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"Terremoto, la solidarietà passa anche per il cibo", di Carlo Petrini

Ricordo che quando ci fu l’alluvione del ’94 nelle Langhe, che fece danni ingenti e si portò via anche vite umane, uno dei primi segnali del ritorno alla normalità si ebbe quando ricominciarono ad aprire i bar, le osterie e altri luoghi di socializzazione. Non tanto perché delle attività commerciali ricominciavano a lavorare, ma piuttosto perché le persone avevano posti in cui incontrarsi, per cui uscire. La stessa sensazione, anche se il ricordo del terremoto è troppo fresco e presente concretamente, l’ho avuta a Bomporto presso La Lanterna di Diogene, un’osteria modello (con orto e acetaia) che impiega alcuni ragazzi portatori di handicap, danneggiata dal sisma ma che circa una settimana fa mi ha invitato a una serata che voleva anche essere un modo per annunciare al mondo che si riparte. La stessa cosa me l’hanno raccontata quelli che erano presenti all’osteria Entrà di Massa Finalese nei pressi di Finale Emilia. L’oste Antonio Previdi, insieme alla sorella cuoca e proprio con l’aiuto di Giovanni della Lanterna di Diogene, ha riaperto ufficialmente le danze. Una cena semplice ma ottima, con prodotti della zona e consumata all’aperto nel cortile che ora è la “sala” del ristorante, portata fuori da una cucina appena messa in sicurezza.
Va detto che Antonio e famiglia continuano a dormire in tenda, la casa sopra l’osteria si è crepata in modo importante in più punti.
IN CASA i Previdi non ci sono praticamente più entrati, tra pezzi di intonaco e qualche calcinaccio per terra ci sono ancora le scarpe, alcuni giochi della bambina. Fa ancora paura. Loro hanno prima messo a posto la cucina dell’osteria, al piano terra, per ripartire anche forti della solidarietà di clienti affezionati, amici osti e produttori. Antonio tradisce commozione mentre racconta la sorpresa di osti non distanti che, saputo della sua cantinetta andata in rovina, con tutte le bottiglie rotte, hanno iniziato a donargli bottiglie; gente che di solito si fa concorrenza si è stretta insieme perché consapevole che è prima di tutto in questi locali che si riconquista una parvenza di normalità, si ricrea una rete sociale forte e attiva. Alcuni produttori sono arrivati con i loro salumi e i loro formaggi.
L’aria non è per niente strana mentre queste osterie riaprono in mezzo a mille problemi, si riesce a anche a sorridere mentre si sta insieme. Non è che non si pensi al terremoto e alle numerose cose da fare, ma mettere impegno e la passione nel proprio lavoro per queste persone significa tanto: non sentirsi soli, non sentirsi isolati, sentirsi pronti al ritorno alla vita di prima, per quanto possa essere difficile. La stessa cosa vale per gli altri centri di aggregazione sociale.
E mentre si è lì si parla dei produttori e degli agricoltori amici, dei fornitori che hanno avuto danni, di chi ha perso quasi tutto. Si capisce che i tempi della solidarietà devono per forza essere quelli giusti, una volta passato l’afflato di generosità iniziale che è stato giustamente spinto dalla copertura mediatica. Ora che di queste zone se ne parla un po’ meno, «se non nei compleanni» come dicono loro commentando le notizie uscite a un mese esatto dal secondo terremoto, sta arrivando il momento di dare aiuti molto concreti. Può essere anche solo sufficiente tornare nelle osterie, andarli a trovare da tutta Italia per far sentire una presenza fisica, una vicinanza e un locale pieno che a volte fanno meglio di un euro donato con il cellulare, e poi programmare quello che servirà, per tempo. Già, perché parlando di agricoltura, essa ha le sue stagioni e presto ci sarà bisogno di una rete nazionale che si attivi per un’operazione che potrebbe diventare esemplare.
Mi riferisco alle pere: le zone colpite dal sisma ne sono grandissime produttrici. Un’agricoltura diventata quasi monoculturale: ci sono ancora angurie e meloni di straordinaria qualità in zona, ma per esempio le pesche, una volta rinomate, non ci sono quasi più. Le pere si devono di solito raccogliere tutte insieme, da metà agosto, un po’ prima che maturino completamente per poi stiparle in magazzini refrigerati che le mantengono per lungo tempo, per venderle a più mandate alla grande distribuzione e “allungare” la stagione di vendita. Il problema è che questi magazzini (come in un primo tempo anche le pompe per le massicce irrigazioni, ora riparate) sono stati pesantemente danneggiati dal sisma e non si recupereranno in tempo. Ora, mentre si avvicina il momento
della raccolta, chi coltiva le pere non sa come fare. Bisogna salvare il salvabile. Cogliamo l’infausta occasione per tornare a un consumo più precisamente stagionale delle pere. Selezioniamo quei produttori che possiamo aiutare, costruiamo una rete di acquirenti (grandi distributori, gruppi di acquisto solidale, mense scolastiche e ospedaliere, ristoranti, mercati, viaggi nelle aziende per la vendita diretta) che s’impegneranno a comprare “en primeur” – in anticipo – queste pere, in cambio che vengano raccolte mature e nel loro momento migliore. Gli agricoltori non dovranno preoccuparsi se le pere sono sugli alberi e non andranno nei magazzini come di solito. Perché saranno già vendute, appena pronte ritirate o inviate a chi ha fatto la sua promessa. Vogliamo
riuscire a mobilitare una rete abbastanza grande (sicuramente non sufficiente per tutti, ma abbastanza grande), e speriamo che metta almeno una pezza a un settore che è già qualche anno che era in difficoltà per la crisi del sistema agro-industriale del cibo. Un sistema che in caso di eventi naturali catastrofici mostra tutta la sua estrema fragilità e capacità di generalizzare il danno. Forse tornando a un modo di distribuire diverso, a rapporti umani invece che puramente commerciali, a un rispetto della vera stagionalità e quindi anche dei ritmi naturali, si potrà instillare quella che magari è una piccola goccia di solidarietà concreta, ma anche un modo di riflettere su come produciamo e consumiamo il nostro cibo.

