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"Salgono Pd e Pdl scendono gli altri tranne Grillo", di Carlo Buttaroni

Recuperano consensi il Pd e il Pdl mentre scendono di poco tutti gli altri partiti. Fa eccezione il movimento di Grillo che continua a crescere. Sono i risultati del sondaggio elettorale svolto proprio mentre Berlusconi annunciava il suo rientro in scena. Tre notizie meritano una riflessione. La prima è che sarà Silvio Berlusconi il candidato del Pdl alle prossime elezioni politiche. Una voce che circolava già da alcune settimane, inaspettata e sorprendente se si considera che la prima “scesa in campo” è del ’94, e questa è la quinta volta. Se sarà un Berlusconi diverso dal passato, a oggi, è impossibile prevederlo perché gli scenari sono in rapida evoluzione. Certo è che diciotto anni di leadership nel centrodestra e di motivazione aggregante nel centrosinistra hanno evidentemente lasciato il segno.
L’indagine sulle intenzioni di voto sembra registrare, almeno in parte le reazioni dell’opinione pubblica, anche se l’annuncio è stato fatto verso la coda della rilevazione. L’effetto, anche se in embrione, è però evidente: recuperano consensi il Pdl e il Pd mentre scendono di poco tutti gli altri partiti, fatta eccezione per il movimento di Grillo che continua a crescere. Se si tratta di un rimbalzo momentaneo determinato dalle voci insistenti, di una casualità del tutto indipendente o di un fenomeno che annuncia una dinamica tendente a consolidarsi, sarà chiaro solo tra qualche settimana o con un’indagine più mirata. È inutile, quindi, addentrarsi adesso in analisi puntuali di come cambieranno, nei prossimi mesi, le dinamiche del consenso con il rientro di Berlusconi sulla scena politica, perché ancora è prematuro. L’annuncio della candidatura pone, invece, questioni ben più pregnanti che riguardano le scelte che i partiti sono chiamati a fare oggi. La prima riguarda la riforma elettorale. Il Presidente Napolitano ha sollecitato i partiti a fare presto. Ogni proposta, negli ultimi mesi, è naufragata tra veti incrociati e architetture istituzionali impossibili da realizzare nel poco tempo che manca alla fine della legislatura. Di recente, le ipotesi sembravano orientate verso un sistema basato su circoscrizioni più piccole, senza “premio di maggioranza” o comunque in forma ridotta rispetto a oggi. Un’ipotesi, questa, che si tradurrebbe in un rafforzamento della rappresentanza dei principali partiti e nell’indebolimento della tensione bipolare esercitata dal premio che, con la legge attuale, è assegnato alla coalizione vincente. Non sarebbero più solo le urne, quindi, a determinare la maggioranza di governo, com’è stato finora, ma anche il Parlamento (e i partiti) che concorrerebbero alla definizione, post-voto, di alleanze e di equilibri politici in grado di sostenere l’esecutivo. Ciò renderebbe politicamente più forti i partiti di centro e più deboli gli altri partiti, a cominciare da quelli che si collocano a sinistra e a destra dell’asse politico. Uno scenario inconciliabile, però, con la candidatura di Berlusconi che ha, invece, necessità di ritrovare legittimità proprio attraverso il voto, rafforzando il suo ruolo di leader popolare. Una scelta, quella di Berlusconi, che per molti aspetti diventa ingombrante anche per il governo e potrebbe accelerare il ritorno alle urne. Magari lasciando immutata la legge elettorale, fatta salva l’introduzione del voto di preferenza. Uno scenario nel complesso desolante, ove continuano a prevalere tatticismi e alchimie e dove la politica che sceglie le cose da fare sembra non trovare spazio.
CONFLITTO INTERNO
Oltre all’ulteriore conferma della mancanza della politica vera, quella delle idee appunto, altre due notizie hanno fatto eco. Innanzitutto, la dichiarazione del Presidente del Consiglio il quale ha usato la metafora della “guerra” per descrivere la situazione che sta vivendo il Paese per poi affermare, pochi giorni dopo, che il suo governo chiude nel cassetto la concertazione con le parti sociali.
Per quanto riguarda la metafora della guerra, è innegabile che essa sia efficace e rispondente alla realtà che i cittadini vivono quotidianamente. Ma su chi sia il nemico che stiamo combattendo e, soprattutto, su cosa dobbiamo difendere, il messaggio non trapela chiarezza alcuna. Se il “nemico” possiamo agevolmente individuarlo nella speculazione finanziaria internazionale che si nutre dei nostri eccessi, è invece più difficile capire cosa si stia difendendo, visto che continuiamo ad arretrare cedendo il terreno delle conquiste sociali e civili. Tanto che viene da chiedersi, dopo le riforme che sono state avviate, se al termine della crisi l’Italia avrà ancora uno stato sociale o se i principali architravi del welfare, a cominciare dal sociale e dalla sanità, passeranno dalla prevalenza pubblica a quella privata, con una progressiva finanziarizzazione dei servizi, come ad esempio avviene negli Stati Uniti attraverso le assicurazioni private. E questo, paradossalmente, mentre gli Usa sembrano seguire il percorso inverso.
