Adesso hanno un nome vero, dei volti, delle storie personali. I neonazisti italiani di Stormfront, che fino a ieri hanno gestito «il più grande sito d’odio razzista del web», che hanno mandato soldi (poche centinaia di euro) al Ku Klux Klan statunitense e che progettavano di «passare all’azione » contro i rom, non sono più spettri virtuali, anonimi nickname. L’ideologo Daniele “
Dani14” Scarpino, 24 anni, i sodali Mirco “ Biomirko” Viola, 43 anni, Luca “ Anti life” Ciampaglia, 22 anni, e Diego “Non Conforme” Masi, 30 anni, sono stati arrestati con l’accusa di aver messo in piedi un’associazione per delinquere incitante alla violenza xenofoba. Il sito, dopo alcune difficoltà tecniche, è stato oscurato.
L’ordinanza di custodia cautelare disposta dal gip Stefano Aprile, su richiesta del pool antiterrorismo di Roma, mette in fila due anni di vita della costola italiana di Stormfront.org, la community internazionale creata da Don Black, l’ex leader del Ku Klux Klan. I pm hanno scandagliato decine di thread, cioè le discussioni di stampo nazista, omofobo e negazionista a cui partecipavano qualche centinaio di utenti. «Vi è mai capitato su un bus di sedervi vicino a un negro?», oppure, «Riccardi (il ministro dell’Integrazione, ndr) collabora con il giudaismo », «l’immondizia negra». Robe del genere.
Un gruppo, quello di Stormfront Italia, con un numero imprecisato di proseliti (la procura ha denunciato a piede libero altre 15 persone, di età tra i 18 e i 50 anni) che progettava spedizioni contro i rom e i neri in Veneto e in Lombardia. «Dani — scrive Ivan “ChaosNietzche” Lo Masto a Scarpino lo scorso ottobre — mi trovo in Veneto, cercavo un po’ di gente disposta per delle azioni…incominciamo dai paesini più colpiti dalla negraggine e dagli zingari». Azioni che avrebbero cancellato l’etichetta di «militanti della tastiera » affibbiatagli da Casapound e Forza Nuova, con i quali non pare avessero rapporti diretti. Nelle 17 perquisizioni domiciliari della Digos sono saltati fuori decine di coltelli, mazze da baseball, bastoni, svastiche.
Scarpino, milanese, teneva personalmente i rapporti con Don Black a West Palm Beach in Florida. Nonostante la giovane età, era la mente, l’ideologo che dettava regole agli utenti: «Vietato fare l’elogio dei rapporti misti, del popolo ebraico, della religione
islamica, non sono ammessi discorsi che sminuiscono le nazionalità bianche». È Scarpini a inventarsi l’«inner circle», un centro occulto di governo strategico di Stormfront, è ancora lui che ordina la traduzione del libro “The Turner Diaries”, inneggiante all’eccidio degli ebrei.
Masi (sottoposto a Daspo), Ciampaglia (sulle spalle una condanna per aggressione) e Viola (già denunciato per minacce) erano gli «operativi», amministravano il sito. Sono loro ad aggiornale il 31 gennaio scorso la lista dei «delinquenti ebrei italiani », con i nomi, tra gli altri, del ministro Riccardi, di Gianfranco Fini e Gianni Alemanno, del presidente della comunità ebraica di Roma Riccardo Pacifici, di Gad Lerner e Maurizio Costanzo, degli imprenditori Carlo De Benedetti e Franco Bernabè. «Non dobbiamo abbassare la guardia sull’antisemitismo online», ha commentato il ministro dell’Interno Annamaria Cancellieri. Anche perché all’Osservatorio contro gli atti discriminatori (Oscad) sono giunte 500 segnalazioni di reato negli ultimi 18 mesi. No, non bisogna abbassare la guardia.