La Repubblica 16.07.12

"I mercati scommettono sul super-euro dei Paesi nordici", di Tonia Mastrobuoni

Ogni tanto riemerge, come un fiume carsico. L’idea di un euro “dei forti”, di una supermoneta dei “fittest”, di chi è darwinianamente più adatto al mondo globalizzato. Un euro-nocciolo dei paesi nordici con le loro robuste e austere economie. E tutti gli altri fuori, con buona pace dell’Europa. E ogni volta quest’ipotesi viene ricacciata con sdegno nel dimenticatoio da un coro unanime di economisti e politici. L’ultima volta nove mesi fa, quando un’indiscrezione sulla presunta intenzione di Merkel e Sarkozy di restringere l’area della moneta unica escludendo «chi non ce la può fare» fu rilanciata dall’autorevole Reuters ma non ebbe conferme né seguiti.

Nell’ultima settimana, tuttavia, osservando l’andamento dei titoli di Stato dell’Eurozona, il sospetto che stavolta siano i mercati a scommettere su una divisione del Vecchio continente, è forte. Proprio mentre la Ue sta facendo passi importanti verso l’integrazione bancaria, politica e fiscale, gli investitori sembrano aver già compiuto la loro scelta. Ed è cominciata una gara a chi arriva prima: i politici che hanno accelerato per disegnare un’architettura unitaria o il mercato che sta segnalando che quella casa comune è destinata a spaccarsi, premiando determinati titoli e punendone altri.

Daniel Gros, direttore del centro di studi europei Ceps, sdrammatizza. «Non sono mai stato a conoscenza di piani per un “nocciolo duro” dell’euro. Certo, al momento c’è tensione sui paesi periferici», ma per l’economista franco-tedesco «i governi devono andare avanti sulla via dell’integrazione e mantenere la calma. Per l’Italia i rendimenti a questi livelli sono sostenibili per uno o due anni. E la buona notizia è che molti nuovi bond tornano in mani italiane».

Ma è proprio un’occhiata alle aste europee dell’ultima settimana che fa venire ansia. Che i tassi sui bond emessi dalla Germania possano diventare negativi, sulle scadenze brevi, è una tendenza che si osserva da un po’. Ma negli ultimi sette giorni ha fatto notizia che per la prima volta nella storia anche i titoli di Stato francesi, olandesi, austriaci, belgi e finlandesi a due anni siano scivolati su territorio negativo. La «fuga verso la qualità» che si verifica in genere quando la situazione è tesa, ha investito un folto gruppo di paesi e non solo la Germania. E ha creato un «euro-nocciolo» di fatto. Complice, ovvio, la decisione della Bce di azzerare gli interessi sui depositi: le banche hanno cercato riparo nel solido Nord.

Ma allo stesso tempo i rendimenti sui titoli dei partner cosiddetti “periferici”, cioè Italia, Spagna, Irlanda, Grecia e Portogallo, non hanno beneficiato se non marginalmente della montagna di liquidità in giro. E i differenziali tra i tassi sui bond tedeschi e quelli italiani o spagnoli a dieci anni, in particolare, sono rimasti quasi sempre sotto un’enorme pressione. Quest’Europa periferica è rimasta sempre tesissima. «Lo spread tra Italia e Germania riflette effettivamente un pericolo di rottura dell’area euro. E si osserva al momento una evidente frattura tra Nord e Sudeuropa», osserva Angelo Baglioni, economista della Cattolica di Milano. Il mercato sembra segnalare in particolare la convinzione, prosegue l’esperto di titoli di Stato, che anche paesi “non falchi” come il Belgio o la Francia, «in uno scenario di spaccatura della moneta unica rimarrebbero agganciati alla Germania».

Baglioni è convinto anche che ci sia un attuale convitato di pietra degli sviluppi della crisi: la Grecia. Finita fuori dai radar, è destinata a rientrare molto presto: se il giudizio della trojka Bce-Ue-Fmi sarà negativo è a rischio la tranche di aiuti di luglio e dunque la sua possibilità, per l’ennesima volta, di evitare il default e di rimanere nell’euro. Una lettura condivisa anche da Daniel Gros: «la vera incognita della crisi dell’euro continua ad essere, purtroppo, la Grecia».

La Stampa 16.07.12

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“Il rischio politico sulla finanza”, di MAURIZIO MOLINARI

Terminata la «Allen & Co. Conference» a Sun Valley è nel piccolo terminal di Hailey, Idaho, che Thomas Friedman aspetta l’aereo per tornare a Washington. Il consistente ritardo, dovuto all’insolito traffico di aerei privati dei vip, gli offre l’occasione per esprimere forte timore sull’Italia «in bilico fra Monti e Berlusconi». «Avete un buon premier ma è alla guida di una nazione che resta molto instabile» osserva il columist del «New York Times» cronista dell’era della globalizzazione.

Alla base della preoccupazione di Friedman c’è lo stesso fattore «political risk» che ha portato Moody’s ad abbassare il rating dei titoli di Stato italiani, che è risuonato nella sala del «Sun Valley Inn» quando Monti ha confermato che lascerà nel 2013 e che ha tenuto banco negli incontri informali a latere fra il premier e i leader del futuro dell’America, nell’hi-tech come nella finanza, uniti dalla speranza che dopo il prossimo voto l’inquilino di Palazzo Chigi resti lo stesso.

Se l’Italia viene ritenuta un «rischio politico» è per quanto sta avvenendo da qualche settimana a Roma e dintorni: l’aperta ostilità della Cgil a tagli alla spesa pubblica considerati solo un primo passo dal Fmi, la volontà di Silvio Berlusconi di «tornare in pista» nel Pdl avvicinandosi ai circoli più scettici sul futuro dell’Eurozona, le spaccature interne al Partito democratico sull’opportunità di sostenere le riforme del governo e la recente affermazione elettorale del movimento di protesta di Beppe Grillo proiettano l’immagine di una nazione che nell’arco di pochi mesi potrebbe invertire l’attuale corso del risanamento economico, tornando ad essere considerata il maggiore fattore di instabilità dell’Eurozona, come avvenne in novembre al summit del G20 a Cannes. La sovrapposizione fra questo possibile scenario di instabilità politica interna e l’avvenuta entrata in recessione della nostra economia spiega perché il «political risk» italiano evochi la Grecia, spingendo l’economista della «New York University» Nouriel Roubini ad ammonire: «Il caos politico spaventa, basta invocare la lira o i mercati vi puniranno». Friedman e Roubini esprimono opinioni largamente diffuse, come dimostrano le notizie su Berlusconi date dalla tv Msnbc – fra le più seguite sui temi economici – in cui viene descritto nella seguente maniera: «Il tre volte premier dopo aver mantenuto un profilo basso dal momento della sostituzione con Monti, ha annunciato questa settimana che tornerà in prima linea come candidato del centrodestra, impasticciando ancor più la situazione politica» anche perché «ha avuti toni anti-europei, criticato l’austerità di Monti e messo in dubbio l’opportunità di rimanere nell’euro».