Sulla stessa frequenza si colloca la posizione di Monti sulla concertazione sociale. Un no perentorio. Ma forse pochi sanno (o ricordano) che l’Italia è il Paese europeo in cui gli assetti concertativi, oltre ad essere longevi e resistenti nel tempo, hanno prodotto risultati importanti. Basta ricordare le politiche sui redditi che hanno permesso di attenuare gli effetti della pesante recessione del 1992-93. O quelle successive all’entrata dell’Italia nel sistema di cambi fissi (1996), che hanno ammortizzato gli effetti recessivi di politiche macroeconomiche restrittive. E ancora nel 1995: la concertazione bilaterale tra governo e sindacati permise di varare una riforma del sistema pensionistico che ha rivoluzionato il metodo di calcolo, passando dal sistema a beneficio definito a quello a contribuzione.
È sempre grazie alla concertazione che il sistema italiano di relazioni industriali, tradizionalmente privo di regole, è cresciuto e ha assunto lineamenti ben definiti, con una chiara suddivisione del lavoro nei diversi livelli contrattuali. D’altronde, la concertazione è un metodo che riguarda la politica e che consente, oltretutto, ai governi di fare scelte difficili, ad alto rischio di conflittualità sociale. Come quelle che, negli anni ’70 e ’80, riguardavano la moderazione salariale e negli anni ’90 il ridimensionamento dei sistemi di welfare e la liberalizzazione del mercato del lavoro. I patti concertativi degli anni ’90, oltretutto, furono particolarmente difficili per i sindacati, perché non prevedevano risarcimenti ai sacrifici dei lavoratori in termini di provvedimenti di welfare più generosi o di trattamenti fiscali favorevoli ai redditi più bassi.
IL VALORE DEL SINDACATO
A causa dell’estrema ristrettezza delle politiche fiscali, dovuta alla necessità di rispettare i parametri di convergenza europea, i patti contenevano solo diritti di presidio sulle politiche pubbliche, per garantire che i sacrifici fossero distribuiti secondo criteri di equità. Ciononostante, da queste fasi, i sindacati ne uscirono rafforzati e non indeboliti, così come ne uscirono più forti gli stessi governi. E, naturalmente, ne uscì più competitiva l’Italia nel suo complesso. I fallimenti degli assetti concertativi in alcuni paesi, come l’abbandono della contrattazione centralizzata in Svezia nel 1983 e la fine dell’esperimento di Azione Concertata in Germania nel 1977, sono da attribuirsi alla scelta degli imprenditori di abbandonare unilateralmente il tavolo delle trattative, nel momento in cui non ritenevano più conveniente trovare un accordo.
Il sindacato italiano ha mostrato, negli ultimi anni, capacità di prevenire il conflitto e mobilitare il consenso anche rispetto a scelte fortemente impopolari. Ed è proprio questa sua capacità che lo ha reso un alleato prezioso della politica. Ma per poter esercitare al meglio questo ruolo, il sindacato deve trovarsi nelle condizioni di poter mobilitare i lavoratori, perché nella misura in cui c’è conflitto potenziale, il sindacato sa come riassorbirlo e ha in mano un capitale da spendere ai tavoli della concertazione. Se non c’è conflitto o se, al contrario, il conflitto c’è, ma il sindacato non è in grado di governarlo, allora si può fare a meno della concertazione. Ma non è questo il caso dell’Italia di oggi. Gli eventi recenti hanno, inoltre, dimostrato che il sindacato italiano ha la capacità di gestire queste situazioni nei canali della contrattazione e della concertazione. Indebolirlo e svuotarlo di legittimità è un male per l’Italia.
Anche perché, mentre il livello politico soffre di una crisi decennale e la soluzione non sembra immediata, la destrutturazione progressiva del modello sociale rischia di compromettere ogni tentativo di risalita. Il nostro paese vive quotidianamente esposto all’ingordigia della speculazione finanziaria e per uscire dall’impasse generale ha bisogno di una classe politica capace e di un sistema socioeconomico solido. In assenza della prima, chiudere le porta e arroccarsi in una rigida revisione dei conti, produce solo fratture e conflitti. Occorre, invece, sollecitare gli attori sociali a un protagonismo pieno, facendo crescere lo spazio di chi rappresenta interessi di massa. D’altronde, lo sviluppo non si fa per decreto e per vincere la guerra di cui parla il Presidente Monti, dovendo al momento fare a meno dei partiti, c’è bisogno della società e dei suoi rappresentanti. Lo scenario è duplice e opposto: o vince tutta l’Italia o tutta l’Italia perde.

