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"Dove vola Berlusconi", di Michele Prospero

Brandendo dei fasulli sondaggi segreti a lui favorevoli, Berlusconi somiglia sempre di più a quell’orribile idolo pagano che soleva succhiare il nettare dal cranio degli uccisi. La prematura morte politica di Alfano è la condizione per la resurrezione del condottiero di Arcore. È vero che il Cavaliere si riprende il comando perché sente che attorno a lui non opera un vero partito. Ma è altrettanto certo che a destra nessun partito potrà nascere se ogni delfino tra i piedi si ritroverà sempre un padrone scomodo che decide a sua discrezione assoluta il leader, il nome, il simbolo.
Alfano mette la parola chiuso ai cantieri per edificare un partito della destra perché non ha osato sfidare il capo. All’origine del suo fallimento c’è la volontà subalterna di rimanere all’ombra di Berlusconi rinunciando a sfidarlo apertamente. Così, nella Lega, ha fatto Maroni che ha promosso un nuovo gruppo dirigente e ora cancella il nome di Bossi dal simbolo del partito. Non si esce da un partito personale (e padronale) senza una grande discontinuità.
Finché in giro si agita il Cavaliere, il partito, inteso come una struttura organizzata autonoma e quindi provvista di procedure e di organi indipendenti, può attendere. Quello che per lui davvero conta è di avere delle truppe fedeli disposte all’obbedienza estrema. I deputati servono solo per proteggerlo nella titanica difesa degli interessi d’azienda ritenuti minacciati. Un progetto politico nel Cavaliere non emerge, se non come una mossa strumentale per l’autotutela del suo potere economico.
Anche Berlusconi sa bene di essere precipitato ai margini del gioco politico principale. In vista della prossima tornata elettorale, se manterrà fede al proposito di dare fuoco alle polveri e non cederà a qualche consiglio di calcolare meglio le convenienze, egli conta di presentarsi a Montecitorio alla testa di un centinaio di deputati sempre fedeli alla causa. Non spera certo di trionfare, ma conta di disporre comunque di una compatta pattuglia personale-patrimoniale pronta a negoziare, minacciare, contrattare l’agenda con il vincitore.
Se poi dal voto uscisse confermato il disegno per il quale lavorano da mesi anche molti grandi giornali, e cioè una sostanziale condizione di ingovernabilità, per la presenza in aula di tante liste e di cordate antipolitiche non coalizzabili, allora potrebbe anche sperare di essere (proprio lui che invocava il ritorno alla lira) arruolato tra le armate irregolari dei responsabili, disposti a consegnare di nuovo le chiavi del potere in mano al tecnico.
Quello che torna a sbandierare i sondaggi che narrano di un inesistente miracoloso effetto leader, non è un Berlusconi bipolare che da guastatore sfida il mondo con lusinghe e castighi, ma è un Cavaliere rassegnato che cerca di sbarrare la strada alla sinistra con una nuova arma letale, quella del pareggio non in bilancio, ma in aula. Gli piace questa condizione di indecisione permanente (finché nulla turba le pretese di Mediaset nel campo dell’etere).
Con l’illusione di sospendere la politica grazie alla soluzione tecnica gradita ai mercati, si strapazza in realtà solo la buona politica, quella che ovunque si divide in maniera fisiologica tra una destra e una sinistra, mentre si favorisce la presa di massa delle degenerazioni dell’antipolitica, che cavalca la santa guerra contro la casta. I giornali di famiglia di Berlusconi annusano che nel silenzio coatto della politica si può persino sognare il colpo grosso.
Quando qualcuno alza la voce contro la concertazione fonte di ogni male, irride il lavoro inteso come diritto e sfida i pensionati, minaccia il lavoro pubblico, gli enti locali, tutti i giornali di destra esultano. Sperano che dopo queste provocazioni, al Pd tocchi la sorte di Dorando Petri, cioè quella di accasciarsi in vista del traguardo, perché destrutturata ad arte la sua forza vitale che è proprio nel lavoro, nel ceto medio.
Il Berlusconi che dismette i panni del Masaniello per indossare alla svelta quelli di supporto al tecnico non ha un coerente disegno di sistema. Altrimenti, nell’ipotesi della sconfitta, avrebbe favorito il consolidamento della figura di Alfano che avrebbe messo i mattoni di una parvenza di partito. La tenuta del sistema Paese oggi è minacciata proprio da talune conversioni tecnocratiche. Una riedizione del governo di tregua renderebbe stabile quanto oggi si verifica già sulla legge elettorale, su cui si procede a rilento malgrado le insistite esortazioni del Colle. La paralisi, il ricorso a raffiche di voti di fiducia, il rinvio renderebbero sterile il funzionamento della macchina istituzionale, con gravi ricadute storico-politiche sulla qualità della democrazia.
Perciò, quale che sia la legge elettorale, una alleanza costituzionale tra progressisti e moderati rimane la sola alternativa valida per gestire l’emergenza economica, per restituire prestigio ed efficacia alle istituzioni e per rianimare una cultura politica altrimenti congelata.