Per avere un’idea dei rischi che si corrono indebolendo Monti bisogna ascoltare Jim Reid, stratega economico di Deutsche Bank, quando osserva che «il rating Baa2 assegnato da Moody’s all’Italia è ancora troppo alto, sebbene assai vicino al livello che inizia a impaurire gli investitori». L’Italia è a complessivi nove gradini di distanza dalla perdita dello status di «nazione dove investire» assegnata dalle tre maggiori agenzie di rating perché, oltre a Moody’s, Standard & Poor’s ci classifica «BBB+» e Fitch «A-». Ciò significa che restiamo a pochi passi dall’abisso. Se la tempesta al momento sembra placata è solo per la credibilità del programma di riforme definito da Monti, garantito dalla sua competenza tecnica, ma il momento del cessato allarme arriverà solo quando tali riforme saranno realizzate. Più il «political risk» si manifesta, più il momento della realizzazione delle riforme si allontana, più i pericoli finanziari tornano a manifestarsi. E’ il domino inesorabile frutto di una globalizzazione dell’economia che non consente più il lusso di gestire la propria instabilità politica come se fosse una vicenda privata. Non a caso è stata l’agenzia cinese Xinhua la prima ad attribuire il taglio del rating italiano alle dichiarazioni di Berlusconi sulla volontà di tornare premier. Sono questi i motivi per cui la quota di investitori stranieri nei titoli di Stato continua a scendere, obbligando la Bce e le nostre banche a maggiori interventi.

La Stampa 16.07.12

"QI, il sorpasso delle donne più intelligenti degli uomini", di Michela Marzano

Le donne più intelligenti degli uomini? Se dovessimo ragionare in termini di “guerra tra i sessi”, lo studio sul QI realizzato da James Flynn darebbe ragione a chi, da tempo, si batte per il riconoscimento della superiorità femminile. Le donne sono da sempre le migliori. Solo che per secoli non hanno avuto la possibilità di mostrarlo. Scienza docet.
PECCATO che la scienza abbia spesso preteso l’esatto contrario. E che ancora nel 2005, una ricerca della Manchester University mostrasse che il QI maschile fosse in media più alto di 5 punti di quello femminile. Peccato soprattutto che, ancora oggi, si strumentalizzi la scienza per mostrare la presunta superiorità di un sesso sull’altro, invece di cercare di capire in che modo si possa eventualmente sviluppare l’intelligenza di un essere umano, poco importa se uomo o donna. Perché ormai sono tanti i ricercatori che lo riconoscono: l’intelligenza non è qualcosa di statico. Il QI umano evolve, cresce o diminuisce a seconda degli stimoli dall’esterno o, per dirla in termini filosofici, a seconda del “riconoscimento” che ci viene dato fin dalla più tenera età. Certo, anche per l’intelligenza, come per le caratteristiche fisiche, esiste una base genetica. Ma è sempre e solo all’interno di un contesto socio-culturale che il QI aumenta o si atrofizza. Come poteva una donna nel passato mostrare le proprie capacità, consolidarle e svilupparle quando non poteva far altro che accettare di essere un “angelo del focolare”?
Oggi, la condizione femminile è notevolmente cambiata. E anche se resta ancora molto da fare, sono sempre più numerose le donne che occupano posizioni di rilievo e di responsabilità. Esattamente come gli uomini. Perché allora affidarsi alla scienza per rivendicare una superiorità di cui, in fondo, non si ha alcun bisogno? Quando usciremo dalla “guerra dei sessi” per cooperare tutti insieme, donne e uomini, alla costruzione di una “società decente”, come scrive il filosofo israeliano Margalit, in cui nessuno si senta
umiliato?

La repubblica 16.07.12

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Il sorpasso delle donne “Così sono diventate più intelligenti dell’uomo”, di Enrico Franceschini

LE donne sono più intelligenti degli uomini. Forse lo sono sempre state, da Adamo ed Eva in poi, ma in passato non riuscivano ad esprimere in pieno tutto il loro potenziale. Oppure lo sono diventate in era più recente, grazie allo stress di dover combinare famiglia e lavoro, casa e carriera, insomma allo sforzo di dover fare più cose contemporaneamente. Come che sia, per la prima volta le femmine ottengono mediamente risultati migliori dei maschi nei test sul quoziente d’intelligenza. Non era mai successo. Non succede in ogni Paese, ma la tendenza è chiara ed evidente: «L’effetto della vita moderna sul cervello delle donne sta appena cominciando ad emergere», afferma James Flynn, lo psicologo considerato la maggiore autorità mondiale in materia, ora in procinto di pubblicare un nuovo libro in cui analizza il “sorpasso” femminile in questo campo.
La storia dei test sul quoziente d’intelligenza (QI) è controversa. È sempre stato oggetto di dibattito se ottenere un alto punteggio sia un metodo accurato per misurare l’intelligenza assoluta. Spesso i risultati dei test sul QI sono stati usati impropriamente per sostenere la superiorità di una razza su un’altra, o di un sesso (quello maschile) sull’altro. E tuttavia i test vengono abitualmente utilizzati come sistema di analisi in ambito accademico, lavorativo, sociologico. Una cosa è certa: negli ultimi decenni, i punteggi
medi hanno continuato progressivamente a salire, sia per gli uomini che per le donne. Proprio una scoperta del professor Flynn, negli anni ’80, ha stabilito che, perlomeno nei Paesi occidentali, i risultati dei test crescono mediamente di tre punti ogni decennio, per cui un europeo odierno dovrebbe ottenere un punteggio di trenta punti più alto dei suoi nonni o
bisnonni. «È una conseguenza della modernità», dice Flynn al
Sunday Times,
«la complessità del mondo moderno ha spinto i nostri cervelli ad adattarsi e ha fatto crescere il nostro QI».
Ma la modernità, aggiunge lo studioso, sembra avere agito da stimolo più sulle donne che sugli
uomini. I dati da lui raccolti indicano infatti che il QI femminile è cresciuto ancora di più di quello maschile. Il risultato è che in certe nazioni, come l’Australia, maschi e femmine ottengono ora in media un punteggio identico. In altri Paesi, come la Nuova Zelanda, l’Estonia e l’Argentina, dove il professor Flynn ha iniziato le sue ricerche, le donne hanno adesso superato gli uomini. Un evento significativo, poiché è la prima volta che accade su larga scala. Due le teorie per spiegare il fenomeno. Una è che le donne d’oggi, costrette a una vita
multitasking
in cui devono giostrare allo stesso tempo famiglia e lavoro, abbiano sviluppato una maggiore intelligenza. L’altra è che abbiano sempre avuto potenzialmente un’intelligenza superiore agli uomini, ma solo adesso possano esprimerla, perché più libere di avere un ruolo autonomo. «Le donne sono state per secoli il sesso svantaggiato, represso», commenta Flynn. «Ora che sono diventate
indipendenti si vede meglio quanto valgono». Emma Gordon, una studentessa laureatasi alla Bristol University con il massimo dei voti, concorda: «Oggi è diventato socialmente accettabile che una donna sia più intelligente di un uomo e i dati scientifici lo dimostrano». Helena Jamieson, uscita da Cambridge con un dottorato, crede che sia stato sempre così:
«Sotto sotto noi donne abbiamo sempre saputo di essere più intelligenti degli uomini, ma in passato dovevamo attenerci allo stereotipo del “gentil sesso”, perciò abbiamo lasciato credere che fossero più intelligenti loro ».