La Reubblica 17.11.12
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“La violenza che ci riguarda”, di Luigi Manconi
Mi si potrebbe dire: “Proprio tu parli”. Risponderei così: “Si, proprio io” e proprio perché tutto ciò l’ho conosciuto assai bene. Mi riferisco a quanto è accaduto a Roma e in altre città italiane ed europee mercoledì scorso. Lo conosco, forse più di altri, in quanto ci sono stato dentro, ma proprio dentro, e per un tempo non breve. Sono stato dentro, cioè, quella dimensione di aggressività contro le cose e le persone, che – nel corso dei primi anni ‘70 – ha accompagnato, come una scia velenosa, la mobilitazione collettiva. E dentro quella colluttazione ininterrotta tra una parte dei manifestanti e una parte delle forze di polizia, dove il “chi ha iniziato per primo” del gioco e della zuffa dei bambini, aveva sempre la medesima risposta infantile: un rinfacciarsi le colpe (“sei stato tu”, “no, sei stato tu”) che, trasferito nelle relazioni tra adulti, aveva il solo effetto di protrarre all’infinito la litigiosità, si fa per dire, e l’inimicizia. Non so se sia necessario a questo punto precisare, a scanso di equivoci, che io non stavo tra le file della polizia, bensì convintamente dall’altra parte. E, in quella collocazione, ne ho prese e ne ho date di santa ragione. Questo – apertamente dichiarato da decenni – lungi dal dissuadermi, mi convince ancor più a parlare di quanto accade oggi a partire dalla mia esperienza passata, con due premesse. La prima: mercoledì, a Roma in particolare, le forze di polizia hanno commesso enormi errori nella gestione dell’ordine pubblico: e questo, a mio avviso, segnala una persistente incapacità nel governare la tensione sociale quando si manifesta per le strade. Seconda premessa: un atto di violenza commesso da un poliziotto è sempre più grave, sotto il profilo giuridico e morale, di uno commesso da un manifestante. Va da sé: chi detiene il monopolio dell’uso legittimo della forza in uno stato democratico è tenuto, anche penalmente, a un senso di responsabilità e a un vincolo di legalità assai maggiori. Ma, detto ciò, la questione della violenza resta un tema essenziale. E si dovrebbe dire piuttosto: la questione delle forme di lotta, perché il ricorso alla forza fisica è, in realtà, uno degli esiti, terribilmente probabili, dell’utilizzo di forme di lotta non intelligenti. Ovvero non razionali: inefficaci, cioè, rispetto al raggiungimento dello scopo. L’esercizio della violenza, così come ogni altro atto che porti al restringersi dell’area della mobilitazione collettiva, produce esclusivamente effetti negativi. Tanto più quando quelle forme di lotta vorrebbero esprimere la radicalità degli obiettivi e della prospettiva; tanto più quando l’identità del movimento vuole proporsi, come, per così dire, “antagonista”: cioè profondamente alternativa alle categorie dominanti. È questo un nodo cruciale. Proprio un programma che voglia essere all’altezza di bisogni sociali così profondi e diffusi, quali quelli rappresentati dal movimento degli studenti, esige un repertorio di azioni meno grossolano di quello espresso dallo scontro fisico con le forze di polizia. L’aggressione, le armi improprie, i corpi contundenti, sono tutti mezzi – oltre che illegali e immorali – irreparabilmente superficiali. Fanno male, talvolta malissimo, ma non lasciano traccia alcuna se non nei bollettini della questura, nel paesaggio urbano e sui corpi delle vittime. Politicamente, non resta alcunché. Se non, appunto, la progressiva, e più spesso rapida, riduzione del numero dei partecipanti: e una distanza, talvolta abissale, tra le aspettative della stragrande maggioranza dei manifestanti e il tirocinio agonistico-marziale di un piccolo reparto organizzato, che si vorrebbe avanguardia. Ma quella precipitazione dell’azione collettiva in scontro fisico uccide la politica, soprattutto quella – ancora così incerta e fragile, eppure entusiasta e curiosa – delle tredicenni e dei tredicenni che scendono in piazza per la prima volta. Certo, la responsabilità degli adulti è enorme, sia per le opere che per le omissioni. Queste ultime riguardano, in particolare, la classe politica (non tutta allo stesso modo, ma insomma…), che non ha saputo offrire né canali di rappresentanza alle domande collettive né, tantomeno, un’idea forte di società in cui riconoscersi. Le “opere” sono quelle, già citate, di una gestione dell’ordine pubblico che oscilla, costantemente e irresponsabilmente, tra autoritarismo e ottusità. Ma un movimento degli studenti che voglia davvero contare non deve offrire alibi né al sistema politico né alle forze di polizia. La sua autonomia dipende direttamente dalla capacità di sottrarsi ai riti più logori della politica e di quell’espressione deforme di essa che è la guerra: compresa quella tra manifestanti e poliziotti. Non c’entra in alcun modo la poesia di Pier Paolo Pasolini (della quale da decenni si perpetua una lettura totalmente menzognera). C’entra, piuttosto, la capacità di crescita libera, per quanto possibile, e indipendente. Anche dalle cattive abitudini, presenti e passate, dei propri padri.
