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"L'Italia senza una legge sulla tortura tradisce la convenzione europea", di Gian Antonio Stella

Cesare Beccaria non avrebbe mai immaginato che due secoli e mezzo dopo il suo Dei delitti e delle penel’Italia sarebbe stata ancora priva di una legge contro la tortura. E la lettera che Amnesty International ha inviato al governo ricordandogli l’impegno a introdurre il reato, impegno violato da 25 lunghissimi anni, è un atto d’accusa che ci umilia.
Era il 1987, quando l’Europa invitò gli Stati membri a ratificare la convenzione contro la tortura. Alla Casa Bianca c’era Ronald Reagan, al Cremlino Michail Gorbaciov, la Dc aveva il 34% dei voti, Napoli era in delirio per lo scudetto vinto grazie a Maradona, mezza Italia era innamorata di una Whitney Houston apparsa bellissima a Sanremo e i membri di un gruppo di ricerca di Pisa giravano gli atenei per spiegare come avevano fatto a collegarsi per la prima volta a Internet, di cui quasi tutti ignoravano l’esistenza.
Insomma, era tantissimo tempo fa. Già il 7 marzo 1988 l’Ansa segnalava che il governo maltese aveva provveduto a ratificare la convenzione europea e spiegava che «il governo italiano l’ha firmata ma non ha ancora proceduto alla sua ratifica». Quattro anni dopo, la stessa agenzia titolava «Onu: Italia assolta con riserva» e raccontava lo stupore del giurista svizzero Jospeh Voyame, presidente del comitato internazionale: «Siamo stati molto sorpresi nell’apprendere che lo Stato italiano non è responsabile degli atti illegali eventualmente compiuti dai suoi agenti». Altri sette anni e nel 1999 ecco un altro flash: «Diritti umani: Italia sotto esame al comitato contro la tortura». La cronaca: «I giuristi del Comitato da anni premono perché nei codici penali italiani sia inserito il reato di “tortura”».
In quello stesso anno Silvio Berlusconi, all’opposizione contro una sinistra assai distratta sul tema, firmava un’interrogazione parlamentare: «Perché nell’ordinamento italiano non è stato ancora introdotto il reato di tortura?». Indignatissimo, sosteneva: «Severe critiche sono state mosse all’Italia, nell’ultimo rapporto del Comitato per i diritti dell’uomo delle Nazioni Unite, a causa di tale mancanza…». Due anni dopo andava al potere, salvo la parentesi prodiana, per un decennio. E il reato di tortura? Ciao.
Peggio, il 6 febbraio 2009 il Consiglio italiano per i rifugiati registrava amaro: «Ieri il Senato, durante le votazioni riguardanti il cd “Pacchetto sicurezza 2” ha respinto per appena 6 voti (123 sì, 129 no, 15 astenuti su 268 votanti) l’emendamento sostenuto dalla sen. Poretti e dal sen. Perduca insieme ad altri 70 senatori di opposizione e maggioranza per l’introduzione del reato di tortura nel nostro codice penale…». La risposta del governo fu indimenticabile: la definizione del reato era «troppo vaga». Si trattava della traduzione letterale della Convenzione Onu. Già adottata da tutti i Paesi civili.
È una lunga storia proprio brutta, quella della legge sulla tortura italiana. Che ha gettato sale sulle ferite di uomini come Luciano Rapotez, che a 93 anni ancora aspetta che qualcuno gli chieda scusa (anche il Quirinale potrebbe ben battere un colpo…) per le torture subite, con danni permanenti, nel lontano 1955. O come i ragazzi vittime delle violenze nella caserma di Bolzaneto e nell’irruzione alla scuola Diaz durante il G8 genovese del 2001, ragazzi che secondo i giudici furono trattati in modo «inumano e degradante ma non esistendo una norma penale, l’accusa è stata costretta a contestare agli imputati l’abuso d’ufficio». Per non dire di altri casi come quello di Federico Aldrovandi alla cui madre nei giorni scorsi il capo della polizia Antonio Manganelli ha inviato quella lettera così importante: «È giunto il momento di farvi avere le nostre scuse».
Per questo, dopo tanti anni, sarebbe importante se Paola Severino rispondesse con atti concreti alla lettera ricevuta dalla direttrice italiana di Amnesty International Carlotta Sami, che invita il ministro della Giustizia a «esercitare un ruolo fondamentale nell’assicurare che l’Italia introduca finalmente nel codice penale il reato di tortura» e in particolare ad «assicurare l’attuazione della Convenzione in tutte le sue parti, inclusa quella fondamentale di introdurre il reato di tortura nel codice penale, un preciso obbligo del governo italiano, sinora disatteso, con effetti pratici molto negativi che non hanno mancato di farsi sentire in processi in cui le responsabilità di funzionari e agenti dello Stato erano soggette ad accertamento». Come, appunto, i casi genovesi già citati per i quali, ha scritto su La Stampa Vladimiro Zagrebelsky, a lungo giudice della Corte europea dei diritti dell’uomo, «se fosse previsto il delitto di tortura, necessariamente le pene sarebbero ben più gravi e la prescrizione non si applicherebbe o avrebbe un termine molto lungo».
C’è chi dirà che «in fondo cosa sarà mai, tanto non c’è più la ferocia di una volta». Quella che ne Le raneAristofane elenca con amaro sarcasmo: «Crocifiggilo, appendilo, frustalo, scuoialo, torturalo, mettigli l’aceto nel naso…». Quella esercitata contro i due poveretti giustiziati come «untori» durante la peste del 1630 la cui sorte è ricordata in Storia della colonna infame da Alessandro Manzoni: «A) Il Barbiero Gio. Giacomo Mora et il Commissario Guglielmo Piazza posti sopra un carro sono ferragliati nelli luoghi più pubblici della città. B) Nel corso detto il Carrobbio è loro tagliata la mano destra. C) Nel luogo della giustizia sono spogliati nudi. D) Con la rota se gli rompeno le ossa delle gambe, delle coscie, delle braccia. E) Si alza sopra un palo la rota, nella quale sono intrecciati, e vi stanno vivi per lo spazio di sei hore. F) Sono scannati. G) Abbruggiati…». È vero, fino a quegli abissi di malvagità non si spinge più nessuno. Ma vivere in un Paese in cui non è previsto quel reato è diventato, 234 anni dopo la pubblicazione delleOsservazioni sulla tortura di Pietro Verri, insopportabile.

