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“Berlusconi flop. Al Pd il triplo dei consensi Pdl”, di Carlo Buttaroni

Il ritorno di Berlusconi non riavvolgerà il nastro. E chi teme (o spera) un ritorno al passato, sta facendo male i conti. Perché Berlusconi è stato un fenomeno sociale, prima ancora che politico. Un fenomeno che ha avuto un principio e un’inevitabile fine, caratterizzato, nel mezzo, da quell’inerzia tipica di tutte le storie che hanno come protagonisti grandi masse d’individui. Fino a quando ci si sveglia accorgendosi che la favola è terminata, senza capire però bene il tipo di finale. Il «berlusconismo» è andato oltre Berlusconi, diventando un camaleontico sistema di potere e, progressivamente, un modo di pensare, una corrente sociale, uno stile linguistico. Un apparato incentrato sulla figura carismatica di un leader indiscutibile, nel cui linguaggio verbale e non, si sono rispecchiati una moltitudine d’italiani. Nel codice berlusconiano è indifferente se le frasi siano credibili e coerenti. Il senso di ciò che dice sta nel suono e nell’effetto che producono le parole. Per questa ragione ha sempre potuto permettersi di enun- ciare una cosa e il suo contrario, senza che la verità rappresentasse necessariamente una cifra del significato. Le sue affermazioni non devono passare il vaglio della coerenza logica, né tanto meno morale, perché ciò che conta è solo l’effetto delle parole. O la loro smentita.
Come affermato dal quotidiano tedesco Der Spiegel qualche anno fa, il berlusconismo vanta alcune similitudini con il gaullismo francese o il peronismo argentino: un leader carismatico fortemente odiato o fortemente adorato, ma che possiede l’abilità di interpretare l’umore della gente e comportarsi di conseguenza. A seconda delle situazioni, poi, può essere ribelle o conservatore, liberale o autoritario.
Tra il 1993 e il 2011 è stato lo specchio di un’Italia che si credeva al sicuro dai mostri che stava partorendo. Ma quel tempo è finito. E come tutti i fenomeni che hanno a che fare con l’uomo, anche il berlusconismo ha tracciato una parabola, con un’ascesa, un apice, un declino. Una curva che, nella fase discendente, è implosa, liberando quell’energia distruttiva che ha coinvolto l’intero sistema politico. Finendo ben prima di Berlusconi, senza alternative da offrire agli elettori di centrodestra e senza più una base sociale cui far sentire la propria voce. È stato lo stesso Berlusconi a ripeterlo più volte, motivando il suo ritorno in campo: abbiamo cercato qualcuno che fosse c me il «Berlusconi del ’94». Senza trovarlo. Un terremoto che è evidente nei dati riguardanti gli orientamenti politici, che descrivono l’epilogo di una forza politica che nel 2008 aveva ottenuto il 37% dei voti e che, cinque anni dopo, perde oltre i due terzi dei consensi.
LO SPARTIACQUE DELLE PRIMARIE
L’incredibile vicenda delle primarie, annunciate, rinviate, indette e poi annullate, rappresenta la caricatura di una pièce teatrale che si trasforma in farsa. D’altra parte, non è stata la crisi economica a determinare la caduta del governo Berlusconi, ma la messa a nudo delle promesse mancate, anzi di autentici fallimenti economici e sociali che rischiavano di travolgere i nostri stessi partner europei. E la conseguenza è stata l’ennesima anomalia del nostro Paese: affidare a dei tecnici l’emergenza crisi. In tutti gli altri Paesi, infatti, anche laddove ha colpito in modo duro, è stata comunque la politica a cercare soluzioni e a governare i processi. In Italia, invece, Monti ha dovuto (e potuto) disporre di un gabinetto di soli tecnici, perché il Pdl non aveva fiato, leve, capacità di rappresentare un Paese che stava voltando pagina. La crisi del Pdl ha costretto tutti i partiti a fare un passo indietro e a sedersi in panchina.
Ma oggi il berlusconismo non c’è più. E non sembra in grado di tornare, anche se Berlusconi è tuttora capace di attrarre un numero cospicuo di elettori.
C’è invece un campo riformista, che negli ultimi vent’anni non era mai stato così forte. Le primarie hanno restituito, infatti, un’identità al centrosinistra e il Partito democratico ha completato la sua evoluzione, collocandosi a pieno titolo e senza equivoci nel campo dei grandi partiti socia- listi e democratici europei. È stato un percorso lungo e difficile, ma il risultato segna un passo in avanti per tutto il Paese. Un’evoluzione che è mancata al Pdl. Più che orfano di Berlusconi, il centrodestra ne è vittima. Un tradimento dell’ispirazione liberale e della vocazione sociale della destra, mettendo invece in scena una rap- presentazione spettacolare (o addirittura pornografica) della politica, che si è via via popolata di personaggi improbabili. A questa deriva Angelino Alfano non è riuscito a porre argini. Con le primarie sperava di agire su prospettive nuove, iniettando politica in uno scenario in dissolvenza. Non ce l’ha fatta. Così come non ce l’hanno fatta coloro che speravano di voltare pagina, di dare vita a un soggetto politico nuovo, affrancato dalle liturgie che hanno segnato in maniera indelebile il carattere e la vocazione del berlusconismo. I manifesti di Giorgia Meloni, che annuncia la sua candidatura alle primarie, ancora appesi nelle strade di Roma, rappresentano la metafora di questo naufragio.