L’Unità 16.07.12

"Frequenze gratis per Mediaset", di Alessandro Longo

«L’ennesimo regalo a Mediaset» (Vincenzo Vita, Pd). «Un danno alle casse dello Stato e alle future aste per il digitale terrestre e la banda larga mobile» (Paolo Gentiloni, Pd). «Il governo ha gettato le basi per una situazione ad alto rischio conflittualità, interna ed internazionale» (Roberto Rao, Udc). Stavolta il governo ha fatto arrabbiare in tanti, tra schieramenti bipartisan dove il solo grande assente sembra essere il Pdl. E per un attimo sembra di essere tornati ai tempi del governo Berlusconi, perché tante polemiche sono dettate da una mega assegnazione gratuita di frequenze alle tv. Si tratta dei provvedimenti con cui, qualche giorno fa, il ministero allo Sviluppo economico ha assegnato per vent’anni alle tv 19 frequenze (di cui quattro a Rai, quattro a Mediaset, tre a Telecom Italia Media e cinque ad altri soggetti).

Tutto nasce dalla Finanziaria 2010 di Tremonti che prevede “l’obbligo di trasformare i titoli provvisori (rilasciati a livello regionale dal 2008 al 2012) in definitivi entro il 30 giugno 2012, in coincidenza con il passaggio al digitale su tutto il territorio nazionale”, spiega il ministero in una nota. Secondo molti critici invece si trattava soprattutto di aiutare le emittenti tivù, che ora potranno mettere in bilancio un bene prezioso come le frequenze. Ma ad avvantaggiarsene è in particolare Mediaset, perché riceve il pacchetto più generoso; le frequenze di Rai sono di pari numero, ma sono a rischio di interferenze con i Paesi vicini (per un mancato coordinamento internazionale).

Il primo a sollevare il problema, a chiedere una proroga per l’assegnazione definitiva, è stato Nicola D’Angelo (consigliere uscente Agcom, Autorità garante delle comunicazioni); seguito poi da Vincenzo Vita (PD) e Felice Belisario (Idv), che sull’argomento hanno presentato un’interrogazione parlamentare, Roberto Rao (Udc), Marco Perduca (Radicali) e altri.

Perché era necessaria una proroga? Perché – rispondono concordi le voci critiche – sarebbe stato i necessario aspettare un nuovo piano nazionale delle frequenze da parte di Agcom e così evitare una situazione esplosiva per i progetti dello Stato sullo spettro italiano: ci sono in ballo infatti molte questioni e il governo avrebbe potuto gestirle meglio senza il vincolo di un’assegnazione ventennale che riduce assai gli spazi di manovra. La più questione urgente è l’ex beauty contest, un’asta con cui il ministero dovrà assegnare altre sei frequenze per il digitale terrestre (il bando è previsto, da decreto, a fine agosto ma è prevedibile una proroga a ottobre per attendere che la nuova Agcom stabilisca i criteri di gara). «L’ex beauty contest potrebbe procedere su un binario separato e quindi forse, mi auguro, potrebbe non essere condizionato da quest’assegnazione ventennale», dice Antonio Sassano, docente alla Sapienza, uno dei massimi esperti dell’argomento: «Mi sembra che la proroga pregiudichi piuttosto il coordinamento internazionale e la futura asta della banda larga mobile», aggiunge. «Come faremo infatti a trattare con i Paesi vicini su quali frequenze accendere e spegnere per evitare interferenze, quando ne abbiamo già bloccate 19 per vent’anni?», spiega: «Ecco perché sarebbe stato meglio aspettare un piano frequenze Agcom, coordinato internazionalmente, prima di assegnarle a titolo definitivo».

L’altra questione è la banda larga mobile: le istituzioni internazionali (di recente anche l’Itu, l’agenzia Onu per le tlc) stabiliscono che dal 2016 alcune frequenze ora in mano alle tivù dovranno andare agli operatori telefonici per i servizi di banda larga mobile. E guarda caso è Mediaset ad avere il maggior numero di frequenze che il governo dovrà liberare a questo scopo: «Almeno avrebbe dovuto limitarne al 2015 il diritto d’uso», osserva Gentiloni. «Adesso invece lo Stato si troverà costretto a risarcimenti ingenti alle tivù, in cambio di quelle frequenze da dare all’asta». Il ministero spiega che c’è la possibilità di dare alle tivù frequenze alternative, con “capacità trasmissiva equivalente”, al posto di quelle da liberare per l’asta banda larga mobile: «Però purtroppo non esistono frequenze libere alternative», corregge Sassano. Ma si tratta probabilmente di problemi che saranno lasciati in eredità al prossimo governo: come (e se) tirarsi dall’impaccio creato con quest’assegnazione ventennale, è capitolo ancora tutto da scrivere.

