Latest Posts

"La lotta dei ricercatori: ci vogliono cancellare", di Maria Grazia Gerina

Stralciare dalla «revisione della spesa» pubblica almeno i tagli agli enti pubblici di ricerca. Il ministro Francesco Profumo, che ieri ha ricevuto i presidenti degli enti controllati dal Miur, assicura che proverà a correggere il tiro. Quei numeri, decisi a Palazzo Chigi, hanno fatto fare un salto anche a lui. «Ma sanno che la corrente che ci vogliono tagliare ci serve per gli acceleratori di particelle?», si inalbera Barbara, 42 anni, ricercatrice ex precaria dell’Infn, assunta da due anni. Una delle ultime “fortunate”. Si fa per dire. Se le cifre della spending review non saranno corrette, come dice il presidente dell’Istat, si fermerà tutto. E anche gli enti più “virtuosi” si trasformeranno in enti inutili, avvertono a voci alterne i presidenti, convocati dal ministro (già prima della spending review) per discutere come ristrutturare (altrimenti) la spesa, i sindacati, Flc Cgil, Cisl e Uil, che ieri sono stati ricevuti a viale Trastevere, e i ricercatori che fin dal mattino si sono dati appuntamento davanti al ministero. Sulla scalinata, sotto il sole abbacinante. Flavio e Roberto, precari dell’Infn (24 milioni di tagli su 241 di finanziamenti), non hanno ancora trent’anni. E sognano di poter fare per il resto della vita quello che fanno adesso: ricercare le prove della «particella di dio». Roberto ha partecipato a uno dei progetti che ha portato alla scoperta del «bosone di Higgs». Flavio studia gli effetti della nuova fisica attraverso i «decadimenti rari». Quando parlano dell’anno appena trascorso al Cern di Ginevra, grazie all’Infn, si illuminano. «Lì sono tutti giovani, l’età media dei ricercatori è più o meno la nostra». In Italia, invece, essere giovani è quasi una colpa. Il lavoro flessibile andrebbe pure bene. «Ma in Svizzera venivamo pagati 3 volte e mezzo di più». Qui, guadagnano 1400 euro al mese. Come assegnisti di ricerca. E rischiano tra qualche mese, di dover seguire i loro colleghi già fuggiti all’estero: «Che altro puoi fare quando sai che non entrerai mai, che non ci saranno più concorsi?». L’ultimo è stato due anni fa. Loro non avevano ancora i i titoli per partecipare. «Sono entrati in trenta, il più giovane aveva 34 anni». Raffaele, sismologo, all’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia ci è entrato 12 anni fa: adesso ne ha 41 ed è sempre precario. Uno dei 400 precari che reggono sulle spalle ricerca, rete di monitoraggio sismico, controllo dell’attività vulcanica. Invece di un allargamento della pianta organica, che ora è di 584 posti per 1000 dipendenti, come tutti gli enti di ricerca all’Ingv si ritrovano a fare i conti con il taglio del 10% e con un turn over, che non potrà superare il 20% per altri due anni. «Il Pdl ha persino fatto una interrogazione: a che servono tante persone se i terremoti non si possono prevedere?». Per i precari: tutti a casa? «Ma il ministro Profumo che rimprovera alla ricerca di non essere competitiva sui fondi europei lo sa che molti di noi hanno procacciato milioni di fondi Ue?». Qualche metro più in là, i ricercatori dell’Isfol (5 milioni di tagli su 35 di trasferimenti) discutono con il segretario del Pd di Roma, che si dice pronto a sostenerli: «Se non vi opporrete a questi numeri, nessuno vi voterà più», avvertono loro. «E poi basta con questa storia che siamo giovani», sbotta una senior del precariato: «Ho 40 anni, lavoro da più di dieci all’Isfol: per il mercato del lavoro se dovrò ricominciare da capo sono già vecchia».