Il Corriere della Sera 13.07.12

"Editoria, nuove regole per il finanziamento pubblico", di Roberto Monteforte

Sono legge i nuovi criteri per l’assegnazione dei fondi pubblici per l’editoria alla stampa no profit, di idee, politica, cooperativa e delle minoranze linguistiche. Ieri la Camera ha convertito in legge il decreto del governo predisposto dal sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Paolo Peluffo. A favore hanno votato 454 parlamentari, i contrari sono stati 22 (idv e minoranze linguistiche) e 15 gli astenuti.
Tra le principali innovazioni introdotte dal decreto vi è la correlazione tra contributi e vendite effettive delle testate. Passa al 25% (attualmente è al 15%) la percentuale relativa al rapporto tra le copie vendute e quelle distribuite necessaria per accedere ai contributi. Per le testate locali la quota è del 35%. Vengono considerate testate nazionali quelle che vengono distribuite in almeno tre regioni. Il 50% del contributo alle testate è calcolato in base ai costi per il personale dipendente, per l’acquisto della carta, della stampa e per gli abbonamenti ai notiziari delle agenzie di stampa. Tra i criteri per accedere al contributo vi è l’occupazione: il numero dei dipendenti, in prevalenza giornalisti, assunti a tempo indeterminato.
«La legge rende finalmente chiaro che l’editoria è un settore che merita sostegno pubblico soltanto sulla base di criteri di trasparenza e di qualificazione professionale espressa e misurata attraverso il lavoro giornalistico regolarmente inquadrato secondo contratto collettivo, diritto del lavoro e obblighi previdenziali» commenta il segretario generale della Federazione Nazionale della Stampa Italiana, Franco Siddi. «Contributi sì, ma a giornali veri, fatti da giornalisti e solo se espressione di idee politiche, culturali, cooperative vere, minoranze linguistiche o destinati alle comunità italiane all’estero» osserva e mette il dito nella piaga: quella del finanziamento. «Tale legge sarebbe sprecata e inutile se resterà senza adeguata copertura di fondi, visto che per l’esercizio in corso, sinora, sono previsti solo 57milioni di euro». Chiede al governo di dare seguito all’ordine del giorno presentato dall’onorevole Giulietti e approvato, che prevede un’adeguata copertura finanziaria alla legge. Siddi chiede anche di dare esecuzione all’ordine del giorno sull’«equo compenso» del lavoro dei giornalisti autonomi e precari, presentato dagli onorevoli Moffa e Carra.
Non nasconde la sua soddisfazione anche il senatore Pd, Vincenzo Vita. Parla di «una piccola luce nel cielo plumbeo della concentrazione e dell’omologazione dei media». «Naturalmente si tratta del primo atto aggiunge che si completerà attraverso l’approvazione della più complessiva riforma del settore. Sono state introdotte novità assai significative, volte a moralizzare i criteri di erogazione del vecchio Fondo per l’editoria. Essi, d’ora in poi, si baseranno sui fondamentali criteri dell’occupazione e delle copie effettivamente vendute. Inoltre, viene garantita la modalità on-line di diffusione dei giornali permettendo continuità nei finanziamenti. Si delegificano i blog di piccole e medie dimensioni e si tutelano le testate per gli italiani all’estero». Vita, che ringrazia il sottosegretario Peluffo «per il suo impegno e la sua determinazione», sottolinea che ora l’obiettivo oltre alla riforma, è quello di «rimpinguare il fondo dell’editoria, ridotto e non adeguato alle necessità minime di sopravvivenza delle tante testate interessate».
Il prossimo passaggio sarà l’esame del provvedimento che conferisce al Governo una delega, da esercitare entro 12 mesi dalla data di entrata in vigore della legge, per la definizione di nuove forme di sostegno all’editoria e per lo sviluppo del mercato editoriale.