l’Unità 14.07.12

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“La Minetti rinnegata specchio del Cavaliere”, di FRANCESCO MERLO

Ha relegato Nicole Minetti, che fu la sua mezzana-sottana, al ruolo della strega, della maga Circe che lo aveva trasformato in maiale, pur non essendo lui un marinaio di Ulisse. Uscito dalle scene orgiastiche che frequentava da assatanato, Silvio Berlusconi rientra dunque in politica come un Fra Cristoforo pentito e compunto e spinge Nicole alle dimissioni da consigliere regionale della Lombardia. Nel ruolo del ricandidato redento vorrebbe liberarsi di lei come di un peccato subito.
La debolezza di un giovane ultrasettantenne, la stecca di un tenore senza stile. E così il destino della Califfa, che Berlusconi fece eleggere nella lista bloccata di Formigoni, diventa lo stesso destino di Alfano, che sta a Silvio come il trota stava a Bossi, lo stesso destino di Emilio Fede e di tutti gli altri. E chissà quante e quanti ancora ne vedremo cadere in questa eterna commedia che per Berlusconi è la politica.
Impresario teatrale, il Cavaliere assegna ruoli che sono sempre estremi perché ha un alto senso della comicità. E difatti la Minetti, che adesso per lui è la maliarda malafemmina, fu «la lady che, splendida, competente, studiosa, laureata con lode e con un inglese di madre lingua, permetteva alla Regione Lombardia di fare una bellissima figura con gli ospiti internazionali ». Allo stesso modo Alfano si ritrovò ministro della Giustizia, delfino, candidato premier: l’uomo che fu per diventare ticket.
E Fede fu il grande tele giornalista, Lavitola lo sherpa, Lele Mora il trimalcione… Ebbene, Berlusconi si è liberato di tutti loro come si è ora alleggerito di quattro chili di grasso.
E le dimissioni della Minetti sono come la vendita di Ibrahimovic e Thiago Silva al Paris Saint-Germain per 150 milioni in due anni, passaporti per la sobrietà di moda, come quella dieta sbandierata dai suoi giornali che lo raccontano smilzo e lesto al pari di un gatto, un aggiornamento dei finti capelli che Carlo Rossella gli metteva in testa truccando le foto di Panorama e degli album celebrativi di Alfonso Signorini. Insomma ancora un lifting che copre gli altri lifting, un’estrema mano di stucco su crepe mille volte stuccate.
Secondo le indiscrezioni, Berlusconi ha offerto alla Minetti la conduzione di uno spettacolo televisivo in prima serata. Non sappiamo se la Circe di Arcore accetterà il declassamento, proprio lei che aveva dichiarato a Repubblica: «Punto alla Farnesina». Sicuramente Silvio ha chiaro che, riportandola dalla politica attiva — «per te c’è un posto in Parlamento» le ripeteva — al “Colorado Caffè” dove la Minetti aveva esordito, ammette implicitamente la serietà delle imputazioni di induzione e favoreggiamento della prostituzione (anche minorile). La sola differenza rispetto ai pubblici ministeri, con i quali Berlusconi finalmente solidarizza nelle accuse alla sua Nicole ridotta a fattucchiera, è che quelli le prospettano la galera, mentre lui la vuole rinchiudere nel varietà televisivo. Ma ormai tutti sanno che le trasmissioni di risarcimento sono l’estrema risorsa che sta nel fondo del suo borsellino, l’ultimo pugno di granturco gettato ai tacchini e alle pollastre.
E tra le colpe di Berlusconi c’è anche il terribile destino di una bella donna, il cui seno diventava maestoso per lui e le cui labbra si sporgevano generose per lui, come se fosse questo il destino delle belle donne italiane: finire nella mani di un ramarro. Berlusconi incontrò un’affascinante arrabbiata di Rimini, che è la città delle donne di Fellini, e la trasformò in una sboccata madame de Pompadour che sceglieva e «briffava» e «confessava » le favorite per meglio farsi favorire. La proclamò maitresse di Stato e la Minetti fu la lupa, la capobranco e l’istitutrice delle Ruby, delle Iris e di tutte le ragazze stacchetto, «trasvestite» da infermiere o poliziotte, tutte bambole sexy. La Minetti, come risulta dalle intercettazioni, si vestiva da uomo, una specie di Calamity Jane, oppure danzava nuda nel Berlusconi-Satyricon. Di sicuro non aveva bisogno di passare di classe sociale come le altre ragazze che erano spinte dai fratelli e dalle mamme, tutte fiere del “mestieraccio” purché esercitato ad Arcore. La Minetti infatti chiamava Silvio «love of my life», era già in Consiglio regionale, amministrava appartamenti e beni immobili, il suo futuro era il ministero degli Esteri.
Poi, quando scoppiò lo scandalo, Berlusconi si spaventò. Proprio la Minetti poteva diventare in tribunale la sua tomba, l’arma letale contro di lui. Depositata nelle intercettazioni c’era infatti la sua voglia implacabile di vendicarsi, quando il sogno di farcela come la Carfagna, «come Mara», divenne un incubo: «Qua la cosa si fa grossa.
Sono nella merda seria più di tutti quanti». E dunque «per quel briciolo di dignità che mi rimane», per quel padre per bene che rimase ferito… E Berlusconi era «un pezzo di merda» e «quando si cagherà addosso per Ruby» e insomma «c’è un limite a tutto». E poi l’epigrafe più famosa: «È un culo flaccido».
Invece Berlusconi ne riconquistò il sorriso e se ne assicurò il silenzio. Per lui la Minetti affrontò, con il coraggio che Berlusconi non ha mai avuto, la Boccassini, il tribunale, gli avvocati, l’esposizione ai giornalisti e ai fotografi che la trattarono da donna pubblica: «Ogni volta che mi fate una domanda è sempre su Ruby e sul gossip. Ma io di questa vicenda non parlo». Persino adesso, che non si presenta in tribunale e rivendica «il legittimo impedimento», lo fa con un sorriso sardonico, sottolinea e scandisce «legittimo impedimento » con uno sfottò ammiccante e quasi sexy a favore di telecamera, e non certo verso la Corte. Il suo «legittimo impedimento», infatti, non è una formula giuridica ma una citazione, e quel sorriso seducente è «un mandare a dire», il messaggio di un’intimità sotterranea con il suo ex pigmalione, rispetto al quale giganteggia.
La Minetti è stata a un passo dalla propria liberazione, poteva decidere il palinsesto, tornare alla decenza, pulirsi del crimine: «Io al massimo prendevo le contravvenzioni, ma non arrivavo a commettere reati». Non l’ha fatto. E non l’ha fatto per lui che, rinnegandola, adesso rinnega anche quel se stesso mozartiano e libertino al quale noi non abbiamo mai creduto ma che i suoi giornali hanno lungamente esibito componendo con lascivia corriva il più triste elogio del mascalzone della storia della pubblicistica italiana. La verità è che il satrapo lazzarone e gaudente, il Caligola orbo di crudeltà ma sazio di lussuria, è un vecchio sconfitto che non sa uscire di scena, non riesce a lasciare il palco e come in Amici miei atto terzo si ricovera nella naftalina, pur disprezzando i propri coetanei che ieri, in 150, all’hotel Ergife hanno inutilmente sperato di applaudirlo.
Non c’è andato. Ha saputo che quella era claque reclutata in un centro anziani: «Basta con tutti questi vecchi». Eppure è solo da loro che può ora farsi eleggere a capo di una destra perdente da casa di riposo. Perciò con energia arzilla tradisce anche la Minetti. E per dimostrare il proprio pentimento, come i vecchi sporcaccioni del Seicento, implicitamente l’accusa di essere l’organizzatrice dei diabolici sabba notturni di Arcore e poi, assumendosi il ruolo di giustiziere, la brucia nel pubblico autodafé delle dimissioni. Manca solo che dia l’incarico al ragioniere Spinelli di far radere al suolo l’Olgettina per erigere al suo posto una colonna infame.