La Repubblica 16.07.12

"Terremoto, la fabbrica dei reni artificiali riparte sotto i tendoni", di Martina Castigliani

Un distretto biomedicale tra i più avanzati d’Europa e nel mondo. Per questo motivo era ricordata la zona industriale di Mirandola fino a qualche mese fa, poi il terremoto ha reso inagibili fabbriche e capannoni, costringendo un intero territorio a ricominciare da capo. Tra le aziende colpite anche la Bellco, una delle prime fornitrici di impianti di dialisi per i reparti di nefrologia in giro per il territorio nazionale e internazionale e tra le prime a ripartire. Ad un mese e mezzo dal sisma crolli e disagi sembrano già il passato: non hanno fermato l’attività delle aziende del distretto che costrette dalla necessità hanno allestito tendoni e tensostrutture sotto le quali continuano i lavori e la ricerca.

La Bellco è tra quelle industrie di Mirandola che, nonostante le due scosse del maggio scorso, non ha potuto fermare la distribuzione di materiale sanitario e ha dovuto cercare di rimettersi in moto il prima possibile per non perdere clienti. “Il nostro obiettivo”, spiega il presidente Antonio Leone, “era quello di non mancare l’appuntamento con i nostri pazienti. Siamo fornitori di materiale sanitario per pazienti critici che necessitano di terapie di dialisi e ci tengo a dire che, nonostante i disagi, non abbiamo mai interrotto la distribuzione”. Il magazzino di distribuzione è una delle zone della Bellco ad aver subito i maggiori danni e il primo ad essere stato spostato sotto una tensostruttura, prima del trasferimento nel nuovo magazzino alle porte di Bologna. “Abbiamo al lavoro già 260 operai su 360 ed entro il primo agosto, contiamo di far ripartire la produzione”, dice ancora il presidente della Bellco.

Sotto il sole cocente di luglio, a fare il lavoro più faticoso sono gli operai che pezzo per pezzo devono controllare che il materiale che si trovava all’interno del magazzino non sia stato danneggiato dai crolli. “Abbiamo lavoratori altamente qualificati”, spiega il direttore marketing Fabio Grandi, “ed è anche uno dei motivi per cui non possiamo permetterci di delocalizzare la nostra fabbrica in un’altra zona. Qui abbiamo forza lavoro di qualità, e siamo inseriti in un distretto di grande valore, una vera catena che lega terzisti e produttori”. Se Mirandola non può ripartire altrove, ripartirà proprio da Mirandola, là dove la situazione sembrava più difficile.

I lavoratori molto spesso vivono in paese e in strutture di fortuna dopo i crolli dello scorso maggio. Passano da una tenda all’altra, per vivere e per lavorare, ma tutti hanno risposto alla chiamata dei dirigenti. “La mia casa è distrutta e vivo in una casa mobile, una specie di camper. – ci dice Angela, una delle operaie già a lavoro della Bellco – Abbiamo ricominciato a lavorare a metà giugno con il controllo di qualità. Ce la faremo, non perderemo la speranza ”. La forza di volontà di operai e dirigenti e un grande investimento in termini di denaro, hanno permesso al centro biomedicale di continuare con la tabella di marcia, e soprattutto di consentire la consegna di tre progetti di macchine innovative che dovrebbero essere messe sul mercato a partire da ottobre. “Si tratta – spiega Roberto Cena, ingegnere biomedico originario di Torino – di tre macchine rivoluzionarie, una per curare la dialisi cronica, una per la dialisi acuta e una per la dialisi neonatale. Lavoravamo da mesi al lancio di questo prodotto e malgrado il terremoto abbia creato disagi in termini di reperimento del materiale, siamo riusciti a restare nei tempi”.

Il problema più grosso è stato rifornirsi di molti pezzi che compongono le apparecchiature, prodotti anch’essi nell’area di Mirandola in capannoni che spesso hanno subito danni e si sono fermati dopo il sisma di maggio. Tutto questo non ha impedito alla Bellco di presentare le tre macchine un mese fa in un congresso internazionale a Parigi. “In due giorni abbiamo costruito i tendoni”, racconta Fabio Grandi, “e in tre eravamo di nuovo al lavoro. Non possiamo permetterci di abbandonare i nostri progetti e tornare al lavoro ci aiuta a riprendere una quotidianità che credevamo perduta”.

Una forza di volontà che unisce operai, dirigenti e cittadini e che rappresenta l’unica speranza per il distretto biomedico di Mirandola. Una scommessa aperta che lotta contro crepe e crolli. Ma la domanda è sempre la stessa e riguarda i capannoni che non hanno retto alle due scosse dello scorso maggio. “Stiamo procedendo alla messa in sicurezza di tutta l’area”, ha affermato Bruno Zuccoli, responsabile plan maintenance dell’azienda, “certo non potevamo immaginare che succedesse una cosa del genere. C’è da dire che fino al 20 maggio questa non era considerata zona sismica. I capannoni sono stati costruiti sempre secondo le norme, il problema è che fino a quel giorno non si trattava di norme adeguate per tutelare una zona sismica”.