Le primarie del centrosinistra si collocano invece a distanza siderale
da tutto questo. Il 35% di elettori che oggi voterebbero il Partito democratico rappresentano una domanda di discontinuità con il passato, un cambio forte, netto, senza ambiguità. Un nuovo patto che vincoli la politica a misurarsi nuovamente con se stessa, con i suoi modi di fare e di essere, nelle scelte che compie e nei modi in cui le compie. Il mandato ricevuto dal Pd e da Bersani è far tornare la politica a favore dell’uomo, rifondare la società su scelte che pongono la que- stione morale a fondamento di quella civile, dare corpo a un’idea di società dove la libertà dell’individuo si accresce e si rafforza in un sistema di solidarietà intelligente. Affinché, nel dopo Berlusconi, non ci sia più il berlusconismo. Non si tratta di affermare il primato di un modello economico, ma di operare una riconversione dell’idea stessa di società, basata su una visione sostantiva dei diritti e dei doveri, anche come medium dello sviluppo. E, sotto questo punto di vista, per Bersani la sfida non sarà con Berlusconi ritornato in campo, ma con la delusione, la rabbia, il sentimento di una promessa tradita. Perché l’astensione, l’allontanamento dalla politica, il ripiegarsi in un disincanto urlato, sono gli effetti collaterali della fine del berlusconismo.
Il «grillismo» ne rappresenta, per molti versi, il lato più evidente. Forse anche perché il movimento di Grillo si nutre delle stesse liturgie berlusconiane, di miti fondativi che esaltano la figura del leader carismatico, dispensatore d’indiscutibili virtù. Grillo non ha bisogno di quella coerenza logica che è a fondamento della politica, ma soltanto di stupire, rivelando una verità che non necessariamente deve essere «vera», basta che si depositi nell’animo e scateni pulsioni. Come Berlusconi, anche Grillo raccoglie una domanda sociale e la trasforma in un’ipnosi da videogames. Gli andamenti del consenso restituiscono la fotografia di un Paese pro- fondamente diverso rispetto a quello che si è lasciato alle spalle il berlusconismo. E le prossime elezioni saranno le più importanti degli ultimi sessant’anni, perché si tratta di scegliere il futuro dell’Italia e degli italiani. Il punto di ricaduta di questa scelta dipende da cosa accadrà nei prossimi mesi. La sfida, adesso, è veramente cominciata.
L’Unità 10.12.12

“Serve un Pool di Giudici anti Stalking per evitare altre vittime tra le donne”, di Fiorenza Sarzanini

Lisa Puzzoli poteva essere salvata. Bastava che un magistrato esaminasse la sua richiesta di tenere lontano da lei e dalla sua bambina Vincenzo Manduca, l’ex fidanzato che l’aveva molestata e picchiata più volte soltanto perché non le perdonava di averlo lasciato. E che tre giorni fa, al culmine dell’ennesima discussione, l’ha uccisa a coltellate. Era il padre della piccola, ma questo non è bastato a placare la sua ira nei confronti della giovane donna. Anzi, negli ultimi tempi era diventato ancor più aggressivo e violento. Per questo Lisa non voleva più avere alcun contatto con lui. Aveva paura e lo aveva raccontato ai familiari e agli amici. Poi lo aveva detto al suo avvocato e la scelta era stata fatta: chiedere un provvedimento previsto dalla nuova legge sullo stalking che gli impedisse di avvicinarsi.
Fa impressione sentire adesso le parole del procuratore di Udine Antonio Biancardi che quasi se la prende con le vittime «che devono stare attente e tutelarsi» mentre dice che i magistrati possono fare poco o nulla perché «in questi casi serve soltanto l’arresto, ogni altro atto è inutile». In realtà il suo ufficio non ha neanche provato a tutelare Lisa: nonostante le botte, le denunce e le istanze presentate dalla donna contro Manduca, non risulta sia mai stata presa in considerazione alcuna ipotesi di misura restrittiva.
È arrivato il momento di intervenire perché in nessuna parte d’Italia si sia costretti a piangere un’altra Lisa. E sono proprio i capi degli uffici giudiziari a doverlo fare, organizzando gruppi — anche esigui — di pubblici ministeri che si dedichino esclusivamente a questa materia, che si occupino di difendere le vittime e punire i carnefici. Creando corsie preferenziali affinché i giudici esaminino in via di urgenza le richieste di interdizione o di cattura. Non servono nuove leggi, basta applicare quelle che ci sono. Ma bisogna farlo davvero, senza nascondersi dietro difficoltà procedurali o carenza di mezzi e risorse. Si deve ascoltare il grido di aiuto di quelle donne che sempre più spesso si ritrovano a lottare da sole contro l’aguzzino. E proteggerle senza esitazioni.
Il Corriere della Sera 11.12.12

Province, allarme del governo “Senza decreto caos istituzionale”, di Valentina Conte

Non solo risparmi sfumati, tra 370 e 535 milioni a regime. Ma anche lievitazione dei costi per Comuni e Regioni, blocco della riorganizzazione periferica dello Stato, Città metropolitane soffocate sul nascere. Insomma, un «caos istituzionale» in piena regola.
Questi i «gravi e pesanti effetti» vagliati dal governo qualora il decreto sul riordino delle Province imboccasse il tunnel dell’insabbiamento parlamentare.