L’Espresso 16.07.12

Carlo Lucarelli: “Lettera al terremoto”

Gentile Sig. Terremoto, c’è una cosa che non hai capito della mia terra, ora te la racconto. Per chiamarci non basta una parola sola: Emilia Romagna, Emiliano Romagnoli, ce ne vogliono almeno due; e anche un trattino per unirle, e poi non bastano neanche quelle. Perché siamo tante cose, tutte insieme e tutte diverse, un inverno continentale, con un freddo che ti ghiaccia il respiro, e una estate tropicale che ti scioglie la testa, e a volte tutti insieme come diceva Pierpaolo Pasolini, capaci di avere un inverno con il sole e la neve, pianure che si perdono piatte all’orizzonte, e montagne fra le più alte d’Italia, la terra e l’acqua che si fondono alle foci dei fiumi in un paesaggio che sembra di essere alla fine del mondo.

Città d’arte e distretti industriali, le spiagge delle riviere che pulsano sia di giorno che di notte e spesso soltanto una strada o una ferrovia a separare tutto questo; e noi le viviamo tutte queste cose, nello stesso momento, perché siamo gente che lavora a Modena, dorme a Bologna, e va a ballare a Rimini come diceva Pier Vittorio Tondelli, e tutto ci sembra comunque la stessa città che si chiama Emilia Romagna.

Siamo tante cose, tutte diverse e tutte insieme, per esempio siamo una regione nel cuore dell’Italia, quasi al centro dell’Italia, eppure siamo una regione di frontiera, siamo anche noi un trattino, una cerniera tra nord e sud, e se dal nord al sud vuoi andare e viceversa devi passare per forza da qui, dall’Emilia Romagna, e come tutti i posti di frontiera, qualcosa da ma qualcosa prende a chi passa, e soprattutto a chi resta, ad esempio a chi è venuto qui per studiare a lavorare oppure a divertirsi e poi ha deciso di rimanerci tutta la vita… in questa terra che non è soltanto un luogo, un posto fisico dove stare, ma è soprattuto un modo di fare e vedere le cose.

Perché ad esempio qui la terra prende forma e diventa vasi e piastrelle di ceramica, la campagna diventa prodotto, e anche la notte il mare diventano divertimento, diventano industria, qui si va, veloci come le strade che attraversano la regione, così dritte che sembrano tirate con il righello.

E si fa per avere certo, anche per essere, ma si fa soprattutto per stare, per stare meglio, gli asili, le biblioteche, gli ospedali, le macchine e le moto più belle del mondo.

In nessun altro posto al mondo la gente parla così tanto a tavola di quello che mangia, lo racconta, ci litiga, l’aceto balsamico, il ripieno dei tortellini, la cottura dei gnocchini fritti e della piadina e mica solo questo, sono più di 4000 le ricette depositate in Emilia Romagna; ecco la gente lo studia quello che mangia, perché ogni cosa, anche la più terrena, anche il cibo, anche il maiale diventa filosofia, ma non resta lassù per aria, poi la si mangia.

Se in tutti i posti del mondo i cervelli si incontrano e dialogano nei salotti, da noi invece lo si fa in cucina, perché siamo gente che parla, che discute, che litiga, gente che a stare zitta proprio non ci sa stare, allora ci mettiamo insieme per farci sentire, fondiamo associazioni, comitati, cooperative, consorzi, movimenti, per fare le cose insieme, spesso come un motore che batte a quattro tempi, con una testa che sogna cose fantastiche, però con le mani che davvero ci arrivano a fare quelle cose lì, e quello che resta da fare va bene, diventa un altro sogno.

A volte ci riusciamo a volte no, perché tante cose spesso vogliono dire tante contraddizioni. Che spesso non si fondono per niente, al contrario non ci stanno proprio, però convivono sempre.

Tante cose tutte diverse, tutte insieme, perché questa è una regione che per raccontarla un nome solo non basta.

Ora ti racconto quello che siamo, non credere di farmi o farci paura con due giri di mazurca facendo ballare la nostra terra, io questa terra l’amo e come mi ha detto un infermiere di Mirandola qualche giorno fa… questa è la mia casa e io non l’abbandonerò mai.”

