Nelle Langhe, tutte le volte che pioveva molto, e per alcuni giorni di fila, si diceva che i contadini iniziassero a “portare l’acqua a spasso”. Sulle colline e su qualsiasi altro terreno in pendenza gli agricoltori, armati di zappa, scavavano stretti e lunghi solchi pieni di curve: così aiutavano l’acqua a “camminare” per un po’ prima che scendesse a valle. Una precauzione perché non acquisisse forza distruttiva, sia per le coltivazioni sia, a valanga e nei casi più gravi, per le costruzioni.
Torna questo frammento di memoria, che tanti anni fa sembrava più che altro un racconto colorito riferito alla civiltà contadina, ogni volta che in Italia un territorio va sott’acqua o un fiume esonda portando danni, tristezza e purtroppo morte. E viene da pensarci sempre più spesso, perché capita regolarmente ogni autunno da un po’ di anni a questa parte, e molte volte anche a fine inverno. Per curiosità, basta controllare l’elenco delle alluvioni di una certa importanza avvenute in Italia, che si trova facilmente su internet.
Salta subito all’occhio come i fenomeni gravi in termini di danni materiali e di vite umane si siano molto intensificati a partire dal secondo dopo-guerra. Guardando quell’elenco, poi, si capisce che l’Italia è da sempre un Paese naturalmente soggetto a questi eventi, ma una tale escalation non è spiegabile se non con una riflessione riguardante la nostra cura per il territorio e i luoghi in cui viviamo.
Sarebbe forse troppo facile — ma anche poco serio senza un adeguato supporto scientifico — chiamare in causa il cambiamento climatico, anche perché i disastri legati al meteo si sono moltiplicati in tutto il mondo. Sicuramente qualcosa sta mutando nella prevedibilità e nella frequenza di fenomeni atmosferici eccezionali, è evidente, ma se guardiamo a come abbiamo trattato il nostro Paese negli ultimi due secoli, e maggiormente negli ultimi sessant’anni, non si può non pensare che siamo stati incauti, se non scellerati, nel depredarlo, abbandonarlo, coprirlo di cemento, nel costruire senza criteri preventivi rispetto a cataclismi cui ormai dovremmo essere un po’ abituati, e anche preparati, da almeno qualche centinaio di anni.
Non ci vuole un genio per capire certe cause e non ci vorrebbe neanche un genio della politica per cercare di correre subito ai ripari. Un piano nazionale di messa in sicurezza del territorio italiano dovrebbe essere la priorità di qualsiasi governo, dovrebbe essere in qualsiasi programma elettorale, dovrebbe mettere d’accordo tutte le forze politiche. E invece no. Ogni autunno bisogna ricordare, di fronte a questi drammi, chi “portava l’acqua a spasso”.
Parlare di civiltà agricola del passato non è irrispettoso, non è un caso o un esercizio trito da maniaci delle contadinerie. Studi storici ci spiegano che su un territorio geomorfologicamente fragile come il nostro abbiamo
iniziato un paio di secoli fa con il disboscamento a tappeto delle aree collinari e montane. Questo ha peggiorato molto la sicurezza dei terreni e reso più pericoloso il deflusso delle acque, ma quanto meno si era fatto spazio a un’agricoltura che era pur costretta a prendersi cura del territorio in maniera capillare e sistematica. Il tutto su base locale ma con una sapienza che quando in casi eccezionali doveva lamentare danni e perdite, almeno poteva inveire a ragione contro la malasorte, perché si era fatto tutto il possibile per prevenire.