l’Unità 13.07.12

Bersani a Monti: «Noi preferiamo la concertazione», di Maria Zegarelli

Al leader Pd non sono piaciute le esternazioni del premier «Le riforme migliori le ho fatte sempre col dialogo». Intervista al Financial Times che lo definisce un leader responsabile «in grado di vincere le elezioni». All’Assemblea nazionale di domani i punti cardine della Carta di intenti da sottoporre ai futuri alleati. Quelle parole pronunciate l’altro ieri dal presidente del Consiglio Mario Monti «esercizi profondi di concertazione in passato con le parti sociali hanno generato i mali contro cui noi combattiamo e a causa dei quali i nostri figli e nipoti non trovano facilmente lavoro» non sono piaciute affatto in Largo del Nazareno. E ieri il segretario Pd lo ha esplicitato calibrando le parole ma con determinazione. Il dialogo e la concertazione «fanno bene a tutti», dice Pier Luigi Bersani arrivando nella sede Pd dopo l’incontro al Quirinale con Giorgio Napolitano con il quale ha discusso di legge elettorale.
LA CONCERTAZIONE
«Ognuno ha la sua esperienza, e io rispetto le esperienze di tutti. La mia commenta , di esperienza, mi dice che a me è capitato di fare riforme anche piuttosto notevoli, sempre con la discussione e il confronto. Certo, senza che qualcuno assumesse un diritto di veto, ma anche senza pensare che fosse inutile discutere».
Evidente il riferimento alle sue famose «lenzuolate» e al braccio di ferro con commercianti, banche, assicurazioni e farmacie. Non furono momenti facili con le forti resistenze di lobbies e poteri forti, ma proprio quell’esperienza, tra le altre dei governi di centrosinistra, ricordano al Nazareno, dimostrano che «le riforme si possono fare anche con il dialogo».
E se non è certo un mistero che Monti non abbia mai «digerito» troppo la concertazione è pur vero che se lo ribadisce in qualità di premier le sue parole assumono un valore molto diverso. Parole che non sono piaciute affatto a Susanna Camusso la Cgil ha annunciato uno sciopero generale contro la mannaia su pubblica amministrazione e lavoro e che sono state lette come una sorta di monito alle forze politiche che come il Pd su alcuni temi sono più vicini al sindacato che non alle misure individuate dal governo su sanità, tagli agli enti pubblici e la famosa questione degli esodati. È pur vero che nello stesso Pd c’è chi proprio in questi giorni, alla luce delle tensioni tra forze sociali e governo, chiede maggiore coerenza tra quanto si fa in Parlamento sostegno leale a ogni provvedimento dell’esecutivo e alcune dichiarazioni di dirigenti molto critiche.
VERSO L’ASSEMBLEA
Il segretario sa bene quanto alta sia la tensione nel suo partito. Chi preme per la data delle primarie; chi accusa mal di pancia dovendo votare alcune misure del governo e chi sostiene «senza se e senza ma» l’attuale esecutivo e non ne può più dei «distinguo» di alcuni dirigenti. In una intervista al Financial Time che lo ha definito un politico «responsabile», in grado di vincere le elezioni, niente a che vedere con lo stile «sgargiante e sguaiato ma incisivo» di Beppe Grillo Bersani pur ribadendo alcune critiche è tornato a difendere il premier e il suo operato. Intanto, nell’intervista, sembra rispondere indirettamente sia a Pier Ferdinando Casini sia ai quindici parlamentari Pd, che chiedono continuità con l’operato di Monti anche dopo il 2013, assicurando che soltanto il suo partito può garantire la stagione di riforme avviata dall’attuale governo, cosa di cui si dice grato al presidente del Consiglio.
Poi, puntualizza: «Ci sono cose che Monti ha fatto e non mi sono piaciute? Certo, ne posso elencare molte. Ma non sento di poter rimproverare Monti, che ringrazio per essersi assunto la responsabilità del Paese, bene e con credibilità». Dunque par di capire che il leader democratico non giocherà la sua campagna elettorale sulla discontinuità tout cour come invece ha fatto il neopresidente francese Francois Hollande perché le politiche del governo tecnico lasceranno «un’impronta, un’eredità. Non è solo un momento di transizione ma anche di responsabilità dopo gli anni delle favole di Berlusconi».
Tuttavia Bersani, che all’Assemblea nazionale di domani annuncerà quali saranno i punti cardine della Carta di intenti da sottoporre ai futuri alleati, intende dare un tratto di profondo riformismo alla prossima legislatura senza per questo rinunciare al confronto con le parti sociali e a percorsi che pur garantendo i «saldi» stabiliti per tener fede agli impegni europei non è affatto detto siano quelli individuati dall’attuale governo. All’appuntamento di sabato guarda con grande attenzione Nichi Vendola che nei giorni scorsi ha avuto un lungo colloquio con il segretario dei democratici. Vendola si aspetta proposte incisive soprattutto su lavoro, innovazione, diritti civili, sviluppo, ambiente ed energie rinnovabili. Come sulle alleanze, d’altra parte, perché da Sel guardano con grande preoccupazione a quanti nel Pd lavorano per una coalizione con dentro l’Udc di Casini. «Ci aspettiamo molto dall’Assemblea di sabato perché può essere il momento di chiarire definitivamente il percorso dice uno stretto collaboratore del governatore pugliese che il Pd vuole fare e se ci sono le condizioni per Sel per stringere un patto di alleanza oppure regolarsi di conseguenza».