"“Peggio di Berlusconi nessuno mai” un italiano su due boccia il ritorno . E ora il Cavaliere è costretto a inseguire le novità della politica"

Citazione ironica, perché Berlusconi non se n’è mai andato. Abbandonare così: non gli è possibile. Non solo perché è “costretto” a difendersi. Dai magistrati, i nemici di sempre. E di fronte alle minacce contro i suoi interessi media-televisivi. Non se ne poteva andare così, soprattutto perché non gli è possibile immaginare la politica italiana — oltre che il centrodestra — altrimenti. Senza di lui. D’altronde, è difficile per tutti concepire l’ultimo scorcio della nostra storia. Senza di lui. Basta scorrere i dati del sondaggio di Demos- Coop per “la Repubblica delle Idee”. Tra gli avvenimenti che hanno segnato positivamente l’Italia, negli ultimi trent’anni, il 55% degli intervistati indica “la fine del governo Berlusconi”. Il 25% “la discesa in campo del Cavaliere”. Secondo il 33% degli italiani, si tratta degli avvenimenti che — nel bene e nel male — hanno cambiato maggiormente la storia del Paese. In particolare, la (prima) discesa in campo. Berlusconi ha contribuito a scrivere la biografia della Nazione degli ultimi trent’anni, più di Tangentopoli, dell’immigrazione, della Padania. In misura minore, solamente, della crisi economica e dell’Euro. Certo, si tratta di opinioni espresse “oggi”. E, com’è noto, il presente orienta il nostro sguardo sul passato. Tuttavia nell’autobiografia collettiva del Paese Berlusconi occupa uno spazio importante. Basti considerare le classifiche dei personaggi che hanno cambiato l’Italia negli ultimi trent’anni. Realizzate in base alle opinioni espresse dagli italiani liberamente, senza liste
di nomi preconfezionate. Nel bene come nel male, al primo posto c’è lui. Con misure ben diverse, certo. Il 13% degli intervistati indica Berlusconi come uno dei due personaggi che hanno caratterizzato positivamente la nostra storia recente. (Un punto in più rispetto al Presidente Napolitano). Mentre sono molto più numerosi quanti lo considerano l’uomo che ha cambiato “in peggio” il Paese. Oltre una persona su due. Per la precisione: il 54%. Mentre Monti, Prodi, Di Pietro, Bossi, perfino Craxi — unico sopravvissuto della Prima Repubblica, nella memoria — sono al di sotto del 10%. Berlusconi. Al tempo stesso, il più amato e il più odiato. Della Seconda Repubblica. Al punto da dilatarla nel tempo. Oltre la caduta del muro di Berlino. D’altronde, Berlusconi l’ha rimpiazzato con un nuovo muro. Il muro di Arcore. Tenendo vivo l’Anticomunismo
senza il Comunismo. Oggi Berlusconi conta di risorgere di nuovo. Come dopo la sconfitta del 1996. Come nel 2006, quando tutti lo davano per finito, per primi i suoi alleati. E lui trasformò una sconfitta sicura in un quasi-pareggio. Cioè, viste le previsioni, in un grande successo. Conquistato, di larga misura, due anni dopo.
Come nelle precedenti resurrezioni, Berlusconi sottolinea la svolta cambiando il nome. Da Forza Italia alla Casa delle Libertà. E ancora, al Popolo delle Libertà. Domani
si vedrà. Non Forza Italia. Significherebbe un “ritorno alle origini”. Mentre Berlusconi intende annunciare un “ritorno al futuro”. E poi, FI decreterebbe la fine senza appello di AN. Potrebbe sollevare ulteriori risentimenti, nel centrodestra. Berlusconi sceglierà un nome nuovo, che evochi il “suo” passato ma anche il cambiamento. Utilizzerà, come sempre, le tecniche del marketing — sondaggi, ricerche di mercato — per testare il marchio più efficiente. Lo slogan più efficace. Ma alla fine deciderà lui. Come sempre. Anche per quel che riguarda la squadra. Sceglierà persone fedeli e “significative”. Che “significhino” la nuova svolta. La fine del Cavaliere Gaudente. Per questo la Minetti se ne deve andare. Subito. Per spezzare l’anello di congiunzione con le Olgettine, i Bunga Bunga, Ruby, Noemi, le Feste di Arcore e Villa Certosa. Una stagione
finita. Berlusconi cercherà di scrivere una nuova “Storia Italiana”. Coerente con il sentimento del tempo. Sospeso fra paure economiche e insofferenza politica. Nonostante sia un’impresa impensabile, anche per lui, assumere un profilo misurato. Da “peccatore pentito”.
Berlusconi: cercherà la sintesi del Grillo-Montismo. Tendenze di successo di questa fase. La domanda di competenza e di democrazia diretta. Il Tecnico e il Blogger Predicatore. Berlusconi proverà a mixarli, a intercettarne
il segno. (Una novità che altri soggetti, e non lui, annuncino le novità. E che lui sia costretto a inseguire.) Una missione complicata. Conquistare la credibilità dei mercati, il rispetto dei leader internazionali. Per primi, quelli europei. Che ne temono il ritorno più di molti italiani. E ancora, andare oltre la sua professionalità. Oggi retrò. Perché lui è il leader della democrazia mediale. Non digitale. Lui: sa controllare la televisione. La Rete è estranea alla sua cultura. Perché perfino a Grillo risulta difficile governarla verticalmente. Personalizzarla. E poi è troppo diretta. Ve lo immaginate il Cavaliere comunicare in Rete e dunque “senza rete” con chiunque? Senza “mediazioni”?
Ci proverà, Berlusconi, a risorgere di nuovo. Intanto, ha esibito un sondaggio. Come nel 2006, quando si affidò all’agenzia americana PSB. Serve a dire che è ancora competitivo.
E tanto più gli altri lo inseguiranno, con altri sondaggi di segno opposto, tanto più la profezia demoscopica rischia di avverarsi. Perché la stessa “smentita” del dato con altri dati appare una conferma (lo osservato Nando Pagnoncelli). E poi Berlusconi conta sui tradizionali alleati. La memoria corta degli italiani. La loro indulgenza. (Chi è senza peccato…) La vocazione del centrosinistra a farsi del male. (Ci sta provando il PD, proprio in questi giorni.) Dopo il 1996 e il 2006, d’altronde, non sono stati i leader
e gli uomini del centrosinistra a metter fuori gioco Prodi?
Berlusconi ritorna perché non ha e non può avere eredi. Senza di lui questo centrodestra rischia la dissoluzione. Spolpato da altri soggetti. Più o meno nuovi. Comunque ostili al Cavaliere. Liste ispirate da Monti e da Montezemolo. Perfino da Grillo.
Berlusconi ritorna per auto- difesa. Ma soprattutto perché non riesce a uscire di scena. Perché la scena, senza di lui, gli pare impossibile. Perché immagina il futuro come il passato. Berlusconi, insomma, è prigioniero del proprio passato. Che però è passato. Il berlusconismo è una storia chiusa, su cui la crisi degli ultimi anni ha posto la parola fine. Le dimissioni della Minetti, le strategie di marketing creativo, la nostalgia diffusa in molti ambienti, perfino nel centrosinistra: non basteranno a riaprirla.

