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Appello a Monti: “Non tagliate i fondi per la ricerca”, di G.V.

Scienziati e ambientalisti contro autotrasportatori. Un ampio schieramento di professori universitari – economisti, sociologi, chimici, fisici, matematici – scende in campo insieme a Legambiente per criticare i tagli alla ricerca imposti dalla “spending review”, in polemica aperta con i contributi statali a favore delle imprese di camion e tir. Sono già una trentina i docenti che hanno firmato un appello che verrà presentato oggi al governo Monti, contestandogli da una parte di sottrarre ai loro progetti 210 milioni di euro in tre anni e dall’altra
di assegnare ai trasportatori di merci su gomma 400 milioni all’anno a carico della collettività. La “santa alleanza” tra mondo scientifico e Legambiente si celebra, per l’occasione, in nome della lotta all’inquinamento atmosferico e in particolare alle emissioni di CO2, diffuse in abbondanza dai “bisonti” delle strade e autostrade. Nel 2010, in base ai dati Ispra, i veicoli pesanti hanno prodotto 22 milioni di tonnellate di anidride carbonica. E l’Italia rischia anche di essere condannata da Bruxelles a pagare multe pesanti se sforerà i limiti stabiliti dai trattati internazionali. Secondo l’associazione presieduta da Vittorio Cogliati Dezza, «bisognerebbe invece puntare sulla manutenzione e l’ammodernamento degli attuali 16.000 chilometri di rete ferroviaria esistente, per un efficace riequilibrio modale, merci e passeggeri».
Di recente l’associazione delle 100mila imprese di categoria, come si legge nel loro sito, aveva lanciato una campagna istituzionale in programmazione sulle reti Mediaset, promossa dall’Albo degli autotrasportatori (ministero Infrastrutture e Trasporti), con lo slogan “Rimettiamo in moto l’Italia”. Ma ora i sottoscrittori dell’appello di Legambiente chiedono, «per qualificare non solo a parole la spesa pubblica», un emendamento al decreto sulla spending review. A loro giudizio, «ne beneficerebbe l’ambiente e farebbe bene alla qualità dello sviluppo tanto invocata».
Tra i primi firmatari, oltre all’astrofisica Margherita Hack, figurano il sociologo Aurelio Angelini, docente all’Università di Palermo e presidente del Comitato scientifico dell’Unesco-Dess; Bernardo Bernardinis, presidente dell’Ispra (Istituto superiore per la Protezione e Ricerca ambientale); Rino Falcone, direttore dell’Istituto di Scienze e tecnologie della Cognizione del Cnr; Marco Frey, direttore dell’Istituto di Management alla Scuola superiore Sant’Anna di Pisa; Gianni Mattioli, fisico e matematico, docente alla Sapienza di Roma; Simonetta Monechi (Dipartimento Scienze della Terra – Università di Firenze) e Massimo Scalia (Unesco-Dess).