Poi, con l’avvento dell’era industriale, l’inizio dell’irreparabile: prima l’abbandono delle zone più difficili da coltivare o dove mal si adattava l’agro-industria, illusoria portatrice di una troppo agognata modernità. Montagne, colline, aree considerate “arretrate” hanno visto arrivare il deserto umano, l’incuria, infine il tentativo molto problematico della Natura di riprendersi i suoi spazi. Non smetto di ricordare ciò che ha detto una volta Tonino Guerra: «L’Italia non è più bella come una volta, è inutile che mi rompano le scatole, perché una volta c’era chi la curava. Non erano dieci persone messe lì e pagate dallo Stato, erano quelli che l’abitavano: i contadini». Con l’abbandono di queste campagne si è rotto un equilibrio che è esploso a valle e nelle pianure con il boom edilizio e delle aree industriali: un’altra escalation direttamente proporzionale a quella dei disastri che ormai a torto continuiamo a chiamare “naturali”. Abbiamo assistito a una cementificazione virale che, com’è stato più volte ricordato su queste pagine, non ha mai accennato a fermarsi, e negli ultimi trent’anni è anche peggiorata con 6 milioni di ettari di suolo fertile strappati al nostro Paese. Il tutto a fronte di dati che ci parlano di dieci milioni di case vuote, sfitte o inutilizzate. E non sindachiamo sulla qualità di queste costruzioni. Un disegno di legge per fermare il consumo di suolo, proposto dal ministro delle politiche agricole e forestali Mario Catania, è pronto ed è stato molto migliorato dalla Conferenza Stato-Regioni anche in base a richieste della società civile: voglio sperare che venga approvato celermente da questo governo entro i termini di scadenza della legislatura, a maggior ragione dopo i fatti degli ultimi giorni.
Continuando con la storia, invece, l’abbandono delle campagne è proseguito anche in pianura: i contadini sono diventati sempre meno e sempre più soli, alle prese con un’agricoltura industriale che bada al territorio (cioè lo sfrutta) soltanto nella misura in cui rappresenta un fattore produttivo, dunque senza attenzione per le opere che potrebbero avere un interesse per la collettività. Infine c’è stata anche la dismissione delle aree industriali: non posso non pensare a quegli spettri di territorio che sono diventati certi punti della Valle Bormida o che presto lo diventeranno, come il tarantino.
Quasi nessuno si prende più cura dell’Italia. Legambiente ha stimato nel 2010 che l’82% dei comuni italiani è a rischio idrogeologico, in cinque Regioni siamo al 100%. Nemmeno lo Stato, che potrebbe fare tanto, fa il suo mentre insegue testardamente “grandi opere” che ormai suonano sempre più come una presa in giro. Non si può non urlare la richiesta di un piano serio e moderno di messa in sicurezza del territorio nazionale. Piano che agisca a livello locale non soltanto con opere minime e semplici (ma queste sì, grandi) di cura e manutenzione: anche attraverso la tutela dei suoli fertili e la rimessa in produzione di quelli compromessi (con forme di neo-agricoltura per l’industria, come coltivazioni per bioplastica in terreni inquinati). Oppure attraverso gli incentivi per un ritorno alla campagna da parte delle nuove generazioni e un premio a chi, attraverso l’attività agricola, serve ancora la Nazione con quei lavori che sanno “portare a spasso l’acqua”. Questa è vera modernità, questo è ciò di cui si parla veramente quando si parla di paesaggio, di agricoltura sostenibile o di economia locale. Non è poesia o nostalgia. Sono cose che genererebbero più occupazione e Pil di quanto non ne facciano i disastri. Perché è terribile dirlo — e non è un caso che ci sia chi è stato colto a gioire e ridere per un terremoto — ma un disastro “innaturale” fa quote di Pil attraverso la ricostruzione o magari anche con forme di assicurazione privata che ora, guarda caso, alcuni vorrebbero obbligatorie per tutti.