Il Fatto Quotidiano 15.07.12

"Da Gramsci a Einaudi per rifondare il paese", di Eugenio Scalfari

Dai mercati finanziari italiani sono arrivate venerdì tre buone notizie: i Bot a dodici mesi sono stati oggetto di ampia domanda e collocati a tassi molto più bassi rispetto a quelli registrati appena un mese fa; i Btp a tre anni hanno avuto anch’essi notevole successo e anch’essi hanno segnato un tasso inferiore di un punto rispetto a giugno. Infine la Borsa di Milano ha snobbato il declassamento dell’Italia con un aumento dell’1 per cento rispetto al giorno precedente.
Dunque risparmiatori e operatori italiani e stranieri hanno ricominciato a comprare i titoli emessi dal Tesoro e non solo a breve ma anche a medio termine. Lo “spread” del Btp decennale è ancora molto elevato sul mercato secondario, ma il Tesoro ha saggiamente deciso di rallentare le emissioni a lunga scadenza in attesa che il meccanismo di intervento deciso dall’Europa entri concretamente in funzione. Ci vorranno alcuni mesi e fino ad allora le emissioni quinquennali e decennali saranno ridotte al minimo senza alcun nocumento per il finanziamento del fabbisogno.
Queste le buone notizie. Ma il “downgrading” di Moody’s , anche se Piazza degli Affari ha risposto con un’alzata di spalla, non è campato in aria. Non è un declassamento economico ma politico, segnala un elemento negativo per il dopo-Monti e a ragione perché quegli elementi negativi esistono e il “rieccolo” di Berlusconi è uno di quelli e va quindi analizzato
con estrema attenzione.
Berlusconi sa che avrà un flop elettorale, questo è già nel conto. Se dovesse arrivare al 20 per cento dei consensi sarebbe oggettivamente un successo clamoroso. Ma il suo problema non è questo. Il suo problema è di mantenere in vita un simulacro di partito e impedirne l’implosione in mille frammenti. Questo risultato l’ha già ottenuto, è bastato l’annuncio della sua ri-presentazione per bloccare la fuga dei quadri, delle clientele e dei rimbambiti del “Silvio c’è”. Moderati? Ma quali! Conservatori? Non se ne vedono in giro. Liberali? Forse Ostellino, ma con lui non si va lontano.
Niente di tutto ciò, ma i suoi colonnelli ex An restano in linea, Cicchitto anche, Quagliarello e Lupi pure, perfino Scajola, perfino Galan. Forse arriva Storace. Certamente Miccichè. E Daniela. Daniela è la vera vincitrice. I Santanché-boys non valgono più dell’1 per cento, ma è il “folk” che conta. Il partito non c’era, non c’è mai stato e continua a non esserci, ma le clientele sì, quelle ci sono sempre state e adesso serrano i ranghi.
Certo, ci vuole una legge elettorale che assecondi. E poi quel pizzico di bravura nell’ingannare i gonzi, specie quelli di mezza età. Sono tanti in questo Paese e per lui sono l’ideale. Allora forza con l’aquilone tricolore, forza coi discorsi del predellino. E se ci fosse un pazzoide che gli tirasse un sasso in faccia come avvenne a Piazza del Duomo qualche anno fa, beh quello sarebbe l’ideale. Il partito non c’è mai stato, ma volete che non ci sia un 15 per cento di
allocchi che poi, su un 60 per cento di votanti sarebbe più o meno il 7 per cento della platea elettorale?
Questo è l’obiettivo. Ma ci vuole una legge elettorale come si deve e questo è lo strumento necessario.
* * * Niente più bipolarismo, niente più sistema maggioritario. Per raggiungere
l’obiettivo ci vuole un sistema proporzionale, su questo
non si discute.
Chi altri vuole quel sistema? Certamente la Lega. Certamente Casini. Dunque la maggioranza c’è. Soglia di sbarramento alta ma ragionevole (serve a scoraggiare le possibili liste del para-centro, diciamo alla Montezemolo). Un premio al primo partito, ma molto ridotto, diciamo il 10 per cento. Preferenze o collegi, oppure un mix tra liste con preferenze e collegi.
Un sistema proporzionale di questo tipo va a pennello per la Lega e per Berlusconi. Anche per Casini che in quel caso sarebbe molto più forte nella possibile alleanza postelettorale con il centrosinistra. Se prevalesse un sistema maggioritario l’alleanza Casini-Bersani dovrebbe essere pre-elettorale; col proporzionale si fa dopo e ci si fa tirare per la calzetta. La differenza è evidente.
Diciamo: il partito dell’Aquilone al 15-18 per cento, l’Udc all’8-10, il Pd (con Vendola in pancia) al 25-30 e al 35 col premio. Non c’è maggioranza se non tutti e tre insieme. E tutti e tre al governo. E Monti che li presiede.
Questo è il progetto, pacatamente ma fermamente sponsorizzato da Giuliano Ferrara. Non malvisto
dai montiani del Pd. Per il Berlusca un terno al lotto. Per Casini anche. Per la spazzatura mediatica anche: campane a festa per il “Giornale”, campane a festa per “Libero” e campane con doppia festa per il “Fatto” che potrebbe di nuovo sparare col suo fucile a due canne non solo contro la casta di centrosinistra ma anche contro quella berlusconiana che sembrava scomparsa.
Un governo lobbistico presieduto da un anti-lobbista. Grillo all’opposizione ma un po’ spompato (lo è già). Maroni pronto a rientrare in gioco ma a ranghi ridotti.
Non è un cibo digeribile. Allora la domanda è questa: c’è un’alternativa?
* * * Prima di ragionare sulla possibile alternativa debbo però formulare due osservazioni, pertinenti e non marginali.