Chi si occuperebbe della manutenzione di scuole e strade, della gestione dei rifiuti, della tutela idrogeologica e ambientale? E chi subentrerebbe ai mutui
contratti dalle Province con banche e Cassa depositi e prestiti? E poi che fine farebbero il personale, gli immobili, i finanziamenti? A questi interrogativi, infilati in uno studio che il dicastero della Funzione pubblica ha spedito ad alcuni senatori, proverà a rispondere la
commissione Affari costituzionali di Palazzo Madama. Dove questa sera i relatori Enzo Bianco (Pd) e Filippo Saltamartini (Pdl) proveranno a sminare il percorso del decreto 188 che riduce le Province delle Regioni ordinarie da 86 a 51, in vista del suo approdo in aula mercoledì prossimo, quando sarà sottoposto alla “pregiudiziale di incostituzionalità” annunciata dal Pdl. Qualora passasse, il decreto sarebbe da riscrivere. In pratica la sua fine, con la legislatura agli sgoccioli.
Resterebbero i nuovi accorpamenti, però. Perché il decreto è solo l’ultimo anello di una catena di provvedimenti (Salva-Italia e Spending review) che di fatto già ridisegnano la mappa di questi enti locali. Bruciarlo ora, porterebbe al “caos istituzionale”, paventato dal ministro Patroni Griffi. Con le Province svuotate di competenze, servizi a rischio da accollare a Comuni e Regioni, e la possibilità che la Corte Costituzionale intervenga (alcune Regioni hanno già impugnato il decreto) per ripristinarle tutte, evaporando mesi e anni di lavoro. «Una follia, demagogia allo stato puro, non convertire il decreto», avverte Bianco. «Mi appello con forza ai colleghi senatori: non permet-
tiamo quattro mesi di caos». «Mercoledì o votiamo turandoci il naso o diciamo di no, perché i difetti del decreto sono talmente grandi che prevalgono sulla sua bontà», risponde Saltamartini. «Ma il Pdl non vuole figurare come capro espiatorio. Valuteremo bene le ricadute politiche».
In realtà un accordo tra i relatori (e con il governo) già esiste. Almeno su alcuni punti. Primo, salvare non 51 ma 55 Province, evitando le fusioni Perugia-Terni, Rieti-Viterbo, Avellino-Benevento, Matera-Potenza. E staccare in due la macro-Provincia toscana (Pisa-Livorno e Lucca-Massa). Secondo, far decadere le giunte non il 1° gennaio 2013, ma il 30 giugno 2014. Terzo, lasciare ai Consigli comunali il potere di scegliere la Provincia capoluogo post-fusione. Quarto, alzare il
numero dei consiglieri da 10 a 16-18-20 a seconda degli abitanti. Fermo restando che le Città metropolitane partono dal 2013 e che le Regioni a Statuto speciale hanno sei mesi per adeguarsi. Un accordo dalle ore contate.
La Repubblica 11.12.12

“Il Cavalier Rieccolo e il muro del Professore”, di Ilvo Diamanti

Eccolo di nuovo. Il Cavaliere. Ri-discende in campo. E sfida tutti. Il centrosinistra – che da qui tornerà ad essere riassunto nell’alveo dei “comunisti”. Il Terzo Polo di centro – gli “utili idioti”. E prima di tutto e di tutti: Monti. Il Professore.
Il vero responsabile della crisi economica italiana. Che, ovviamente, quando c’era Lui, era molto meno pesante. Anche se i Nemici – i Comunisti Pessimisti – la agitavano ad arte, come argomento polemico contro di Lui.
Eccolo di nuovo. Berlusconi. Non poteva essere diversamente. Impensabile che uscisse di scena spontaneamente. Ammettendo, in questo modo, la propria sconfitta. La fine del Berlusconismo. D’altronde, i sondaggi d’opinione spiegano e giustificano la sua decisione. Anche al di là dei motivi personali che lo muovono. L’esigenza di tutelare i propri interessi e di difendersi dai molteplici procedimenti giudiziari che lo riguardano. Al di là di tutto ciò, l’ultimo anno ha dimostrato l’incapacità del centrodestra di re-inventarsi. Di trovare un’identità e una leadership alternative. Senza Berlusconi. In meno di due anni, il PdL è sceso, nei sondaggi, dal 30% al 18%. Solo un anno fa era ancora al 25%. Il suo delfino, Angelino Alfano, si è dimostrato incapace di nuotare da solo. In un anno: il PdL si è diviso. Il 44% dei suoi elettori sceglierebbe Berlusconi come candidato premier. Dunque, meno di metà. In ogni modo, però, quasi l’80% di essi preferirebbe che il candidato venisse scelto attraverso le primarie (Atlante Politico di Demos, dicembre 2012). Ma il PdL non è come il Pd. Come il centrosinistra. Non ha radici nel territorio. Solo An aveva legami di appartenenza con la società. Ma, dopo l’unificazione con il – o meglio, l’annessione al – PdL, è confluita anch’essa nel “partito personale” di Berlusconi. Dove i rapporti fra il leader e il suo popolo avvengono per identificazione personale e per via “mediale”. Impossibile per altri interpretare lo stesso ruolo. Ma difficile anche selezionare il gruppo dirigente, tanto più il candidato premier, dal basso. Così il PdL, insieme al centrodestra, ha perso terreno. E lo ha, parallelamente, ceduto ai concorrenti. Al centrosinistra, al Pd. Allo stesso M5S. All’area grigia dell’incertezza.
Per questo Berlusconi è ri-disceso in campo. Per opporsi alla scomparsa del PdL. Per ritardare, almeno, la fine della Seconda
Repubblica. Fondata “da” e “su” Berlusconi. Sul “partito personale”. Sulla “democrazia del pubblico”.