La Republica 14.07.12

"Il futuro bosone e la ricerca massacrati dai tagli", di Antonio Zoccoli*

A volte per il pubblico risulta difficile comprendere il significato delle scoperte della scienza quali quella del bosone di Higgs, annunciata la scorsa settimana. La difficoltà sembra riscontrarsi anche quando si parla delle peculiarità e dell’organizzazione degli enti di ricerca italiani che hanno dato un contributo fondamentale a queste scoperte, come l’Istituto nazionale di fisica Nucleare (Infn). È infatti della scorsa settimana l’annuncio dei tagli programmati nella spending-review che colpiscono pesantemente l’Infn, basti ricordare che l’importo del taglio Infn è pari a 24 milioni di euro a fronte dell’importo totale per tutti gli enti di ricerca pari a 50 milioni. Benché in questo caso il governo non abbia applicato tagli lineari, ma abbia seguito un metodo che cerca di tener conto delle diverse situazioni, questa manovra colpisce in modo devastante l’Infn a causa della sua organizzazione e delle sue attività che risultano uniche nel panorama nazionale. L’Infn è infatti un ente con due peculiarità, da una parte possiede una grande dimensione internazionale, svolgendo molte delle proprie attività di ricerca in laboratori esteri, come il Cern di Ginevra. Dall’altra gestisce importanti infrastrutture di ricerca sul territorio nazionale. Questo implica che le spese dell’Infn per Beni e Servizi, su cui si sono concentrati i tecnici ministeriali per predisporre i tagli della spending-review, contengano diverse voci di considerevole importo direttamente legate alle attività di ricerca dell’Ente e quindi non comprimibili a meno di non voler comprometterle pesantemente. Ad esempio, a differenza degli altri Enti, l’Infn spende molto in missioni, specialmente all’estero. Questo è del tutto naturale visto che il “nostro” più grande laboratorio è a Ginevra, il Cern. Potremmo dire che ne siamo proprietari per statuto al 11,5% (quota proporzionale al Pil). Lì nostri ricercatori, borsisti e dottorandi si recano frequentemente e per periodi anche lunghi per costruire e far funzionare le complesse apparecchiature di avanguardia dei diversi esperimenti, nell’ambito di collaborazioni i cui ricercatori provengono da tutte le parti del mondo. Dalla partecipazione a queste attività, oltre ai ritorni di immagine, ne ricaviamo anche commesse industriali, rendendo competitivo un intero settore di imprese italiane di alta tecnologia. Nel capitolo formazione spendiamo una cifra definita esorbitante (circa 8 milioni di euro), ma in essa sono incluse le borse di dottorato che l’Ente finanzia alle Università, con cui abbiamo una stretto legame di collaborazione, i Post-Doc finanziati su fondi interni e quelli co-finanziati, nonché le borse per stranieri che per essere competitive a livello europeo devono avere un adeguato importo. In questo modo formiamo giovani che dovrebbero formare la futura classe dirigente del nostro paese, con cultura e contatti internazionali e conoscente tecnologiche d’avanguardia, in sostanza stiamo finanziando il futuro del nostro paese. Inoltre, rispetto agli altri Enti, il consumo di energia elettrica dell’Infn, è molto elevato, questo è dovuto al fatto che tra le infrastrutture di ricerca che l’Ente gestisce sul territorio nazionale ci sono diversi acceleratori di particelle ed un centro di calcolo tra i più grandi ed efficienti al mondo. Tutti questi finanziamenti servono non solo alle ricerche dei ricercatori dell’Infn, ma anche a quelle di circa 3000 ricercatori e docenti universitari. Come ultimo punto bisogna anche sottolineare come anche il prolungamento del viincolo del turnover al 20% e le limitazioni sul personale abbiano un impatto molto negativo, infatti i nostri giovani migliori, non avendo una prospettiva di impiego in Italia se ne vanno a lavorare all’estero. Come dice il presidente dell’Infn, Fernando Ferroni: «Se l’Italia vuole uscire dalla crisi con una visione di lungo periodo, la scienza non può essere letta esclusivamente come un problema contabile. Anche perché le risorse tagliate sono, in termini assoluti, molto piccole, ma in termini di possibilità di operare, devastanti».

* Giunta Istituto nazionale di Fisica nucleare

L’Unità 14.07.12

"Va ora in onda sulla Rai la commedia degli inganni", di Giovanni Valentini