L’Unità 17.11.12
“Pronta la mossa del Quirinale un messaggio alle Camere”
Da sanara al più presto — in tempi ristrettissimi visto il precipitare verso elezioni anticipate il 10 marzo — per il Quirinale resta soprattutto un vulnus, quello segnalato dalla Corte costituzionale, che impone di stabilire una soglia minima di voti per agguantare il premio di maggioranza stabilito dal Porcellum. È proprio questo il grimaldello che ha in mano Napolitano per costringere i partiti all’intesa. Tanto che il messaggio potrebbe contenere un riferimento alla implicita delegittimazione a cui andrebbe incontro un Parlamento eletto «senza aver dato seguito alle disposizioni della Consulta».
Se infatti non ci fosse un accordo generale tra i partiti sulla legge elettorale, e passasse soltanto il principio della soglia, il risultato sarebbe ritrovarsi con un proporzionale di fatto. «Ci terremmo solo i difetti del Porcellum — osserva il suo ideatore, l’ex ministro Calderoli — a partire da una soglia di sbarramento al Senato dell’otto per cento: non entrerebbero né Sel, né l’Udc, né l’Idv». Ma soprattutto il Pd sarebbe a quel punto privo di qualsiasi premio, grande o piccolo che sia, con Bersani in grave difficoltà a formare una maggioranza. Non a caso Berlusconi
nelle ultime riunioni lo ha ripetuto come un mantra ai suoi: « A noi conviene la proporzionale. Punto». Ieri sera Calderoli ha inviato agli altri partiti la sua ultima ipotesi di mediazione. Poi spegnerà la luce: «Adesso basta. O si mettono d’accordo oppure dirò tutta la verità su queste trattative. Li sbugiarderò e qualcuno dalla vergogna sarà costretto a non ricandidarsi ». Pd e Udc sono d’accordo nel dare un premio del 10 per cento al primo partito. Il Pdl punta invece i piedi, nonostante il governo sia venuto incontro al centrodestra con l’election day al 10 marzo. Una soluzione che ha provocato una forte irritazione nel Pd dato che il Consiglio di Stato non si è ancora pronunciato sulla data delle elezioni nel Lazio.
Al Quirinale, nelle due ore e mezza di discussione fra i quattro presidenti, si è a lungo compulsato il calendario. Renato Schifani ha garantito che entro la fine di novembre la legge elettorale, «a qualsiasi costo», sarà approvata da palazzo Madama. A sua volta Fini si è impegnato sulla legge di stabilità (l’altra condizione «irrinunciabile » posta da Napolitano per lo scioglimento anticipato) in modo da inviarla al Senato il 23 novembre. Un incastro giorno per giorno che porterebbe Napolitano a esercitare il potere dell’articolo 88 della Costituzione intorno alla metà di gennaio. E poi? La road map ipotizzata ieri pomeriggio in teoria postula che sia l’attuale capo dello Stato, salvo non si dimetta volontariamente prima come fece Cossiga, a nominare il nuovo capo del governo. Ma Napolitano non intende farlo e l’ha spiegato chiaramente.
Preferisce lasciare al suo successore la responsabilità di avviare la nuova fase post elettorale, ma non vuole nemmeno anticipare la fine del settennato. Troppi i rischi legati a un nuovo Parlamento pieno di “barbari”, potenzialmente ingovernabile, Napolitano intende restare a presidiare fino all’ultimo giorno.
Come uscirne? Per il Quirinale il problema, semplicemente, non si pone. «Il nuovo Parlamento eleggerà il mio successore — ha spiegato Napolitano — e, nel frattempo, resterà in carica il governo Monti». Una finestra di due o tre settimane al massimo. Oltretutto, non essendo stato sfiduciato, Monti sarà in carica con i pieni poteri. È questa la transizione verso la terza repubblica immaginata dal capo dello Stato. Quanto a una possibile “discesa in campo” dell’attuale premier, Napolitano resta contrarissimo. Monti «perderebbe la sua posizione super partes». Non sarebbe più una «riserva della Repubblica » ma un giocatore in campo, rendendo così più complicata una sua ascensione al colle più alto.
