Si scrive Gaza, ma si pronuncia Teheran. Si scrive con il sangue dei bambini, come sempre, anche la nuova pagina dell’odio senza fine. È l’Iran, non i missili di Hamas o la rappresaglia di Tsahal, l’esercito israeliano, l’obbiettivo al quale guardano gli attori di una nuova edizione della interminabile strage. Si testano a vicenda, si sfidano e si misurano con il sangue, con la crudeltà insopportabile di quei corpi di bambini.
Bambini mussulmani ed ebrei, palestinesi e israeliani, ma sempre e soltanto innocenti con cui cercano di risucchiare Obama nel pozzo senza fondo del loro odio.
Ricostruiamo i tempi, che in ogni storia sono sempre essenziali per trovare un filo di comprensione e dare un senso, se è possibile farlo, a questo abominio. Era trascorsa appena una settimana dalla riconferma di Barack Obama alla Casa Bianca quando i missili di Tsahal, l’esrcito israeliano, sono piovuti mercoledì scorso su Gaza e hanno ucciso Ahmed al Jabary lo stratega di Hamas, insieme con altri cinque palestinesi e una bambina di 7 anni. Può essere stata soltanto una coincidenza cronologica, se scatta ora, improvvisamente, un’operazione che il
New York Times ha definito «il più feroce e violento assalto degli ultimi quattro anni» su Gaza?
Quattro anni sono appunto quanti ne sono trascorsi dalla prima vittoria di Barack Hussein Obama nel novembre 2008. Se mai la frusta e abusata espressione può essere usata a ragione, questa “feroce” recrudescenza della rappresaglia israeliana contro Hamas e Gaza, ha tutto il sapore di un azione a orologeria.
Lanciata certamente per colpire al Jabary, ma soprattutto per mettere alla prova il vero, storico e fondamentale obbiettivo della politica estera e militare israeliana: il presidente degli Stati Uniti. Per vedere fino a che punto Israele possa contare su di lui, se decidesse di affrontare il vero nemico che teme, l’Iran nucleare. Che Bibi Netanyahu e Barack Obama non siano né amici né siano in perfetta sintonia come Israele era con George W. Bush fino al 2008 è un fatto che la campagna elettorale americana finita da due settimane aveva ampiamente illustrato. Le accuse di indifferenza, tradimento, presa di distanza lanciate contro il presidente erano state esplicite e la simpatia della destra israeliana al potere era chiaramente riservata a Romney e ai suoi consiglieri strategici, i vecchi compari “neo con” che sarebbero tornati alla Casa Bianca, al Pentagono e al Dipartimento di Stato dietro di lui.
Nella logica brutale del Medio Oriente il solo strumento sicuro ed efficace per “testare” alleanze e solidarietà è la violenza. E alla violenza ha fatto ricorso Hamas, oggi puntellata e rifornita anche dall’Iran che l’ha dotata dei missili capaci di raggiungere Tel Aviv, che doveva mettere alla prova i nuovi governi emersi dai ruderi dei vecchi regimi dispotici, soprattutto in Egitto. Gli israeliani, che dopo la eroica e solitaria resistenza nella guerra del 1947, sanno di dovere, e di potere, contare sugli Stati Uniti per sopravvivere, dovevano, volevano vedere come Obama avrebbe reagito di fronte alla escalation di violenze militari più furiosa dal tempo dell’Operazione Piombo Fuso del dicembre 2008. Il mese della transizione fra l’amico certo, Bush, e l’incerto amico ancora da provare.
La risposta della Casa Bianca, secondo il classico stile di Obama, è stata più ambigua che soddisfacente, più ambivalente che rassicurante, per Netanyahu. In partenza per il viaggio in Birmania, dove è andato per celebrare il lento ritorno alla democrazia di quella dittatura militare, il primo Obama ha riconosciuto «il diritto di Israele alla legittima difesa », di fronte all’aggressione quotidiana di «migliaia di missili». Ma dopo avere dato l’imprimatur Usa al diritto di difendersi l’altro Obama ha condizionato le parole del primo. «Il diritto all’autodifesa e la protezione dei civili possono essere esercitati senza un’escalation della azione militare ». Evitare la rioccupazione, o l’intervento diretto a Gaza «sarebbe preferibile, non soltanto per il popolo che vive in quella striscia, ma per le stesse truppe israeliane che sarebbero
esposte al rischi di molti caduti».
Né semaforo verde, né semaforo rosso, è dunque il risultato del sanguinoso test che Hamas e Netanyahu hanno sottoposto ai rispettivi sponsor e sostenitori. Come l’Egitto, che dalla pace di Camp David nel 1976 fra Sadat e Begin resta il pilastro sul quale si regge la “non guerra non pace” in Medio Oriente, non vuole incoraggiare Hamas a scatenare quel bagno di sangue “infernale” che ha promesso, così l’America di Obama non vuole trovarsi di fronte a un’altra catastrofe politica, umanitaria e propagandistica come quella creata da “Piombo Fuso” nel 2008.
Semaforo giallo, dunque, da Washington a Tel Aviv, procedere con prudenza, con saggezza, con il coraggio del più forte davanti alle provocazioni del più debole e non fare prove generali per ben altri e ben più rischiosi attacchi militari non ai prigionieri di Gaza, ma a una grande nazione come l’Iran. Quei civili e quei bambini morti sulla linea di demarcazione fra palestinesi e israeliani sono, orribile a dirsi, pedoni mossi e divorati su una scacchiera per muovere verso pezzi importanti. Bibi Netanyahu parla di Gaza, ma pensa a Teheran.
La Repubblica 19.11.12
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“Mediaset crac, l’incubo di B.”, di Vittorio Malagutti e Luca Piana
I conti in profondo rosso. Il calo di ascolti. Il crollo della pubblicità. La crisi politica dell’ex premier coincide con il momento peggiore nella storia delle sue aziende. Costretto a tagliare i costi e a vendere villa Certosa. Licenziare Allegri? Parliamone, ma con calma. E magari aspettiamo la prossima stagione. Perché è vero che il Milan se la passa male, ma il patron Silvio Berlusconi sta facendo la spending review a casa propria. E allora, con quattro allenatori già a libro paga, è meglio evitare di assumerne un altro, continuando a stipendiare Massimiliano Allegri fino al 2014, quando scadrà il suo contratto. Si viaggia al risparmio, quindi, nella speranza di un colpo d’ala che permetta al Milan di evitare catastrofi (calcistiche).