l’Unità 13.07.12

“Senza regole e senza fondi la nostra battaglia solitaria per difendere l’Appia Antica”, di Francesco Erbani

Da quando dirige l’ufficio della Soprintendenza che tutela l’Appia Antica, l’archeologa Rita Paris fa l’archeologa per un venti per cento del suo tempo. L’ottanta lo spende in altre incombenze. Mettere vincoli. Rigettare richieste di condoni. Studiare le carte degli avvocati pagati da chi non vuole vincoli e invoca condoni. Aggirarsi fra le norme che dovrebbero proteggere questo territorio di stupefacente bellezza, e che invece si aggrovigliano in un campionario di inefficacia. Sgranare gli occhi per scovare quali schifezze nascondono le plastichette verdi di un cantiere. Difendersi dal fuoco amico. Sollecitare i suoi superiori al ministero fino a strattonarli se si assopiscono. Tenere a bada la solitudine che, quando stringe la gola, le fa dire che tutto questo non ha senso e, subito dopo, che se mollasse sarebbe peggio. L’Appia Antica è un’area di verde e di archeologia grande 3.800 ettari. L’antica strada romana scorre fiancheggiata di pini a ombrello in un lembo di campagna che arriva nel cuore di Roma. Rita Paris la custodisce dal 1996, quando gliel’affidò l’allora soprintendente Adriano La Regina. Dal 2004 dirige anche il Museo Nazionale Romano a Palazzo Massimo, che al pregio dei capolavori, alla qualità delle mostre, affianca un’affabilità dell’accoglienza altrove ignota. Lavora alla Soprintendenza dal 1980. Il suo quartier generale è a Villa Capo di Bove, qualche centinaio di metri dal monumento simbolo dell’Appia, la tomba di Cecilia Metella. Il vecchio proprietario, un importatore di frutta, aveva ceduto al vezzo di molti residenti sull’Appia: conficcare nella facciata ogni sorta di lapidi romane. Antonio Cederna dedicò a quest’abitudine di amare l’antico solo se fatto a pezzi esilaranti racconti. Dall’alto della villa, che ora di Cederna conserva l’archivio, si spalanca una vista su Roma che mette i brividi. Fu lei a battersi perché Capo di Bove fosse acquisita dallo Stato. E davanti alla villa ha scavato uno spettacolare complesso termale del II secolo. «Era il 2002. Quell’operazione creò panico. Ho subìto interrogazioni parlamentari, qualcuno fece circolare l’accusa che La Regina e io avessimo condotto false gare d’appalto. Ma il direttore generale del ministero, Giuseppe Proietti, ci sostenne. Spendemmo 3 miliardi di lire. Ormai quella stagione si è chiusa». Perché? «Né la Soprintendenza né il ministero proseguono negli acquisti. Eppure alcuni privati si sono fatti avanti per vendere reperti che sono nelle loro proprietà». Per esempio? «Ci è stato offerto il Sepolcro degli Equinozi, uno dei monumenti ipogei di maggior rilievo che conosciamo. Chiedono un milione, forse si può trattare. Ma mi hanno detto che non c’è un soldo». Sono monumenti visitabili? «Spesso non sono neanche visibili. Una volta per fotografare il sepolcro di sant’Urbano dovemmo salire sul cofano di una macchina, tanto alta era la recinzione issata dai proprietari. Lì intorno stiamo scavando e abbiamo rinvenuto materiale strepitoso – strade, incroci, cippi. Il sepolcro lo avrebbero venduto a un miliardo di vecchie lire. Ora, chissà, costerebbe ancora meno. Ma non c’è niente da fare. Per me è una pugnalata». Tranne la strada, Capo di Bove e altre particelle, l’Appia è tutta privata. «Sì, nonostante il vecchio Piano regolatore di Roma la destinasse a parco pubblico. Questa prospettiva è smarrita. Ma è smarrita ogni certezza sulla tutela di questo patrimonio. Solo lo scorso anno ho ottenuto che l’ufficio legislativo del ministero producesse una circolare in cui si stabilisce che il nostro parere è obbligatorio e vincolante su tutto ciò che si vuol fare sull’Appia». Un piccolo passo avanti. «È una circolare, non