La Repubblica 17.11.12
“Produttività, il solito copione, si va verso l’accordo separato”, di Luigina Venturelli
Non serviranno probabilmente le telefonate notturne con cui Cgil e Confindustria hanno cercato fino all’ultimo di evitare lo strappo. Né gli aspici del governo, inequivocabili pur in assenza di interventi formali di pressione, di vedere tutte le parti sociali siglare un’intesa unitaria su come rinnovare e riorganizzare le relazioni industriali in funzione anticrisi. La trattativa sulla produttività si avvia a concludersi con un accordo separato, come tanti accordi degli ultimi anni: senza la firma del sindacato maggiormente rappresentativo.
LA LETTERA
Ieri mattina, prendendo atto dell’indisponibilità di Viale dell’Astronomia di andare incontro alle richieste di modifica avanzate da Corso d’Italia, la segretaria generale Susanna Camusso ha scritto alle associazioni delle imprese per elencare i nodi ancora da sciogliere nella trattativa. Un confronto, però, «nato male», perchè «non tiene conto delle relazioni sindacali e di svolgimento della stagione contrattuale, proposto dal governo che continua per contro a non attivare politiche per la crescita». Secondo la leader Cgil, infatti, «il sistema di relazioni attuale è ancora caratterizzato da un modello contrattuale agito sulla base di accordi separati e dalla faticosa ricomposizione di una parte dei tavoli contrattuali di categoria». E «grave» sarebbe arrivare a un ulteriore accordo separato in questo momento, «mentre ci apprestiamo ad affrontare un 2013 ancora più pesante nei suoi effetti sul lavoro e sulle imprese di quanto già visto nei quattro anni di crisi alle nostre spalle». Ma restano irrisolti problemi che il sindacato ritiene fondamentali per raggiungere un’intesa: quelli relativi al demansionamento dei lavoratori, alla tutela del loro potere d’acquisto «funzione essenziale del contratto nazionale di lavoro che trova espressione nei minimi contrattuali» e «ancor più rilevante in presenza della crisi, della diminuzione dei consumi e di un’assenza di politica dei redditi», e ad alcune previsioni in tema di decontribuzione. Ancora aperta, ha spiegato infine Camusso, la questione dei metalmeccanici, il cui rinnovo contrattuale di categoria si sta negoziando senza la presenza al tavolo della Fiom. «Fin dall’esordio del confronto in materia di produttività, abbiamo proposto il tema della democrazia e rappresentanza, come necessità per un ordinato sistema di relazioni» ha ricordato la segretaria generale, chiedendo a Federmeccanica di convocare le tute blu di Maurizio Landini ai prossimi incontri programmati.
LO SCONTRO CON SQUINZI Ma nel testo parzialmente emendato da Confindustria, che i sindacati riceveranno a breve per l’esame definitivo e la firma, non ci sarebbero riscontri sufficienti alle richieste di Corso d’Italia. «Non è vero che la trattativa sulla produttività era partita male, era partita bene. Tanto è vero che c’era un accordo di massima di tutti, poi in quest’ultima fase qualcuno ha cambiato idea» ha risposto il presidente degli industriali, Giorgio Squinzi. Ponendo una scelta ultimativa: «Oggi (ieri per chi legge, ndr) è stato finalizzato un testo che mandiamo alla firma di tutti, chi vuole firma, chi non vuole si assumerà le responsabilità davanti al paese. In un momento così difficile e drammatico, una concordia, una volontà di fare delle cose assieme sarebbe stata veramente ottimale». Sembra ormai difficile scongiurare l’ipotesi di un nuovo accordo separato, ancora una volta senza la firma dell’organizzazione guidata da Susanna Camusso. «A meno di sorprese, l’intenzione della Cgil è quella di motivare le ragioni che porteranno a non firmare. Io condivido questa impostazione sia per ragioni di merito che per la situazione politica» ha previsto ieri il leader della Fiom, Maurizio Landini, secondo cui il testo sulla produttività rappresenterebbe una «estensione del modello Fiat e un secco ridimensionamento del contratto nazionale di lavoro». Pronti alla firma, invece, gli altri sindacati confederali. «Se il nuovo testo conterrà le correzioni concordate nell’ultima riunione tra associazioni imprenditoriali e sindacati, la Cisl sottoscriverà l’intesa sulla produttività» ha confermato il segretario generale aggiunto, Giorgio Santini. «Sarebbe un vero peccato l’autoesclusione della Cgil, che ha dato un contributo importante alla trattativa iniziata ai primi di ottobre. Speriamo ci ripensi»
L’Unità 17.11.12
“Licenziate e senza pensione per 7 anni ecco le esodate prive di salvaguardia”, di Valentina Conte
Donne licenziate, a un passo dalla pensione. Poi, all’improvviso, quel traguardo si sposta. E in mezzo si apre il baratro di lunghi anni senza entrate, l’impossibilità di trovare lavoro a sessant’anni, il figlio disoccupato da sostenere, l’anziano da accudire. La vicenda “esodati”, tutt’altro che risolta dal fondo creato dal ddl Stabilità, nasconde un caso nel caso. Sono i licenziati, e soprattutto, le licenziate. Fuori da aziende che ristrutturano o falliscono o chiudono. Ma anche fuori dalla coperta della mobilità. E fuori dagli accordi “incentivati” all’esodo, con la transizione verso la pensione accompagnata dagli scivoli. Tutte prerogative proprie delle aziende medio-grandi, ora pure rafforzate da due decreti e dal fondo che di questi “esodati” ne salvano 130.130. Ma gli altri? E le altre?