All’interno di un rapporto insano tra assetti proprietari, informazione e politica è dunque possibile che gli interessi pubblici vengano subordinati a quelli privati. (da “Alle origini dell’antipolitica” di Pino Pisicchio – Levante Editori, 2012 – pag.47). La Rai ha finalmente una nuova presidente, nella persona di Anna Maria Tarantola. Ma la nuova presidente avrà la Rai, cioè i poteri effettivi per guidarla e governarla? La questione sta tutta in questo interrogativo, per rispondere al quale bisognerà seguire attentamente le prossime mosse dei partiti nello spregiudicato gioco di potere che s’incrocia fra palazzo Chigi e viale Mazzini.
In tutta franchezza, l’impressione è quella di assistere all’ennesima commedia degli equivoci, o meglio degli inganni, intorno al controllo della radiotelevisione pubblica. E quindi della sua capacità di fare informazione e opinione, in vista delle future elezioni politiche. A voler azzardare una previsione, tanto più verosimile dopo l’inquietante annuncio della
rentrée di Silvio Berlusconi come candidato premier, si potrebbe già dire che la Rai è destinata purtroppo a restare ancora un campo di battaglia fra centrodestra e centrosinistra nel segno della più vecchia e consunta partitocrazia.
Con la minaccia estrema del commissariamento, nell’eventualità di una mancata nomina della signora Tarantola, il governo dei “tecnici” sembrava ben intenzionato a imporre un trasferimento di deleghe dal Consiglio di amministrazione alla presidenza, per innescare un rinnovamento radicale nella gestione dell’azienda pubblica. Ma le ottuse e interessate resistenze del centrodestra devono averlo indotto a più miti consigli. E così, in nome di un compromesso sottobanco, a viale Mazzini cambia tutto per non cambiare niente, come dice il Principe di Salina nel Gattopardo a proposito della sua Sicilia.
Non basterà certamente passare dal direttore generale al presidente il potere di spesa sui contratti o sugli appalti, elevando il limite dagli attuali due milioni e mezzo di euro a cinque o magari a dieci. Né affidare alla signora Tarantola le nomine interne dei cosiddetti capi-struttura. Occorre ben altro per affrancare la Rai dalla subalternità alla politica e per restituirla ai cittadini, telespettatori e abbonati.
Ma, in attesa di una riforma organica che liberi il servizio pubblico da questa sudditanza, che cosa potrà fare intanto il nuovo vertice di viale Mazzini? Poco o niente, a quanto è dato per il momento di capire, a parte magari una riduzione dei costi e un risanamento dei conti che comunque sarebbero due risultati apprezzabili. E a giudicare dalle voci e dalle indiscrezioni che circolano sui futuri direttori delle reti e delle testate giornalistiche, di competenza del Consiglio di amministrazione, sarà già tanto se la situazione non peggiorerà ulteriormente.
Qualche segnale positivo, per la verità, non manca. A cominciare dall’ipotesi di Lilli Gruber alla direzione del Tg1. È fuori dubbio che si tratta di una professionista di grande esperienza e valore; già inviata speciale e conduttrice del medesimo telegiornale; un’anchorwomanche oltretutto verrebbe sottratta alla concorrenza di un’emittente in crescita come La7. Per tutte queste ragioni, la nomina della Gruber alla guida del Tg1 potrebbe segnare una correzione di rotta nella deriva dell’ammiraglia Rai, dopo la disastrosa gestione Minzolini: al suo confronto, la coordinatrice di Otto e mezzo rappresenta senz’altro un modello di autonomia, indipendenza e anche di obiettività.
Non sarebbe invece una scelta apprezzabile quella di trasferire l’attuale direttore di Radio 1 e del Giornale radio unificato, Antonio Preziosi, alla guida di questo o di altri telegiornali: il crollo degli ascolti — registrato dalla prima rete, secondo i dati di diversi istituti di ricerca — non depone evidentemente a suo favore. E il fatto che Preziosi sia tuttora “consultore” del Papa per le comunicazioni, non si addice alla radio o alla tv pubblica di uno Stato laico. Né tantomeno sarebbe opportuno retrocedere Lorenza Lei dalla direzione generale dell’azienda a quella della Rete 1, dopo tutte le “epurazioni” decretate sotto la sua gestione.
Auguriamoci, soprattutto, che la nomina della signora Tarantola al vertice della Rai non corrisponda a un “voto di scambio” fra palazzo Chigi e viale Mazzini, all’insegna della partitocrazia. E che non rientri in questa logica anche il rinnovo ventennale delle concessioni televisive, disposte con eccessiva disinvoltura e generosità dal ministro Passera. Quando si chiedono sacrifici ai cittadini — come avvertì trent’anni fa Enrico Berlinguer nella celebre intervista a Eugenio Scalfari per il nostro giornale, ripubblicata in un volumetto dall’editore Aliberti — occorre anche “la capacità di colpire esosi e intollerabili privilegi”. Altrimenti, si rischia prima o poi di perdere credibilità e consenso.