La Repubblica 17.07.12

Roma, Zingaretti è in campo «Pronto a sfidare Alemanno», di Mariagrazia Gerina

Nel cuore di Trastevere ieri sera l’evento per festeggiare i quattro anni alla guida della Provincia. «Concluso questo mandato sono a disposizione per aiutare la città a voltare pagina». In un angolo Alfredo Reichlin ed Ettore Scola discutono del futuro della città eterna. «Speriamo che questa stagione sia finita», si augura il regista, intonando il de profundis sulla Roma di Alemanno.«Non sono mai stato pessimista», si schermisce Riechlin, «le energie per cambiare ci sono, manca la testa». Ecco, Zingaretti, per esempio, andrebbe benissimo, assicurano i due anziani testimonial. Mentre attorno è tutto un via vai, di donne con i passeggini, giovani, anziani. La «festa popolare» di Nicola Zingaretti, futuro candidato sindaco della capitale, può cominciare. A dire il vero, nel cuore di Trastevere, a piazza San Cosimato, restituita ai bambini e alle mamme, con parco giochi e il mercato sullo sfondo, si festeggiano i quattro anni di governo della Provincia di Roma, prossima a cedere il passo alla nuova area metropolitana. «Ne abbiamo combinate di tutti i colori», recita la brochure (stampata con i soldi della fondazione «Spazio alle Idee», s’intende, e non con quelli pubblici della Provincia) che ripercorre le cose realizzate fin qui. Il wi-fi gratuito, i pannelli solari sulle scuole, i parchi-gioco, la raccolta differenziata “porta a porta”, che quattro anni fa era un esperimento per pochi (25mila persone) e ora ha raggiunto quasi un milione di abitanti, il centro per l’impiego, nel cuore del quartiere Testaccio, aperto anche la sera per fronteggiare la crisi e il mercato del lavoro, i centri antiviolenza, le attività nelle scuole. Ma anche l’attenzione ai conti, lo sforzo di salvaguardare gli investimenti e pagare i fornitori non oltre i 60 giorni.
Cose fatte dalla postazione di Palazzo Valentini, ma anche idee su come cambiare la città, una volta riconquistato il Campidoglio. Perché quella ormai per Zingaretti, sempre assai prudente nell’uscire allo scoperto, è una sfida aperta. «Concluso questo mandato, sono a disposizione con la mia candidatura per aiutare Roma a voltare pagina, è tempo di ricostruire un progetto, una comunità, un patto per Roma a partire dalla società civile», ripete davanti a una piazza piena di futuri sostenitori, i comitati di quartiere che ha incontrato in questi mesi, i giovani imprenditori che hanno dato vita a «Vocazione Roma». Pezzi di una città, insofferente e non rassegnata al degrado della capitale – passa anche l’assessore De Palo, della giunta Alemanno, e il montezemoliano Giuseppe Cornetto che già da tempo si è raccolta attorno al futuro candidato sindaco. Un percorso iniziato, a dirla tutta, più o meno il giorno della sconfitta di Rutelli nel 2008, forse anche prima. «Se il centrosinsitra avesse candidato Zingaretti…», era il refrain all’indomani del voto. Di certo, da allora, mentre il Campidoglio andava assomigliando sempre più al ring di un Pdl rissoso e assetato di posti, Palazzo Valentini per molti è diventato una specie di rifugio.
In tutti questi anni, Zingaretti è stato una sorta di antagonista naturale di Alemanno. L’uno invocava l’esercito, per coprire il flop della sua «Roma sicura», l’altro spiegava che far vivere la città era l’antidoto migliore. L’uno faceva di tutto per privatizzare Acea, l’altro difendeva l’acqua «bene comune». L’uno continuava a collezionare indagati di ogni rango tra i suoi collaboratori, l’altro apriva le porte a Libera di don Ciotti. Uno gridava contro i rom, l’altro continuava a lavorare per l’integrazione, i nuovi diritti, contro l’omofobia.
Le cose fatte in questi anni sono state infondo anche il laboratorio di un’altra idea di città, che si vedrà nei prossimi mesi, se vedrà davvero la luce. E se reggerà al giudizio degli elettori. Messi a dura prova da questi anni di amministrazione Alemanno. Ma anche spaventati dalla crisi. Disamorati della politica.
Non a caso, Zingaretti pensa anche a una lista civica che possa traghettare anche i più scettici o estranei alla politica dentro la campagna elettorale. È anche a loro che Zingaretti si rivolge quando dice che vuole aiutare la città a voltare pagina. Non solo con Alemanno e i disastri della sua amministrazione. Ma anche con il passato. Perché riproporre il «modello Roma» come se nulla fosse accaduto, davvero non si può.

L’Unità 17.07.12

"Ferie, sfuma la monetizzazione", di Antimo Di Geronimo

I docenti precari, che hanno ottenuto la proroga del contratto per partecipare agli esami di stato come commissari, non potranno chiedere la monetizzazione delle ferie. Che può arrivare anche fino a 1500 euro se il docente lavora ad orario pieno. È uno degli effetti dell’entrata in vigore del decreto legge sulla revisione della spesa del 6 luglio scorso (n.95). Il provvedimento, al comma 8 dell’art. 5 , prevede infatti il divieto di corrispondere qualsivoglia indennizzo ai dipendenti pubblici che non abbiano fruito delle ferie nei periodi previsti dai contratti collettivi. E siccome è entrato in vigore il 7 luglio, si applica a tutte le cessazioni intervenute a partire da tale data. La preclusione, salvo correzioni in sede di conversione del decreto, vale anche per la scuola, per effetto del rinvio espresso all’art. 1, comma 2, della legge 31/12/2009, n. 196. Che rinvia a sua volta a un elenco di amministrazioni redatto dall’Istat , in cui rientrano anche le scuole, in quanto «considerate a fini statistici Unità Locali del Ministero dell’Istruzione, Università e Ricerca». Che rinvia anche all’art. 1 comma 2 del decreto legislativo 165/2001, che qualifica le istituzioni scolastiche alla stregua di pubbliche amministrazioni.