Eccolo di nuovo. Il Cavaliere. Evoca la memoria del 2006 (come ha suggerito Roberto D’Alimonte sul Sole 24 Ore). Quando tutti lo davano per sconfitto e lui, da solo, riuscì a rimontare. Fino, quasi, a pareggiare, contro il centrosinistra guidato da Prodi. Ma i tempi sono cambiati, da allora. Il PdL, oggi, pesa molto meno di FI, da sola. La Lega: è alla ricerca del terreno perduto. Fiaccata dagli scandali interni. Ma anche dalle divisioni. Non sarà facile tornare con Berlusconi, dopo un lungo periodo di opposizione. Contro il governo. Ma anche contro Berlusconi. Il quale, peraltro, oggi è molto debole, dal punto di vista del consenso personale. La fiducia nei suoi confronti si è ridotta al 20%. Alla fine del 2005 era intorno al 32% e nei primi mesi del 2006 era risalita oltre il 35% (dati dell’Atlante Politico di Demos). D’altronde la Tv, sua tradizionale alleata, oggi conta meno.
Peraltro, la posizione dei concorrenti appare molto più solida di allora.
I consensi del Pd si aggirano intorno al 38%. Una misura, certamente, accentuata dalle primarie e dal declino dell’Idv. Tuttavia, il divario rispetto al PdL appare enorme. Difficilmente colmabile. Certo, la legge elettorale può complicare la conquista di maggioranze stabili al Senato. Ma, a differenza del 2006, Berlusconi e il Centrodestra non potranno contare sull’alleanza con i Centristi. L’Udc e le altre formazioni del Terzo Polo correranno da sole. Per se stesse e, soprattutto, contro Berlusconi. Perché il Cavaliere ha annunciato il suo ritorno “contro” Monti. Dunque, contro il Pd e, ancor più, contro il Terzo Polo di Centro. Che a Monti ha giurato fedeltà.
Eccolo di nuovo. Berlusconi. Nel 2006 si era presentato come l’Imprenditore contro i Nemici del Mercato. Fiducioso che non vi fossero “tanti coglioni che votano sinistra”. Oggi, invece, è il leader dello schieramento “antipolitico”.
Farà campagna elettorale contro i comunisti del Pd, contro l’Euro e l’Europa. Contro Monti. Insieme alla Lega e in concorrenza
con il M5S. Monti, da parte sua, ha annunciato le dimissioni, dopo la legge di stabilità. In questo modo, è divenuto l’attore protagonista. Della prossima campagna elettorale e, ancor più, della stagione dopo il voto. Anche se non è detto che “scenda in campo” direttamente. Che promuova una lista “personale”. O che accetti di venire candidato (premier) da uno schieramento. Il Terzo Polo: rischia di essere un soggetto limitato, rispetto alle ambizioni del Professore. Il centrosinistra: come potrebbe proporre il suo nome, dopo aver mobilitato milioni di elettori per scegliere il candidato premier? (E poi, come la prenderebbe Sel?).
Annunciando le dimissionI da premier, Monti ha rifiutato di diventare bersaglio della campagna elettorale di Berlusconi. E di altri soggetti politici. Ma, in questo modo, costringerà tutti a esprimersi e a “schierarsi” sulla sua esperienza di governo. Sulle riforme fatte e su quelle non fatte. Sul suo ruolo. In politica interna, ma anche in politica estera. Nei rapporti con la Ue, la Bce, l’Fmi. Con gli altri governi internazionali. Presso i quali il Professore gode di largo credito.
Monti, d’altronde, dispone ancora di un ampio consenso personale anche in Italia, superiore al 47%. Mentre il suo governo ha la fiducia di circa il 44% degli elettori (Dati Demos, dicembre 2012). Un sostegno ampio rispetto ai governi che l’hanno preceduto, in tempi assai meno difficili. Ma anche in confronto ai governi e ai premier degli altri paesi europei – in condizioni economiche migliori del nostro.
Che si presenti come candidato premier (non come parlamentare, ovviamente, visto che è senatore a vita) oppure no, Monti è destinato ad essere il protagonista della prossima campagna elettorale. Il nuovo Muro che attraversa la politica italiana. E divide partiti ed elettori. Pro o contro.
Ciò rafforza l’idea che le prossime elezioni costituiscano una svolta. Perché offrono l’occasione per chiudere la Seconda Repubblica. Di andare oltre il Berlusconismo. Oltre Berlusconi.
Definitivamente.
La Repubblica 11.12.12
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“I miracoli elettorali del grande illusionista”, FILIPPO CECCARELLI
PERÒ attenti, che Berlusconi le campagne elettorali le sa fare. Come presidente del Consiglio, come si è capito, è un disastro.
MA QUANDO si tratta di attizzare la curiosità, conquistare l’attenzione, imporre temi, vendere promesse e alla fine anche raccattare voti, accidenti, è un mostro, nel senso latino di monstrum, un fenomeno, un prodigio, un leader rapace e soprattutto capace di produrre autentici miracoli elettorali.
Se ne può chiedere dolorante conferma a Occhetto, a Veltroni, a Rutelli e anche al professor Prodi che nel 2006 sembrava avesse stravinto, e invece in quella interminabile notte ebbe paura, come tutti gli elettori del centrosinistra, che la più pazzesca rimonta della Cdl riportasse di slancio Berlusconi al primo posto. Ancora una settimana di invasioni televisive, manifestazioni affettive, maledizioni psico-emotive e con la dovuta complicità degli errori della sinistra, che s’era messa a invocare più tasse, il sorpasso, per non dire lo sfondamento, sarebbe stato ineluttabile.
