quei docenti si stanno impegnando in una contestazione alternativa. La loro idea si chiama « slow school », scuola lenta: una volta alla settimana fino a Natale resteranno di più per fare lezione con calma, senza l’assillo delle verifiche. «Amiamo il nostro lavoro e lo prova il fatto che stiamo investendo del tempo extra per fare lezione come piace a noi. Slow school significa far sedimentare le informazioni, è la filosofia della ruminatio , “masticare” le nozioni. La mattina, sempre di corsa, neppure noi riusciamo a soffermarci sulle cose come vorremmo», interviene Raffaella La Rosa, l’insegnante di italiano e latino cui è venuto in mente questo progetto. Su 104 professori hanno aderito in sei, ma altri stanno dando la disponibilità.
Sorprende di più, tuttavia, ascoltare i ragazzi, che mai avremmo immaginato pieni di entusiasmo per l’anti-sciopero e, in particolare, per un pomeriggio sui «superconduttori». «Nel libro di quinta a questo argomento è dedicato un paragrafetto. Invece con la professoressa Epifani ne abbiamo parlato per due ore», dice Ivan Minella, della quarta, aspirante fisico all’estero, «visto che in Italia si investe così poco sui brevetti». Lavorare in pochi, sette o otto per laboratorio, è piaciuto a tutti, sia che si trattasse di sviscerare le poesie di Whitman, Frost e Thoreau, o di analizzare il concetto di democrazia nell’età classica, sia che l’argomento fosse l’epistola XXXVII di Seneca o il film Welcome . «Ci siamo divertiti», ammette Stefano Baranzini. E Caterina Bravi insiste: «Mentre un’occupazione muore un po’ lì, questi mini corsi ci arricchiscono, entrano nel nostro bagaglio culturale: la prossima volta ci occuperemo delle origini della crisi economica».
È bello sentire che progettano di diventare medici, ingegneri, ricercatori, economisti. E che considerano la scuola qualcosa che appartiene a loro. «La nostra protesta non penso sia migliore di una manifestazione per strada, ma è complementare. Serve per capire che la scuola non è un’azienda, il fine è imparare e noi siamo qui per questo», alza la mano Antonio Stranges. Potessero scegliere, ecco le priorità. «I fondi dell’Istituto devono poter essere gestiti in autonomia. Vogliamo un edificio sicuro: abbiamo porte di sicurezza bloccate. E i laboratori devono migliorare», chiede Simone Scalzitti. Teura Zaveri si dichiara disposta a valutare i professori in base a quanto riescono ad appassionarli a una materia.
«Hanno risposto bene ai nostri stimoli, purtroppo queste attività non potranno andare avanti per sempre. Già solo tenere aperta la scuola di pomeriggio è un problema», parla Alessandro Caputo, insegnante di italiano e latino. Prosegue Katia Vandoni: «L’esperimento sta dimostrando che con pochi allievi riusciamo a dare di più. Qui non si tratta di voler lavorare meno, ma meglio. Se le nostre attività si riducessero alle 18 ore frontali la settimana, dovrebbero aumentarle a quaranta!».
Martedì scorso le prime due ore di «slow school» si sono concluse con il tè e le torte preparate da Laura Pezzi, che non è una cuoca, ma insegna storia e filosofia. Perché qui nelle «attività extracurricolari» ci si mette il cuore.
Il Corriere della Sera 10.12.12
Ricerca, Ghizzoni: necessario stabilizzare i precari INGV
Nel giorno dello sciopero, Ghizzoni si impegna personalmente a sollecitare il Governo
Nel giorno dello sciopero generale dei lavoratori dell’Istituto nazionale di Geofisica e Vulcanologia, la presidente della commissione Cultura, Scienza e Istruzione della Camera dei Deputati, Manuela Ghizzoni, si impegna a sollecitare il ministro dell’Istruzione e il Governo in merito all’alta percentuale di personale precario dell’INGV e a prendere in esame la questione nella commissione da lei presieduta. Di seguito la dichiarazione dell’onorevole Ghizzoni.