L’affidamento

Nessun dubbio, dunque, sull’applicabilità delle nuove disposizioni anche ai dipendenti dell’amministrazione scolastica. Qualche perplessità resta, invece, per quanto riguarda le modalità di attuazione. E in questo la novella non aiuta di certo. Perché, oltre a non indicare alcuna disciplina transitoria, il comma 8 dell’articolo 5 non tiene conto del principio di affidamento. Che pure dovrebbe avere un qualche valore. Se non altro per evitare di penalizzare lavoratori equiparabili che, all’atto dell’accettazione della proroga del contratto non sapevano che sarebbero andati incontro a svantaggi di natura economica. E che in ogni caso hanno reso un servizio all’amministrazione. Talvolta con effetti deteriori anche sull’importo dell’indennità di disoccupazione. Si pensi per esempio ai docenti che abbiano percepito retribuzioni di importo inferiore a quelle pregresse a seguito dello svolgimento di incarico di commissario d’esame. Il tutto con l’effetto di abbassare l’importo complessivo sul quale viene calcolata la somma relativa all’indennità.

Pensionati e Ata

Il divieto di monetizzazione delle ferie si applicherà anche ai docenti e agli Ata, il personale ausiliario, tecnico e amministrativo, che cesseranno dal servizio per pensionamento con effetti dal 1° settembre prossimo. Il provvedimento, peraltro, prevede la disapplicazione espressa delle disposizioni contrattuali o di altra natura che prevedevano la monetizzazione. E quindi, in ultima analisi, decontrattualizza una materia che fino al 6 luglio scorso era regolata dal comma 15 dell’articolo 13 del contratto collettivo nazionale di lavoro.

Le sanzioni

Oltre tutto, il comma 8 prevede anche sanzioni nei confronti dei dirigenti che non dovessero provvedere ad applicare il divieto di monetizzazione. Sanzioni che comportano la responsabilità disciplinare e la responsabilità amministrativa, che può determinare anche una eventuale azione di rivalsa davanti alla corte dei conti . Il rischio, dunque, è che i dirigenti scolastici, nel timore di incappare in queste sanzioni si astengano del tutto dal provvedere agli adempimenti di loro competenza, impedendo al tesoro di liquidare le relative spettanze. E a ciò va aggiunto l’ulteriore rischio che il versamento degli indennizzi venga bloccato direttamente dai dirigenti degli uffici periferici del ministero dell’economia. Sarebbe quanto mai auspicabile, dunque, che le amministrazioni centrali intervenissero al più presto con un chiarimento.

da ItaliaOggi 17.07.12

"Il leader Pd accelera sulla «carta d’intenti» e chiama Vendola", di Simone Collini