La Repubblica 15.11.12
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“Il momento delle risposte”, di Guglielmo Epifani
La giornata europea di mobilitazione contro l’austerità e per l’occupazione e lo Stato sociale ha rappresentato effettivamente una novità e un bisogno. Al di là delle diverse scelte fatte, tra chi ha scioperato e chi ha manifestato in altro modo, il mondo del lavoro continentale ha espresso con forza l’insostenibilità sociale crescente della ricetta di più rigore e più disoccupazione, e l’inquietudine verso un presente ed un futuro in cui non si vedono rapide fuoriuscite dalla crisi. Non è più solo la Grecia il caso emblematico di questa vera e propria trappola in cui siamo caduti; e non sono soltanto sindacati, movimenti e forze progressiste a richiedere un cambiamento di scelte e strategie. Se è vero, come è vero, che da fonti insospettabili e dallo stesso Fondo monetario ormai si discute senza reticenza dei famosi moltiplicatori che oggi determinano, contrariamente ad altre fasi del ciclo economico, un rapporto superiore a due della incidenza dei tagli rispetto al prodotto interno lordo. Anche in Italia sciopero e manifestazioni hanno avuto un carattere importante, e hanno visto una forte presenza di studenti e del mondo dell’istruzione in lotta per chiedere più investimenti e più qualità e per protestare contro una logica di puri tagli che penalizza la formazione e riduce il diritto allo studio. A Terni la manifestazione centrale della Cgil ha riproposto il tema della difesa dell’industria italiana e del bisogno di una politica che eviti una catena annunciata di ridimensionamenti produttivi e occupazionali, a partire dall’industria di base: alluminio, acciaio, automobile, petrolchimica, e provi a difendere e qualificare i nostri asset strategici, compresi quelli di Finmeccanica. Insieme, la giornata di mobilitazione ha confermato l’aggravarsi di una radicalità sociale che non può non allarmare. Tanti segni in questi mesi lo confermavano fino a quelli degli ultimi giorni, l’esasperazione dei lavoratori dell’Alcoa e del Sulcis, con i ministri che se ne ripartono in fretta e furia, i fatti di Napoli, e su un altro verso le aggressioni verso le sedi di Cisl e Uil. A questi, si sono aggiunti oggi gli scontri tra polizia e studenti a Roma, Padova e in altre città, l’inqualificabile pestaggio di Torino verso le forze dell’ordine, gli slogan inammissibili gridati di fronte alla Sinagoga di Roma, e tanti altri fatti che fuoriescono da un legittimo ricorso alla protesta. Tutto questo oltre alla condanna ferma, assoluta, richiede a tutti una fase di grande attenzione. Fino ad oggi la crisi in Italia, per quanto dura, è stata affrontata da tutti con serietà e responsabilità, a partire dai tanti che hanno perso, nella crisi, poco o tanto, il lavoro, il reddito, la sicurezza, o anche solo il potere d’acquisto di un tempo. Oggi, in ragione del tempo lungo della crisi e dell’assenza di risposte, e anche degli errori fatti dal governo, la situazione può farsi maledettamente più difficile. In questo quadro preoccupano due aspetti: la lontananza della politica o di una sua parte da chi non ce la sta facendo, dall’altra l’algido distacco di chi ritiene che non ci sia nulla da fare. Nel primo caso colpiva, dopo le immagini delle proteste, la polemica del centrodestra per la data delle elezioni regionali: una difesa miope di interessi di fronte a un Paese che chiede cambiamenti. Nell’altro caso preoccupa la distanza troppo grande tra la dimensione tecnica e quella politica e sociale, e che spesso si nasconde in una velata insofferenza verso le caratteristiche fondamentali dei processi democratici. Da qui derivano due conseguenze inevitabili. Bisogna tenere ferma la barra nel rifiuto e nel contrasto attivo di ogni forma di violenza e di intolleranza, piccola o grande che sia, e quale che ne sia la motivazione sociale o civile. Bisogna però insieme – negli atteggiamenti, nelle decisioni, nei comportamenti, nelle sensibilità culturali – ridurre la distanza tra quanti nella crisi ce la fanno, spesso anche bene, e i tanti che non sono in condizione di farcela, e dare un progetto ragionevole in cui credere per il futuro. Il momento delle risposte nella crisi che divide Questo è quello che manca, e questo è il compito che i riformisti debbono sapere assumersi, in Italia e in Europa.
L’Unità 15.11.12
“Il tempo pieno da salvare”, di Pippo Frisone
Lunedi 12 novembre si è svolto a Milano un Seminario sulla scuola primaria e sul tempo pieno, organizzato dalla Cisl-scuola, dalla Flcgil di Milano e dal giornale Scuolaoggi. Scopo dichiarato dell’iniziativa, dopo anni di frammentazione del dibattito attorno alla primaria, era quello di riuscire a fare un primo bilancio, un ticket al tempo pieno. Sullo sfondo le ripetute manomissioni, tentate e attuate sulla scuola primaria, prima dalla Moratti poi dalla Gelmini che nel triennio 2009/12 con la sua riforma epocale ha lasciato sul campo ben 27.111 posti. Un primo dato significativo, colto negli interventi e nel corso del dibattito, è stato quello dell’aumento costante delle classi a tempo pieno nell’ultimo sessennio 07/08 – 12/13, aumento a macchia di leopardo, più al nord che al sud più nelle grandi città metropolitane e meno in periferia. Dal dato nazionale del 24,15% del 2007/08 con 33.224 classi a tp si è passati al 30,06% del 2012/13 con 39.735 classi a tp.