una legge. Pensi che appena qualche giorno fa il Demanio ci ha consegnato la via Appia dichiarandola monumento nazionale e non strada comunale come tutte le altre». Sbaglio o questo avviene con un po’ di ritardo? «Non sbaglia. Ma è comunque merito degli attuali dirigenti del Demanio. Ora dovremo dettare le regole per la gestione. Metteremo dei cancelli, la strada non sarà più percorribile come una normale via di scorrimento. Ma il mio più grave cruccio resta intatto: io sono costretta a rincorrere gli altri per esercitare la tutela». Che vuol dire? «Se qualcuno, poniamo, vuol ampliare un capannone, fa una richiesta al Municipio. Sempre che io lo venga a sapere, prendo carta e penna, scrivo a quel qualcuno e gli dico: guardi che lei deve sottoporre anche a noi il suo progetto». Non c’è la consapevolezza di quanto l’Appia sia un luogo speciale. «Manca l’idea che questo sia un territorio unitario. Tutto il contesto paesaggistico è di interesse, non solo i monumenti, lo documentano secoli di indagini. Eppure quando proponiamo un vincolo, chi fa ricorso trova un giudice del Tar per il quale se non ci sono reperti e se la strada romana dista venti metri dalla proprietà, il vincolo è illegittimo. Ma sui vincoli ho incontrato resistenze anche dentro il ministero ». Quando? «Dietro la tomba di Cecilia Metella c’è il Castrum Caetani. Lì i proprietari hanno commesso degli abusi a ridosso di una torretta medievale per i quali hanno avviato il condono. Ho chiesto almeno quattro o cinque volte agli uffici comunali di poter vedere le pratiche. Ma invano. Alcuni anni fa ho messo un vincolo. L’allora ministro Francesco Rutelli era contrario e il direttore regionale, Luciano Marchetti, firmò il decreto con riserva. La proprietà ha fatto ricorso e il giudice ci ha dato torto. Il motivo è sempre lo stesso: occorre vincolare solo il monumento. Io sono convinta del contrario e appena possibile il vincolo lo rimetteremo ». Quali abusi si commettono sull’Appia? «Qualche giorno fa ci hanno segnalato lo sbancamento di una collina di lava proprio qui, dietro Capo di Bove. Non so a cosa mirassero, forse a costruire un deposito. Noi denunciamo. Ma in tutti questi anni nessuna delle denunce ha avuto effetti. Si fanno gli abusi e non si torna indietro. Chi aveva un annesso agricolo lo ha trasformato in una villa. Poi ha costruito la piscina, chiedendo l’autorizzazione per un bacino di riserva idrica. La roba sta tutta lì: stabilimenti, concessionarie di auto, impianti sportivi, ristoranti. Persino i vivai usano il cemento». E voi? «Nel mio ufficio siamo tre donne a controllare questo territorio. Appena vediamo una recinzione ci mettiamo in allarme. Sulla mia scrivania giace una montagna di pratiche di condono che neanche si dovevano accettare, ma che una volta presentate bloccano la demolizione. E aggiungo che per respingere le domande tocca a me l’onere di giustificare il rilievo archeologico ». La sua è una condizione esemplare della grave sofferenza in cui versa la tutela dei beni culturali in Italia. «Siamo sempre meno, sempre più stanchi e le nostre fatiche sono spesso frustrate». La sua fatica più grande? «Far capire anche al ministero quanto è grave questa situazione. Un anno fa, all’inaugurazione di una mostra, venne il ministro Galan. Il suo consigliere Franco Miracco mi aprì le porte dell’ufficio legislativo, che ha prodotto la circolare che le dicevo. Andrea Carandini ha fatto approvare un documento sull’Appia dal Consiglio superiore dei Beni culturali. Ma poi non è successo nulla. Mi preoccupa non essere riuscita a fissare nessun punto fermo. Tutto è affidato all’impegno dei singoli. E i singoli si sentono soli». L’attuale ministro? «Mai visto». Quanto guadagna? «1.700 euro al mese, quando ci sono anche le maggiorazioni».