Bersani accelera sulla definizione della «carta d’intenti». Il testo definitivo, quello che dovrà essere sottoscritto da chi intende far parte della coalizione progressista e partecipare alle primarie per la premiership, sarà pronto in autunno. Ma la prossima settimana il leader Pd presenterà la sua proposta, che nell’impianto rispecchierà i punti programmatici e valoriali anticipati all’Assemblea nazionale di sabato: «lavoro al centro», equità, redistribuzione, conflitto di interessi, riequilibrio del carico fiscale, beni comuni, sviluppo sostenibile, orizzonte europeo, parità di genere, diritti civili e di cittadinanza. L’intenzione di Bersani è di discutere poi questa proposta nel corso dell’estate, al fine di arrivare ad ottobre con un testo condiviso, non solo con le altre forze politiche e con rappresentanti di liste civiche sparse su tutto il territorio nazionale, ma anche con associazioni, movimenti, parti sociali.
Il primo incontro in agenda è per i prossimi giorni, con Vendola. Il leader di Sel sta seguendo con attenzione non solo il confronto interno al Pd ma anche il tentativo di allacciare con l’Udc. «Non ho diffidenza quando persone che hanno storie politiche diverse dalla mia si incrociano con la mia, voglio però sapere qual è la bussola che abbiamo e quale l’orizzonte», dice il governatore pugliese facendo capire che non porrà veti pregiudiziali a un’alleanza con i moderati. Vendola però vuole aprire subito il cantiere programmatico. «Bersani ha fatto un passo in avanti indicando la prospettiva di un nuovo centrosinistra, le primarie per selezionare il candidato premier e la necessità di una nuova strategia politica, economica e sociale», dice riferendosi all’Assemblea Pd il leader di Sel. Che però è critico sia col no alle nozze per le coppie gay che con il sì del Pd alla riforma del lavoro: «Quello che voglio dire a Bersani è che nel programma di governo non possiamo mettere mezzi diritti. Si deve ripristinare l’articolo 18 e dire sì al matrimonio per le coppie gay».
Le nozze tra coppie omosessuali difficilmente però passeranno. Perché tra gli stessi Democratici il fronte contrario è ampio e perché Bersani è convinto che un punto di incontro con l’Udc sia possibile soltanto sulla base del documento messo a punto dal Comitato diritti del Pd. Casini è favorevole al riconoscimento di precisi diritti per le coppie conviventi, senza preclusioni di genere, ma ha anche fatto sapere che per lui un tema del genere rientra tra quelli «eticamente sensibili». Su cui, sottolinea fin d’ora il leader centrista, «non si creeranno alleanze politiche» e quindi i parlamentari dovranno essere liberi di votare «secondo coscienza».

l’Unità 17.07.12

"Ristabilire il senso del limite", di Ugo De Siervo

Per comprendere l’eccezionalità del ricorso per conflitto di attribuzione deciso dal Presidente della Repubblica nei riguardi della procura di Palermo, occorre anzitutto considerare che in 56 anni di funzionamento del nostro sistema di giustizia costituzionale questo è il secondo caso nel quale un Presidente della Repubblica ha ritenuto di rivolgersi alla Corte Costituzionale per chiedere ad essa tutela (il caso precedente è stato quello del presidente Ciampi, relativo alla titolarità del potere di decidere sulla grazia).
Ma poi, in questo caso, il Presidente della Repubblica, che presiede anche il Csm ed è certamente un sicuro difensore dell’autonomia della magistratura ordinaria, ha ritenuto che una importante struttura giudiziaria abbia addirittura menomato i poteri della Presidenza della Repubblica. Ed, infine, il presidente Napolitano ha deciso di ricorrere malgrado il suo mandato sia entrato nel periodo finale e quindi possa avvenire che la sentenza della Corte Costituzionale giunga dopo la sua sostituzione: a questo proposito, anzi, egli ha opportunamente ricordato la preoccupazione di Einaudi di mantenere integre anche per il prossimo Presidente della Repubblica, «le facoltà che la Costituzione gli attribuisce».

Appunto, ciò che sembra in gioco sono le garanzie di tipo penalistico e processualpenalistico che sono attribuite al Presidente della Repubblica dal nostro sistema costituzionale: l’art. 90 della Costituzione prevede espressamente che a questo organo monocratico e non sostituibile, titolare di limitati ma delicatissimi poteri di garanzia e di risoluzione delle difficoltà di funzionamento del sistema politico ed istituzionale, possano essere eventualmente imputate durante il suo mandato solo alcune gravissime responsabilità penali per delitti del tutto tipici (alto tradimento e attentato alla Costituzione), mentre egli non può essere perseguito per altri atti compiuti nell’esercizio delle sue funzioni. E’ solo in riferimento ad indagini relative a questi ipotetici gravi delitti che un’apposita disposizione di legge (art. 7 della legge n. 219 del 1989) prevede che si possa procedere ad «intercettazioni telefoniche o di altre forme di comunicazione»: e ciò lo può decidere o – eccezionalmente ed in via provvisoria – il Presidente dell’apposito Comitato parlamentare o lo stesso Comitato, ma solo dopo che la Corte Costituzionale abbia deciso la sospensione dalla sua carica del Presidente della Repubblica.