I tifosi si rassegnino. In casa Berlusconi si sono messi a fare i conti. I conti con la recessione, che ha dato mazzate pesanti al business pubblicitario, quello che alimenta le tv targate Mediaset. E i conti con la politica, dove la Fininvest come partito azienda è giunta ormai al capolinea per effetto del tramonto di re Silvio e del conseguente sfaldamento del Pdl. Addio leggi ad aziendam, allora. Niente più corsa degli inserzionisti pubblicitari per omaggiare a suon di spot le televisioni del politico imprenditore. Nulla sarà più come prima nel regno di Arcore. I fuoriclasse in fuga dal Milan. Villa Certosa in vendita. Resiste, per adesso, il vitalizio alle Olgettine, l’obolo di qualche migliaio di euro al mese destinato alle ragazze gradite ospiti delle ormai celebri «serate eleganti» dell’ex presidente del Consiglio. E’ tempo di taglia e cuci, ormai.
HOLDING IN PANNE
Tra poche settimane, Berlusconi e i cinque figli si riuniranno per il tradizionale via libera ai bilanci delle sette holding di famiglia e dovranno fare a meno, per il secondo anno consecutivo, dei dividendi della Fininvest. Per carità, nessun dramma. In base ai calcoli più aggiornati, le società che stanno in cima alla catena di controllo vantano ben più di un miliardo di liquidità. Come dire che Silvio e i suoi eredi possono attingere a piene mani alle loro casse personali ancora per un bel pezzo. Il problema è un altro. I motori che hanno alimentato la crescita del gruppo si stanno raffreddando sempre di più.
La Mondadori, come gli altri editori del Paese, è alle prese con un doloroso piano di tagli e la prevista chiusura di diverse riviste. Mentre i conti, come annunciato martedì 13 novembre, segnano il passo: gli utili dei primi nove mesi sono calati del 63 per cento a 16 milioni di euro, per effetto soprattutto del crollo della pubblicità nel settore dei periodici. Lo stesso giorno anche Mediaset ha comunicato una perdita nei primi nove mesi dell’anno pari a 45 milioni di euro, un vero e proprio tracollo rispetto ai profitti di 164 milioni realizzati nello stesso periodo del 2011. Non era mai successo che l’azienda di Cologno Monzese chiudesse in rosso i primi tre trimestri dell’anno. Sui risultati dell’intero 2012 c’è grande incertezza ma è l’azienda stessa a prevedere che a fine anno le perdite si assesteranno sullo stello livello dei primi nove mesi dell’anno. Uno choc, se si pensa che per Mediaset è la prima perdita della storia. Così, prima della diffusione dei dati della trimestrale, il titolo del gruppo ha virato al ribasso di quasi il 3 per cento, avvicinando pericolosamente il minimo storico di 1,14 euro toccato lo scorso giugno. Nel giro di un anno Mediaset ha perso quasi la metà del suo valore di Borsa e, rispetto al 2009, la quotazione si è sgonfiata addirittura del 70 per cento. Bastano questi dati per intuire che analisti e investitori non nutrono grande fiducia sulle prospettive di recupero, almeno nel breve termine.
LA TV DELLE VECCHIETTE
L’origine dei guai di Silvio è tutto sommato semplice. Le sue televisioni non tirano più come in passato. Stanno soffrendo quella che si potrebbe definire una vendetta del destino. Un tempo il creatore di Canale 5 poteva vantarsi di aver catturato con le sue reti non soltanto il grande pubblico ma anche quello pubblicitariamente più ghiotto: i giovani, i benestanti, le persone che chiedono sempre l’ultima novità. La Rai, è vero, ha mantenuto il primato dell’audience. Ma, come ripetevano i venditori di Publitalia, Mediaset spopolava fra le tribù metropolitane, lasciando alla tivù di Stato le vecchiette dei paesini sperduti dell’Appennino. Poco sotto mamma-Rai in termini di quote di spettatori, Mediaset si ingozzava così di pubblicità, grazie anche ai vincoli imposti alla tivù pubblica, già sovvenzionata dal canone.
L’Espresso
Bersani difende i volontari Pd «Basta uomini soli al comando», di Simone Collini
Come un anno fa, Renzi dal palco della Leopolda a giocare la carta della rottamazione e Bersani in mezzo ai duemila giovani delle regioni del Mezzogiorno che si sono iscritti alla scuola di formazione politica “Finalmente Sud” a parlare di un cambiamento che non può essere soltanto generazionale. Con due differenze. Una, non di sostanza: l’anno scorso il leader del Pd era a Napoli, ieri a Bari. La seconda, più importante: Renzi e Bersani ora sono in corsa, insieme a Vendola, Tabacci e Puppato, per la premiership del centrosinistra.
La sfida si giocherà domenica prossima nei diecimila seggi che verranno allestiti in tutta Italia. E Bersani, che chiuderà la sua campagna sabato sera a Genova, vuole impiegare i sette giorni che mancano alla chiamata ai gazebo a parlare dei problemi del Paese e di quel che dovrà fare il prossimo governo per affrontarli. Senza farsi distrarre da polemiche giudicate non solo sterili, ma anche dannose per tutti.
BASTA INSULTI
«Non si possono insultare in questo modo i volontari», scuote la testa il leader del Pd. A Bersani non piace il clima di sospetti fomentato attorno alle primarie da Renzi e dai suoi sostenitori. Con i duemila giovani arrivati a Bari da tutte le regioni del Sud, il segretario del Pd parla di scuola, di un Mezzogiorno vittima di «vergognosi sospetti» in questi anni di berlusconismo e leghismo, di dialogo tra le istituzioni e di Costituzione. Non vuole discutere invece di regole e procedure delle primarie, né vuole farsi trascinare in una polemica che, ragiona con i suoi, «fa solo del male alla ditta».
Però man mano che gli raccontano i dettagli del vademecum per i rappresentanti di seggio di Renzi, man mano che gli riportano le frasi pronunciate alla Leopolda e il riferimento al rischio «brogli», Bersani si convince che una parola deve dirla. Non per difendere se stesso o i dirigenti del Pd o chi ha stabilito quali debbano essere le regole per le primarie. Ma per difendere quanti in questi giorni stanno dedicando tempo e impegno a far registrare chi il 25 vuole votare, e che poi domenica prossima garantiranno lo svolgimento della consultazione popolare. «Non diamo l’impressione che in una partita così bella e pulita ci sia qualcuno che voglia far dei trucchi. Lasciamolo eventualmente dire agli avversari queste cose, a chi non ci vuole, che ce ne sono già parecchi». Quello che non si può fare, per Bersani, è mettere ora in discussione procedure scelte collegialmente per la sfida ai gazebo, o diffondere sospetti sul lavoro dei volontari perché «è tutta gente perbene».