L’Unità 13.07.12

Cgil: "oltre 500 mln di tagli alla scuola spostamenti forzati degli insegnanti", di Corrado Zunino

La Cgil scuola chiama allo sciopero generale a settembre, “contro queste politiche devastanti”. Gli studenti annunciano un nuovo movimento contro il governo, due anni dopo le contestazioni di massa delle riforme Gelmini. La spending review a matrice Monti-Profumo sembra il detonatore per nuove proteste di piazza. E non solo. Il Partito democratico, nei suoi componenti scolastici, ha chiesto forti modifiche al decreto. E prepara emendamenti per il passaggio parlamentare. Tanti e mirati. Nelle pieghe del decreto spending review gli specialisti dei partiti, dei sindacati, degli studenti hanno scoperto tagli non annunciati come tali e spostamenti forzati di personale: o vai lì, anche se quello non è il tuo lavoro, o vai a casa. La Cgil ha appena conteggiato “oltre 500 milioni di euro di tagli” sulla scuola, scuola reduce – va ricordato – dai famosi 8 miliardi del duo Tremonti-Gelmini (2008-2011).

La questione più importante e contestata del pacchetto spending, sulla quale il Pd ha chiesto una forte revisione in Parlamento, sono i diecimila docenti in esubero perché nelle loro classi di concorso da un paio di stagioni non c’è più posto (la riforma Gelmini ha cambiato alcune materie, ha ridotto le ore per altre). Con il decreto spending i diecimila “prof” saranno immessi nelle classi scolastiche a prescindere dalle loro classi di concorso (in cui hanno preso un’abilitazione, ecco). Diecimila specializzati con contratti annuali, quindi, saranno spinti fuori dall’insegnamento.

Alcuni di questi precari hanno accumulato anche dieci anni di anzianità.

Per comprendere meglio, insegnanti di Lettere senza abilitazione in latino potranno insegnare il latino, ingegneri senza abilitazione specifica potranno insegnare materie affini, fisica, matematica. Insegnanti abilitati per le scuole medie, ancora, potranno insegnare alle superiori e viceversa. E torneranno a farlo per un anno intero, togliendo il posto ai supplenti precari. Va detto, l’anno scorso questi diecimila erano pagati anche se non esercitavano.

Su questo punto – potranno insegnare docenti non qualificati, soprattutto non abilitati – , i dirigenti del ministero dell’Istruzione hanno sempre negato, anche a Repubblica, la fattibilità del passaggio. Con la spending review, ecco fatto. Il risparmio solo per questa voce sarà di 268 milioni e il Pd (ma anche l’Idv) ora si oppone allo “scadimento della qualità dell’insegnamento”.

Poi c’è l’articolo 5 sugli “insegnanti inidonei”, che sono quelli colpiti da malattie, in alcuni casi gravi. Sono 3.565 in tutto. Oggi gli “inidonei” continuano a lavorare nell’area della conoscenza, in ruoli per loro possibili. Molti di questi curano le biblioteche scolastiche, per esempio. Bene, il decreto spending li passa ad altro ruolo, a un altro tipo di lavoro. Gli oltre cinquemila bibliotecari diventeranno Ata, ausiliari tecnici amministrativi (seicento avevano accettato volontariamente in precedenza, ora diventa un obbligo per tutti). Saranno sistemati perlopiù nelle segreterie delle scuole, alcuni nella contabilità. Potranno diventare assistenti dei presidi (ma la spending taglia anche ogni bonus extra) o coordinatori dei bidelli. Ecco, 3.565 ex docenti da rottamare. Fa un risparmio di 78 milioni e una probabile condanna all’abbandono delle biblioteche scolastiche. Altri ottocento docenti, oggi, risultano “temporaneamente inidonei” e anche loro diventeranno amministrativi (altri 17,5 milioni di euro per alleggerire i bilanci dell’Economia).