La repubblica 14.07.12

"Garantire subito la stabilità", di Stefano Lepri

Senza inseguire fantasie di complotti, senza ascoltare gli arzigogoli dei nostri politici, la nuova valutazione di Moody’s sull’Italia è utile per riflettere meglio su come funziona la finanza globale. I mercati veri ne hanno tenuto scarso conto, in breve riportando i tassi dei titoli italiani dove stavano prima; l’importanza delle tre discusse agenzie di rating è oltretutto in calo, per recenti scelte delle istituzioni ufficiali.

Tuttavia i mercati finanziari sono un luogo dove si gioca d’azzardo. Ha poco senso domandarsi se Moody’s sia in malafede o no: nei casinò c’è chi fa delle scommesse, c’è chi ne fa delle altre. Alla base delle scommesse sono andamenti economici reali, ma il processo per cui una scommessa finanziaria si vince o si perde ha alla fine un rapporto assai mediato e contorto con gli eventi concreti del lavoro e del risparmio. Sopravvivere alla continua instabilità comporta: primo, che l’Europa non può più resistere così come è strutturata adesso; secondo, che la politica italiana non si può continuare a fare come la si è fatta fino adesso. Questo perché la possibile rottura dell’euro è diventata il gioco più attraente nel casinò mondiale, specie per molti giocatori che di recente hanno guadagnato molto meno di quanto desideravano.

La sorte dell’euro dipende parecchio da quanto accade in Italia. Inutile ormai interrogarsi su che cosa si sbagliò nel costruire l’euro così com’è. Nessuno tra chi criticava l’unione monetaria al suo inizio aveva previsto che la finanza globale l’avrebbe ingannevolmente favorita nella fase dell’euforia, e invece sospinta verso il tracollo nella fase della crisi. Tra i 17 Paesi l’Italia ha una speciale responsabilità, perché è un Paese grande con una politica fragile. Può anche esser vero, come afferma uno studio della Bank of America, che in caso di rottura dell’euro ce la caveremmo con meno danni della Germania, ma è come dire che conviene buttarsi in gruppo da un precipizio se possiamo sperare di romperci soltanto le gambe mentre ad altri capiterà di peggio.

Un circolo vizioso è possibile: la recessione rende gli italiani sempre più scontenti, i politici (sia vecchi sia nuovi) cercano di compiacerli con promesse assurde, gli altri Paesi si irrigidiscono, i mercati speculando ancor più sulla rottura dell’euro mandano alle stelle i tassi, la recessione si aggrava, si affermano scelte estreme. La novità è che la finanza accorcia enormemente i tempi: basta il timore che l’Italia diventi ingovernabile perché l’ascesa dello spread la renda già tale.