Le donne, innanzitutto. Le più penalizzate, perché per loro l’età della pensione, con la riforma Fornero-Monti, si è allungata, senza transizioni né gradua-lità, anche di 7-8 anni in un colpo solo. E chi è stata licenziata, senza altri aiuti che qualche mese con il sussidio di disoccupazione, ora con dignità manda curriculum in giro. I risparmi sono finiti, la liquidazione anche. Ma nessuno in Italia è disposto ad assumere chi di anni ne ha 59. Anche peggio per chi è sopra i 60. Troppo “vecchie” per lavorare. Troppo “giovani” per l’assegno. Non conta l’esperienza, le competenze, le ambizioni di carriera ormai sopite e dunque la minore conflittualità. «Qui purtroppo non siamo in Germania», racconta Marta Pirozzi, 59 anni, licenziata dalle
Poste dopo aver vinto un ricorso per demansionamento e mobbing. «Mi dissero che non esistevano posti adeguati e mi accompagnarono alla porta». Da allora, l’inferno. «Il licenziamento ha interrotto un progetto di vita e impedito di riprenderlo altrove, lasciandomi questa sensazione di iniquità e violenza». E altri otto anni da riempire. Marta era in piazza a Roma, mercoledì scorso, con le donne che come lei condividono questo speciale
senso di “sospensione”. Sono le Esmol: esodate, mobilitate, licenziate. «Abbiamo manifestato accanto agli studenti per il diritto al lavoro, non per ricevere sussidi», racconta Marta. Il dramma è proprio questo: alla disoccupazione dei giovani ora si somma quella delle madri. Una bomba sociale destinata ad esplodere nel 2013 e negli anni a venire.
«I casi come quelli di Marta sono moltissimi e crescono in modo esponenziale», conferma Morena Piccinini, presidente dell’Inca, il patronato della Cgil. Nessuna contabilità dei fin qui “salvaguardati” include questi lavoratori e lavoratrici che sono stati licenziati senza rete. Casi frequenti, specie nelle piccole e piccolissime aziende italiane, prive degli ammortizzatori delle “grandi” e fuori dal radar di politici, tecnici, media. Per loro, neanche l’ombra di una fiscalità di vantaggio per favorirne il reingresso, anche part time, nel mondo del lavoro. «Le donne sono molto penalizzate, senza dubbio», spiega Piccinini. «Alle licenziate si sommano anche le “quindicenni”, ovvero le lavoratrici che hanno versato 15 anni di contributi, tanto quanto bastava per la pensione in base alla legge Amato del ’92. Legge che non è stata mai cancellata e di cui hanno usufruito tante donne: mogli, madri e figlie. Ma che ora un’interpretazione di Inps e ministero del Lavoro cambia alla radice, portando gli anni a 20. Così, non solo la riforma spinge sempre più in là l’età per l’assegno previdenziale. Ma per averlo quelle donne che hanno dovuto lasciare il posto per accudire la famiglia devono versare altri 5 anni. E chi non ce la fa?».
La Repubblica 17.11.12
“Ricerca, arriva il bando da 120 milioni”, di Marzio Bartoloni
Aiutare chi sogna di creare un’impresa innovativa o una start up nell’innovazione sociale, nelle tecnologie, nell’hi-tech e, perché no, anche nella cultura. Con due corsie privilegiate: una per il Sud e l’altra per i giovani under 35. È questa l’idea di fondo del bando da 120 milioni che vedrà la luce all’inizio del prossimo anno e su cui il ministro dell’Istruzione, Francesco Profumo, scommette per dare un nuovo segnale di scossa sul fronte della ricerca e dell’innovazione.