Il decreto prevede ancora il ritiro di 470 insegnanti e amministrativi impegnati nelle scuole italiane all’estero, il 40 per cento del totale. La Francia all’estero ha 6.500 docenti, la Germania quasi duemila.
“La scuola ha già dato anche troppo per il risanamento del Paese, oggi ha bisogno di nuovi investimenti nonostante la crisi”, dice Francesca Puglisi, responsabile Scuola del Pd, “chiediamo con forza al governo di correggere le misure. Da una parte si fanno i tirocini formativi per le abilitazioni e dall’altra le abilitazioni non valgono più nulla”.
Gli studenti della Link segnalano, infine, come il senato accademico dell’università di Bari e quello dell’università di Torino abbiano approvato all’unanimità due mozioni contro l’aumento delle tasse determinato dalla modifica del limite del 20% del rapporto tra rette studentesche e Fondi ordinari (la via d’uscita offerta dalla spending review alle università italiane, che oggi fanno pagare tasse onerose e fuorilegge). “Presenteremo queste mozioni in tutti gli atenei italiani per costringere gli atenei e i rettori a esprimersi contro qualsiasi aumento di contributi agli studenti”, dice Luca Spadon, portavoce della Link. “Il governo vuole compensare la discesa di un miliardo in quattro stagioni dei Fondi di trasferimento alzando le tasse, soprattutto su fuori corso ed extracomunitari, inutilmente discriminati”. Ecco, sono pronte le parole d’ordine per la prossima mobilitazione.