Garantì allora bonus-bebè alle mamme e carte-oro ai pensionati, cui pure fece intravedere dentiere gratis (“Operazione Sorriso”) e perfino un cagnolino, pure gratis.
Nell’arco di un mese si proclamò Napoleone, Giustiniano, Churchill e Gesù. Fece visita a un giovane uscito dal coma, sembra ascoltando una sua perorazione su nastro. Fece capire che il gasolio arrivava grazie all’amicizia con Putin e incurante delle proteste diplomatiche arrivò ad accusare i comunisti, nel caso specifico cinesi, di utilizzare i bambini come concime nei campi. In un empito di intimità disse (a un sacerdote sardo) che praticava una forma di astinenza sessuale, una sorta di offerta votiva pre-elettorale e pur afflitto da una terribile sciatalgia lombare, durante un talk-show scattò in piedi riempiendo d’improperi Diego Della Valle. E pareggiò una partita che era persa.
Non gli mancano l’esperienza, la tempra, il tempismo e specialissime male arti che in queste occasioni diventano buonissime.
Guarda caso, ha fatto partire l’odierna campagna proprio nel momento in cui gli italiani debbono pagare l’Imu, salatissima. E’ questa la sua quattordicesima campagna elettorale, essendosi battuto in cinque elezioni politiche, quattro europee e quattro regionali. Un record che gli impone la corona spettante a uno dei più grandi affabulatori del mondo.
Ha promesso le grandi opere, il ponte di Messina, meno tasse per tutti, perfino la vittoria sul cancro. L’imperatore degli illusionisti, certo, ma pur sempre il numero uno. Il più grande cinico specialista delle emozioni; uno straordinario tecnico del consenso al quale si deve il seguente motto, terrificante nella sua efficacia predatoria: “Se un messaggio pubblicitario impiega più di tre secondi per essere capito, vuol dire che non è chiaro, se non addirittura sbagliato”. Questo consigliava ai suoi venditori Berlusconi quando il fondatore di Twitter, Jack Dorsey, era ancora alla scuola materna.
Non ha paura di niente e di niente si vergogna. Nel 2008 ha aperto un comizio parlando per sette minuti di Mamma Rosa, che se n’era appena andata, e ha concluso: “Giovani, state vicini alle vostre mamme!”. Nel corso del ventennio ha regalato telefilm, euro-convertitori, opuscoli apologetici sulla sua vita, ma anche pacchi di pasta. Nel 1994 si è offerto come se fosse già presidente; l’ultima volta si è consentito il lusso di aggiungere: “La mia condanna è definitiva: dovrò fare il presidente del Consiglio”.
In primavera è uscito un libro, comprensibilmente patinato e illustrato, che gli ultimi sviluppi rendono molto più interessante di quanto fosse apparso allora. S’intitola: “Come Berlusconi ha cambiato le campagne elettorali in Italia” e l’hanno scritto l’onorevole Antonio Palmieri, responsabile Internet del Pdl, e altri tre tecnici di marketing politico — Gianni Comolli, Cesare Priori e Massimo Maria Piana — le cui competenze sono state al servizio del partitoazienda fin dai tempi dalla discesa in campo. Berlusconi firma una prefazione niente affatto di circostanza che si conclude: “Ne abbiamo pensate e realizzate tante e, come dimostra la nuova, grande avventura del Pdl, non intendiamo fermarci qui…”.
In quelle pagine, più che la teoria, c’è la storia, l’evoluzione e soprattutto la pratica che ha rivoluzionato le forme e in qualche modo l’arte della politica e anche del potere. Dai fondali dei comizi con cielo & nuvolette al Contratto con gli italiani, dall’uso dei sondaggi a quello degli inni e degli spot nelle loro molteplici versioni, dal kit del candidato all’opuscolo-fotoromanzo, dalla nave “Azzurra” al “presidente operaio” fino al premio “Berluskaiser” per i migliori taroccamenti on line, ecco, il marketing si celebra con l’orgoglio di chi non solo ha fatto sembrare di colpo la propaganda degli avversari ferma all’età delle pietra, ma nell’arco di un ventennio li ha spinti a scimmiottarla, a farla propria, a estenderla, magari adesso anche a rinnovarla.
E quindi attenti. Perché l’odierno Berlusconi sarà vecchio, sarà bollito, sarà finito, sarà in bolletta con le banche, magari sarà anche condannato per prostituzione minorile. Ma rimane Berlusconi, e fino a prova contraria in campagna elettorale non c’è (ancora) politico che possa mangiargli nel piattino o piattone che sia.
La Repubblica 11.12.12

“Quei libri coperti dal cellophane. Piove nella Biblioteca di Firenze”, di Gian Antonio Stella

Ricordate l’«accordo epocale» con Google per digitalizzare un milione di libri delle biblioteche italiane? Tre anni dopo (quasi il tempo impiegato dai cinesi per un ponte di 36 chilometri nel mare di Shanghai) non ne hanno trattato manco uno: il primo sarà consegnato allo scanner domani mattina. Evviva. E intanto alla Biblioteca nazionale centrale di Firenze, nella sala di lettura, le librerie sono coperte dal cellophane: quando piove, piove dentro. Un’immagine che da sola illustra lo stato spesso penoso delle biblioteche italiane.