La regione con la percentuale di tp più alta nel 2012/13 è la Basilicata col 47,66% che supera di stretta misura la Lombardia col 47,22% ma che mantiene in cifra assoluta il più alto numero di classi a tp con 9.887. Agli ultimi posti il Molise col 7,25% , la Campania col 7,34% e la Sicilia col 7,76%.
Cifre su cui riflettere: Milano nel decennio 1998-2008 passa da 4.916 classi a tp a 6.980 del 2008/09 , arrivando a 7.034 classi a tp nel 2012/13.
Tanto per dare un’idea, bisogna mettere assieme tutte le classi a tp di quasi mezza Italia, Abbruzzo(340),Basilicata(662),Marche(832),Molise(54),Sicilia(986),Umbria(425) Campania (1125) Liguria (1212),Puglia( 1309) per ottenere un risultato che si avvicina a quello di Milano.
Per restare solo al nord occorre mettere assieme il tp del Piemonte (4228) con quello del Veneto(2711).
Milano rappresenta il 17,70% del totale nazionale a tp ( 39.735 ) e il 71,14% del dato lombardo( 9.887 ) . Il balzo delle classi a tp a livello nazionale è stato dal 24,15% del 2007/08 al 30,06% del 2012/13 .
Salvare il tempo pieno è stata la parola d’ordine del seminario milanese. Il tempo pieno è un contenitore ma quale è il tempo dell’apprendimento? Quale e quanto tempo serve per imparare? Il tempo della scuola primaria è e rimane decisivo nella formazione degli italiani. L’Europa ci chiede di aumentare i laureati e di ridurre fortemente la dispersione scolastica e gli abbandoni ancora molto alti nella secondaria.
Perciò vanno rafforzati i progetti formativi forti che vadano in direzione dell’inclusione e non dell’esclusione, della multiculturalità e per buone pratiche didattiche. La primaria ha bisogno di tempi lunghi e distesi non solo per la sua funzione sociale ma anche e soprattutto per favorire gli apprendimenti degli alunni di tutti i ceti e dei docenti in un processo circolare di apprendimento/insegnamento continuo. Contitolarità, collegialità, corresponsabilità sono gli strumenti che i docenti devono continuare a maneggiare con cura , affiancandoli a una formazione continua non più rinviabile. Quanto all’autonomia didattica e organizzativa (dpr 275) , va incoraggiata di più, risultando l’approccio della primaria ancora timido e scarsamente praticato.
Il tema degli organici, funzionali e di rete, è stato approfondito nei gruppi di lavoro.
Quello che è uscito dal decreto semplificazione è un vorrei ma non posso che non ha convinto nessuno. Senza risorse aggiuntive ( erano stati proposti all’inizio 10mila posti in più) e senza finanziamenti alle scuole, non si ha nessun organico funzionale e nessuna autonomia vera.
Si blocchino i decreti attuativi, rinviando la riforma degli organici funzionali e di rete al futuro governo politico che verrà. Non si può continuare a voler fare le nozze coi fichi secchi,cioè senza risorse e senza investimenti.
L’attuale proposta di organico funzionale , uscita dal Parlamento con l’art.50 della L.35/12 altro non è che la fotocopia dell’esistente, fortemente condizionata dai vincoli sugli organici, ripetutamente richiamati con l’art.64 L.133/08 e l’art.19 L.111/11. Meglio rinviare il tutto.
Nel frattempo la scuola primaria cerchi di salvare il salvabile di quanto resta del tempo pieno.
Come? Provando a rilanciare un progetto innovativo del tempo pieno che contenga il meglio di un’esperienza quarantennale (classi aperte, lavorare in gruppo, flessibilità organizzativa, percorsi didattici individualizzati, di livello, laboratori ecc..,).
Se questo progetto risulterà più forte e condiviso non solo dai docenti ma anche dalle famiglie, bisognerà chiedere all’USR le 44ore per classe garantite e non le 40 o 41 ore come avviene attualmente. Spetterà poi ai singoli collegi , in virtù dell’autonomia didattica-organizzativa riconosciuta dal Dpr 275/99, come utilizzare le risorse interne una volta assegnate,ritagliandosi anche le compresenze che riterrà necessarie. Chi vorrà mantenere un tempo scuola a 40 ore, senza le compresenze, magari col tempo mensa affidato al comune, sarà libero di farlo ma sarà altra cosa rispetto al tempo pieno. E’ giunto il momento di cominciare a separare il colesterolo buono (tempo pieno) da quello meno buono (tempo lungo).