da repubblica.it

"Un fantasma sull'Europa", di Andrea Bonanni

Un po’ increduli e molto preoccupati, gli europei hanno accolto il ritorno di Berlusconi sul proscenio della politica italiana come fosse quello di un fantasma che si sperava definitivamente esorcizzato. Un fantasma che li riguarda da vicino, perché l’Italia è, fin dagli inizi della crisi, il campo di battaglia su cui si giocano le sorti dell’euro e dell’Europa. E l’allontanamento di Berlusconi, propiziato dal cordone sanitario in cui lo avevano isolato le cancellerie europee, era stato un passo considerato decisivo per salvare il Paese e, con esso, la moneta unica. Da quando i giornali hanno riportato le dichiarazioni di Alfano che aprono la strada a una rinnovata leadership berlusconiana della destra italiana, i centralini di Palazzo Chigi e quelli del Quirinale hanno passato ai piani alti dei due palazzi molte telefonate provenienti dalle altre capitali europee con richieste di chiarimenti e segnali di inquietudine. E il «percorso di guerra» di Monti a Bruxelles si è fatto, se possibile, ancora più difficile.
«Ancora non riesco a credere che, dopo un totale fallimento politico ed economico, qualcuno possa pensare di riproporsi agli elettori», confida Hannes Swoboda, il capogruppo del Pse al Parlamento europeo. «Tutto quello che Monti sta facendo è cercare di porre rimedio ai danni provocati da Berlusconi. La sua ricandidatura non sarà bene accetta in nessuna capitale perché costituisce un danno per l’immagine dell’Europa che appare come una democrazia in cui non si sanno trarre le conseguenze delle esperienze negative».
Naturalmente, a livello ufficiale, tutte le bocche sono cucite. Nessuno che abbia incarichi istituzionali si permette quella che apparirebbe come una plateale ingerenza negli affari interni di un Paese che ha appena riconquistato credibilità e prestigio sulla scena internazionale. Ma l’annuncio di un ritorno di Berlusconi alle prossime elezioni conferma nel modo peggiore le preoccupazioni che molti governi avevano già espresso in via riservata sulla tenuta del Paese nel dopo-Monti. E si scopre che le ultime dichiarazioni del Cavaliere, sulla possibilità di uscire dall’euro, sulle critiche all’Europa, sull’opportunità di far stampare moneta dalla Banca d’Italia, erano state ascoltate e registrate con attenzione anche quando sembravano, appunto, esternazioni di un fantasma incollerito.
«Non voglio immischiarmi negli affari interni italiani — dice Sylvie Goulard, esponente francese del gruppo liberale al Parlamento europeo, co-fondatrice del Gruppo Spinelli e relatrice del rapporto parlamentare sulle misure di rafforzamento della governance economica — ma tutte le capitali europee vorrebbero che il governo italiano restasse impegnato nella difesa dell’euro.
Certo le ultime dichiarazioni di Berlusconi sulla moneta unica o sul ruolo della Banca centrale gettano all’aria tutti i progressi accumulati negli anni da uomini come Ciampi, Prodi, Draghi e Monti. Non credo proprio che nelle capitali abbiano accolto la notizia con piacere. L’ultima cosa di cui hanno bisogno gli europei è una campagna elettorale italiana giocata sul sì o sul no all’Europa. Ovviamente la decisione finale spetta agli elettori italiani. Del resto hanno già avuto modo di sperimentare per tre volte i governi Berlusconi».
A stemperare le reazioni europee contribuisce il fatto che nessuno, per ora, prende sul serio le possibilità di successo della destra berlusconiana alle elezioni. «Ma quello che nelle capitali non si è ancora capito, è che la presenza stessa di Berlusconi basta a complicare gli esiti del dopo-voto — spiega un alto funzionario italiano nelle istituzioni comunitarie —. Infatti, mentre prima si poteva comunque contare sulla possibilità di un governo di emergenza nazionale che tenesse insieme centrodestra e centrosinistra per l’adempimento degli impegni europei, la leadership berlusconiana rende di fatto impossibile anche una riconciliazione postelettorale».
Un altro fattore che fanno rilevare gli osservatori europei delle cose italiane è che l’annuncio del ritorno di Berlusconi, se anche dovesse dimostrarsi un “ballon d’essai” destinato a non avere seguiti concreti, ha comunque avuto l’effetto di togliere ogni credibilità politica ad Alfano, che era stato presentato in Europa come il suo delfino. Il leader provvisorio del Pdl aveva perfino abbozzato una mini tournée nelle capitali europee per accreditare la propria immagine e la propria autorevolezza. Alla luce degli ultimi sviluppi, avrebbe fatto meglio a restare a casa. Ma lo sconcerto per la ricomparsa di Berlusconi non si limita all’Europa. Anche a Washington la notizia non deve aver fatto piacere. L’entusiasmo con cui Obama ha accolto Monti in America è stata letto dai diplomatici anche come un segnale di sollievo per l’uscita di scena del Cavaliere, contro cui l’amministrazione democratica aveva decretato un vero e proprio ostracismo. La riprova dei sentimenti americani per il leader della destra italiana si è avuta recentemente nel corso delle grandi manovre diplomatiche per la scelta del prossimo segretario generale della Nato. Si sa che l’Italia vorrebbe mettere sul tavolo la candidatura dell’ex minsitro degli esteri Franco Frattini, uomo che si pensava ben accetto dagli americani. Ma da Washington è arrivata una vera e propria doccia fredda: nonostante la stima personale per Frattini, gli Stati Uniti non vedono di buon occhio alla testa dell’Alleanza Atlantica un ex ministro di Berlusconi. Anche per questa partita, la ricomparsa del Cavaliere non aiuta certo ad aggiustare le cose.