La Repubblica 16.07.12

"Alla Rai serve un editore", di Stefano Balassone

Il cambio al vertice Rai rinfocola le logomachie sulla «tv di qualità» e il tifo per le nomine da parte dei gruppi editoriali concorrenti (Valentini su Repubblica ha le sue idee sul Tg1: sì a Gruber, no a Preziosi. Sul resto farà sapere).
Nomine e chiacchiere, chiacchiere e nomine. Invece le righe che seguono sono dedicate, scusate la digressione e la volgarità, al destino della industria audiovisiva italiana e alla sua posizione nel mondo. Siamo un Paese piuttosto grande (60 milio- ni di abitanti) e piuttosto ricco, crisi a parte. Siamo anche istruiti e i giovani hanno maturato una enorme competenza di web, cinema e tv. Ma abbiamo una industria audiovisiva molto piccola che occupa qualche decine di migliaia di persone mentre altri Paesi a noi simili, come la Francia e l’Inghilterra, per non parlare della Germania, dispongono di eserciti che vanno dai centomila in su. Per di più si tratta di posti di lavoro ad alta qualifica- zione e indenni dal rischio delle delocalizzazioni. Perché siamo ridotti così? Perché il duopolio esiste per coltivare visibilità (la Rai) o spremere rendite (Mediaset), attività che non richiedono di «produrre tv». La tv infatti la puoi mettere assieme anche senza crearne neppure un minuto. Una bella lista di successi d’oltreoceano inframezzati da chiacchiere, pubblicità e notiziari, e il palinsesto è fatto. «Produrre tv» invece è una attività creativa che si basa sia sulla interpretazione originale di generi canonici (come fa Mentana col TG o la scuola Santoro col dibattito/inchiesta) sia su prodotti originali (come film, telefilm e format) di alto costo, ma capaci di trovare clienti anche all’estero

Il nostro problema è che di prodotti di quest’ultima categoria ne realizziamo pochi, belli o brutti che siano. E già questo ci taglia fuori dai mercati mondiali dove è il volume della produzione che deve essere significativo, non la singola opera, anche se ramazza premi nei festival. E inevitabilmente, non trovando risorse nelle esportazioni, Rai e Mediaset si rattrappiscono sempre più su produzioni che non guardano al di là del mercato interno. Un circolo vizioso in cui la debolezza sul mercato mondiale lascia spazio solo a iniziative di corto respiro che accentuano a loro volta la esclusione dell’Italia dal grande gioco della industria audiovisiva. Con le conseguenze che abbiamo ricordato: mentre gli altri celebrano trionfi occupazionali nell’industria dei contenuti, noi la conosciamo come la quintessenza del precariato.