I dati comunicati dai responsabili del sito web attraverso cui è possibile registrarsi (www.primarieitaliabenecomune.it) e dai membri del coordinamento nazionale fanno ben sperare circa i dati dell’affluenza che dovrebbe esserci domenica prossima. Quota mezzo milione è già stata superata e si prevede un incremento delle registrazioni in questi ultimi sette giorni. Per questo anche le polemiche del fronte renziano sulle code, le lungaggini burocratiche e la volontà di ridurre la partecipazione per impedire al sindaco di Firenze la vittoria, vengono giudicate infondate. «L’affluenza delle primarie io la voglio altissima, tanto è vero che non abbiamo fatto meno occasioni di partecipazioni ma di più spiega Bersani perché quel giorno lì, come è avvenuto in tutte le altre primarie, la gente si potrà iscrivere e votare, ma in più abbiamo messo in piedi un meccanismo di pre-registrazione. Cerchiamo di star sereni che le cose van benissimo. Cerchiamo di usare argomenti amichevoli». E le code? «Servirà un po’ di pazienza perché non è che abbiamo il ministro dell’Interno, sono tutti volontari. Immagino che qui e là potrà esserci qualche coda, però le preregistrazioni ci aiuteranno un pochino a sgonfiare questo meccanismo». E l’obbligo di iscrizione all’albo degli elettori del centrosinistra? «Questo albo non è burocrazia, può creare la comunità dei progressisti, raggiungibile, consultabile. Noi possiamo avere con questo albo una cosa che in Europa nessuno ha e, quindi, avere una platea, una comunità raggiungibile con la quale si possa anche procedere ad altre consultazioni. Incoraggiamo la gente ad andarsi a registrare».
Per Bersani queste primarie devono tirare la volata al centrosinistra in vista delle politiche del prossimo anno. Che saranno elezioni, secondo il leader del Pd, utili a costruire «un’alternativa di sistema rispetto quanto è stato negli ultimi venti anni». Da superare è il berlusconismo inteso non come persona ma come modello. Un modello che invece da più parti si tende a perpetuare, seppur in forme diverse. Perché andato via Berlusconi, «in vena» è rimasta la tossicità del personalismo e in questo senso «possono arrivare altre novità» altrettanto disgregatrici. Per questo Bersani mette in guardia dal rischio di nuove «generiche ammucchiate», o da quello rappresentato da chi, come Grillo, «vuole comandare dal tabernacolo».
È sempre il modello dell’«uomo solo al comando» che per il leader del Pd va evitato, di un personalismo non utile a raggiungere l’obiettivo. La prossima legislatura servirà anzi un’ampia alleanza, un «patto di legislatura» tra progressisti e moderati necessario per affrontare le difficili sfide che ci attendono.
E se Montezemolo parla di ricostruzione, riscossa civica, civismo, Bersani fa notare che «sono le stesse parole che noi stiamo dicendo ormai da due o tre anni». Il presidente della Ferrari ci aggiunge il riferimento all’attuale premier. Dice il leader del Pd: «Consiglierei di non tirare Monti per la giacca, perché in questo momento svolge una funzione molto delicata, utile al Paese e credo che dovrà svolgere anche nella prospettiva».
L’Unità 18.11.12
“Università, in 70mila per un concorso farsa”, di Mario Castagna
Le domande per l’abilitazione si chiuderanno il 20 novembre. I numerosi ricorsi presentati minano la validità della futura prova. I veri posti a disposizione sono infatti pochissimi. Settantamilaottocentotrentuno. Sono le domande arrivate sul sito che il ministero dell’Università ha predisposto per l’abilitazione scientifica nazionale. Un numero enorme, al di là di ogni aspettativa, simile al grande numero di partecipanti al prossimo concorso nazionale della scuola. Segno che esiste una patologia tutta italiana nei sistemi di reclutamento dei professori e dei ricercatori nella scuola e nell’università italiana. Un vero e proprio popolo di giovani ricercatori e di precari che affolla quotidianamente le aule delle università italiane. Il numero dei candidati è anche destinato a salire dal momento che la scadenza per la presentazione delle domande è fissata al 20 novembre. Il raggiungimento di questo numero di richieste è stato annunciato durante lo svolgimento del convegno «Il sistema dell’Università e della Ricerca in Italia» che Roars, rivista telematica dedicata ai temi dell’università e della ricerca in Italia, ha organizzato per festeggiare il suo primo anno di attività. La storia di questa rivista è un caso tutto da raccontare. Nato grazie alla rete di persone, relazioni, esperienze che hanno animato il movimento anti-Gelmini dell’autunno del 2010, questo sito internet è arrivato in pochi mesi a diventare un punto di riferimento per tutti coloro che in Italia si occupano di questi temi. Un’esperienza di successo visto che in un solo anno il sito è stato visitato da quasi due milioni di persone. Nell’intenzione dei fondatori del sito c’è sempre stata l’idea che l’attacco all’università fosse soprattutto un attacco culturale. Ora, i redattori di Roars, dopo tante analisi solo virtuali, hanno deciso di incontrarsi dal vivo per la prima volta pubblicamente con i loro lettori. È stata l’occasione per fare il punto, a quasi due anni dall’approvazione della legge Gelmini, sull’applicazione di questa riforma e sullo stato di salute dell’università Italiana. La questione che più ha tenuto banco è stata quella dell’abilitazione scientifica nazionale, il processo attraverso il quale il ministro Gelmini aveva pensato di immettere tra le fila dei docenti universitari migliaia di giovani. Come si diceva prima sono circa 80mila le domande arrivate per conseguire l’abilitazione scientifica nazionale, il processo che la Gelmini aveva pensato per immettere in ruolo migliaia di giovani professori universitari. Secondo le previsioni di chi è intervenuto al convegno tutto questo non accadrà. Due le principali questioni sul tappeto. La prima riguarda i numerosi ricorsi che pendono di fronte al Tar del Lazio che potrebbero inficiare la legittimità di tutto il processo, qualora venissero accolti. Se infatti finora era solo il ricorso promosso dall’Associazione Italiana dei Costituzionalisti a mettere a rischio tutto il processo, oggi si sono aggiunti quelli di numerose altre società scientifiche nazionali come quella dei matematici. La seconda questione riguarda il numero dei possibili abilitati. Il processo di abilitazione, secondo le intenzioni dell’Anvur, l’agenzia che è a capo di tutto il procedimento, dovrebbe essere un processo di riconoscimento oggettivo della qualità dei concorrenti: al superamento di alcuni valori si dovrebbe automaticamente ottenere l’abilitazione per diventare professore associato. La maggior parte delle persone ha fatto richiesta sapendo di poter superare questi valori piuttosto esigui. Ora le commissioni che dovranno giudicarli si troveranno di fronte al dilemma se abilitare tutti o se imporre una stretta. Se l’abilitazione sarà concessa a tutti ci si chiederà a che cosa sia servita la partecipazione all’ennesimo concorso che promette solo sogni. I veri posti a disposizione infatti saranno poi pochissimi. Se, al contrario imporranno una stretta, ci si chiederà perché l’Anvur sia stata finora impegnata nella definizione di criteri oggettivi e prescrittivi per poi ridurli ad un’indicazione di massima per le commissioni. Tutto il processo sembra essere destinato a creare l’ennesima promessa che non potrà essere mantenuta: un esercito di giovani abilitati, con numerose pubblicazioni alle spalle, che rischia di vedere infranto il loro sogno di impegnarsi nello sviluppo culturale e scientifico del nostro Paese. Una grande lotteria e non è strano che ieri un precario che provava a registrarsi nel sito internet veniva dirottato su un sito di scommesse on line. Oggi il problema informatico è stato risolto ma molti, registrandosi telematicamente, penseranno lo stesso di partecipare ad una estrazione a premi.