La Repubblica 13.07.12

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“Paesaggio e opere d’arte, beni comuni come l’acqua”. Parla Francesco De Sanctis, appena nominato presidente del Consiglio superiore del Mibac, di Dario Pappalardo

«Lo sosteneva già Marx: la natura così come era uscita dalla mano del creatore non esiste più. Dobbiamo ritrovare lo spirito del luogo, imparare a rileggere e a valorizzare il paesaggio». Francesco De Sanctis, appena designato dal ministro Ornaghi presidente del Consiglio superiore per i Beni culturali, ama citare l’autore del Capitale: «L’ho sempre fatto leggere ai miei studenti: l’analisi della forma sociale moderna non può prescindere da lui».
Napoletano, classe 1944, filosofo del diritto, rettore per diciotto anni dell’Università Suor Orsola Benincasa di Napoli, De Sanctis, che vanta una omonimia ma nessuna parentela con il primo grande storico della letteratura italiana, sta per insediarsi al vertice del maggiore organo consultivo del Mibac. Occuperà lo stesso posto che ha visto dimettersi prima Salvatore Settis e poi Andrea Carandini. «Mi interessa essere al servizio di questa causa in maniera gratuita e libera; mi porrò in linea di continuità con i miei predecessori – spiega – condivido molte idee con Settis. La mia formazione viene dalla filosofia del diritto, forse per questo sarò meno insofferente verso le ristrettezze del momento. Ma è inutile dire che questo è un ministero sacrificato».
Sacrificato dai tagli e da decisioni mancate, alle prese con un patrimonio artistico alla deriva – dai disastri di Pompei ai furti nella Biblioteca dei Girolamini – e con i musei pubblici vittime di budget annullati e commissariamenti: «Penso alla crisi del Madre di Napoli, che è stato un punto di riferimento per la città e che ora deve rinascere – dice De Sanctis –. Ecco, per un’impresa del genere mi impegnerei.
I miei venti anni al Suor Orsola, che è diventato esso stesso un museo e un punto di riferimento per la conservazione dei beni culturali possono essere utili per questo. Se già riuscissi a creare un rapporto di migliore collaborazione tra il ministero dell’Università e quello dei Beni culturali, sarebbe un buon risultato. Il bene culturale deve essere un luogo dove si incrociano la formazione e la conservazione ». Un bene pubblico, si spera.
«Sì, come l’acqua – ribatte il professore –. In questo senso, bisogna responsabilizzare i cittadini di fronte a questa ricchezza che non si può intendere in senso capitalistico. I profitti dei beni culturali si calcolano dopo secoli».
Sui prestiti dei capolavori all’estero, spesso sotto accusa – in questi giorni molti maestri del Rinascimento, Michelangelo compreso sono a Pechino – il neopresidente del Consiglio superiore per i Beni culturali non ha un’opinione negativa: «Purché la salvaguardia delle opere sia garantita, ben vengano operazioni di questo tipo. Possono essere tramiti di comunicazione con culture diverse e occasioni per chiedere ai Paesi riceventi contributi per il restauro e la conservazione ». De Sanctis vuole essere cauto: «Dopo Settis e Carandini bisogna entrare in questo ruolo con umiltà, senza avere in mente di poter cambiare il mondo. Nel settore viviamo una crisi trentennale. Oggi non si assume più, non c’è più rinnovo. I laureati che hanno studiato nell’ambito dei beni culturali sono dappertutto tranne che qui. Ma la battaglia non è persa».

La Repubblica 13.07.12

"Spending review, il Pd non ci sta: ecco gli emendamenti sulla scuola", di A.G. da La Tecnica della Scuola

Saranno presentati alla Camera e al Senato. Non piace la gestione dei soprannumerari, la trasformazione degli inidonei in Ata, la riduzione del contingente di prof da mandare all’estero e l’abbattimento del tetto delle tasse universitarie. Il Governo non potrà non tenerne conto. La posizione critica del Partito democratico sulla necessità di modificare molti dei provvedimenti inclusi nel decreto sulla spending review, approvato la scorsa settimana dal Cdm, si sta traducendo in una serie di emendamenti. Da presentare sia alla Camera che al Senato.
Nel primo caso a farsi portavoce della richiesta ufficiale delle modifiche da apportare al decreto salva conti dello Stato è la responsabile del settore per il partito, Francesca Puglisi, reduce da un incontro con una rappresentanza dei precari della scuola.
Puglisi ha detto che “l’Italia ha bisogno di una scuola pubblica di qualità per tornare a crescere. Per questo il Partito Democratico chiede con forza al Governo di correggere le misure sulla scuola che prevedono di immettere nelle classi, a prescindere dalla materia e dall’ordine di scuola per cui sono abilitati ad insegnare, 10.000 docenti in esubero, tagliando fuori altrettanti contratti annuali di docenti specializzati. Quelle risorse professionali in esubero possono essere utilizzate per rendere realtà l’organico funzionale delle scuole, previsto dal decreto semplificazioni”.
Il Pd non accetta nemmeno la sorte, tra gli Ata, che il Governo sembra aver assegnato ai 3.500 inidonei. “Chi è colpito da malattia – prosegue l’esponente Pd – deve poter continuare a dare il proprio apporto per tenere vive le biblioteche scolastiche o poter andare in pensione con i criteri pre Fornero o con l’istituto della dispensa, a meno che non si creda che sia indifferente la competenza e professionalità per l’efficiente funzionamento delle segreterie scolastiche”.
Critiche anche per la riduzione del contingente di prof da destinare all’insegnamento fuori l’Italia: Puglisi ha ricordato che “il totale degli insegnanti di ruolo e del personale ATA in servizio all`estero ammonta a 1.053 unità. Su questo totale è già prevista per il prossimo anno scolastico una riduzione di 59 unità. La Francia invia all`estero 6.500 insegnanti di ruolo, la Germania 1992. Questi numeri, da soli, dovrebbero far riflettere sull`importanza di mantenere una presenza qualificata nella promozione della lingua e della cultura all`estero”.
Intanto, nell’altro ramo del Parlamento, la senatrice Vittoria Franco, anche lei Pd, si preoccupa per l’abolizione dei “tetti” riguardanti le tasse di frequenza universitari. “In molti atenei, non ultimo quello di Firenze, – ha detto Franco – gli studenti stanno scendendo in piazza per protestare. Il provvedimento sulla spending review contiene infatti norme che consentirebbero l’aumento indiscriminato delle tasse universitarie, aggirando le disposizioni di contenimento attualmente vigenti. Si tratterebbe di aumenti intollerabili, visto che l’incremento delle tasse regionali sul diritto allo studio è già in vigore”.
Per questo il Pd si appresta a presentare emendamenti per rimuovere la possibilità di un ulteriore aumento delle tasse universitarie: secondo la senatrice Franco, la sua applicazione “penalizzerebbe non solo gli studenti già iscritti ma anche coloro che vorrebbero accedere agli studi universitari, già in diminuzione. Il rischio è, infatti, che si colpiscano i giovani più svantaggiati e che l’ascensore sociale diventi ancora più lento”.
Resta ora da capire come il Governo è intenzionato a replicare ad un eventuale accoglimento di questi emendamenti: il Pd, è bene ricordarlo, è uno di quei partiti che sostiene l’attuale esecutivo guidato dal premier Mario Monti. Il quale non potrà certo rimanere insensibile a certi messaggi, soprattutto se sostenuti da diversi parlamentari, anche di altri partiti. Ma il Governo non potrà nemmeno venire meno alle esigenze di far quadrare i conti pubblici. Anche i tempi ristretti e le alternative scarse giocano contro. È probabile, quindi, che ancora una volta si tenti la strada della mediazione. Con una conferma sostanziale dell’impianto ed alcuni emendamenti approvati (magari parzialmente). L’unica strada, a nostro parere, francamente percorribile.