E tutto in attesa di avere organici funzionali veri che possono garantire un’autonomia vera alle istituzioni scolastiche, accendendo cosi un primo fanalino in fondo al tunnel che ridia speranza alle nuove generazioni, alle quali stanno rubando anche il futuro.
da ScuolaOggi 15.11.12
“Tra Savita e la morte”, di Massimo Gramellini
Savita è una giovane dentista indiana che abita in Irlanda con il marito Praveen, ingegnere. Aspetta un bambino da quattro mesi quando si presenta in ospedale. Ha dolori atroci alla schiena e la possibilità concreta di perdere, insieme col figlio, la vita. Al termine di una notte di scelte non facili, chiede ai medici di interrompere la gravidanza. Le rispondono che l’Irlanda è un Paese cattolico dove, finché si sente battere il cuore del feto, non è possibile interrompere niente. Savita non è irlandese e non è cattolica, ma deve stare alle regole. Soffrire. Aspettare. Il 23 ottobre il cuore del feto si ferma e i medici lo asportano, ma è troppo tardi. Il 28, a una settimana esatta dal ricovero, Savita muore di setticemia nell’ospedale universitario di Galway: in piena Irlanda, in piena Europa, in pieno ventunesimo secolo.
Mi ostino a sperare che questa storia sia falsa o almeno incompleta. Che fra il comportamento dei medici cattolici e il decesso della dentista indiana non ci sia il nesso che traspare dalla denuncia dell’Irish Times, confermata dal marito della vittima e ripresa dai principali network del mondo. Ma l’idea che le religioni – associazioni di uomini mosse dal più nobile degli afflati, quello spirituale – possano ispirare comportamenti fanatici, superstiziosi e sostanzialmente ottusi non ha purtroppo bisogno di conferme: è sotto i nostri occhi ogni istante, in ogni angolo del mondo. Mai come oggi abbiamo bisogno di spiritualità. Mai come oggi non abbiamo bisogno di fanatici, questi esseri sfocati che vivono di testa e di viscere, avendo dimenticato che in mezzo c’è un cuore.
La stampa 15.11.12
“Due violenze sbagliate”, di Massimo Giannini
Ribellarsi è giusto. Non c’è bisogno di rispolverare Jean Paul Sartre, per sapere che le migliaia e migliaia di donne e uomini, giovani e meno giovani che hanno riempito le piazze d’Europa hanno ragione. Nell’Occidente disorientato, dove una finanza senza regole ha divorato l’industria manifatturiera e un mercato senza Stato ha prodotto la disuguaglianza di massa, uno «sciopero europeo» è sacrosanto, quando invoca pacificamente più lavoro, più diritti, più giustizia sociale.
Dopo mesi di scontri e di manifestazioni in Grecia, in Portogallo, in Spagna, era ovvio che l’onda della protesta tornasse a sommergere anche l’Italia. A meno che non si pensi (o non si voglia) che l’immaginesimbolo dei ragazzi italiani di oggi sia solo quella dei 50mila spensierati teenager accorsi sabato scorso al flash-mob di Piazza del Popolo, per ballare sulle note di un rapper coreano. Quello che non è affatto giusto è che la rabbia di una generazione, derubata del futuro da una stagione di sacrifici che non promettono il riscatto ma producono solo altri sacrifici, sfoci in una violenza altrettanto cieca e fine a se stessa. Ci saranno sicuramente «infiltrati», e forse non solo italiani dei centri sociali più pericolosi. Ma quei manifestanti con caschi e passamontagna che lanciano pietre sui poliziotti, sfasciano vetrine e assaltano banche, ci riportano ai giorni di sangue del G8 di Genova, che non vorremmo più vedere. E ci saranno probabilmente «saldature», tra le aree della sinistra radicale e le frange della destra estrema. Ma i cori che inneggiano a Saddam Hussein o gli slogan contro gli ebrei ci precipitano nell’incubo di un’«Alba Dorata» tricolore che non vorremmo mai vivere.