L’Unità 18.11.12
“Perché non riusciamo a ridurre la distanza tra i ricchi e i poveri”, di Fabrizio Galimberti
A scuola dovevamo leggere Giovanni Verga. Non era obbligatorio come i «Promessi sposi», ma era ed è un grande scrittore italiano. Riprendiamo allora il filone “Economia e letteratura” con un suo romanzo, «Mastro don Gesualdo». È la storia di un muratore che si arricchisce e le sue ricchezze portano più dispiaceri che benefici. Verga chiamava queste ricchezze “la roba” (come nell’eponima novella: http://it.wikisource.org/wiki/Novelle_rusticane/La_roba).
Questo tema – l’avidità che accumula “roba” – non è banale come potrebbe essere quello del “danaro che non dà felicità”. È invece lo spunto per una riflessione sul tema ricchi e poveri. Questa differenza fra ricchi e poveri, questa diseguaglianza nella distribuzione dei redditi, è andata crescendo in questi anni, anche prima della crisi. E bisogna capire le cause prima di cercare i rimedi.
Magari ci sarà qualcuno che non si preoccupa delle diseguaglianze. L’importante, direbbe, è che la torta cresca. Anche se la differenza fra ricchi e poveri aumenta, la marea alza tutte le barche. Quindi, non c’è da preoccuparsi di una diseguaglianza crescente purché l’economia continui a crescere.
Ora, a parte il fatto che attualmente l’economia non cresce e quindi le diseguaglianze mordono di più, è giusto quel ragionamento? Fino a un certo punto. Avete mai acceso il fuoco nel camino? La fiamma non prende subito dappertutto. Ci sono delle lingue di fuoco che guizzano da una parte, poi dall’altra, ci sono dei pezzi di legna che hanno dentro più umidità e fumano a lungo… La stessa cosa succede con lo sviluppo economico: non è un processo omogeneo. Coloro che muovono la crescita, che hanno una buona idea e creano ricchezza sono le “lingue di fuoco” che spingono lo sviluppo, i Mastri don Gesualdo dell’eponimo romanzo o i Mazzarò della novella “La roba”. Diventano ricchi prima degli altri, ma prima o poi il calore si estende e anche il resto della legna si accende…
La diseguaglianza dei redditi è figlia di questo processo disomogeneo, è connaturata all’espansione dell’economia. Di solito, la sua vicenda nel tempo è simile a quella di una U rovesciata. Quando l’economia comincia a crescere la diseguaglianza aumenta, per le ragioni sopra dette, ma poi, arrivati a un certo punto, comincia a diminuire: la crescita crea opportunità di lavoro per tutti.
Ma quello che è successo da qualche lustro a questa parte è diverso. Bene o male, l’economia ha continuato a crescere ma le diseguaglianze, che si erano attenuate negli anni Sessanta e Settanta, sono aumentate. A cosa è dovuto tutto questo? Alla globalizzazione e alla tecnologia, le due grandi forze che hanno plasmato il mondo negli ultimi vent’anni. Sono entrati nell’economia di mercato di miliardi di lavoratori dall’ex impero sovietico, dalla Cina, dall’India… Il loro costo del lavoro era molto basso e i beni che producevano facevano concorrenza a quelli prodotti dai Paesi occidentali. Questi ultimi, per competere, dovevano tenere sotto controllo stretto i propri costi del lavoro. Allo stesso tempo, le imprese occidentali andavano a produrre nei Paesi nuovi arrivati. Meno costo del lavoro vuol dire più profitti, e questa è una ragione dell’aumento delle diseguaglianze (chi riceve i profitti è di solito più ricco di chi riceve i salari). Secondo, la tecnologia. Siamo nell’economia della conoscenza, e coloro che padroneggiano le nuove tecniche guadagnano di più, allargando il divario fra le loro retribuzioni e quelle dei lavori manuali o più tradizionali (tenuti bassi dalla prima ragione sopra menzionata).
Questo aumento delle diseguaglianze ha tuttavia raggiunto il punto in cui fa più male che bene. Guardiamo alla scuola. I figli dei ricchi hanno sempre avuto un vantaggio rispetto ai figli dei poveri, malgrado l’esistenza di scuole pubbliche aperte a tutti. Ma quando questo vantaggio diventa troppo grande, viene minata la cosidetta “eguaglianza dei punti di partenza”, cioè la possibilità per tutti di correre la gara della vita senza ingiusti vantaggi: per esempio, in America la differenza nei test scolastici fra ragazzi di famiglie ricche e di famiglie povere è del 30-40% a vantaggio dei ricchi; una differenza maggiore di quella che si dava 25 anni fa.
Un altro pericolo: se la diseguaglianza continua a crescere, si faranno sempre più acute le proteste, con conseguente instabilità sociale e politica, e potranno andare al potere partiti portatori dei rimedi sbagliati.
Quali sono allora, i rimedi giusti? La politica può attenuare le diseguaglianze, dando servizi pubblici di base – istruzione, sanità, infrastrutture, giustizia… – eguali per tutti ma soprattutto migliori, e intervenendo sui casi estremi di povertà. La rete di sicurezza sociale in molti casi dà vantaggi anche a chi non ne necessita: sussidi e aiuti dovrebbero invece essere riservati alle situazioni di vero bisogno. Il sistema fiscale è già progressivo (cioè a dire, chi ha un reddito più alto paga proporzionalmente di più di chi ha un reddito più basso). Ma oggi, con la crescente complessità dell’economia e della finanza, ci sono vari modi, per i ricchi, di sfuggire alla progressività con vari espedienti legali: pensate al candidato alla presidenza americana Mitt Romney, i cui redditi milionari finivano col pagare meno tasse (in percentuale del reddito) di quelle che pagava la sua segretaria.