Sembra del tutto evidente che norme del genere sembrano palesemente rendere illecita ogni altra intercettazione di conversazione o comunicazione di un Presidente della Repubblica. Ma si obietta che, nel caso che ha originato il conflitto, le intercettazioni di conversazioni del Presidente della Repubblica sarebbero avvenute del tutto casualmente, dal momento che si intercettava il telefono di altri soggetti. Anche volendo prescindere dal fatto che varie recenti sentenze della Corte Costituzionale in tema di intercettazioni «casuali» di parlamentari (le cui intercettazioni dovrebbero essere previamente autorizzate) hanno fatto notare che alcune volte le intercettazioni in realtà non sono affatto casuali, nel caso di conversazioni del Presidente della Repubblica non siamo dinanzi a casi nei quali sia comunque possibile ottenere, magari «a posteriori» un’autorizzazione ad utilizzarle: le conversazioni riservate del Presidente della Repubblica non possono infatti mai essere utilizzabili e quindi dovrebbero essere immediatamente eliminate, anche ove davvero casualmente raccolte.

Naturalmente sul ricorso sul conflitto deciderà in piena autonomia la Corte Costituzionale, sulla base della documentazione di come davvero le vicende di fatto si sono sviluppate. Quello che però mi sembra del tutto pacifico è che la posizione giuridica del Presidente della Repubblica non può essere confusa né con quella di un cittadino come tutti noi, né con quella di un parlamentare, quest’ultimo infatti è tutelato da un’apposita disposizione costituzionale (l’art. 68 della Costituzione), molto diversa da quella che riguarda il Capo dello Stato.

Resta da dire qualcosa a proposito dei magistrati della procura di Palermo, che sembrano sinceramente aver smarrito il senso del limite relativo alla loro fondamentale funzione: se già giustamente si è notato da parte di Valerio Onida che le interminabili loro indagini sulla presunta trattativa fra Stato e mafia dopo le note stragi avrebbero dovuto da tempo concludersi con il trasferimento di tutta la questione al competente Tribunale dei Ministri, ora addirittura le confuse giustificazioni relative alla sorte delle intercettazioni «casuali» del Presidente della Repubblica, fanno nascere qualche dubbio sulla loro piena consapevolezza del complessivo quadro costituzionale e legislativo entro cui operiamo.

Ma soprattutto, ogni organo delle nostre istituzioni deve avere piena consapevolezza dei propri poteri, ma anche dei propri limiti.