La Tecnica della Scuola 13.07.12

“Cancellare la spesa per gli F35”, di Gabriele Isman

Il Pd presenta un emendamento contro gli aerei militari. No anche di Vendola e Verdi. Guerra agli F-35. Contro la spesa da 12 miliardi per i 131 velivoli si sono mossi sei senatori pd, preannunciando emendamenti a Palazzo Madama, i Verdi e Nichi Vendola, oltre alle 75 mila firme consegnate in Senato per la campagna “Taglia le ali alle armi”, promossa da Rete Italiana per il Disarmo, Sbilanciamoci! e Tavola della Pace. Un accerchiamento contro l’acquisto dei Joint Strike fighter già bocciati dai commentatori Usa di Foreign Politics e che, anche secondo il Pentagono, potrebbero essere senza difese in una guerra digitale. Per l’Italia quegli F-35 nella versione a decollo corto sono ideali per la portaerei Cavour, e così si sono salvati dalla scure della spending review. «Condividiamo la necessità di rivedere questa spesa» hanno spiegato i senatori democratici Francesco Ferrante, Roberto Della Seta, Roberto Di Giovan Paolo, Manuela Granaiola, Vincenzo Vita e Silvana Amati. La richiesta dei parlamentari è spostare i fondi su iniziative di carattere sociale. Duro anche Felice Belisario, capogruppo dell’Idv: «Soprattutto in questo particolare momento, l’inutile corsa allo shopping degli F35 è un vezzo che proprio non possiamo permetterci». Vendola ha parlato via Twitter: «Monti non ha coraggio di tagliare la spesa per gli F35 e per la schifezza delle spese per armamenti». Ma è Angelo Bonelli, presidente dei Verdi, a fare i conti su tutta la spesa militare in Italia, valutata 40 miliardi: «Perché invece degli ospedali il governo non deciso di ha tagliare i programmi per l’acquisto caccia bombardieri F-35 (12 miliardi); l’acquisto di 8 aerei senza pilota (1,3 miliardi); l’acquisto di 100 elicotteri Nh-90 (4 miliardi); l’acquisto di 10 fregate Fremm (5 miliardi); 2 sommergibili militari (1 miliardo); il programma per i sistemi digitali dell’esercito che costerà alla fine oltre 16 miliardi di euro? Ognuno di questi aerei da guerra costa più di 120 milioni, la cifra necessaria per costruire e far funzionare 83 asili nido». Il presidente di Legambiente, Vittorio Cogliati Dezza, stima invece in 791,5 milioni la somma che già nel 2012 si potrebbe recuperare tagliando i fondi militari, e per Roberto Messina, presidente di Federanziani, quei 20 miliardi sono «l’ennesimo sperpero di denaro».

La Repubblica 13.07.12

Franceschini «Dopo Monti, equità e coesione. Prepariamo il governo Bersani», di Simone Colllini

«Come abbiamo sperimentato in questi anni, ritenere irreversibili gli annunci di Berlusconi è un azzardo». Però ci sta che si candidi a premier, non crede onorevole Franceschini? «Dal suo punto di vista certamente, ha ancora molti interessi in campo e pur sapendo che non ha alcuna possibilità di vincere le elezioni sa anche che perderle al meglio, con liste decise da lui, è preferibile all’ipotesi di passare il testimone e scomparire». La candidatura di Berlusconi implica un confronto destra-sinistra e cancella l’ipotesi di un Monti-bis sostenuto da Pd, Pdl e Terzo polo?