Ogni mossa spregiudicata, non cooperativa, da parte delle nostre forze politiche e sociali (non solo i partiti, i sindacati, la Confindustria, altri) alimenta gli azzardi dei mercati. Ogni mormorio di impazienza viene moltiplicato da una eco colossale, si trasforma in un boato. Per contrasto la modifica delle opinioni consolidate, rimasta ai tempi di prima, appare lentissima. Non è questione di offrire nuovi sacrifici al Moloch dei mercati, che stando così le cose non ne farebbero alcun conto. Occorre invece governarsi bene subito, ad esempio rendendo chiaro il senso degli interventi sulla spesa pubblica, sapendo discutere come migliorarli. Solo una garanzia di stabilità dell’Italia può aiutare la Francia a capire la necessità dell’unione politica, e la Germania a darsi ragione della solidarietà economica.

La Stampa 14.07.12

"Il capriccio del Qatar", di Gad Lerner

IL dominio della finanza sull’economia reale continua a riservarci sorprese poco gradevoli, accelerando il dirottamento della ricchezza mondiale verso latitudini remote. L’ultimo capriccio della storia si chiama Qatar. Chi l’avrebbe detto che in pochi decenni un lembo di terra arida e periferica, benedetta dal petrolio e dal gas naturale, avrebbe generato un progetto di egemonia mondiale fondato, anziché sull’ortodossia islamica dell’Arabia Saudita, sulla seduzione contemporanea dei canali televisivi, dello sport e dell’estetica globale (abbigliamento e auto di lusso)?
Evitiamo inutili allarmismi sulla prossima spoliazione del Belpaese, anche se il limitrofo tragitto greco non promette nulla di buono: la contemporanea cessione all’emiro del Qatar dei nostri stranieri d’oro Ibrahimovic e Thiago Silva (in via di esportazione al “suo” Paris Saint Germain), nonché della maison Valentino strapagata 700 milioni di euro, rappresentano movimenti di capitale finanziario per sua natura apolide piuttosto che cessioni di asset nazionali strategici. Ma è probabile che se Berlusconi vende i suoi gioielli a Al-Thani lo faccia in vista di business più sostanziosi: torna in politica giocando in difesa, deve mettere in sicurezza il suo patrimonio, e pazienza se i tifosi milanisti si arrabbiano. Mentre l’Italia declassata dalle agenzie di rating è percorsa dal sentore di ben altri affari in vista, a prezzi stracciati, per i cacciatori con gli occhi a mandorla, gli speculatori russi, i principi arabi.
Si rincorrono le voci sui cinesi che selezionano aziende emiliane di meccanica di precisione e trasferiscono a casa loro i tecnici dei lanifici messi in esubero dalle imprese biellesi; Unicredit non è la sola banca che capitalizza talmente poco da far gola ai nuovi ricchi di Mosca o Singapore; i genovesi Garrone e Malacalza s’erano già portati avanti vendendo raffinerie e acciaierie a russi e ucraini; poi ci sono le navi da crociera, la telefonia, gli stabilimenti automobilistici e chissà quali altre eccellenze nostrane… Spazzate via le velleità tremontiane e leghiste di resistere alla globalizzazione opponendole impossibili barriere protezionistiche, toccherebbe alla politica discernere quale sia il labile confine tra virtuosa apertura
agli investimenti stranieri e colonizzazione.
Abbiamo un presidente del Consiglio che impersona una scuola economica “amica del mercato”. Ignoriamo i contenuti del suo colloquio romano con l’emiro del Qatar avvenuto il 16 aprile scorso, quando Al-Thani denunciò burocrazia e corruzione quali ostacoli principali agli investimenti in Italia. Ma ricordiamo cosa disse Monti un mese prima, al termine di un colloquio con Marchionne e Elkann sul futuro dell’auto made in Italy: “Chi gestisce Fiat ha il diritto e il dovere di scegliere per i suoi investimenti e per le localizzazioni più convenienti”. Non fosse abbastanza chiaro, il premier
rincarò: “So bene che il legame storico tra l’Italia e il gruppo torinese non sempre è stato sano e che forse darebbe soddisfazione a un politico di vecchia maniera potersi vantare di aver insistito affinché la Fiat continui a sviluppare investimenti in Italia. Ma il governo preferisce suggerire che Fiat non ha nessun dovere di ricordarsi solo dell’Italia”.
Gli eventi successivi, con l’annuncio della prossima chiusura di un altro stabilimento da parte di Marchionne, ci ammoniscono su quale sia il prezzo salato di tale coerenza liberista, rassegnata al trasloco da Torino a Detroit già pianificato sotto il governo precedente.
L’aggressione speculativa ripresa con maggior lena nell’estate 2012 impone al governo di rendere pubblica la sua strategia di politica industriale, sia nei confronti di chi vuole allontanarsi che dello shopping in corso. Altrimenti resteremo ignoranti e stupefatti al cospetto dei nuovi ricchi, declinando solo la nostra impotenza: fra benvenuto servili e lamentazioni da “grande proletaria” in svendita.
Abbiamo letto troppi ritratti coloriti sui nuovi padroni esotici e sulle loro belle mogli. Li rappresentiamo col provincialismo di Totò le Mokò e con la meraviglia folkloristica di Fellini. Gradiremmo invece saperne di più sull’emiro Hamad bin Khalifa Al-Thani e sulla sua strategia egemonica così come su Alexander Knaster, il finanziere amico di Putin che muove sull’Unicredit tramite il fondo Pamplona.
Chi se non il governo deve spiegarci qual è il futuro dell’integrazione/penetrazione nell’economia nazionale di queste forze emergenti della finanza mondiale, in grado di muovere enormi capitali attraverso fondi sovrani oppure al riparo di opachi prestanome? Detto in altri termini: la nuova finanza si sta mangiando pezzi del sistema economico italiano o possiamo vincolarla a suo sostegno? Quali sono gli asset strategici, ad esempio nelle infrastrutture, nelle telecomunicazioni, negli armamenti, che debbono restare preclusi a simili acquisizioni?
Lo stesso mercato del lusso, nel quale finora l’Italia ha saputo mantenere posizioni di supremazia grazie alle sue tradizionali professionalità, in competizione con la Francia, sta proponendoci un dilemma che riguarda l’economia nazionale nel suo insieme. Il lusso “tira”, i suoi potenziali consumatori sono in aumento nei lontani Paesi emergenti. Questo spostamento massiccio della ricchezza mondiale può beneficiare in parte anche la nostra Penisola come esportatrice di beni, o la condanna alla marginalità? È una domanda cruciale per il nostro futuro. Sarebbe meglio non delegare la risposta all’emiro del Qatar.