«È necessario aprire un tavolo di trattativa con il Governo per cercare di offrire una stabilizzazione a centinaia di precari che svolgono un lavoro competente, appassionato e di alto valore scientifico per l’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia. L’Istituto svolge un’attività di ricerca di rilievo internazionale e di alta qualità, oltre a fornire alla protezione civile del nostro Paese un rilevante contributo scientifico, tecnico e organizzativo. Da anni per carenza della pianta organica rispetto ai nuovi compiti assunti, l’INGV ha dovuto fondare gran parte della sua attività sul lavoro di precari, quasi sempre dottori di ricerca, che svolgono anche un lavoro di monitoraggio e analisi dei fenomeni geofisici e vulcanici, cruciale per un paese instabile come l’Italia e fondamentale per cercare di proteggere vite umane e patrimoni culturali e sociali di inestimabile valore. Mi impegno sin da ora a sollecitare il Ministro dell’Istruzione affinché risponda sulla situazione del personale precario dell’Istituto nazionale di geofisica, che rappresenta il 40% del totale, e a prendere in esame la questione nella Commissione che presiedo, sulla scorta di informazioni e posizioni precise da parte del Governo.»
“Insegnanti, i disastri dell’era Berlusconi”, di Giunio Luzzatto
La scia di disastri che il governo Berlusconi ha lasciato dietro di sè continua a mettere in difficoltà il dopo-Berlusconi; il caso della scuola è tra i più gravi, essendovi stata una ministra, Gelmini, particolarmente impegnata nello sfasciare il settore. Il caso che qui discuto, sulla base di una recente comunicazione dei vertici ministeriali, è solo un esempio; non da poco, perché riguarda la possibilità di una formazione seria, o invece finta, per ventimila nuovi insegnanti. Gli antefatti. Per abilitarsi all’insegnamento secondarlo i laureati dovevano frequentare una Scuola universitaria biennale di specializzazione, Ssis. Poche settimane dopo il suo insediamento Gelmini la ha soppressa, annunciando un grande rinnovamento che avrebbe dato spazio all’esperienza sul campo, cioè a pratica nelle scuole, anziché a troppa teoria. Nei tre anni successivi ha ripetutamente esaltato un nuovo corso di formazione (annuale) detto Tirocinio Formativo Attivo, Tfa, ma prima del non rimpianto congedo non è riuscita a farlo decollare. Il ministro Profumo, per non penalizzare ulteriormente i laureati che da quattro anni non avevano la possibilità di conseguire l’abilitazione, ha deciso di non rimettere in discussione le scelte precedenti e lo ha attivato. Si è ora nella fase finale della selezione dei partecipanti al Tfa; non entro qui nelle polemiche che hanno accompagnato una pessima formulazione dei quesiti per l’accesso, se non per rilevare che 180mila domande rendono obiettivamente difficile gestire una selezione, e che purtroppo ciò avviene inevitabilmente (come è avvenuto anche per il «concorsone», sempre in campo scolastico) se per molti anni si interrompono le regolari procedure, creando un ingorgo che poi intasa i percorsi. L’effettivo inizio delle attività formative è ora previsto in gennaio; deve comprendere insegnamenti relativi alle didattiche (generali e disciplinari) e il tirocinio che dà nome al corso. Alle attività di tirocinio devono sovraintendere docenti secondari esperti; un decreto del novembre 2011 (Gelmini non aveva provveduto) ha stabilito che ve ne sarebbe stato uno per ogni 15 corsisti. Il numero è alto, perché per ogni allievo il «tutor» deve fornire assistenza alla costruzione di un progetto individuale di tirocinio e all’elaborazione, raccordata con esso, della relazione conclusiva per l’abilitazione (l’analogo della tesi di laurea). Il fatto. Mentre le università stanno organizzando le future attività, il 3 dicembre il Miur comunica che «il rapporto 1/15 non potrà essere rispettato per la insufficienza delle risorse finanziarie disponibili». Non viene detto se esso sarà 1/30, o 1/1000: chi vivrà vedrà. Si osservi che gli insegnanti che seguono i tirocinanti dovrebbero avere una specifica competenza nelle materie di insegnamento coinvolte; vi sarebbero state comunque delle difficoltà perché già rispetto a 15 il numero di allievi in molti casi è inferiore, alzando questo valore un tirocinio degno di questo nome si potrà attuare solo in poche situazioni. Poche, e per di più imprevedibili. Risultato: vi sarà solo la teoria, e in contrasto con il nome del corso il tirocinio non sarà realmente attivo. Un commento. Si parla, a ragione, dell’esigenza di rilanciare nell’istruzione pubblica qualità e merito; ma sono mere chiacchiere utili per i media se, fin dal momento della formazione degli insegnanti, si opera in direzione opposta. Il governo che ci sarà dopo le elezioni non potrà limitarsi a qualche tentativo di riduzione del danno: per la scuola, e in particolare per gli insegnanti e per la loro qualificazione, occorrono scelte nette. E queste richiedono una discontinuità altrettanto netta sia per quanto riguarda i contenuti, sia per una effettiva priorità nella destinazione delle risorse pubbliche.
L’Unità 10.12.12