«L’ipotesi non c’è, comunque. Non può esserci un nuovo governo sostenuto da avversari. L’esecutivo Monti ha una missione straordinaria, dovuta alla situazione d’emergenza e alla necessità di salvare il Paese dopo il disastro provocato da Berlusconi. Alla scadenza naturale della legislatura, si torna al fisiologico confronto: progressisti contro conservatori».

E il centro?

«Da due anni diciamo che per avere la certezza di vincere, per ragioni di stabilità in entrambe le Camere e soprattutto per riuscire a governare il Paese nel corso di una legislatura che sarà molto difficile, serve uno schieramento più ampio possibile, che parli a laici e cattolici, operai e imprenditori». Non è però un rischio l’apertura all’Udc, se fa perdere pezzi del tradizionale centrosinistra?

«Noi parliamo di un allargamento del nostro campo, che da solo non è sufficiente alla di ricostruzione necessaria, non di sostituire l’Udc con Vendola». Di Pietro però viene escluso.

«A parte che in uno schema che prevede un’alleanza tra progressisti e moderati possono starci Pd, Sel e Udc, mentre sarebbe difficile collocare Di Pietro. Dopodiché io non escludo nessuno a priori, è lui che deve decidere se seguire Grillo sulla strada dell’anti-politica o se è disposto a stare in una coalizione di governo, con regole precise. Purtroppo, tutti i comportamenti di Di Pietro, da quando è nato il governo Monti, segnano una deriva verso Grillo e non hanno traccia di cultura riformista. Speriamo si ravveda». Nel Pd c’è chi sostiene che l’agenda del prossimo governo debba essere in continuità con quella dell’attuale esecutivo: secondo lei?

«Io toglierei dal dibattito il tema della continuità. Monti sta affrontando con
strumenti di emergenza una situazione di emergenza. Ed è questo il motivo per cui lo sosteniamo anche se le scelte di questo governo non ci piacciono al cento per cento. Sapevamo che non essendo cambiata la maggioranza in Parlamento, ogni scelta sarebbe scaturita da una mediazione, e il nostro compito è apportare miglioramenti. Lo abbiamo fatto sulle pensioni, sull’articolo 18. E lo faremo sulla spending review. Tagliare la spesa pubblica va bene, ma se i tagli fanno diminuire i servizi e si colpiscono sempre gli stessi, perché qualcuno può per- mettersi di rivolgersi al di fuori della sanità pubblica e molti invece pagano sulla propria pelle le conseguenze dei tagli, allora delle correzioni vanno fatte». Allora ammette che pagano sempre gli stessi, anche con Monti premier. «L’emergenza costringe il governo a fare cassa il più rapidamente possibile, anche se con Monti è stata avviata una lotta meritoria contro l’evasione fiscale. Però è chiaro che siamo ancora dentro uno schema per cui i costi della crisi li pagano i lavoratori, i dipendenti, i pensionati, gli enti locali. Il prossimo governo dovrà affrontare il problema della redistribuzione, delle garanzie sociali, delle tutele a chi oggi non ne ha. Battaglie su cui progressisti e moderati possono trovare un terreno comune».

Casini dice che uno schieramento del genere può essere guidato sia da Monti che da Bersani: lei che dice?
«In ogni Paese si segue il principio per cui è il leader del partito più grande a guidare un governo di coalizione. Sia che l’alleanza sia limitata al nostro campo sia che ci si allei con alcune forze moderate, non c’è ragione perché non sia premier il segretario del partito che da solo fa più dei due terzi della coalizione».

Bersani ha però annunciato le primarie.

«Intanto vediamo con quale legge elettorale si andrà a votare, e poi con quale coalizione. Dopodiché vedremo come scegliere il candidato premier. Se fosse necessario fare le primarie, sarebbero da intendere come lo strumento rafforzativo della leadership del Pd». Sembra scontato che a correre nel Pd non sarà solo il segretario, però…

«Può anche essere che si candidino altri iscritti al Pd, ma logica, buon senso e statuto del partito dicono che non sono sullo stesso piano del segretario, che resta il candidato del Pd».

Dice che prima di tutto bisogna vedere con quale legge elettorale si andrà a vo- tare: il Pdl propone le preferenze.
«Per restituire agli elettori il diritto di scegliersi i propri eletti servono collegi uninominali, e mi chiedo se siamo un Paese senza memoria. Le preferenze fanno aumentare a dismisura i costi delle campagne elettorali e i rischi di corruzione. Nel ‘92, hanno originato la gran parte dei processi di tangentopoli. E ci sarà una ragione se in nessun grande Paese europeo ci sono le preferenze».

La concertazione genera mali, come dice Monti?

«Se concertazione vuol dire che non si può far nulla se non c’è il sì di tutti, non va bene. Ma se vuol dire che prima di approvare una riforma si cerca il massimo consenso con le parti sociali, è diverso. Soprattutto in una fase in cui c’è rischio di forti tensioni sociali non si può governare col pugno di ferro. Si deve cercare il massimo consenso e poi, senza accettare veti da parte di nessuno, si decide».

l’Unità 13.07.12