La Stampa 17.07.12

"La vita nascosta del più feroce carnefice di Hitler", di Andrea Tarquini

È vissuto come un fuggiasco per sessantasette anni, dalla fine della seconda guerra mondiale all’altro ieri. Si è nascosto alla sua coscienza e alla giustizia del mondo per due terzi della sua vita. Braccato da Efraim Zuroff, direttore del Centro Simon Wiesenthal per la caccia ai criminali nazisti, odiato e ricordato dalle sue vittime e dai loro discendenti sparsi nel mondo, per ben oltre mezzo secolo è riuscito a farla franca. Solo l’altro giorno, messi sulla buona pista da Zuroff, gli investigative reporter del Sun hanno bussato alla sua porta, la porta d’un bell’appartamento in un elegante palazzo di Buda, la zona più chic della capitale magiara, sulla riva ovest del Danubio. Lui ha aperto sorpreso e tranquillo. Lo spazio d’un attimo, ha capito che la vita da fuggiasco stava finendo: col campanello della porta s’annunciava la Nemesi, la resa dei conti finale con il mondo.
Questa è la storia di Laszlo Csizsik Csatary, 97 anni ben portati, ex alto ufficiale della Magyar Kiralyi Rendorség, la polizia ungherese sotto Horthy. Ha sulla coscienza almeno quindicimila ebrei catturati a Kosice, la città dove lui comandava gli agenti, e spediti ad Auschwitz. Ma nega tutto: «Sono innocente, quelle accuse sono false», ha detto subito agli inviati. Devi saper rimuovere, se vuoi vivere da fuggiasco attraverso le epoche del mondo. Devi tenerti dentro l’orgoglio tutto tuo per gesta che tu e il tuo governo ritenevano eroiche, devi saper fingere d’essere un signor nessuno, un vecchietto dalla memoria ormai debole in un mondo dove la Memoria dell’orrore è ancora viva, anzi minaccia di sopravviverti. Devi saper diventare un tranquillo signore di Buda, senza nemmeno uniformi e ricordi appesi al muro, braccato da decenni e arrivato infine al viale del Tramonto della vita cui le sue vittime, e le vittime dell’Olocausto, non poterono mai giungere.
Con le liste nere in tasca, bussavano all’improvviso a casa degli ebrei. Arrivavano armati, fieri e spavaldi con le loro uniformi verdeoliva o grigio blu, e il pennacchio o lo scudo nazionale sui rigidi cappelli. Parlavano ungherese,
non tedesco. Militari, gendarmi e poliziotti magiari furono i servitori fedeli dell’ammiraglio Horthy, il dittatore alleato di Hitler che adesso il potere sta riabilitando, e del suo effimero erede ultrà Szalasi. Divennero gli esecutori zelanti dell’Olocausto. Degli oltre sei milioni di ebrei assassinati per ordine del Reich millenario, almeno 564mila li ebbero loro sulla coscienza. Il fuggiasco Csatary era uno dei preferiti dai vertici della dittatura. E così ancora una volta, nella Budapest dove il premier-autocrate Viktor Orbàn definisce il comunismo unica macchia nera del passato nazionale, riemergono col Fuggiasco le colpe rimosse d’Europa. «Era il più sadico di tutti. D’una crudeltà bestiale, impazziva di gioia a frustare in pubblico le donne ebree», hanno narrato gli ultimi superstiti a Zuroff e agli altri investigatori del Centro Wiesenthal. «Rubava tutto, soprattutto quadri, soprammobili pregiati, ogni oggetto d’arte, ogni gioiello o preziosità, si arricchì togliendo tutto ai miei avi cui rubò la vita, prendetelo a ogni costo», hanno detto alcuni discedenti. Kosice, oggi seconda città slovacca, fu annessa nel 1938 dall’Ungheria di Horthy quando Hitler occupò Vienna e Praga. Dieci anni dopo un tribunale cecoslovacco condannò Csatary a morte. Ma in contumacia. Il delitto perfetto forse non esiste, il Fuggiasco quasi perfetto sì: con quell’istinto di sopravvivenza a se stessi, alle vittime, ai misfatti che trasforma molti criminali, quel giovane capo della polizia aveva fatto perdere le sue tracce.