Quello che non è giusto, allora, è che le intemperanze di una minoranza facinorosa, anarcoinsurrezionalista o neo-nazista che sia, riducano al silenzio le ragioni di una maggioranza rumorosa, ma non violenta, che chiede all’Italia e all’Europa il coraggio di quel «rise up» che finora è mancato, e del quale c’è
ovunque un disperato bisogno. Il buono che c’è, nella domanda di rappresentanza degli studenti umiliati da anni di tagli alla scuola pubblica, viene distrutto dalle fiamme delle molotov e dai colpi di spranga. Il buono che c’è nella domanda di equità della Cgil, per quanto isolata dagli altri sindacati, viene cancellato dagli ululati delle sirene e dal fumo avvelenato dei lacrimogeni. Per questo è importante che chi ieri ha urlato a viso aperto il suo disagio in ottantasette città condanni con la stessa indignazione le violenze, fisiche e verbali, di chi incrociava (rovinandoli) quegli stessi cortei.
Quello che non è affatto giusto, per ragioni uguali e contrarie, è che a questa violenza sciagurata della piazza si risponda con una violenza esagerata dello Stato. Le forze dell’ordine, a loro volta esasperate perché vittime anch’esse dei tagli di bilancio, meritano rispetto. Ai poliziotti feriti si deve solidarietà. Ma le scene degli agenti che inseguono e circondano qualche manifestante isolato, e poi in gruppo lo riempiono di manganellate sul corpo e sul viso, tenendogli perfino ferme le mani, suscitano la stessa riprovazione di un black bloc che brandisce una mazza da baseball di fronte a una «guardia». Non è così che si tiene alto l’onore e il prestigio di una divisa. Non è così che si difende uno Stato di diritto.
Quello che non è affatto giusto, infine, è che si speculi politicamente su queste proteste e su queste violenze. Che il governo e i partiti si rinchiudano nel solito gioco di ruolo, dove il primo si sente sempre in dovere di difendere «a priori» l’operato della polizia, e i secondi si rimpallano
colpe sociali e responsabilità morali. E dove magari spunta il solito Grillo, che lancia appelli pseudo-pasoliniani al «soldato blu», chiedendogli di sfilarsi l’elmetto e la divisa e di andare in corteo a fianco dei manifestanti, perché ormai «c’è una guerra».
Per fortuna qui non c’è nessuna «guerra». C’è una gigantesca emergenza, che è insieme economica e sociale, e interroga allo stesso modo e allo stesso tempo la nostra e tutte le democrazie. C’è un popolo trans-nazionale di oltre 212 milioni di disoccupati adulti, che non reggono più i morsi della crisi. C’è una generazione «Neet» di 14 milioni di ragazzi tra i 19 e i 25 anni, che non studiano più e non lavorano ancora e che chiedono una prospettiva. Questo non è un banale problema di «ordine pubblico». È invece un’immane «questione politica». Se solo le classi dirigenti, più o meno illuminate, sapessero vederla, capirla, e magari risolverla.
La Repubblica 15.11.12
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“Studenti e professori invadono le strade dello sciopero”, di Mario Castagna
La protesta della scuola confluisce nella giornata di mobilitazione: opposizione alla legge Aprea e ai tagli dei finanziamenti per l’istruzione ” Appello per la difesa dell’Erasmus. Le piazze di tutta Italia gremite di studenti hanno accolto lungo la penisola le manifestazioni della Cgil. A Roma 20mila studenti, per la maggior parte delle scuole superiori, hanno incrociato più volte il corteo dei lavoratori per poi disperdersi a causa degli scontri sul lungotevere. A Milano il corteo di 6mila studenti si è snodato tra le vie della città, anche qui in parallelo rispetto al corteo organizzato dalla Cgil. Quasi tutti i cortei hanno visto infatti una enorme partecipazione di giovani accanto ai loro insegnanti, da Roma a Milano, da Bologna a Napoli, tanto che in molte piazze era difficile capire se si era di fronte ad una manifestazione degli studenti o ad una del sindacato. Anche a Pomigliano, alla manifestazione della Fiom, sono intervenuti dal palco gli studenti dell’Uds. Non è lontana dalla realtà la stima di 100 mila studenti scesi in piazza in tutta Italia a fianco dei lavoratori. Accadrà di nuovo. È stata la prima volta che a livello continentale studenti e lavoratori scendevano in piazza simultaneamente sotto le