Ernesto Galli della Loggia ha descritto sul “Corriere della Sera” che cos’è in realtà la classe dirigente italiana e che cosa sono nella loro maggioranza gli italiani: un Paese che da trent’anni si è auto-paralizzato dandosi una struttura corporativa, clientelare, mafiosa in tutti i sensi. Insomma una casta nazionale, mondo dei “media” compreso e senza eccezioni.
Consento in gran parte con la diagnosi di della Loggia, ma non su quest’ultimo punto. L’informazione castale ha avuto le sue eccezioni, caro Ernesto, e tu lo sai bene. L’eccezione principale è stata “Repubblica” fin da quando esiste, cioè dal 1976. E prima di Repubblica l’eccezione era stata “L’Espresso”. Nei pochi anni della sua direzione l’eccezione
fu anche il “Corriere” diretto
da Piero Ottone.
La seconda osservazione riguarda invece la “scivolata” di Mario Monti sul tema della concertazione, che sarebbe stata «dannosa per l’Italia perché ha determinato la formazione d’un sistema assistenziale che favorisce i privilegi di pochi a scapito della libera partecipazione di molti e specialmente dei giovani. E perché ha reso possibile la creazione d’un debito pubblico enorme che è la causa delle nostre attuali difficoltà ».
Questa “scivolata” — come già è stato scritto nei giorni scorsi sul nostro giornale — è storicamente sbagliata. La concertazione fu introdotta da Giuliano Amato e soprattutto da Carlo Azeglio Ciampi nel 1992-93 e rese possibile il superamento della crisi in quegli anni e l’ingresso in Europa durante il ministero Prodi-Ciampi. Ma prima di allora, dieci anni prima d’allora, senza bisogno di concertare, il sindacalismo operaio — come allora lo si chiamava — aveva imboccato da solo la via dell’austerità per realizzare la piena occupazione. Luciano Lama fu il vessillifero di quella politica e la proseguì fin tanto che rimase al suo posto, fiancheggiato da analoga posizione di Giorgio Amendola e poi anche di Enrico Berlinguer.
La differenza di ora rispetto all’allora sta nel fatto che la classe operaia non somiglia più in nulla a quella di Lama e di Amendola. Non è più un blocco sociale portatore di valori e interessi generali, ma un coacervo di contratti, di precariato, di immobilismo parcellizzato. Uno sfrizzolio innumerevole. Dalla spigola al sale — direbbe uno chef — al fritto
misto.
In questa situazione Camusso e Bonanni cercano di tutelare il fritto misto. Che cos’altro potrebbero fare? Perciò, caro presidente Monti, lei condanna un fenomeno che non c’è più e che, quando ci fu, risultò positivo e non vincolante perché — come Ciampi può testimoniare meglio d’ogni altro — a monte e a valle della concertazione restava sempre e comunque la decisione del governo e del Parlamento. Quanto al debito pubblico, fu creato dalla partitocrazia dell’epoca come tante altre magagne che abbiamo ancora sulle
spalle.
* * * L’alternativa è la sinistra e il centro che debbono crearla e debbono farla, pena l’irrilevanza in cui stanno precipitando. Anzi: in cui sono già precipitati.
Ho letto nei giorni scorsi due articoli scritti da persone con biografie politiche diverse ma tutte e due marcatamente di sinistra: Alfredo Reichlin sull’“Unità” e Alberto Asor Rosa sul “Manifesto”. Tutti e due gli autori arrivano a conclusioni analoghe: la sinistra deve scoprire nuovi orizzonti e ad essi improntare la sua azione. Non esiste più la sinistra autarchica operante nei singoli Stati nazionali. Esiste già un’economia globale; esisterà — se vuole sopravvivere — un’Europa-Stato.
In queste nuove condizioni la sinistra non può che esser riformista. Radicalmente riformista. Deve coniugare i valori della libertà con quelli dell’eguaglianza. Deve togliere le bende che l’hanno da tempo mummificata. Deve disciplinare la concorrenza con le regole. Deve
smantellare i privilegi, le mafie, le clientele, a cominciare dalle proprie.
E il centro deve fare altrettanto. Non è più tempo di radunare i moderati. Bisogna radunare i liberali, quelli veri e non quelli fasulli. Quelli che non vogliono i privilegi, le rendite, i monopoli, che detestano la demagogia e la legge del più forte.
A quel punto si accorgeranno — il centro e la sinistra — che non solo il loro obiettivo, ma la loro stessa natura è identica. Questa è l’alternativa.
A me ricorda lo slogan “giustizia e libertà”; ad altri potrà legittimamente ricordare Giuseppe Di Vittorio, Lama e Amendola, Antonio Labriola e Gramsci, ad altri ancora Giustino Fortunato e Danilo Dolci, ed anche Luigi Einaudi delle «Lezioni di politica sociale».
Andate a rileggerli quei testi, voi Bersani, voi Casini, voi Vendola, voi Pisapia, voi Tabacci. Giorgio Napolitano li conosce bene, lui è sempre stato un uomo di sinistra anche se da Capo dello Stato ha appeso quella vocazione all’attaccapanni prima di varcare la soglia del Quirinale.
Un uomo di sinistra, di quella sinistra. Non c’è un’altra strada. Quella è la sola vincente e l’obiettivo è di rifondare l’anima dei democratici e chiamare a raccolta gli spiriti liberi e forti del Paese. Forse è la maggioranza degli italiani, ma se non lo fosse pazienza, si lavorerà per il futuro. Nell’uno come nell’altro caso sarà comunque una vittoria.
Berlusconi — ovviamente — con queste prospettive non ha niente a che fare. Lui rappresenta l’Italia di Santanché che certo non è la nostra.