La Memoria corre lontano indietro nel tempo inseguendo le tracce del Fuggiasco, nella splendida capitale sul Danubio. Esercito, polizia e Csendorség (Gendarmeria) servivano entusiasti e convinti il dittatore Miklòs Horthy. Antisemita e anticomunista da sempre, era al potere dal 1919. Odiava la capitale cosmopolita, che chiamava “Judapest”, la città degli ostili ebrei. Fu lui, nel 1920, a varare le prime leggi razziali: limiti durissimi all’accesso all’università per gli ebrei. In lui, nella pura nazione magiara, nella riscossa dalla “Vergogna del Trianon” (il trattato di pace con cui dopo la prima guerra mondiale l’Ungheria, ex parte dell’Impero asburgico, aveva perduto i territori abitati in maggioranza da slovacchi, romeni, serbi), Csatary credette fin dall’inizio. Crebbe in quel clima, e per vocazione e con rabbia scelse la carriera nella polizia.
Anche quando, nella primavera del 1944, le sorti della guerra apparivano già segnate, tanti ufficiali come Csatary si sentivano ancora i crociati della causa giusta. A Kosice, dove lui appunto comandava la polizia, l’ordine arrivò
dall’alto, dalla Budapest occupata dalla Wehrmacht ma con Horthy ancora al potere: rastrellate la città, arrestateli tutti. Csatary e i suoi passarono subito all’azione: la gloria della purezza etnica magiara non ammetteva dubbi. Nel campo di raccolta, lui era il Terrore. Frustava a sangue donne e bambini, picchiava i vecchi indifesi, li spaventava con la roulette russa. Poi li fece caricare tutti sui treni per Auschwitz. Nessuna pietà, gli ebrei sono solo “idegen vér” (sangue straniero, alieno) pensavano il Fuggiasco e i suoi sbirri. Dei 725mila ebrei ungheresi, 564.500 non sopravvissero alla Shoah. Per 67 anni, chi sa se tranquillo o in preda a improbabili rimorsi, il Fuggiasco ha vissuto con quei ricordi, cercando di celarli a se stesso, al prossimo, a chi lo inseguiva.
Solo nella primavera del 1945, dopo mesi di battaglia, Budapest cadde presa dai russi. Tre anni dopo, a Kosice tornata cecoslovacca, il comandante della polizia reale magiara Csatary fu condannato a morte. Ma in contumacia. Riuscì a fuggire, a scampare alla giustizia e agli alleati vincitori. Come, non lo sa o non lo dice nessuno. Forse grazie alla rete dell’Odessa, l’organizzazione segreta nazista che portò in salvo oltre Oceano tanti gerarchi massacratori e tanti loro sottoposti. Forse con falsi documenti procurati con tante complicità. Da Fuggiasco come si deve, il camerata Csatary seppe ricominciare da zero. Con l’astuzia metodica, e probabilmente anche con l’esperienza di ex ufficiale della polizia in fatto di documenti, certificati e timbri, si creò una nuova, falsa identità. Si spacciò per anonimo, tranquillo ungherese vittima della guerra, deciso a non restare nella patria comunistizzata. Le autorità canadesi gli credettero. E in Canada, da mercante d’arte, divenne ricco, sempre più ricco.
Per decenni, nel mondo diviso e poi nel dopo-guerra fredda, il Centro Wiesenthal gli dette la caccia invano. Invano superstiti e loro familiari chiedevano giustizia, invano Zuroff aveva posto una taglia di 25mila dollari sulla sua testa. Solo nel 1997, il Fuggiasco fu scoperto dal Centro Wiesenthal. Il governo di Ottawa gli tolse la cittadinanza, ordinò il suo arresto immediato. Poveri giudici canadesi, non avevano fatto i conti con l’astuzia dell’ex poliziotto di Horthy che era riuscito ancora a fuggire. Protetto forse da complicità oscure, certo dal suo talento di latitante eterno della Storia. E da almeno 17 anni, era tornato a Budapest. Non si sa se sotto una terza identità, o recuperando quella originaria. Un anno fa, Zuroff, scovatolo, aveva pregato la magistratura magiara di agire. Ottenne solo l’annuncio che un’inchiesta era stata aperta, ma senza risultati.
Un informatore, intascati i 25mila dollari della taglia, ha fornito l’indirizzo, ma nessun poliziotto è andato ad arrestare l’ex collega, il fuggiasco-figliol prodigo tornato in patria. Alla sua porta hanno bussato solo quei reporter britannici. Adesso opposizione ungherese e governo francese chiedono arresto e processo per Csatary, perché «i crimini nazisti non possono essere prescritti». Ma chi sa se Orbàn e la magistratura da lui epurata (via le “toghe rosse”) fermeranno o no la lunga corsa del Fuggiasco.