stesse bandiere. Finora le mobilitazioni coordinate a livello europeo avevano interessato quasi esclusivamente le giovani generazioni, riunite spesso sotto la generica etichetta di “indignados”, che avevano già provato a lanciare per il 15 ottobre del 2011 una mobilitazione europea contro le politiche di austerity. Purtroppo la giornata in Italia finì negli scontri di piazza San Giovanni ma non è piccola l’eredità che quel movimento ha lasciato, a partire dal titolo della manifestazione, “People of Europe rise up”, che è divenuta oggi una campagna che vede impegnati i Giovani democratici insieme alle organizzazioni giovanili dei partiti socialisti e progressisti di tutta Europa. Ed oggi quella eredità è raccolta, per la prima volta a livello continentale, congiuntamente, dai sindacati e dalle organizzazioni studentesche, come la Link e la Run, che hanno colto l’occasione per rilanciare le loro parole d’ordine
NO Al TAGLI INDISCRIMINATI Nei cortei che si sono svolti ieri camminavano paralleli i due livelli di mobilitazione degli studenti. Da una parte le tradizionali rivendicazioni contro il disegno di legge Aprea, le politiche di definanziamento del settore dell’istruzione e i tagli ai programmi di diritto allo studio. Dall’altra parte invece gli studenti sembrano aver chiara la dimensione europea della loro mobilitazione. «In Italia questa manifestazione è una buona occasione per rilanciare il tema dello sviluppo del nostro Paese ci racconta Fausto Raciti, segretario dei Giovani democratici che in piazza erano presenti in gran numero Questo sviluppo sarà possibile solo rivedendo le regole che presiedono al funzionamento dell’Ue e dell’ euro. Un confronto su questo metterebbe in luce meglio di qualsiasi altra cosa il limite dei populismi, di destra e di sinistra, che minacciano di occupare lo spazio del confronto elettorale». Gli studenti hanno capito, prima e meglio di tanti altri, che le politiche di tagli e di austerity sono uno spettro che si aggira per l’Europa. Gli studenti inglesi protestano contro l’aumento indiscriminato delle tasse universitarie? Gli studenti italiani scendono in piazza per evitare che quel modello venga applicato anche in Italia, come vorrebbe una proposta del senatore Ichino. L’europarlamento vuole tagliare i fondi per il programma Erasmus? Gli studenti francesi e spagnoli promuovono un appello comune per la difesa di quella iniziativa. Sono sempre più numerosi i collegamenti tra i giovani europei, che fanno rimbalzare, come in un flipper impazzito, le loro parole d’ordine da una parte all’altra del continente. A dimostrare la dimensione europea della mobilitazione è anche la commistione linguistica presente sui cartelli, sugli striscioni e sulle bandiere degli studenti scesi in piazza. A Trieste lo striscione iniziale invocava la huelga (sciopero in spagnolo) generale, mentre in Grecia sulle mura del Partenone viene calato lo striscione “People of Europe rise up”. Protestano contro la legge Aprea ma sanno che, se il loro striscione è in greco, il loro slogan è in inglese, il loro coro in spagnolo, la loro bandiera non può che essere europea.
L’Unità 15.11.12
Maranello (MO) – Primarie PD – Pari opportunità: altro punto di vista del rinnovamento
con
Manuela Ghizzoni parlamentare Pd
Lucia Bursi Sindaco Comune di Maranello
Giuditta Pini segretaria provinciale Gd
presso
Auditorium Ferrari, Via Nazionale, 78 – Maranello (MO)
Milano – Stati Generali dei Professionisti del patrimonio culturale
Auditorium del Palazzo Lombardia
Ore 9.00
RIUNIONE COMITATI TERRITORIALI MAB
Ore 10.30
ASSEMBLEE PARALLELE DELLE ASSOCIAZIONI
Ore 14.30
SESSIONE CONCLUSIVA: TAVOLA ROTONDA
AGENDA PER UN FUTURO SOSTENIBILE: LE PROPOSTE DEI PROFESSIONISTI ALLE ISTITUZIONI
Presentazione dei lavori delle sessioni parallele a cura dei coordinatori
Ore 15.30
DIBATTITO
Paolo Peluffo (Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio)
Manuela Ghizzoni (Presidente della Commissione Cultura della Camera)
Mario Caligiuri (Delegato per la cultura della Conferenza delle Regioni)
Marisa Valagussa (in rappresentanza di Valentina Aprea, Assessore alla Cultura della Regione Lombardia)
Stefano Parise (Presidente AIB)
Marco Carassi (Presidente ANAI)
Alberto Garlandini (Presidente ICOM Italia)