La Repubblica 13.07.12

"Chi vuole solo tecnici e comici", di Michele Prospero

Grandi manovre sono in corso per restringere sine die lo spazio della politica. E non è un caso che a distinguersi nelle operazioni per bloccare sul nascere ogni tentazione di ritorno a un normale gioco politico sia il Corriere della Sera. L’immaginario del quotidiano di via Solferino prevede un bizzarro condominio. Da una parte abita Monti, celebrato con aggettivazioni persino mitiche quando gonfia i muscoli e mette a tacere i partiti e le organizzazioni sociali. Dall’altra imperversa Grillo, osannato perché i suoi seguaci sono degli abili tecnici in pectore, con l’aggiunta di un giovanile vitalismo, da benedire soprattutto quando si scaglia contro gli odiati «capponi di partito».
È chiaro che se questo è lo scenario agognato, un carnevale in cui il tecnico e il comico conducono la danza, non rimane che gettare polvere addosso al solo partito rimasto faticosamente in vita in questi anni turbolenti. Antonio Polito nell’articolo di fondo di ieri arriva a scomodare il massimo della ingiuria rivolta a un politico di sinistra, cioè quella di essere in preda alla demoniaca doppiezza togliattiana (è inutile rammentare all’editorialista che Togliatti fu il critico della doppiezza).
Il Pd sarebbe un inaffidabile manipolatore che finge di appoggiare il governo in nome della responsabilità nazionale, ma poi in sostanza lo avversa in maniera subdola distinguendosi in modo aperto dai provvedimenti sgraditi.
La stravaganza dell’argomentazione lascia senza parole. Su materie altamente simboliche (la riforma dell’articolo 18), e su scelte dell’esecutivo che incidono in maniera pesante sulla vita delle persone (i tagli lineari alla sanità e alla ricerca, gli annunciati licenziamenti nel pubblico impiego, la questione scottante degli esodati), un partito proprio perché responsabile non può certo tacere. Deve anzi esplicitare in modo forte la sua critica e cercare ogni strada parlamentare utile per correggere in maniera significativa delle decisioni che paiono non solo sbagliate, ma anche inefficaci. Che un partito, per un malinteso senso del dovere, debba crocefiggersi, spezzare legami con la sua parte di società (quella peraltro che paga i costi più elevati delle riforme strutturali avviate), lasciare che il Paese si abbandoni in una spirale recessiva è una classica pretesa inesigibile perché del tutto sciocca.
L’interdizione della sinistra politica e sindacale, pronta a esercitare terribili ricatti, non c’entra proprio nulla. A nessun partito può essere chiesto il gesto estremo del suicidio. Davvero poi è un interesse generale del Paese che il maggior partito, impegnato nell’arduo compito di evitare la catastrofe economica sostenendo una maggioranza anomala anche al prezzo di una emorragia di consenso, venga travolto dalle macerie di una società presa dallo sconforto dinanzi a una crisi senza prospettive? Appoggiare, correggendole, le scelte necessarie per il risanamento, evocando al tempo stesso che il tempo del governo del centrosinistra avrà un’altra attenzione al malessere sociale non solo non è una pratica disdicevole, ma aiuta il sistema politico a non restare vittima di spinte irrazionali in agguato.
Il silenzio dei partiti pronti a scattare sull’attenti per obbedire ai comandi, quali che siano, non aiuta affatto la capacità della democrazia di gestire la crisi. È un colossale errore tecnico quello di auspicare l’afonia dei partiti. Essi al contrario devono parlare, e anche contrastare le tendenze istituzionali deteriori (come il ricorso costante ai voti di fiducia).
È vergognosa la descrizione che Polito fa degli scenari politici che si aprirebbero con la prospettiva che il Pd guidi uno schieramento di progressisti e moderati dopo il voto del 2013. Sembrano di nuovo annunciarsi orde di cosacchi pronti a spezzare ogni vincolo europeo, a ballare ubriachi dinanzi alla tragedia del default, a spezzare ogni vincolo di bilancio per scialacquare la residua ricchezza della nazione. Stupidaggini colossali, che cozzano contro ogni verità storica. I bistrattati governi dell’Ulivo e dell’Unione hanno portato al minimo storico il rapporto tra debito e Pil (venti punti in meno di quelli raggiunti da Berlusconi, a cui andava il sostegno colpevole di buona parte delle classi dirigenti nostrane). Il governo Prodi invece ha portato l’Italia nell’euro. Il bilancio del governo D’Alema vanta tuttora il minimo di spesa pubblica dell’ultimo trentennio. E la lista potrebbe continuare a lungo. Nessuno impedisce al Corriere di sognare ad occhi aperti una grande coalizione permanente. Però potrebbe evitare di tacciare come traditore della patria chi opera per non chiudere la democrazia (che sa gestire l’emergenza con le sue risorse), per dare un programma coerente e quindi più incisivo al governo (purtroppo quello attuale non è un vero programma perché poggia sulla non ostilità esplicita di forze politiche che non si reputano neppure alleate).
Il teorema di Polito, per cui alla maggioranza attuale non ci sono alternative perché solo chi ha votato la fiducia al governo Monti (quindi anche Di Pietro?) e chi non si è opposto in aula ad esso (quindi anche Vendola che non ha seggi?) può stringere un patto per la prossima legislatura è solo una cattiva metafisica. Chieda pure alla Merkel se, dopo la Grande coalizione, ha rinunciato ad allearsi con i liberali perché erano all’opposizione. O lo chieda alla Spd se ha deciso di troncare per sempre ogni patto di governo con i Verdi perché erano rimasti fuori dalla grande Coalizione. Tutti gli argomenti del Corriere zoppicano, proprio come un sistema politico dove i sostenitori dei tecnici e quelli del comico si danno la mano per sospendere la politica.