Gli amici dell’«Associazione lettori» ci ridono sopra con amarezza. E accompagnano le fotografie inviate al Corriere di quelle librerie al primo piano protette con teli di plastica per mettere i libri al riparo se diluvia, cosa accaduta per settimane da novembre in qua, con una didascalia ironica. Che fa il verso alla canzone Singin’ in the rain che Gene Kelly cantava allegro giocando con l’ombrello sotto la grondaia: «Studying in the rain». Studiando sotto la pioggia.
Certo, le condizioni rispetto all’anno scorso, quando l’Associazione lettori si spinse a chiedere l’intervento dell’Asl perché nelle sale di lettura il riscaldamento non funzionava e «certi giorni faceva troppo freddo per studiare anche col cappotto», spiega la ricercatrice Eliana Carrara, è migliorata. Ma è fuori discussione che, al di là della dedizione e degli sforzi per fare le nozze coi fichi secchi da parte di tante persone di buona volontà, dalla direttrice Maria Letizia Sebastiani all’ultimo dei bibliotecari, la più grande biblioteca italiana (sei milioni di volumi, quasi tre di opuscoli, 25 mila manoscritti, 4 mila incunaboli, 120 chilometri lineari di scaffalature…) non è trattata da anni come dovrebbe essere trattato un grande tesoro culturale.
E se questo vale per la biblioteca fiorentina, vale a maggior ragione per tutte le altre sparse per la penisola. Al punto che qualche settimana fa fu organizzata a Napoli e in tutta Italia la giornata del «BiblioPride». L’orgoglio bibliotecario. Certo, le nostre biblioteche soffrono di una debolezza storica: sono troppe. Lo diceva già nel lontano 1867 l’allora prefetto, cioè direttore, della grande istituzione fiorentina Desiderio Chilovi: «Le “nazionali” italiane sono per numero sovrabbondanti; giacché lo Stato non è in grado di sopportarne la spesa occorrente». Da allora hanno continuato a crescere e oggi non solo siamo gli unici, accusa l’Associazione italiana biblioteche, ad aver due grandi biblioteche centrali, a Firenze e a Roma, ma ne abbiamo ben 46 statali. «Nessuno Stato al mondo» sbuffava già nel 1972 l’allora direttore della «Nazionale» fiorentina Emanuele Casamassima «gestisce direttamente tante biblioteche».
Risultato: è impossibile concentrare gli sforzi su poche eccellenze, come fanno in Francia, in America o in Gran Bretagna. E tutto finisce per disperdersi in un’infinità di rivoli. Con conseguenze pesantissime. Tre soli esempi? La chiusura della biblioteca di Pisa dal 29 maggio perché dopo sei mesi non c’è ancora una perizia sui danni subiti a causa della scossa di terremoto in Emilia. Lo sciopero alla Biblioteca «Alberto Bombace» di Palermo, forse la più importante della Sicilia, perché il taglio dei fondi ha costretto a ridurre da sei a due le «spolverature» annuali col risultato che i libri sono coperti dalla polvere. La decisione di alcuni docenti della «Sapienza», guidati dall’antropologa Laura Faranda, di fare loro i «commessi di sala» per riaprire le biblioteche dell’università chiuse a metà ottobre «per mancanza di personale e il definitivo taglio alle borse di studio degli studenti che, negli ultimi anni, hanno garantito il servizio di sala, la distribuzione dei libri e i controlli». Ma sono un po’ tutte le 12.375 biblioteche censite dal ministero a versare in condizioni difficili. Non solo economiche ma spesso strutturali.
Investito dalla protesta del «BiblioPride», il Consiglio superiore per i beni culturali ha varato un mese fa «un piano straordinario di interventi» per 6.602.820 euro. Il tutto, spiegava il comunicato, «risponde alla necessità sempre più pressante di tutela del patrimonio librario e prevede interventi di carattere strutturale e di sicurezza delle sedi». A partire dalla Biblioteca dei Girolamini (travolta dallo scandalo dei libri rubati dal direttore Massimo Marino de Caro) e dalla «Nazionale» di Firenze, che dovrebbe avere oltre 600 mila euro destinati in buona parte ai tetti e alle caldaie: «L’anno scorso gli impiegati lavoravano in giacca a vento — ricorda Natalia Piombino, portavoce dell’Associazione lettori —. Ma le difficoltà sono generali. Vent’anni fa c’erano 400 dipendenti e adesso credo siano 188, dei quali una trentina di lavoratori “svantaggiati” che non possono essere adibiti a certi ruoli. Per non dire di spese assurde come gli 80 mila euro l’anno che il Comune vuole di tassa sui rifiuti. Ha dovuto intervenire un mecenate privato per pagare gli 80 euro al mese per il servizio di trasporto delle riviste in abbonamento…». Alle altre 17 biblioteche elencate, dalla Marciana di Venezia alla Reale di Torino, dalla Braidense di Milano alla Alessandrina di Roma dovrebbero andare poco più che degli oboli.
Del resto la stessa Rossana Rummo, direttore generale del ministero per le biblioteche, ha riconosciuto che i tagli sono stati via via «spaventosi»: «Negli ultimi 7 anni, lo sviluppo dei servizi informatici è diminuito del 64% e del 93% per la catalogazione. Il budget, rispetto al 2005, è sceso del 63%». «Eppure quello dei soldi è solo uno dei problemi» denuncia il presidente dell’Aib Stefano Parisi «qualunque stanziamento straordinario, in una situazione sclerotizzata come questa, non risolverebbe granché. Va messo ordine. È assurdo che a Roma oltre alla “Nazionale”, ci siano altre otto biblioteche statali. Come minimo vanno coordinate».