Da ultimo, lotta ai monopoli e alla corruzione: in Cina, le imprese statali godono di vari privilegi e fanno profitti in favore di chi è ammanicato col potere politico; in Russia, nel passaggio all’economia di mercato grosse fette di potere e di reddito sono state appropriate dai cosidetti oligarchi; in altri Paesi, dall’India all’Italia, la corruzione ha creato sacche di ricchezza immorale, con devastanti conseguenze per la tenuta del tessuto sociale…
Il Sole 24 Ore 18.11.12
“Lo Stato favorisca i privati che sponsorizzano la cultura”, di Vittorio Emiliani
Un primo effetto le parole, nette e chiare, del Presidente Napolitano sulla priorità di cultura e ricerca l’avevano già ottenuto al convegno del «Sole 24 Ore» ridando tono ad un dibattito piuttosto esangue. Un altro sembrano averlo sortito subito dopo: ieri mattina infatti il ministro per lo Sviluppo, Corrado Passera, discutendone alla radio con la giornalista Anna Longo del Gr1 e con me, ha assicurato: «Le prime risor- se che si renderanno disponibili le destineremo a cultu- ra e ricerca. Nel contratto di servizio Rai la cultura dovrà avere più spazio». Napolitano era stato inequivocabile: «Esiste da decenni una sottovalutazione clamorosa della cultura, della formazione, della ricerca da parte delle istituzioni rappresentative della politica, del governo, dei governi locali, ma anche della società civile». Conclusione del presidente: «Alla cultura si sono detti troppi no, ora servono dei sì». Peraltro, nuovi «no» alla cultura erano già programmati. Confermati dal ministro Ornaghi. Secondo Federculture, un’altra amputazione al bilancio del Mibac per 103,3 milioni nel 2013. Portato a 125 nel 2014 e a 137,5 nel 2015. Un autentico svenamento e disossamento. Puniti i fondi per la tutela, pochi e già salassati (- 61,6 milioni). Coi tecnici sparuti, e malpagati, delle Soprintendenze ai beni architettonici che dovrebbero sbrigare ciascuno 4-5 pratiche edilizie o urbanistiche al dì nel migliore dei casi e addirittura 79 nel caso di Milano. In un Paese aggredito da cemento+asfalto da ogni parte. Parlare in queste condizioni di «meno Stato e più privati» significa l’eutanasia del ministero fodato nel 1974 da Giovanni Spadolini e con essa dell’interesse di un ceto dirigente alla cultura e alla ricerca.
Un suicidio economico, oltretutto: il turismo culturale è il solo a «tirare»:+ 20 % ne- gli ultimi due anni. Nel decennio le presenze italiane nelle città d’arte sono aumentate del 17 % ; quelle straniere addirittura del 54 %, e rappresentano ben più della metà (esattamente il 57 %) del totale. Ne tengano conto quanti chiacchierano a vuoto di «petrolio», di «economia della cultura»: questa non è formata direttamente da musei, siti, borghi o castelli, bensì dal loro indotto turistico. Se però non si tutelano e restaurano adeguatamente i primi, se li si lascia imbruttire, assediare dal cemento, da auto e pullman, da un repellente apparato di «mangiatoie», di negozi di souvenir, dehors di plastica e di altre schifezze, si dissipa anche l’indotto.
C’è ancora chi straparla di musei – per esempio gli Uffizi – come «macchine da soldi». Per i musei in sé stessi è una ignorante sciocchezza. Per l’indotto è un altro discorso. Il più visitato museo del mondo, il Louvre, alla soglia (inquietante) dei 9 milioni di ingressi, nel 2008 ha ricevuto 118,8 milioni di sovvenzione stata- le (circa il 60 % delle entrate) per poter chiudere in pareggio e fare ancora cultura. Non molto diversa la situazione del Metropolitan Museum.
Al convegno dell’Eliseo mi pare che lo slogan «sfruttare i beni culturali», specie dopo la secca presa di posizione di Giorgio Napolitano, sia finito in retrovia. Soltanto il presidente della Fondazione Roma, Emmanuele Emanuele, ha evocato la formula magica: se il settore pubblico non è in grado di gestire, subentriamo noi. Col patrimonio e coi soldi dello Stato com’è previsto per la Grande Brera? Anzi, con una «dote» più ricca di denaro pubblico? Il contrario di quanto succede con le Fondazioni Usa che i soldi li mettono anziché prenderli. Si sono avanzate altre proposte. Per ora un po’ fumose invero. Nessuno che pensi, ad esempio, a riattivare una buona legge come la n. 510 dell’82 (Scotti) la quale mise in moto – con una detrazione fiscale secca e certa – oltre 300 miliardi di lire di restauri privati in dimore e giardini storici. Per cui, in capo a pochi anni, il fisco, avendo promosso lavori e occupazione, ogni 100 lire di detrazione, ne incassò 147. Ci vuole uno Stato capace di agevolare concretamente i privati che donano, danno, sponsorizzano. Non privati che pretendono di sostituirsi allo Stato. «Quelli sarebbero volpi nel pollaio», ha commentato un noto storico dell’arte americano. Da noi non sarebbe la prima volta.
L’Unità 18.11.12
Napolitano: cultura e ricerca per guardare lontano, la sfida del Paese
Sono stato invitato e ho accettato di venire qui perché sono convinto – e non solo per quello che riguarda me stesso, ma per la responsabilità che ricopro – che quando i padri costituenti hanno scritto la nostra Carta fondamentale non hanno immaginato per il Capo dello Stato un ruolo che si risolvesse (come si dice per i re in altri Paesi) nel tagliare nastri alle inaugurazioni. Ho ritenuto che il Presidente della Repubblica dovesse, secondo la nostra concezione costituzionale, prendersi delle responsabilità, senza invadere campi che non sono suoi: le responsabilità del Governo non sono quelle del Presidente della Repubblica, e viceversa. Ma credo di dovere sempre cercare di interpretare le esigenze, gli interessi generali del Paese, anche in rapporto a scelte del Governo – che rispetto, perché non posso assolutamente sostituirmi a chi ha la responsabilità del potere esecutivo – attraverso un dialogo al quale intendo dare il mio contributo.