La repubblica 14.07.12

"I fondi non salvano Pompei. Aperte solo quattro domus", di Alessandra Arachi

Stamattina gli scavi di Pompei rimarranno chiusi. Anche mercoledì mattina sono rimasti chiusi. E i sindacati, la Cisl in prima linea, giurano che continueranno così, a tenerli sbarrati un giorno sì e un giorno no, fino a quando non avranno quello che vogliono. Competenze accessorie non pagate da due anni. Ma pure un piano di riorganizzazione del personale. Sembra la ciliegina su una torta avvelenata.
Anche stamattina i turisti che da ogni parte del mondo arrivano qui per ammirare le rovine della città antica soffocata dal Vesuvio troveranno i cancelli serrati e faticheranno a capire perché un patrimonio dell’umanità possa essere gestito come il cortile di un condominio di periferia. Non sembra cambiato nulla, neanche adesso che sono arrivati 105 milioni di euro dall’Europa, tutti per gli scavi più invidiati del mondo.
Ieri, giovedì 12 luglio 2012, a chiedere all’ingresso quante domus era possibile visitare la risposta era secca: quattro. Nella cartina della Soprintendenza a disposizione per la visita (aggiornata, dicono) sono segnalate (con la possibilità dell’audioguida) una quarantina di domus aperte al pubblico. In realtà la casa dei Vettii, per esempio, è chiusa da almeno tredici anni, proprio come la casa degli Amorini dorati.
Forse basterebbe fare un salto nell’unica toilette presente negli scavi, lì all’interno del punto di ristoro, per capire. O per non capire affatto. Due mesi fa quei bagni si intasarono, i liquami fuoriuscirono, scivolarono giù e raggiunsero le pareti del Tempio di Giove. Non sono ancora stati riparati, i bagni. Difficile stupirsi. Girando per gli scavi si scopre che nessuno si è ancora premurato di proteggere affreschi che svaniscono giorno dopo giorno e mosaici che si sgretolano gonfiati dall’acqua e seccati dal caldo.
Un mosaico per tutti? Il più simbolico, forse. Il Cave canem, attenti al cane, con la bestiola che vi accoglie all’ingresso della domus del Poeta tragico: quell’avvertimento è finito in tutti i testi di storia e di latino e almeno lì avrà la dignità della memoria. Nel suo originale di Pompei la scritta non si legge praticamente più.
«Hanno a disposizione 105 milioni di euro ma non si preoccupano di fare una semplice manutenzione ordinaria. E decidono invece di partire con i restauri di case praticamente sconosciute». Antonio Irlando, direttore dell’Osservatorio del patrimonio culturale regionale, guarda e riguarda la lista dei primi cinque appalti commissionati con i fondi europei e non capisce: «La casa del Marinaio? Neanche le guide qui a Pompei sanno dov’è. E quella delle Pareti rosse o del Sirico o del Criptoportico: perché andare a scegliere queste che non sono nemmeno segnalate sulle piante della Soprintendenza?». La quinta casa scelta per il restauro è la casa dei Dioscuri, una delle più importanti, che ieri era aperta al pubblico insieme alla casa del Fauno e a guardarle tutte e due veniva un senso di tristezza per tanto splendore lasciato allo sbaraglio.
Dalla casa del Fauno a vicolo Storto è una passeggiata piccola: non ci sono case importanti in questi vicoli che sono a pochi metri da via Vesuvio e da via Stabiana, il cuore della città antica, ma lo spettacolo del civico 37 basta da solo. È crollato un muro e non soltanto le macerie sono lì indisturbate, ma nessuno si è nemmeno premurato di denunciarlo.
«A Pompei ci sono soltanto 138 custodi divisi in cinque turni per 730 mila metri quadrati e quasi 3 milioni di visitatori l’anno», lamenta Antonio Pepe, il leader della Cisl locale. E aggiunge: «Questo a fronte dei 125 custodi che ci sono soltanto per i 9 mila metri quadrati e i 285 mila visitatori l’anno del Museo archeologico di Napoli. Non ha senso». Giusto. Però ieri, giovedì 12 luglio 2012, a girare di pomeriggio per le rovine di Pompei di custodi se ne poteva vedere uno, forse due. Tre, se qualcuno ci è sfuggito. Ma non di più.