Come funzioni da noi rispetto all’estero lo spiega L’Italia che legge, di Giovanni Solimine: «Le due biblioteche nazionali vedono i loro bilanci ridursi al lumicino (un milione e mezzo quella di Roma e 2 milioni quella di Firenze), mentre quelli delle consorelle europee sono di tutt’altro ordine di grandezza: Parigi 254 milioni, Londra 160 milioni, Madrid 52 milioni». Quanto alla Bibliothèque Nationale parigina, «ha un numero di dipendenti più elevato di tutte le 46 biblioteche statali italiane messe insieme». Certo, da noi questi non sono direttamente pagati dalle biblioteche ma dai ministeri. Ma resta una sproporzione immensa.
Dice uno studio di Claudio Leombroni, responsabile Rete bibliotecaria della Romagna e di San Marino, che lo Stato dava nel 1892 alla Biblioteca nazionale di Roma, per comprare libri e riviste, l’equivalente attuale di 266.190 euro: oggi ne dà 120.000. E lo stesso, più o meno, vale per Firenze. Per non dire delle biblioteche «minori», ridotte più o meno alla fame. Bene: nonostante la crisi morda anche a Londra, la British Library nel 2011 ha contato per la stessa voce, dice il bilancio a pagina 45, su un budget di 16,5 milioni di sterline. La Bibliothèque Nationale, stando ancora ai dati forniti dall’Associazione italiana biblioteche, su 19,6 milioni di euro.
Un abisso. Del resto, il nostro sistema è così farraginoso, ormai, che fatichiamo a sfruttare anche le occasioni. Come, appunto, l’accordo con Google. Il motore di ricerca americano aveva stretto ai primi di marzo 2009, dopo nove mesi di trattative, un’intesa con l’allora ministro Sandro Bondi per digitalizzare un milione di libri antichi e non più coperti dal copyright contenuti nelle biblioteche italiane. Noi avremmo dovuto mettere solo 2 milioni di euro, loro circa un centinaio per poi fornire i testi a disposizione degli utenti dell’intero pianeta. Bene: quando si è installata Rossana Rummo, a luglio, «era ancora tutto bloccato in Corte dei conti». Colpa di mille impicci burocratici. Lacci e lacciuoli. Risultato: il primo carrello di libri sarà consegnato al centro allestito appositamente a Roma da Google, solo domani mattina.
Il Corriere della Sera 10.12.12

“Quanto ci costa il populismo della destra”, di Paolo Gurrieri

Poco più di un anno fa la drammatica uscita di scena di Silvio Berlusconi consegnò a Mario Monti un Paese sull’orlo di un vero e proprio crack finanziario. Se si fa un sommario bilancio di questo periodo non si può non riconoscere al governo il merito di aver evitato quel crack, avviando l’Italia verso un percorso di risanamento dei conti pubblici. In soli tredici mesi è stata restituita credibilità e un ruolo da protagonista al nostro Paese in campo europeo e internazionale, introducendo una forte discontinuità rispetto ai governi Berlusconi attraverso un modo di fare politica incentrato sui temi e contenuti piuttosto che su questioni di mero potere.
Decisamente più modesti, viceversa, sono stati i risultati raggiunti rispetto alle altre due grandi finalità che Monti aveva posto, unitamente al rigore, a fondamento del proprio programma: il rilancio della crescita e il perseguimento dell’equità. Certamente hanno pesato le difficoltà di antica data alla base del nostro ristagno e delle disuguaglianze nella società. Non meno importanti, tuttavia, sono state lacune e debolezze delle strategie e politiche adottate su temi quali la distribuzione del peso fiscale, il rilancio dello sviluppo, il risanamento del sistema produttivo.
Naturalmente non sono state queste le ragioni che hanno spinto Berlusconi a ritirare così bruscamente e platealmente il suo appoggio a Monti. I primi effetti sul piano economico si sono già verificati attraverso la negativa reazione dei mercati. E non è soltanto l’aumento dello spread a preoccupare, ma la vera e propria involuzione che il nostro Paese rischia nei confronti dei nostri partner in Europa. Basti pensare agli effetti sulle cancellerie europee di una campagna elettorale in cui Berlusconi e il rianimato centrodestra spenderanno a piene mani parole d’ordine in concorrenza con Grillo intrise di demagogia e populismo contro il governo Monti, l’euro, la Germania e a favore della rivolta fiscale.
Per contrastare una tale deriva la carta più efficace dello schieramento di centro sinistra che sosterrà un futuro governo guidato da Pier Luigi Bersani è la netta differenziazione nella forma e nei contenuti della propria campagna e del proprio programma elettorale. Sul piano della forma occorre far leva sulla responsabilità e affidabilità delle proposte, ribadendo di voler proseguire uno stile di governo nuovo che in questi mesi i cittadini italiani hanno mostrato di apprezzare.