L’Unità 12.07.12

"Un colpo mortale alla scienza e al futuro dei giovani", di Pietro Greco

La spending review toccherà in modo pesante gli istituti di ricerca italiani all’avanguardia nel mondo In più gli studenti pagheranno più tasse. Fujtevenne!». Andate via, finché siete in tempo, diceva trent’anni fa Eduardo De Filippo ai giovani napoletani che gli chiedevano cosa fare in una città devastata dal (dopo) terremoto e da una rapidissima deindustrializzazione. Napoli sta rinunciando al suo futuro. E l’unica prospettiva per voi giovani napoletani è andare via.
«Fujtevenne!». Sembra dire Fernando Ferroni, coraggioso presidente dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare, ai giovani ricercatori che hanno appena contribuito a intercettare il «bosone di Higgs» – una delle scoperte più importanti degli ultimi decenni in fisica – e che, quasi in premio, hanno subito un drastico taglio al bilancio del loro Ente e, di conseguenza, alle loro ricerche. L’Italia sta rinunciando al suo futuro. E l’unica prospettiva per voi giovani italiani è andare via.
Che la spending review del governo abbia colpito duro il settore della ricerca (ma anche quello dell’università) sono i numeri a dirlo. L’Istituto Nazionale di Ricerca sugli Alimenti e la Nutrizione (INRAN), vigilato dal ministero dell’agricoltura, è stato soppresso. Non si conosce, allo stato, quale sarà la sorte dei singoli ricercatori (che intanto, per protesta, sono saliti sui tetti). Mentre i 12 enti vigilati dal ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca hanno subito tagli ai fondi ordinari che, per il 2012, ammonteranno a 19 milioni di euro su un bilancio complessivo che ammonta a oltre 1.400 milioni di euro. Non sembra molto: una sforbiciata inferiore all’1,4%. Ma occorre tenere in conto che interviene a metà anno. Mentre i programmi di ricerca sono già in corso. E molte spese già effettuate.
I tagli saranno maggiori nel 2013 e nel 2014, quando saliranno a 102 milioni per anno. Una diminuzione dei fondi ordinari pari al 7,3% nel 2013 e al 7,8% nel 2014. Se si considera che una parte notevole del bilancio di quasi tutti gli enti pubblici di ricerca è costituita dagli stipendi dei ricercatori (in genere, piuttosto anziani) ed è dunque incomprimibile, il risultato è chiaro: verranno sacrificati gli investimenti in ricerca e i giovani con contratto precario.
L’Infn, quello del “bosone di Higgs”, vedrà ridotti in particolare il suo budget ordinario di oltre 9 milioni di euro (3,8%) nel 2012 e di 24,3 milioni (10,1%) nel 2013 e nel 2014. E questo per il semplice motivo che è stato così bravo da raggiungere un’alta percentuale di spesa in ricerca e da minimizzare la spesa per gli stipendi. La (doppia) virtù – scientifica e amministrativa – è stata punita.
Il governo ha per ora sospeso ogni decisione su eventuali altre soppressioni, con accorpamento dei ricercatori presso altri istituti. Ma restano in pre-allarme l’Istituto Nazionale di Astrofisica (INAF), i cui ricercatori per numero e qualità delle pubblicazioni scientifiche risultano i migliori d’Italia e tra i più bravi al mondo, l’a Stazione Zoologica “Anton Dohrn” di Napoli (il più antico centro di biologia marina al mondo), l’Istituto Nazionale di Oceanografia e Geofisica Sperimentale (OGS) di Trieste. Ora la soppressione con accorpamento di questi Istituti difficilmente farebbe risparmiare anche un solo euro. Anzi, come spiega Giovanni Bignami, presidente dell’Inaf, in un editoriale pubblicato su La Stampa, quasi certamente produrrebbe costi aggiuntivi. In ogni caso il rischio che vadano distrutte competenze scientifiche e messi in crisi progetti di ricerca (per lo più internazionali) è elevatissimo. Una punizione non meritata per chi lavora in queste Enti e produce nuova conoscenza. Aggiungiamo a questi il taglio ulteriore di ben 200 milioni di euro per le università (che costituisce la rete primaria di ricerca nel nostro paese), che – come ricordava Walter Tocci ieri su l’Unità – si aggiunge ai 400 milioni già decisi dal governo Berlusconi e ai 150 milioni di tagli per borse di studio e attività ricerca.