Innanzitutto – se posso dire qualcosa a proposito del titolo di questa assemblea – forse «emergenza dimenticata» non è l’espressione più adatta. Perché non è una questione di emergenza: quando parliamo di cultura parliamo di una scelta di fondo trascurata in un lungo arco di tempo. E le questioni che abbiamo davanti oggi non sono nate un anno fa, con questo Governo; la scelta che auspichiamo per la cultura resta da fare perché non è stata fatta in modo conseguente per anni, per non dire per decenni, nel nostro Paese.
Il Manifesto del Sole 24 Ore e il Rapporto 2012 di Federculture ci dicono molto a proposito della cultura come motore o moltiplicatore dello sviluppo – questa espressione è ritornata anche nell’intervento del ministro Fabrizio Barca – perché quello che ci deve assillare è come rilanciare lo sviluppo nel nostro Paese: sviluppo produttivo, sviluppo dell’occupazione e, soprattutto, prospettiva di valorizzazione delle personalità e dei talenti dei giovani, delle giovani generazioni. Questo deve essere il nostro assillo. E dobbiamo sapere che la cultura può rappresentare un volano fondamentale per avviare una nuova prospettiva di sviluppo non solo in Italia ma anche, più in generale, in Europa.
Ho apprezzato anche il contributo che in questi documenti si dà a un’analisi delle diverse componenti della cultura, sotto il profilo delle ricadute sulla crescita dell’economia e concretamente sulla crescita del Pil. Lo ha fatto, in modo particolare, in un suo studio il professor Sacco, che ha individuato sette componenti: da un cosiddetto «nucleo non-industriale» alle industrie culturali e alle industrie creative, alla scienza e alla tecnologia, e ha misurato quale sia il peso occupazionale di ciascuna di queste componenti della sfera complessiva della cultura, e anche quale sia – cosa molto significativa – il grado di propensione all’export, e di successo nell’export, di queste componenti delle attività culturali.
Persiste in Italia – perché non è nata ieri – una sottovalutazione clamorosa di queste tematiche, di queste analisi, di queste ricerche: una sottovalutazione clamorosa da parte delle istituzioni rappresentative del mondo della politica, del governo nazionale, dei governi locali e anche di diversi settori della società civile. C’è una sottovalutazione clamorosa, quindi, delle conseguenze che invece bisognerebbe trarne sul piano delle politiche pubbliche; e non inganni la parola “pubbliche”, perché politiche come quella fiscale vanno rivolte a sollecitare e rendere sostenibili anche iniziative private, del settore privato e del settore sociale: non si tratta di affidare tutto al pubblico, tutto allo Stato.
Comunque, a monte di tutte le carenze che qui sono state denunciate, di tutte le cecità di cui soffre la condizione riservata alla cultura oggi in Italia, c’è la scarsa consapevolezza – l’ho ripetuto anche qualche giorno fa – dell’importanza decisiva per il nostro Paese di uno straordinario patrimonio, «ben più largo – ha detto Giuliano Amato – di quello costituito dalle opere d’arte e tuttavia nutrito dallo stesso patrimonio genetico». Ma non voglio ritornare su questa accezione più larga, che il presidente Amato ha assai bene prospettato ed esemplificato. Riprendo invece la sua difesa della scelta dell’Assemblea Costituente. Difendo l’articolo 9 come uno dei principi fondamentali della Repubblica e della Costituzione, come scelta meditata, lungimirante e di sorprendente attualità; anche per come ha saputo abbracciare in due righe tutti gli aspetti essenziali del tema che ancor oggi dibattiamo (e voglio rendere omaggio a quei signori che sapevano scrivere in due righe una norma: sapevano scrivere in italiano le leggi, e innanzitutto la Legge fondamentale).
Vogliamo rileggerle, quelle due righe? Cito anche il primo comma, non solo il secondo: «La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica» – e già questo è un accoppiamento che non dovremmo mai trascurare nei nostri discorsi: cultura e ricerca scientifica e tecnica. L’articolo quindi continua: «La Repubblica tutela il patrimonio storico e artistico della Nazione». Ebbene, quanto oggi le istituzioni della Repubblica «promuovono» e «tutelano»? Promuovono e tutelano ancora pochissimo, in modo radicalmente insufficiente. Quale peso – ci dobbiamo chiedere, al di là delle proclamazioni – si sta di fatto riconoscendo a quel dettato costituzionale, e dunque a una corretta visione del rapporto tra cultura e scienza, da una parte, e sviluppo dell’economia e dell’occupazione dall’altra? Non vorrei ragionare soltanto in termini economici: quale peso si sta riconoscendo al rapporto tra cultura e scienza, ulteriore incivilimento del Paese, benessere dei cittadini misurato secondo nuovi indici qualitativi, valorizzazione dell’identità e del prestigio dell’Italia nel mondo? Perché non c’è soltanto da valutare quale aiuto diano alla crescita del prodotto lordo la cultura e la scienza, ma come esse siano parte integrante del nostro stare nel mondo, con il profilo e il prestigio che le generazioni che ci hanno preceduto hanno assicurato all’Italia.
In effetti, ripeto, si sta prestando a tutti questi fattori un’attenzione assolutamente inadeguata. E io ho posto, e ancora oggi intendo porre, questo problema in via prioritaria e di principio, cioè per quel che di per sé esso significa, prima di venire a considerazioni relative a temi di intervento legislativo e di finanza pubblica. Ma non eludo questi temi, e non esito a esprimermi con spirito critico anche nei confronti dei comportamenti dell’attuale governo nel suo complesso, pur conoscendo la sensibilità e l’impegno dei singoli ministri, e non perdendo di vista quel che l’Italia deve al governo del Presidente Mario Monti per un recupero incontestabile di credibilità e di ruolo in Europa e nel mondo.