La Repubblica 15.07.12

Bersani: il mio piano per l’Italia «Berlusconi? Ritorno agghiacciante Ma ora tocca a noi», di Simone Collini

«Roba da matti». Pier Luigi Bersani scuote la testa mentre torna al suo posto e cerca un mezzo Toscano tra il disordine di fogli e cartelline che c’è sul tavolo della presidenza. L’Assemblea nazionale del Pd si è svolta fino a quel momento come aveva auspicato lui, che aveva aperto i lavori dicendo «siamo davanti a un Paese molto turbato, oggi parleremo dunque di Italia, di politica e di Pd in quanto utile a una buona politica per l’Italia» e poi discusso per sei ore, lui e tutti gli altri intervenuti, su come sostenere Monti lavorando in Parlamento per correggere le misure non condivise, di quale legge elettorale sostituire al Porcellum, del progetto con cui presentarsi alle prossime elezioni e del tipo di governo a cui bisognerà dar vita nella prossima legislatura.
Ma poi, negli ultimi minuti, dopo l’approvazione praticamente all’unanimità della relazione del segretario (un contrario e cinque astenuti), mentre molti delegati sono già pronti coi trolley in mano a scappare verso treni e aerei, scoppia il caos sugli ordini del giorno riguardanti matrimoni gay e data e regole delle primarie. Bersani lascia che Rosy Bindi e Marina Sereni, per la presidenza, gestiscano la situazione, ma il disordine alimentato da una ventina di delegati aumenta invece di diminuire e allora il leader del Pd decide di andare al microfono: «Attenzione, noi siamo il primo partito del Paese, dobbiamo dire con precisione all’Italia che cosa vogliamo, e il Paese non è fatto delle beghe nostre». Applausi dalla gran parte dei delegati, mentre Bersani torna a sedersi e cerca un Toscano da accendersi per calmarsi, ma ormai è già chiaro che mediaticamente questa polemica oscurerà tutto il resto della discussione.
RITORNI AGGHIACCIANTI
Ed è un peccato, per Bersani, che ribadendo quel «tocca a noi» coniato nelle ultime settimane, in questo appuntamento ha delineato non solo quale sarà la sua agenda di governo in caso di conquista di Palazzo Chigi (equità, riequilibrio fiscale, redistribuzione, lavoro, beni pubblici, conflitto di interessi) ma ha anche elencato agli eventuali alleati una serie di «impegni da sottoscrivere». E allora, dopo aver liquidato con una sola battuta l’annuncio di ricandidatura di Berlusconi («si vedono agghiaccianti ritorni»), dopo aver ribadito che «entro la fine dell’anno» si faranno primarie aperte («non possiamo decidere da soli i tempi e i modi, non sarà il congresso del Pd, si parlerà dell’Italia e del governo del Paese») in cui non vi sarà la «candidatura esclusiva» del segretario Pd (come statuto vorrebbe), dopo aver assicurato che il suo partito «non si arrende all’idea di tenerci il Porcellum» (e parla di premio di maggioranza dato o alla singola lista o alle liste collegate, senza esplicitamente chiudere alle preferenze caldeggiate dal Pd e da non escludere per Enrico Letta, Beppe Fioroni e altri), e dopo aver ribadito «lealtà» a Monti e invitato tutti ad evitare discussioni e ricerche di distinzioni «metafisiche, stucchevoli e fastidiosissime per la nostra gente» come quella sul grado di continuità con questo esecutivo (il Pd, sottolinea, non avrebbe fatto le stesse scelte sulla riforma delle pensioni, sull’Imu, sulla spending review, sulla Rai), Bersani detta le condizioni per l’alleanza di governo.
IMPEGNI DA SOTTOSCRIVERE
«Ad esempio quello di affidare alla responsabilità del candidato premier una composizione del governo snella, rinnovata, competente e credibile internazionalmente», dice per mettere subito in chiaro che non ci dovranno essere estenuanti trattative come per il governo dell’Unione. Né si dovranno rivedere spaccature in Parlamento, perché tra gli impegni da sottoscrivere Bersani mette anche «quello di consentire una cessione di sovranità e cioè di sciogliere controversie su atti rilevanti attraverso votazioni a maggioranza dei gruppi parlamentari». C’è lo spettro di divisioni sulle missioni militari all’estero, in caso di alleanza con Sel? E allora tra gli impegni ci dovrà essere «quello di rispettare gli obblighi internazionali». Qualcuno storce il naso all’ipotesi di un patto con l’Udc? Altro impegno: «Quello di avanzare una proposta comune verso tutte le forze democratiche ed europeiste disposte a contrastare la deriva berlusconiana e leghista ed ogni forma di regressione populista». Qualcuno (leggi Di Pietro) attacca gli alleati? Bisogna fin d’ora «mostrare nel campo progressista una civiltà di rapporti che renda davvero credibile agli occhi degli italiani la promessa di governabilità».
Il prossimo governo, per dirla con Massimo D’Alema, dovrà andare «oltre Monti» (perché non sarà condizionato dal peso della destra) ma «con Monti»: «C’è bisogno di una svolta profonda, ma sarà possibile in quanto ci presenteremo come continuatori dell’azione di risanamento avviata in questi mesi». Per Fioroni sarà necessario «coinvolgere tutti i moderati, non solo Casini ma anche i delusi da Berlusconi». Dice Letta che però la priorità ora è superare il Porcellum: «Altrimenti, qualsiasi cosa faremo, non riusciremo a rilegittimare la politica».
Si va avanti con gli interventi, poi la replica del segretario, e infine il caos sugli ordini del giorno. Prossimo appuntamento, dopo l’estate, quando si decideranno regole e data delle primarie.

L’Unità 15.07.12

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“Sugli odg non si vota. È scontro su primarie e matrimoni gay”, di Andrea Carugati