Un impegno, questo, che lo stesso Profumo ha preso di fronte alla platea degli Stati generali della cultura che, non senza qualche protesta, ha chiesto interventi concreti ai rappresentanti del Governo presenti giovedì a Roma: «Il bando – ha spiegato il ministro – avrà due obiettivi: creare una sinergia tra università, enti di ricerca e sistema delle imprese, esistenti e nuove. Ma anche creare posti di lavoro. L’idea di base è coniugare creatività e innovazione». I tecnici del Miur sono al lavoro per definire nel dettaglio modalità e accesso ai fondi che saranno recuperati in parte dai risparmi di altri bandi e in parte dai fondi della coesione. Con il vincolo però già deciso di destinare oltre 50 milioni ai progetti che arriveranno dal Mezzogiorno.
Gli strumenti possibili allo studio per sostenere la nuova imprenditorialità potrebbe basarsi su di un mix di interventi: dai finanziamenti a fondo perduto per lo sviluppo di competenze o per lo sviluppo embrionale dell’idea d’impresa al “seed capital” (partecipazioni nel capitale) fino ad altre forme ibride come i prestiti partecipativi. Su questo ancora non si è deciso, ma l’idea è anche quella di sfruttare la strada già aperta dal decreto Sviluppo bis che ha messo in campo una serie di agevolazioni fiscali e uno snellimento all’osso della burocrazia per chi vuole dare vita a una start up.
L’obiettivo del ministero guidato da Profumo è anche quello di provare a dare concretezza, con questo ultimo bando che sarà messo a punto nelle prossime settimane, ai progetti di ricerca che il ministero ha già finanziato nei mesi scorsi, facendo sbocciare lì dove possibile nuove imprese e occupazione. Sono due i maxi bandi che guardano di più all’innovazione nel segno dell’alleanza tra imprese e centri di ricerca e che il Miur ha finanziato già con quasi 1,5 miliardi. Si tratta del bando sui «cluster tecnologici nazionali» per cui sono stati stanziati 408 milioni e quello sulle smart cities che vale in tutto 900 milioni (240 solo per il Sud e 655 per l’intero Paese).
Il primo si è chiuso a fine settembre con 11 domande e 44 progetti pervenuti nei nove settori strategici della ricerca individuati dal dicastero (chimica verde, aerospazio, mobilità, scienze della vita, agrifood, ambienti di vita, energia, fabbrica intelligente, tecnologie per smart communities). Il secondo – quello sulle smart cities che sostiene l’innovazione urbana e dei territori – si è chiuso nei giorni scorsi con ben 148 domande presentate da oltre mille soggetti (tra imprese, università ed enti di ricerca). E con la cultura (tra i 16 settori coinvolti) a fare la parte del leone con 13 progetti (per un valore di 215 milioni su 2,3 miliardi totali).
Da qui e dal prossimo bando da 120 milioni il ministero vuole ripartire per “allenare” il sistema di ricerca italiano e farlo trovare pronto nella gara ai fondi europei che finora ci vede indietro, tanto che ogni anno almeno 400 milioni dei fondi che giriamo all’Ue li “regaliamo” agli altri Paesi per fare innovazione.
Il quadro degli impegni in ricerca e innovazione
SMART CITIES
Si sono chiusi lo scorso 9 novembre i bandi Smart cities & communities, aventi come obiettivo la costruzione di capacità industriali e prototipi nelle tecnologie smart
895 milioni
LE RISORSE
DISTRETTI AL SUD
930 milioni
È atteso un impatto sul medio periodo dal bando scaduto a inizio agosto per rafforzare il rapporto università, impresa e trasferimento di conoscenza nelle regioni del Mezzogiorno
LE RISORSE
CLUSTER HI-TECH
408 milioni
Punta alla costruzione della specializzazione tecnologica intelligente delle regioni il pacchetto di risorse messe a disposizione con un bando chiuso il 28 settembre scorso
LE RISORSE
SOCIAL INNOVATION
40 milioni
I progetti innovativi a carattare sociale per i giovani under 32 nel Mezzogiorno avranno un impatto nel breve termine. Il bando è stato chiuso lo scorso 9 luglio
LE RISORSE
ACCORDI REGIONALI
110 milioni
Come per il Sud, in Piemonte, Toscana e Lazio finanziate le iniziative per rafforzare il rapporto università-impresa e il trasferimento di conoscenza (scadenza bando 6 agosto)
LE RISORSE
IL NUOVO BANDO
120 milioni
Creare un’impresa innovativa o una start up nell’innovazione sociale, nelle tecnologie e nella cultura. Favorendo il Sud e gli under 35. È l’obiettivo del bando che arriverà all’inizio del 2013
Il Sole 24 Ore 17.11.12
“Il fattore P e i re negligenti”, di Barbara Spinelli
Esiste il fattore P (fattore Politica), come in guerra fredda esisteva, secondo la formula che Alberto Ronchey escogitò nel 1979, il fattore K, da kommunizm
in russo. Il fattore K impedì all’Italia, per mezzo secolo, di darsi una democrazia compiuta. Troppo potente era il Pci, perché fossero ammesse vere alternanze. La democrazia, bloccata, s’incancrenì presto: assicurata l’immobile permanenza del trono, tutto era permesso.