La Repubblica 17.07.12

"Il Cavaliere ha perso la sua base sociale", di Piero Ignazi

Chissà se anche Berlusconi è andato in Engadina, a Sils-Maria, e stordito dalle vertiginose altezze delle montagne e dalla calma dei laghi, abbia lì concepito, novello Friedrich Nietzsche, il suo “eterno ritorno”. Certo possiamo immaginare che di fronte alle “due vie dell’eternità” abbia anch’egli borbottato, come in
Così parlò Zarathustra, che “tutte le cose diritte mentono. Ogni verità è ricurva, il tempo stesso è un circolo”. Già, ma di circoli ne esistono di vari tipi, da quelli viziosi a quelli infernali. Berlusconi li comprende entrambi. Il vizio pubblico (quelli privati li tralasciamo) della sua politica di spending senza nessuna review ci ha fatto precipitare nel circolo infernale delle tasse e dell’austerità. Se non ci fosse stata l’allegra abolizione dell’Ici e della tracciabilità dei compensi professionali, nonché il via libera implicito all’evasione, oggi non dovremmo correre ai ripari sotto la guida accigliata del professor Monti.
Ma per il brianzolo Berlusconi vale sempre il napoletanissimo “scurdammoce ‘o passato”. È una filosofia di vita che l’ex presidente del Consiglio ha sempre praticato confidando nelle sue doti di prestidigitazione e nella disponibilità dell’opinione pubblica a cattolicamente transigere e perdonare. Senza quella sua “faccia da italiano in gita” non potrebbe ripresentarsi impunemente sulla scena con la scia di disastri che lo accompagna. Non solo. Per Berlusconi nulla è definitivo. Oltre che nietzschiano, il nostro è anche un adepto di Eraclito: tutto scorre e nulla rimane uguale a sé stesso. Di qui la sua invidiabile capacità di lasciarsi dietro le spalle rotture e rancori. Non ci stupiremmo se domani invitasse a cena Antonio Di Pietro. Forse solo con Prodi avrebbe qualche difficoltà: digerire due sconfitte sconfinerebbe dall’“umano” al “troppo umano”.
Premesso tutto ciò, il ritorno del Cavaliere non riporta indietro le lancette della politica. Per due ragioni: una strutturale e una politica. In primo luogo, la sua base sociale si è sbriciolata sotto i colpi della crisi. Quel mondo delle imprese e dei lavoratori autonomi, di cui Berlusconi si ritiene tuttora il rappresentante naturale, ha perso la centralità simbolica (e politica) di cui ha goduto negli ultimi vent’anni. Anche se il grosso degli elettori berlusconiani sono sempre stati le casalinghe e i pensionati (le ricerche Itanes su tutte le elezioni lo confermano ad abundantiam), l’immagine esterna del berlusconismo faceva aggio sul mondo dell’impresa e delle professioni. Ora, non solo quel mondo è sfrangiato e ridimensionato, ma non è più in sintonia con il Cavaliere. Certo, permangono pulsioni antitasse e insofferenze alle regole, però si è diffusa anche in quei ceti la convinzione che la via stretta per uscire dalla recessione sia quella indicata dal governo Monti. Del resto, è quanto ha sostenuto lo stesso Cavaliere l’altro giorno, pur contraddicendo quanto proclamato due settimane prima. Proprio questa alternanza di toni e tasti dimostra che Berlusconi non sa con quali carte giocare e che il suo ritorno serve solo per occupare una casella, per non rimanere escluso dal gioco vero, che si svolgerà l’anno prossimo. Comunque, il Cavaliere rimarrà nell’alveo montiano finché dal mazzo, o dalla manica, non spunta una carta di tutt’altro segno: quella antieuropea. Le dichiarazioni sull’uscita dall’euro e sul ritorno alla lira prefigurano un opzione politica ben diversa, tutta incardinata sul populismo euroscettico. Cavalcare il malcontento generalizzato verso l’imposizione fiscale usando strumentalmente l’Europa è nelle corde più intime di Berlusconi. Ma anche questa opzione sconta l’usura del tempo. Innanzitutto perché dopo aver guidato tre governi la sua aura anti-establishment è appannata. Inoltre perché la protesta e l’insofferenza verso “i poteri forti”, “il teatrino della politica” e, in parte,
l’Europa, è oggi veicolata da un attore ben più credibile, il Movimento 5 Stelle. La critica trasversale dei grillini insidia la rendita di posizione forzaleghista della polemica populista ed ha un interprete, Beppe Grillo, più efficace di Berlusconi.
La società e la politica non sono più quelle di vent’anni fa. Il berlusconismo sconta, oltre la perdita del riferimento simbolico al “mondo produttivo”, anche quella del monopolio (o dell’oligopolio, in comunione con la Lega) dell’antipolitica populista ed euroscettica. L’eterno ritorno del Cavaliere lo ha riportato alla “porta d’ingresso”, ma in un mondo che è ben diverso da quello degli anni Novanta.

La Repubblica 17.07.12