Per recuperare questi soldi, le università hanno una sola possibilità: raddoppiare le tasse di iscrizione. Scaricare sugli studenti il peso dei tagli. Una simile situazione è grave in sé. E dovrebbe scatenare un dibattito serio e appassionato nel Paese. A ogni livello: politico, sociale e culturale.
Ma c’è di più. Il combinato disposto di queste scelte dimostra che neppure il governo dei tecnici ha compreso qual è la causa profonda del declino economico e non solo economico dell’Italia: un declino che dura senza soluzione di continuità da vent’anni. Non abbiamo compreso che nell’era della «nuova globalizzazione» non c’è più posto per la vecchia specializzazione produttiva dell’Italia. Che non possiamo più pensare anche solo di galleggiare continuando a produrre con le nostre industrie beni a media e bassa tecnologia. Perché da quasi vent’anni, appunto, abbiamo perso i due vecchi fattori competitivi: il basso costo relativo del lavoro e una moneta debole, svalutabile a piacere. Oggi abbiamo un costo relativo del lavoro alto rispetto alla gran parte dei paesi a economia emergente e in via di sviluppo. E abbiamo l’euro: una moneta che, nonostante tutto, è molto forte. E comunque non svalutabile a piacere.
In questa situazione il declino può essere solo momentaneamente rallentato, non certamente invertito, adottando il “dumping sociale” teorizzato da molti liberisti: ovvero comprimendo il costo del lavoro e il sistema di welfare. Se vogliamo dare ai giovani italiani – gli adulti di domani – una piccola chance occorre che l’Italia impari a competere nei settori dell’industria, dell’agricoltura e dei servizi ad alto tasso di conoscenza aggiunto.
Ma per fare questo occorre investire. Soprattutto nei settori della ricerca e dell’alta formazione. È quello che ha fatto la Germania solo un anno fa: a fronte di tagli al bilancio pubblico per 80 miliardi di euro, ha aumentato gli investimenti in ricerca e università di 13 miliardi di euro. È quello che sta facendo la Corea del Sud, che in appena trent’anni è passata da un numero di laureati nella fascia di età giovanile (tra i 25 e i 34 anni) inferiore al 10% nel 1980 a una percentuale monstre del 63% nel 2010.

L’Unità 12.07.12

******

Tagli, a rischio il centro Enea Cgil: «Così si uccide la ricerca», di Chiara Affronte

L’Ente non ha più soldi per pagare l’affitto della sede bolognese, fiaccato dalle riduzioni degli anni scorsi e, ora, dall’incombere della spending review. A rischio chiusura la sede bolognese dell’Enea, il centro di ricerche dell’Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile. A lanciare l’allarme è la Flc-Cgil che, da qualche giorno, ha lanciato una petizione da presentare al Prefetto per denunciare i gravi problemi che da tempo compromettono l’attività di un «centro di eccellenza di prestigio per il territorio», come sottolinea la segretaria bolognese Francesca Ruocco. Obiettivo della raccolta firme quello di porre la situazione della sede bolognese all’attenzione del ministero per lo Sviluppo economico da cui l’agenzia dipende.