Il fattore P è più subdolo: quel che oggi si tende a escludere, ma senza dirlo, è la Politica tout court, intesa come dibattito fra visioni che si contrappongono perché la migliore sia votata, sperimentata, o respinta. Ovvio che se vien sottratta la politica-dibattito evapora anche la democrazia, che è sovranità del popolo ma, forse ancor più, controllo dei governati sui governanti. L’esclusione è subdola perché chi esce da questo schema subito è sospettato di antipolitica.
Se il fattore K nacque dalla guerra fredda, il fattore P è frutto insidioso della crisi economica, che alla guerra somiglia sempre più. La nazione in guerra non discute: si mobilita. La via d’uscita è univoca, e chi può tracciarla meglio dei tecnici, generali o economisti? Quel che accomuna le guerre e le grandi crisi è lo stato di ineluttabilità, che riduce le libere alternative. Il Regno della necessità si fa legge di natura, e s’installa a dispetto di smentite o disavventure.
La prevalenza del tecnico non è un fenomeno solo italiano: lo spiega Ralph Bollmann sul numero di settembre della rivista Merkur, esaminando il ruolo, «quasi sempre negativo », che gli esperti economici hanno avuto in Germania: a cominciare da Ludwig Erhard, Cancelliere dopo Adenauer, che fu ingegnoso negli anni dell’occupazione alleata, non dopo. Né è un fenomeno esclusivamente nazionale: l’Unione europea rischia analogo rattrappimento. Il tecnico Monti agisce politicamente, ma non senza una certa impazienza per la dialettica politica democratica, e per le sue lentezze parlamentari (intervista a
Spiegel, 5-8-12).
Un fastidio simile lo spinge a difendere la tecnocrazia di Bruxelles, in un libro scritto con l’eurodeputata Sylvie Goulard ( La democrazia in Europa, Rizzoli). Quel che si deduce dall’estratto apparso domenica su Repubblica è di grande interesse. Il libro chiede un’Unione più democratica, e a giusto titolo ricorda che se l’Europa non si fa, la colpa non è degli eurocrati ma dei governanti nazionali, della loro procrastinazione, imperizia, strapotere. Ma la tesi centrale, nel brano pubblicato, è un’altra: «A livello europeo, la richiesta di più “politica” risulta alquanto sconcertante. Da un lato perché essa mostra di ignorare il carattere intrinsecamente politico del progetto europeo sin dai suoi esordi (…). Dall’altro perché l’esperienza insegna che “più politica” tante volte significa meno rigore e più problemi: i giochi della politica minano la fiducia nelle istituzioni comuni; gli scambi di favori (…) possono portare ad accogliere nell’Eurozona uno Stato che non soddisfa del tutto i criteri richiesti, a chiudere un occhio su un deficit pubblico o ancora a ignorare una pericolosa bolla immobiliare».
I politici, secondo gli autori, non solo dissipano forze e tempo nel gioco della politica (l’incubo italiano è sempre quello: la contesa fra guelfi e ghibellini, la politica come gioco, o teatrino).
Peccano soprattutto di imperizia, avendo ignorato le bolle finanziarie generatrici della crisi. Così come pecca il popolo, animato più da «pulsioni» che da ragionamenti. Ambedue, politici e popolo, eludono il solo farmaco che guarisca: i governi di unità nazionale, atti a «rassicurare gli investitori e i partner europei».