Sappiamo – anche se qui non si tratta di fare i ragionieri, ma di ragionare politicamente: fare i ragionieri e ragionare sono due cose diverse – che è stato e resta necessario fare i conti con un livello di indebitamento pubblico raggiunto nel corso di decenni e con un grado di esposizione ai rischi del mercato dei titoli del debito sovrano nella Zona Euro, e quindi resta indispensabile perseguire obbiettivi rigorosi, in tempi stretti, concertati in sede europea, di riduzione della spesa pubblica e di contenimento della sua dinamica. Se non facciamo questo, a quale livello schizzeranno gli interessi dei nostri titoli pubblici? Quanto dovremo pagare? C’è anche tanta gente modesta che ha comprato buoni del tesoro: come facciamo a non rendere loro gli interessi che ci siamo impegnati a pagare e che rischiano di crescere? Oggi, dobbiamo pagare fino a 80 miliardi all’anno di interessi sul debito pubblico: che cosa potremmo fare anche solo con una piccola parte di questi 80 miliardi? Dobbiamo scrollarci dalle spalle questo peso insopportabile. E dobbiamo farlo perché altrimenti questi sono i casi e i modi in cui uno Stato può fallire, e non credo che possiamo giocare con questo rischio oggi e nel prossimo futuro, nel nostro Paese, chiunque governi e qualunque situazione politica e parlamentare esca dalle elezioni. Però, io pongo una domanda, chiaramente molto problematica, anzi critica: ma è fatale che per riuscire in questo sforzo di risanamento della finanza pubblica si debba ancora procedere con tagli rilevanti a impegni di finanziamento in ogni settore di spesa, tagli più o meno uniformi o, come si dice – è diventato un termine abbastanza consueto – «lineari», senza tentare di far emergere una nuova scala di priorità nell’intervento pubblico, e quindi nella ripartizione delle risorse? Non credo, onestamente – pur avendo grande considerazione per chi deve far quadrare i conti pubblici: badate che non è uno scherzo per nessuno – che ciò sia fatale e che ci si debba arrendere a fuorvianti automatismi. La logica della spending review dovrebbe essere di ottenere risparmi di spesa, in qualsiasi settore, attraverso modifiche strutturali, modifiche di meccanismi generatori di spreco e distorsioni pesanti, e attraverso l’avvio di processi innovativi nella produzione di servizi pubblici e nella costruzione di programmi di intervento pubblico.
Questa logica dovrebbe però far salva un’attribuzione di maggiori risorse e finanziamenti da considerare finora sacrificati, a impegni che sono invece essenziali per una ripresa e una nuova qualificazione dello sviluppo del Paese. Si deve salvaguardare una quota accresciuta e consistente di risorse, pur nella generale riduzione della spesa pubblica, per cultura e ricerca, tutela del paesaggio e del patrimonio storico e artistico. Perché il contenimento della spesa pubblica e soprattutto della sua dinamica, e innanzitutto la riduzione della sua entità attuale, non comportano che non ci debba essere e non ci possa essere selezione. È molto arduo scegliere e dire: “questo sì e questo no”, ma questa è la politica; la responsabilità della politica sta nello scegliere, nel dire dei «no» e nel dire dei «sì». E io credo che debbano essere detti più «sì» a tutto quello che riguarda la cultura, la scienza, la ricerca, la tutela e la valorizzazione del nostro patrimonio.
Qualche spunto specifico. Ritorno innanzitutto sulla ricerca scientifica, di cui ho detto qualche giorno fa in occasione della «Giornata per la ricerca sul cancro». L’Italia ha in campi fondamentali della ricerca tradizioni ed energie vive, dei talenti e un prestigio di cui molti, a ogni livello, nella sfera istituzionale e nell’opinione diffusa, non si rendono conto. Abbiamo dei tesori ignorati, delle capacità, un dinamismo di competenze e di passione per la scienza che vengono largamente ignorati. Parlo di talenti che operano anche fuori d’Italia: qualche giorno fa, in Quirinale, alla «Giornata per la ricerca sul cancro» c’era, fra gli altri, il professor Pier Paolo Pandolfi, un italiano che vive in America da vent’anni e da cinque dirige il Centro di Ricerca Oncologica di Harvard, uno dei più importanti al mondo, ed è venuto a dirci: voi avete tali istituti e tali talenti che dobbiamo lavorare insieme, io italiano dall’America e voi italiani in Italia.
Voglio parlare anche di quei tanti italiani che vivono e operano servendo in istituzioni di ricerca europee. Sono andato a Ginevra e ho incontrato centinaia di ricercatori italiani al Cern; sono andato a L’Aja, all’Estec, centro di ricerche e tecnologie spaziali: altre centinaia di italiani che sono andati lì anche poco dopo i vent’anni, dopo aver preso la laurea o il dottorato, e che sono chiusi tutti i giorni, dalla mattina alla sera – in luoghi che non sono Roma, che non sono belli come le nostre città – mossi non solo dalla passione per la ricerca e dall’impegno per onorare la tradizione scientifica del nostro Paese. È qualcosa che deve far riflettere profondamente, anche quando sentiamo dire: aiutateci, non solo con finanziamenti. Per esempio, i due centri che ho citato sono naturalmente finanziati dalle istituzioni europee, e noi – non ce lo dimentichiamo – siamo tra i maggiori contributori, e quindi contribuiamo a finanziare sia la ricerca spaziale, sia le ricerche del Cern; però, è giustissimo dire: “non solo questo, non solo i soldi, occorre dell’altro”. Occorrono capacità operative, occorre liberarsi dal peso delle procedure burocratiche – lo ha detto bene e con forza Ilaria Capua – e anche dal peso crescente di una oramai impraticabile foresta legislativa e normativa che non fa che crescere da una settimana all’altra. Abbiamo talenti e abbiamo istituzioni. E io mi domando – vi svelo un particolare – come sia stato possibile qualche tempo fa che un oscuro estensore di norme abbia preteso di redigere un articolo di legge che prevedeva la immediata soppressione di 12 istituti di ricerca. Il lavoro di questo signore è finito nel cestino, perché abbiamo cercato – non è vero, ministro Profumo? – di tenere insieme gli occhi aperti. Ma è una spia di che cosa può significare la peggiore mentalità burocratica quando è chiamata a collaborare a scelte di governo, che devono invece essere libere da queste incrostazioni. Un secondo spunto: tutela del paesaggio e del patrimonio. Tutela, cura e valorizzazione del territorio, perché questo è qualcosa che spesso – ma la signora Ilaria Buitoni lo sa benissimo, e lo sa benissimo il Fai – sfugge: si pensa solo al costruito e non si pensa al dove si costruisce, alla messa in sicurezza del territorio. Quello che stiamo vivendo in questi giorni con le alluvioni, in tante parti del Paese, ci allarma. Sono stato mesi fa, dopo le alluvioni nelle Cinque Terre, a Vernazza, e – scusate se mi ripeto, ma certe volte è inutile inventare qualcosa