Il Corriere della Sera 13.07.12

"La strana maggioranza si fa sempre più strana", di Francesco Cundari

Non stupisce la stizza con cui Pier Luigi Bersani ha commentato la notizia dell’incontro tra Mario Monti e una folta delegazione del Pdl, prontamente ricevuta a Palazzo Chigi per discutere «pesi e misure» all’interno della Rai. Poco dopo avere attribuito agli effetti della concertazione l’origine storica dei mali da cui oggi il governo tenterebbe faticosamente di guarirci, e nel pieno della pesante manovra di tagli ai servizi sociali chiamata «spending review» (tagli tutt’altro che concertati con sindacati ed enti locali), il presidente del Consiglio, evidentemente, trova il tempo di concertare proprio in quell’unico campo in cui davvero, da quarant’anni, si è concertato anche troppo: la tv.
Dalla «strana maggioranza», per usare l’efficace definizione con cui Monti ha battezzato l’eterogenea coalizione parlamentare che lo sostiene, era obiettivamente difficile aspettarsi luminose prove di coerenza, compattezza e coesione. E certo non può sorprendere che la televisione resti il «core business» del Pdl, l’unico argomento su cui non possa accettare mediazioni o concessioni di sorta, il solo tema dell’agenda di governo che stia davvero a cuore al partito del Cavaliere. Sorprende però che le pretese berlusconiane trovino così facilmente udienza presso Palazzo Chigi, e presso un presidente del Consiglio che della tutela del mercato e della concorrenza dalle interferenze della politica ha fatto forse uno dei principali impegni della sua carriera, sia come professore di economia sia come commissario europeo. Ma soprattutto colpisce la sequenza, dall’attacco alla migliore storia del centrosinistra – la collaborazione tra forze politiche e parti sociali con cui negli anni Novanta si salvò il Paese dalla bancarotta – alla reiterazione delle pagine peggiori delle cronache del centrodestra berlusconiano, con un intero partito ancora e sempre schierato a difesa degli interessi personali di un solo uomo, una sola azienda, un solo giro d’affari.
Non si può al tempo stesso condannare con tanta durezza le concessioni dei governi del passato alle parti sociali e accogliere con tutti gli onori a Palazzo Chigi la delegazione del partito-Mediaset che vuol discutere urgentemente degli equilibri ai vertici della Rai.
Ma soprattutto, se si vuole evitare che la «strana maggioranza» diventi addirittura surreale, occorre da parte di tutti grande senso di responsabilità e grande rispetto, innanzi tutto per la storia di questi anni e per la verità. Carlo Azeglio Ciampi è stato protagonista di uno sforzo collettivo e solidale del Paese per uscire dalla crisi dei primi anni Novanta che avrebbe ancora molto da insegnare, anche ai professori di oggi. I governi tecnici di quella fase, con tutti i loro limiti ed errori, si trovarono a fronteggiare difficoltà non minori di quelle di oggi. La riforma delle pensioni, tanto per fare un esempio, varata nel 1995 con la concertazione, fu un passaggio fondamentale nel percorso che permise all’Italia di avviare il risanamento ed entrare in Europa. La riforma delle pensioni della ministra Fornero, senza concertazione, vedremo quali risultati darà. Per ora ci ha dato un numero imprecisato di esodati rimasti scoperti, senza lavoro e senza pensione, abbandonati nell’angoscia. Con un po’ più di dialogo, se non proprio di concertazione, forse lo si sarebbe potuto evitare: le voci che avevano segnalato il problema per tempo, dai sindacati al Pd, non erano mancate. Ma il dogma ideologico secondo cui dar retta a partiti e sindacati è sempre un cedimento e una sconfitta delle riforme spiega forse più di ogni altra analisi perché quei semplici richiami al buon senso non siano stati ascoltati. C’è da augurarsi che prima o poi anche i professori più autorevoli possano imparare dai propri errori.

L’Unità 13.07.12