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"Il tetto ai manager che non arriva mai", di Sergio Rizzo

Dopo il taglio delle buste paga degli alti dirigenti pubblici c’è da digerire, non meno faticosamente, la sforbiciata alle retribuzioni dei manager delle imprese statali come Ferrovie, Poligrafico, Consap… E quanto segue ben descrive la pesantezza della pietanza. Il ridimensionamento di quelle retribuzioni, in alcuni casi letteralmente esplose senza alcuna plausibile giustificazione, era stato deciso dal governo di Mario Monti con il decreto «salva Italia», convertito in legge alla fine di dicembre dello scorso anno. L’applicazione pratica di quella misura ritenuta da alcuni demagogica, che aveva sollevato le proteste di molti presunti destinatari suscitando polemiche a non finire, era stata tuttavia demandata a un successivo provvedimento del ministero dell’Economia. Un decreto che avrebbe dovuto vedere la luce entro marzo, insieme al Dpcm (decreto del presidente del Consiglio dei ministri) che aveva reso operativo il tetto agli stipendi dei burocrati più alti in grado, fissato in circa 294 mila euro lordi l’anno: la paga del primo presidente della Corte di cassazione. A differenza di quel provvedimento messo effettivamente a punto entro i termini stabiliti dal ministro della Funzione pubblica Filippo Patroni Griffi, il decreto dell’Economia non avrebbe fissato un tetto uguale per tutti, ma una serie di limiti per fasce dimensionali delle aziende statali. Risultato: l’amministratore delegato di un’impresa con più dipendenti e un fatturato superiore sarebbe stato pagato di più rispetto al suo collega collocato alla guida di una società più piccola. Ma c’era dell’altro. Si sarebbe potuto applicare il limite della retribuzione a contratti in essere? E le cose, guarda caso, si erano rivelate più complicate del previsto. Ragion per cui il governo aveva prorogato di due mesi la scadenza: spostandola al 31 maggio scorso. Ma anche quella data è trascorsa invano. Il motivo? Problemi tecnici legati alla complessità della materia. Immaginiamo la gamma dei travagli interiori. Davvero lo stipendio dell’amministratore delegato delle Ferrovie Mauro Moretti (985 mila euro nel 2010, secondo la Corte dei conti) è troppo elevato? E 456 mila euro per gestire la Consap, quanto ne spettano (la fonte è sempre la magistratura contabile) a Mauro Masi, l’ex direttore generale della Rai catapultato alla testa della società statale che gestisce il fondo vittime della strada immediatamente dopo aver dovuto lasciare a Lorenza Lei il ponte di comando della tivù di Stato, rappresentano una cifra congrua oppure esagerata? E sotto la tagliola deve finire anche l’amministratore delegato delle Poste Massimo Sarmi, accreditato di un milione e mezzo l’anno, nonostante l’azienda sia controllata in piccola parte anche dalle Fondazioni bancarie, azioniste di minoranza della Cassa depositi e prestiti? E come regolarsi nei casi come quelli dell’ex Ragioniere generale dello Stato Andrea Monorchio o del presidente dell’Inps Antonio Mastrapasqua che cumulano diversi incarichi in società statali, alcuni dei quali particolarmente lucrosi (la vicepresidenza di Equitalia ricoperta da Mastrapasqua, valeva da sola nel 2010, dice ancora la Corte dei conti, 465 mila euro)? Questo per dire le enormi difficoltà a cui è sicuramente andato incontro chi ha avuto il poco invidiabile compito di risolvere la faccenda. E questo spiega forse perché da settimane ormai circoli la voce che il decreto è pronto, senza che però il Parlamento, per legge competente a esprimere un parere, l’abbia ancora avvistato essendo ormai trascorso un mese e mezzo dalla scadenza.
Si tratta di difficoltà probabilmente non troppo diverse da quelle che affrontò l’ex ministro Renato Brunetta quando dovette dare attuazione alla legge fatta dal governo di Romano Prodi che aveva stabilito principi analoghi a quelli poi fissati da Monti. Tanto che dopo due anni di lavoro i suoi tecnici sfornarono un decreto assolutamente inutile: i tetti sarebbero stati infatti applicabili soltanto agli incarichi aggiuntivi e unicamente dopo la scadenza dei contratti in essere. Per dovere di cronaca va ricordato che quel provvedimento non è mai stato abrogato: è tuttora pienamente in vigore.

Il Corriere della Sera 16.07.12