di diverso – ho detto lì: «Abbiamo alle spalle una lunga storia di piani per la difesa del suolo, l’ultimo del 2010, con cui si stanziava credo un miliardo; ebbene, è una lunga storia di piani, di stanziamenti via via disgregatisi, persisi per strada, non portati a compimento. Questa è la dura storia, questa è la realtà. Quante volte abbiamo aperto questo capitolo, a partire dall’alluvione del 1966 a Firenze, e poi ce ne siamo dimenticati o lo abbiamo chiuso alla meglio, abbiamo rinviato a un successivo piano quello che non eravamo stati capaci di fare, realizzando il piano precedente! E questo rischio antico si è fatto più acuto, ha assunto dimensioni diverse, forme più violente perché siamo – piaccia o no – nell’epoca del cambiamento climatico». Oggi le alluvioni non sono quelle di sempre, le frane non sono quelle di sempre, e abbiamo bisogno di un impegno ancora più forte, ancora più determinato e soprattutto operativo. E non ci siamo: non ci siamo né nella comprensione del problema né nell’azione conseguente a tutti i livelli, innanzitutto – dico – a tutti i livelli istituzionali. Ora, se mi consentite, io vorrei fare anche qualche osservazione per così dire di carattere “trasversale”, cioè che riguarda tutti i settori di attività culturale a cui ci siamo riferiti. Le considerazioni da fare sono abbastanza semplici. Innanzitutto, dobbiamo assicurarci che ci siano anche comportamenti individuali e collettivi nuovi (ecco in che senso “educare”, “far crescere” il Paese), perché ci sono – parliamoci chiaro – comportamenti che recano ingiuria e danno al nostro patrimonio monumentale, che non solo non si tutela ma spesso si lascia devastare, si lascia ferire, vandalizzare. Abbiamo bisogno di comportamenti responsabili in questo senso; e abbiamo bisogno di comportamenti sensibili anche per quello che riguarda la spesa per i consumi, la spesa delle famiglie. Viviamo in un periodo difficile, perché si restringono le entrate disponibili per moltissime famiglie, c’è mancanza di lavoro, c’è cassa-integrazione, ci sono giovani che vedono un’ombra pesante sul loro futuro. Nello stesso tempo, proprio in questo periodo di restrizioni dure e obbligate, vediamo anche i segni di una evoluzione nuova nel costume, nelle scelte dei consumi. E il fatto che diminuiscono sì tanti consumi di beni durevoli o abituali beni di consumo, ma invece non diminuisca la spesa per la fruizione del patrimonio culturale, né la spesa per i musei, né la spesa per quel che riguarda la partecipazione ad attività culturali, e di arricchimento morale e civile, questo è un segno molto incoraggiante che noi dovremmo riuscire a generalizzare nella realtà del nostro Paese. Poi c’è qualche cosa che non posso sottacere. Badate che in tutti i settori, anche in quelli che fanno capo ad attività culturali, occorrono scelte non conservative per quel che riguarda le strutture e per quel che riguarda le realtà che si sono venute accumulando e incrostando nel corso del tempo. Guai se dovessero prevalere atteggiamenti difensivi, di difesa e conservazione di tutto l’esistente; e anche, diciamo pure, guai se dovessero prevalere atteggiamenti puramente difensivi di posizioni acquisite in termini di categoria, in termini corporativi. Abbiamo bisogno di innovare soprattutto nel senso – come giustamente si è detto – della sburocratizzazione e del miglior uso delle scarse o limitate risorse disponibili nel complessivo bilancio dello Stato. Non dobbiamo, in questo modo, farci imbrigliare: non tutto quel che c’è in ognuna delle nostre istituzioni che si occupano di cultura e di scienza è difendibile, non tutto è valido, non tutto è produttivo. E dobbiamo avere il coraggio di innovare, se vogliamo salvaguardare l’essenziale, la funzione e il futuro di queste nostre attività. Infine – ma non entro nel merito e spero che oggi pomeriggio si sviluppi anche questa dimensione del dibattito – i soggetti: quali sono i soggetti che debbono entrare in campo per portare avanti una nuova politica, una nuova visione del ruolo della cultura in tutte le sue espressioni? Il ministro Barca ha detto provocatoriamente – però ha fatto bene – che non è questione di soldi, o non è solo questione di soldi. Penso che se io vi avessi detto: “non esiste nessuna questione di soldi”, non mi sareste stati a sentire, perché una questione di soldi esiste, per la cultura, per la scuola, per l’università e per la ricerca; esiste, e l’ho già detto. Però esiste anche una questione fondamentale che si chiama capacità progettuale, realizzatrice e gestionale. Questo significa innanzitutto che abbiamo bisogno in questo senso di una nuova qualificazione delle istituzioni pubbliche. Per esempio le Regioni: non getto l’anatema sulle Regioni – ci mancherebbe altro – però dell’esperienza dei fondi europei per il Mezzogiorno dobbiamo sentire tutto il peso – stavo per dire la vergogna, ma non voglio esagerare – per non avere utilizzate risorse preziose o per averle utilizzate male. Credo che l’impegno con cui il ministro Barca si è messo all’opera per perseguire il recupero e la riprogrammazione delle risorse dei fondi europei determinando delle scelte sapienti – che hanno dato un posto di grande rilievo, per esempio, a progetti per la cultura, come per Pompei – sia uno dei segni positivi venuti da questo Governo, e dobbiamo incoraggiarlo. Soggetti istituzionali da riqualificare e soggetti del privato e del privato sociale da chiamare a raccolta, da stimolare: lei lo sa presidente Squinzi, io dico sempre che c’è un problema di più forte impegno neg
li investimenti pubblici e privati per la ricerca, e quindi anche da parte delle aziende, soprattutto di quelle maggiori, ma delle stesse medie aziende che oggi competono sul piano internazionale con successo in quanto hanno alle spalle non solo un’eredità – quella di cui ci ha parlato Giuliano Amato, il grande background della creatività italiana – ma perché hanno investito in ricerca e innovazione. Abbiamo bisogno di investimenti privati, abbiamo bisogno di investimenti pubblici, abbiamo bisogno di mobilitazione nuova di soggetti sociali e cooperativi, anche adeguando – come ha detto la signora Buitoni – la legislazione italiana all’esigenza di valorizzare questi apporti. Io capisco – voglio dirlo francamente – tante impazienze. Naturalmente, io ho fatto nel passato il “comiziante”, e quindi sono abituato anche ad affrontare battibecchi in piazza, non soltanto cioè parlando io e prendendo gli applausi di chi mi ascolta. Ma oggi faccio un altro mestiere, e vorrei dire con molta pacatezza e senso di responsabilità: fate valere le vostre legittime preoccupazioni, esigenze, insofferenze, proteste, fatele valere con il massimo sforzo di razionalità e di responsabilità perché solo così potremo portare la cultura più avanti e il Paese fuori dalla crisi.
Il Sole 24 Ore 18.11.12