Sul piano dei contenuti, occorrerà certo fare tesoro di quanto fin qui raggiunto, ma non meno impellente è la necessità di cambiare strada, mettendo in campo politiche in grado di perseguire e conciliare assai meglio tra loro le tre già citate finalità del rigore, della crescita e della equità che devono restare le stelle polari della politica economica italiana. Non si tratta, ovviamente, di ridurre il rigore nell’opera di risanamento delle finanze pubbliche, quanto tornare a considerare queste ultime come la precondizione per far ripartire il motore bloccato dell’economia italiana. Ed è un cambiamento che dovrà essere per forza gestito in chiave europea. Sia perché abbiamo bisogno per il nostro sviluppo di restare nell’euro, sia perché dobbiamo contribuire a modificare, insieme agli altri membri dell’Eurozona, le politiche fin qui seguite in Europa, appiattite sul binomio recessione-austerità e incapaci di avviare un nuovo ciclo di investimenti. Proposte in tale direzione sono venute da più parti, occorre creare le condizioni politiche perché possano essere adottate. E qualche spiraglio lungo questa direzione si è aperto recentemente anche in Germania.
Servono, infine, politiche fiscali e sociali rinnovate in grado di accrescere i loro effetti redistributivi, che andrebbero rafforzati ulteriormente attraverso miglioramenti quantitativi e qualitativi dell’offerta di servizi pubblici, come sanità, istruzione e servizi destinati alla persona. Sarebbero interventi in grado a un tempo di sostenere la domanda interna e correggere disuguaglianze che hanno raggiunto ormai livelli non più tollerabili nel nostro Paese. Da realizzare nella logica dello scambio, tra misure dettate da ragioni di efficienza ed equità, dirette a rilanciare l’economia nel breve termine, da un lato, e assicurare maggiore crescita in un futuro a medio termine, dall’altro. Si tratterebbe di una politica di riforme in grado di offrire maggiori opportunità di accesso economico a molti cittadini giovani e vecchi, uomini e donne e quindi pienamente compatibile con gli obiettivi della crescita. Non va dimenticato, in effetti, che la crescente disuguaglianza dei redditi in Italia e in tutta l’area industrialmente più avanzata ha contribuito a favorire la crescita abnorme di credito e attività finanziarie ad elevato rischio in tutti gli anni precedenti la crisi. Era diretta a colmare la distanza crescente tra redditi e aspirazioni alla spesa di vasti strati di cittadini ma ha finito per rendere a un certo punto insostenibile com’è noto il livello di debiti accumulato e ha generato la grande crisi economico finanziaria in cui siamo tuttora immersi.
L’Unità 09.12.12

“Una tragedia da non dimenticare: ThyssenKrupp, 5 anni dopo”, di Cesare Damiano

Cinque anni fa, il 6 dicembre 2007, sette operai morirono nel rogo della ThyssenKrupp di Torino. Quella tragedia non va dimenticata. Non la deve dimenticare, anzitutto, la politica, che ha il dovere di operare affinché tragedie così non possano mai più accadere. E non la deve dimenticare il paese, abituato ad evocare spesso il tema della sicurezza sul lavoro senza però praticarlo in modo adeguato.
All’epoca del rogo alla Thyssen ero ministro del Lavoro. Col governo Prodi, di cui ero parte, avevamo da poco varato la legge “123”. In quella legge venivano individuati i criteri di delega della riforma sulla salute e la sicurezza nei luoghi di lavoro, ma erano anche previste norme di immediata applicazione dirette a incidere, da subito, sugli ambienti di lavoro, data l’urgenza con la quale si doveva cominciare a intervenire.
Il mio impegno allora, in una situazione politica difficilissima che avrebbe di lì a poco portato alla caduta del governo e a elezioni anticipate, fu quello di varare in tempo utile il decreto legislativo che avrebbe consentito a quelle norme di diventare pienamente operative. Nell’aprile 2008, in piena crisi di governo, abbiamo consegnato al paese un complesso normativo tra i più completi e incisivi d’Europa. Un intervento legislativo moderno e adeguato alla gravità dei problema e all’attuale organizzazione del lavoro.
Le cose poi sono andate in modo diverso. Fin dai primi giorni dal suo insediamento, il governo Berlusconi ha operato per ridurre le tutele allora introdotte e le spese per la sicurezza sono tornate a essere viste come un costo da contenere il più possibile in nome della competitività, anziché come un investimento doveroso e necessario.
Ancora oggi, seppure in miglioramento rispetto al passato – anche in conseguenza della grave crisi economica e occupazionale – i dati evidenziati dall’Inail dipingono un quadro preoccupante. Le morti causate dagli incidenti sul lavoro sono passate da 973 del 2010 a 920 nello scorso anno e gli infortuni denunciati sono stati 725mila, con un calo del 6,6 per cento rispetto al 2010. Una situazione che non può essere accettata. La battaglia per la sicurezza sul lavoro va continuata.
In questo senso è positivo l’impegno assunto di recente dal ministro del Lavoro Fornero di completare entro la legislatura l’attuazione del Testo Unico sulla sicurezza. Occorre però anche intervenire sulle modifiche peggiorative introdotte al decreto 81 e definire nuove linee di intervento che innovino ulteriormente rispetto a quanto già fatto, anche in materia di semplificazione, senza che ciò produca un abbassamento delle tutele.
L’obiettivo di tutti – governo, politica, parti sociali – deve essere quello di estendere a ciascun lavoratore le misure di prevenzione necessarie, che devono essere calibrate non in base alle dimensioni dell’impresa in cui opera, ma in base alla pericolosità delle lavorazioni eseguite.
Su questo fronte ogni resistenza va superata. Credo sia un obbligo morale che abbiamo anche nei confronti dei sette operai morti cinque anni fa alla Thyssen.
L’Unità 09.12.12