Il testo della commissione diritti passa a larga maggioranza
Poi le contestazioni per l’esclusione dei documenti di Concia e Civati. La scintilla si accende in un attimo, quando Rosy Bindi, presidente dell’assemblea Pd, mette ai voti il documento sui diritti, elaborato da una commissione da lei stessa presieduta in oltre un anno di lavoro, nel catino infuocato dell’Eur. «È un primo grande passo avanti», scandisce Bindi, ma dal lato destro della platea dove si sono accatastati, in piedi, i “ribelli laici”si alza in piedi un signore magrolino, Enrico Fusco, militante Arcigay e dirigente del Pd pugliese: «È falso, quel testo è una presa per il culo!». E ancora: «È un testo arcaico, irrispettoso, offensivo della dignità delle persone, si torna ai Dico, che non dicono nulla».
Dall’altro lato della platea partono dei «Buuu», i ribelli invece lo applaudono. Tra loro anche Aurelio Mancuso, Paola Concia, Pippo Civati, il professor Ignazio Marino. Tutti insoddisfatti per quella «sintesi» faticosamente trovata che esclude le nozze gay e «non dice parole chiare neppure sulle unioni civili». Fusco guadagna il palco, dove continua a tuonare: «Fini è più avanti di noi!». Il documento Bindi viene votato, 38 i contrari su alcune centinaia di presenti.
Ma la partita è appena cominciata. Si passa al voto sui due ordini del giorno pro nozze gay, uno di Concia e uno di Scalfarotto (la cui rivalità sui temi caldi resta intatta), entrambi con una quarantina di firme di sottoscrittori (c’è anche quella del braccio destro di Veltroni, Walter Verini). La presidenza dice che il voto è «precluso», visto che si è già votato sul testo Bindi. Riscoppia la bagarre, più forte di prima. Scalfarotto illustra il suo odg, parla degli altri Paesi europei e non, dove le coppie gay sono tutelate: «Perché da noi no? Il Paese è pronto».
Niente voto. In platea, maglia arancione, si agita il delegato di Domodossola Moreno Minacci. «Ma in questo partito non si vota maiii». Poi si avvicina a Bersani: «Se andate avanti così gli elettori ci spazzano via». Furioso anche Andrea Benedino, per anni responsabile dei diritti civili per i Ds, che restituisce la tessera al banco della presidenza. Lo stesso fanno Fusco e Aurelio Mancuso. «Ma di cosa avete paura?», si accalora la delegata Giulia Morini da Modena. «Il Pd è ormai un partito “precluso”», sorride amaro Civati. «In fondo è l’anniversario della Bastiglia», sussurra Marino.
«La democrazia pretende delle regole», si accalora dal palco la vicepresidente Marina Sereni. I volti dei big sono terrei. Bersani, Finocchiaro, Enrico Letta: tutti ammutoliti. David Sassoli si gratta la testa preoccupato. Tocca all’odg Concia, stessa sorte. D’Alema in platea è assorto in un origami: «Bisognava accogliere la mediazione di Cuperlo e Pollastrini», risponde. Già, perché la bagarre di ieri ha un antefatto. Nella notte una pattuglia di membri della commissione diritti, composta anche da Marino, Claudia Mancina e dal responsabile diritti della segreteria Ettore Martinelli aveva elaborato un testo «integrativo» a quello della Bindi, che a ora di pranzo è stato discusso in una tesissima riunione del comitato dietro le quinte. «Alcune sottolineature e integrazioni», spiegano i promotori. Ma basta una veloce lettura per capire che quel testo era molto più avanzato di quello originale. Parlava, ad esempio, di «stessi diritti per le coppie gay ed etero», di «riscrittura» della legge 40 sulla fecondazione assistita, di possibilità di rinuncia, tramite il testamento biologico, a nutrizione e idratazione. «C’erano tutti quei sì e quei no chiari che la nostra gente ci chiede», spiega Marino. La Bindi però non ha messo al voto i due testi congiunti, si è limitata a prendere quello nuovo «seriamente in considerazione», insieme ad altri, e a rinviare la discussione all’autunno, a un’apposita riunione della direzione dedicata a questi temi. Pare che a fare infuriare la presidente sia stata la firma di Martinelli, membro della segreteria, e dunque il sospetto che dietro ci fosse una mossa di Bersani. Alla fine Martinelli ha ritirato la firma.
In platea, intanto, è bagarre. Viene precluso anche un odg di Civati e Vassallo sulle primarie per il leader (con la scadenza di settembre per decidere data e regole) e altri due sulle primarie per i parlamentari e il tetto dei tre mandati. «Argomenti già votati con la relazione di Bersani», spiegano dalla presidenza. I ribelli si scatenano, urlano «voto, voto». Bersani sale sul palco: «Sentite un attimo… per la prima volta il Pd prende l’impegno per una regolamentazione giuridica delle unioni gay, e vedo gente che dice “vado via”?». E sulle primarie: «Ho detto che saranno aperte, ma non le convochiamo da soli. Noi siamo il primo partito e dobbiamo parlare chiaro, il Paese non è fatto delle nostre beghe!».
Alla fine viene approvato un documento della presidenza (con 20 tra contrari e astenuti) che impegna a fare primarie per i parlamentari e a rispettare il tetto di 15 anni di mandato. Ma il clima è quello che è. «Sono degli incapaci», si lascia scappare Franco Marini all’indirizzo della presidenza. «Che catastrofe», sussurra Nicola Latorre. Errani fa da paciere con Civati e Vassallo: «Ma davvero temete che Pierluigi non voglia le primarie?». La replica: «Non mi fido più».
Bindi non si scompone: «ma quale spaccatura, ci sono solo stati solo 38 contrari! Dai Dico abbiamo fatto passi avanti decisivi. Sul matrimonio gay non potevamo votare: il documento già approvato lo esclude, e anche la Costituzione». Le polemiche però non si esauriscono. «Un errore clamoroso non votare sui diritti», protesta Gozi. «Una gestione burocratica», dice Michele Meta. E Rosy risponde: «Abbiamo rispettato tutte le regole». Martinelli però precisa: «Bindi non faccia scherzi. L’accordo nel comitato diritti è stato chiaro: l’integrazione Cuperlo-Pollastrini è parte integrante del documento approvato, e Bersani è d’accordo. Daremo seguito all’impegno sul modello delle partnership inglesi».

L’Unità 15.07.12

Ricerca, Profumo si ribella al Tesoro

«Dobbiamo dare un contributo al Paese che è in grande difficoltà: siamo disponibili a farlo ma vogliamo essere noi a dire quali sono gli enti che hanno la possibilità di dare maggiori contributi. Il fatto che ci si dica dove tagliare non è la strada corretta». Lo ha detto il ministro della Pubblica Istruzione, Università e Ricerca (Miur) Francesco Profumo a proposito della spending review. Insomma, se c’è bisogno di risparmiare, che almeno non si spari nel mucchio. Il ministro, che nei giorni scorsi ha incontrato i presidenti dei 12 enti di ricerca controllati dal suo dicastero, si prepara dunque a lavorare su un doppio binario: con il Parlamento per ridurre il più possibile l’entità della “revisione” di spesa, e con gli enti stessi con i quali a settembre aprirà un tavolo per un percorso condiviso. Decidano i diretti interessati, questo il metodo giusto per procedere secondo Profumo che piuttosto che di tagli preferisce parlare di “razionalizzazione” finalizzata a una maggiore efficienza degli enti vigilati e a una maggiore competenza che permetta a loro e agli atenei di mettere le mani su fondi europei partecipando a bandi di gara che spesso vedono l’Italia assente. La partita del Miur è delicatissima. Gli enti in questione vanno dal Cnr all’Istituto di fisica nucleare, dall’Istituto di geofisica all’Agenzia dello Spazio. Da questi ed altri ci si aspettano risparmi per 33 milioni entro la fine dell’anno. Ma da tutto il sistema-ricerca, quindi anche da enti controllati da altri ministeri (Istat, Istituto superiore di sanità, Enea Isfol e altri), il “contributo” atteso è di 88 milioni a regime dall’anno prossimo. Il tempo per presentare emendamenti al decreto scade giovedì. Sono iniziate intanto le proteste. Venerdi sono stati i ricercatori dell’Istat ad occupare la sala stampa della sede di via Balbo preoccupati per le conseguenze che la spending review può avere sul loro istituto e su tutta la ricerca italiana. Timore condiviso dal presidente dell’Istat Enrico Giovannini: da gennaio, ha detto, «non riusciremo ad assolvere alla nostra funzione: fornire dati di qualità, affidabili, tempestivi»

l’Unità 15.07.12