«Più politica tante volte significa meno rigore e più problemi »: ecco la frase chiave, che tradisce impazienza di fronte alla politica-controversia. Un poco somiglia al disprezzo che Donoso Cortés nutriva, nell’800, per la clase discutidora dei Parlamenti borghesi. La guerra economica, in altre parole, meglio lasciarla ai periti tanto è complessa. Ma è proprio vero? Da quel che si sa, quasi nessun perito previde la crisi del 2007-2008. Perfino la regina d’Inghilterra se ne stupì, nel novembre 2008, in un incontro con eminenti economisti alla London School of Economics, e chiese: «Possibile che non abbiate visto venire nulla?
Why did nobody notice it?».
Chi aveva visto e suonato l’allarme fu per anni considerato uno stravagante, dentro e fuori le accademie.Quanto al governo tecnico italiano, sono tanti gli errori, troppi per non destare il sospetto che anche l’intenditore si districhi a fatica. Il problema non sono le battute, di cui Monti si rammarica. Dietro le battute ci sono sviste, calcoli mal fatti o fatti a tavolino, e marce indietro che denotano ragionamenti (e convinzioni) non sempre stabili. Ci sono le incessanti titubanze sugli esodati; i tagli di fondi (poi parzialmente ritirati) per i malati di Sla; la legge sulla corruzione, che lascia impuniti reati gravi quali il falso in bilancio e l’auto-riciclaggio; i tagli alla pubblica istruzione; l’aumento di ore di lavoro degli insegnanti a parità di stipendio, poi sconfessato; il pasticcio del tributo Imu per la Chiesa. I tecnici sono d’aiuto, in crisi e in guerra. Ma senza convinzioni civili forti rischiano di cadere anch’essi nella procrastinazione, nel disorientamento.
E i politici? I politici e i partiti continuano a delegare al tecnico i propri compiti. Scrive ancora Bollmann che gli unici esperti di politica restano pur sempre i politici. Solo loro sanno trovare equilibri accettabili tra bisogni di cassa e bisogni del Paese, tra economia e Stato di diritto, tra nazione e mondo.
Solo loro possono pensare nuovi modelli di sviluppo, attento al clima e alla tutela del bene pubblico. I tecnici sono il più delle volte, come diceva Friedrich Schlegel a proposito degli storici, «profeti volti all’indietro ». Stabilizzano il presente, anche parlando del futuro. Di rado sono i fondatori di
ordini nuovi, in casa e in Europa.
Il guaio è che i politici in Italia non vogliono esserlo. Sono affetti da nolitio, non-volontà. Temono, se rifiutano le unità nazionali, l’epiteto dell’antipolitico, del demagogo. Sono anch’essi inorriditi dalle «pulsioni » del popolo (Grillo è pulsione). Somigliano ai re negligenti, che Dante colloca in un’aiuola fiorita dell’Antipurgatorio. Mettendosi da parte, s’aggrappano al potere per il potere: terreno tra i più propizi per la corruzione morale. Se non fosse così, non si darebbero tanto da fare per fabbricare una legge elettorale che lascia in piedi tutte le storture della legge precedente tranne l’unico vantaggio che aveva: far uscire dalle urne una maggioranza chiara.
In guerra fredda, un tacito accordo (la conventio ad excludendum) allontanava il Pci dal potere. Oggi la conventio allontana la politica. È l’argomento di Ilvo Diamanti, su Repubblica di lunedì: Monti è stato designato in quanto tecnico non eletto. «Perché non deve rispondere ai cittadini delle sue scelte. Ha ottenuto la fiducia del Parlamento proprio perché non è un politico. Per questo si fanno largo progetti di legge elettorale con l’obiettivo di impedire a qualcuno di vincere davvero. Per costringere le principali forze politiche al compromesso. Come nella Prima Repubblica. Per riproporre Monti al governo».
Lo scenario non è diverso in Europa. «La richiesta di più politica risulta alquanto sconcertante », scrive Monti. Perché sconcertante? Quando la politica si autoesclude in quanto inesperta, non resta che la tecnocrazia e questo diventa un problema. La domanda di più politica, e di partiti che anche in Europa lavorino a un ordine nuovo, è più che giustificata in una crisi che corrode il progetto europeo degli esordi. Marx diceva che i governi moderni sono semplici comitati d’affari delle forze di mercato. Oggi il caso pare aggravarsi. Per lungo tempo, l’eurocrazia fu un servizio tecnico degli Stati. Ora anche i governi nazionali sono servizi tecnici. Comitati d’affari nazionali d’un comitato d’affari europeo, in un circolo vizioso che solo il ritorno alla politica, dunque della speranza, può spezzare.
La Repubblica 17.11.12