Il treno del mercato mondiale lo abbiamo perso a causa della espansione subitanea e canagliesca del sistema televisivo avvenuta alla fine degli anni ’70. Troppe tv da riempire hanno reso inevitabile la tv delle chiacchiere e dei prodotti d’acquisto, dilatando la distribuzione a scapito della produzione. Ma quello che porta al mercato mondiale è anche un treno che può ripassare e su cui possiamo salire nel medio-lungo periodo, se da subito cominciamo a fare i compiti giusti. A partire dal ripensamento strategico della presenza pubblica.

La Rai di oggi non è un editore, ma un elemosiniere, che bada a lottizzare i soldi pubblici e del resto se ne infischia. E invece, per cominciare la scalata al mercato mondiale, avremmo bisogno di un editore vero (tipo l’in- glese Channel Four, per chi lo conosce) e non farlocco. In più sarebbe necessario che nel sistema della tv ci fosse più concorrenza. Perché senza concorrenza non possono esistere produttori davvero indipendenti, ma semplici appaltatori esecutivi: non fucine di idee e di azioni strategiche, ma imprese di amici degli amici. Gente che va al Billionnaire, altro che ai mercati.

In ultima istanza, come è ovvio, il problema è politico. A proposito, Bersani, Renzi e altri primaristi in pectore, hanno qualche idea attorno a questi problemi? Tanto per capire perché candidarli.

L’Unità 16.07.12

"Il tetto ai manager che non arriva mai", di Sergio Rizzo

Dopo il taglio delle buste paga degli alti dirigenti pubblici c’è da digerire, non meno faticosamente, la sforbiciata alle retribuzioni dei manager delle imprese statali come Ferrovie, Poligrafico, Consap… E quanto segue ben descrive la pesantezza della pietanza. Il ridimensionamento di quelle retribuzioni, in alcuni casi letteralmente esplose senza alcuna plausibile giustificazione, era stato deciso dal governo di Mario Monti con il decreto «salva Italia», convertito in legge alla fine di dicembre dello scorso anno. L’applicazione pratica di quella misura ritenuta da alcuni demagogica, che aveva sollevato le proteste di molti presunti destinatari suscitando polemiche a non finire, era stata tuttavia demandata a un successivo provvedimento del ministero dell’Economia. Un decreto che avrebbe dovuto vedere la luce entro marzo, insieme al Dpcm (decreto del presidente del Consiglio dei ministri) che aveva reso operativo il tetto agli stipendi dei burocrati più alti in grado, fissato in circa 294 mila euro lordi l’anno: la paga del primo presidente della Corte di cassazione. A differenza di quel provvedimento messo effettivamente a punto entro i termini stabiliti dal ministro della Funzione pubblica Filippo Patroni Griffi, il decreto dell’Economia non avrebbe fissato un tetto uguale per tutti, ma una serie di limiti per fasce dimensionali delle aziende statali. Risultato: l’amministratore delegato di un’impresa con più dipendenti e un fatturato superiore sarebbe stato pagato di più rispetto al suo collega collocato alla guida di una società più piccola. Ma c’era dell’altro. Si sarebbe potuto applicare il limite della retribuzione a contratti in essere? E le cose, guarda caso, si erano rivelate più complicate del previsto. Ragion per cui il governo aveva prorogato di due mesi la scadenza: spostandola al 31 maggio scorso. Ma anche quella data è trascorsa invano. Il motivo? Problemi tecnici legati alla complessità della materia. Immaginiamo la gamma dei travagli interiori. Davvero lo stipendio dell’amministratore delegato delle Ferrovie Mauro Moretti (985 mila euro nel 2010, secondo la Corte dei conti) è troppo elevato? E 456 mila euro per gestire la Consap, quanto ne spettano (la fonte è sempre la magistratura contabile) a Mauro Masi, l’ex direttore generale della Rai catapultato alla testa della società statale che gestisce il fondo vittime della strada immediatamente dopo aver dovuto lasciare a Lorenza Lei il ponte di comando della tivù di Stato, rappresentano una cifra congrua oppure esagerata? E sotto la tagliola deve finire anche l’amministratore delegato delle Poste Massimo Sarmi, accreditato di un milione e mezzo l’anno, nonostante l’azienda sia controllata in piccola parte anche dalle Fondazioni bancarie, azioniste di minoranza della Cassa depositi e prestiti? E come regolarsi nei casi come quelli dell’ex Ragioniere generale dello Stato Andrea Monorchio o del presidente dell’Inps Antonio Mastrapasqua che cumulano diversi incarichi in società statali, alcuni dei quali particolarmente lucrosi (la vicepresidenza di Equitalia ricoperta da Mastrapasqua, valeva da sola nel 2010, dice ancora la Corte dei conti, 465 mila euro)? Questo per dire le enormi difficoltà a cui è sicuramente andato incontro chi ha avuto il poco invidiabile compito di risolvere la faccenda. E questo spiega forse perché da settimane ormai circoli la voce che il decreto è pronto, senza che però il Parlamento, per legge competente a esprimere un parere, l’abbia ancora avvistato essendo ormai trascorso un mese e mezzo dalla scadenza.
Si tratta di difficoltà probabilmente non troppo diverse da quelle che affrontò l’ex ministro Renato Brunetta quando dovette dare attuazione alla legge fatta dal governo di Romano Prodi che aveva stabilito principi analoghi a quelli poi fissati da Monti. Tanto che dopo due anni di lavoro i suoi tecnici sfornarono un decreto assolutamente inutile: i tetti sarebbero stati infatti applicabili soltanto agli incarichi aggiuntivi e unicamente dopo la scadenza dei contratti in essere. Per dovere di cronaca va ricordato che quel provvedimento non è mai stato abrogato: è tuttora pienamente in vigore.

Il Corriere della Sera 16.07.12

"La mappa del disagio, cioè lo spred sociale", di Bruno Ugolini

C’è un attento osservatorio sulla crisi e che accompagna ogni giorno le vittime della crisi. E’ uno spred sociale e non finanziario. È gestito dall’Inca-Cgil, uno dei «patronati» sindacali. La sua crescente attività è stata riportata in un «bilancio sociale» che misura, appunto, quanto è avvenuto negli ultimi mesi. Un dato salta agli occhi, l’ingresso, negli ultimi tre anni, accanto ai pensionandi, di molti giovani con contratti precari. Osserva Morena Piccinini, presidente dell’Inca, che in un solo anno, tra il 2010 e il 2011 si è registrato un aumento di richieste al patronato di oltre il 48%. Un salto enorme. È cambiata anche la qualità delle richieste di tutela. «Aumenta, infatti, in modo drammatico, la domanda di prestazioni legate alle condizioni di povertà, per anziani ma soprattutto per giovani e famiglie precipitate nello stato di indigenza». Aumentano i bisogni ma calano le possibilità reali di welfare per effetto dei «tagli». La cosiddetta riforma del lavoro e quella sulle pensioni non hanno certo alleviato il disagio crescente. Basti pensare agli anziani «che devono fare i conti con le nuove norme in materia pensionistica, costretti anche a subire le conseguenze delle numerose crisi aziendali e che non sanno come far fronte all’inasprimento dei requisiti di accesso al diritto a pensione: non c’è lavoro, mentre si allunga per tutti la prospettiva del pensionamento». Mentre sui giovani il «bilancio sociale» denuncia un fenomeno nuovo: gli «scoraggiati» aumentati nell’ultimo anno e mezzo. Sono tra i 15 e i 29 anni, non lavorano e non frequentano alcun corso di istruzione o formazione: nel 2010 erano oltre 2,1 milioni, 134mila in più rispetto al 2009 (+6,8%). Le nuove leggi non danno risposte positive ma la Cgil non si da per vinta. La partita non è chiusa. Anche perché se lo spread sociale è alle stelle anche quello legato ai mercati non consegue risultati soddisfacenti. Questo significa che la corsa al rigore, pagata dai deboli e dai «produttori», non ferma il precipitarsi nel cosiddetto «baratro». E allora bisogna dibattere non tanto di demagogico «macello sociale» quanto di una politica che punendo il lavoro e la spinta produttiva spezza le speranze di ridare all’Italia e all’Europa un futuro diverso. Ponendo mano ad una alternativa, con misure e proposte che del resto, affiorano da più parti. È questo il capitolo da approfondire e qui si poteva esperimentare un nuovo tipo di «concertazione» intesa come scambio di proposte. Ricordando che il sindacato o perlomeno la Cgil ( ma anche la Cisl carnitiana) non ha mai santificato la concertazione (anzi spesso, venne aspramente criticata). Essa venne adottata in particolari circostanze, come negli anni 90, quando lo scambio fu tra scala mobile e un complesso nuovo modello contrattuale. Oggi non c’è nulla da scambiare, se non appunto idee, proposte, misure utili a uscire davvero dalla crisi.

l’Unità 16.07.12