I problemi per l’Enea, secondo ente di ricerca italiano, sono fondamentalmente di due tipi,malegati dallo stesso denominatore comune: le risorse economiche. Il primo, quello denunciato dalla petizione indetta dalla Camera del lavoro, è legato alla sede fisica dell’ente.

L’Enea infatti non è proprietaria degli edifici in cui svolge le sue attività, e, con i tagli lineari alla ricerca che si sono susseguiti negli ultimi anni, «non riesce più a pagare l’affitto», spiega Ruocco. Per questo motivo, progressivamente, sono stati chiusi pezzi di sede, laboratori, dislocati sul territorio fino a Faenza, e, di conseguenza, è stata compromessa l’attività di ricerca. Con una «ricaduta fondamentale per il territorio emiliano-romagnolo», come precisa il segretario regionale Flc-Cgil Stefano Bernabei: nella pratica ciò significa compromissione degli studi su «acqua e depurazione, aria ed inquinamento, terra e sismica, certificazione, trasferimento tecnologico all’industria e sostenibilità ambientale».

Ciò che più preoccupa la Cgil è la «totale mancanza di prospettiva», non solo per l’attività di ricerca, ma per i lavoratori che operano nell’ente. Enea avrebbe dovuto spostarsi al Tecnopolo, alla Bat, ma la sede non è ancora disponibile.

Il pregresso

A questo quadro difficile si unisce l’estrema precarietà in cui il centro sarà gettato se si concretizzeranno i tagli previsti agli enti di ricerca nella spending review, il decreto sulla revisione dei costi prospettato dal Governo: tagli all’organico del 10%, in un contesto in cui ci sono ancora ricercatori vincitori di concorso due anni fa ai quali non è stato assegnato il posto a tempo indeterminato. E che attualmente sono stati sottoinquadrati per non perdere il posto di lavoro.

Con il decreto Milleproroghe sarebbe dovuta arrivare l’autorizzazione a sbloccare il turn-over e a fare le assunzioni dovute, ma l’ulteriore manovra dell’esecutivo potrebbe rigettare tutto nell’incertezza, riducendo il personale e indebolendo il centro fino alla chiusura completa. «I tagli imposti alla sede bolognese hanno di fatto decretato la fine per inedia del centro stesso – segnala Bernabei -, in quanto già dal mese di luglio l’amministrazione non sarà in grado di onorare gli impegni di spesa già presi». Nell’ultimo mese, infatti, la sede bolognese ha subito una drastica «riduzione dei servizi interni (mobilità, servizi generali, pulizie e manutenzione) tramite il tagli di alcune unità di personale delle aziende appaltatrici».

La raccolta firme indetta dalla Cgil è partita due giorni fa e su 250 dipendenti in 130 hanno già firmato. «Ma andremo avanti fino a che non verremo convocati dal Prefetto», spiega Ruocco.

l’Unità 12.07.12

******

L’allarme degli scienziati dell’Enea “A rischio il centro sul terremoto”, di Ilaria Venturi

Laboratori a rischio, anche quello che si occupa di terremoti. E la spada di Damocle della spending review che potrebbe comportare tagli ancora più pesanti dei 400mila euro in meno già previsti per il 2012. Quale futuro per l’Enea di Bologna? A chiederselo sono i lavoratori del centro di ricerca. Una petizione, che in poche ore ha collezionato 125 firme sui 250 dipendenti (la raccolta è in corso), sarà portata al Prefetto e al ministero dell’Economia.

“Situazione non più sostenibile”, denuncia Stefano Bernabei della segreteria regionale della Flc-Cgil. I dipendenti della sede di Bologna, Faenza e Monte Cuccolino denunciano la progressiva riduzione delle risorse, degli spazi, dei servizi e soprattutto dei laboratori di ricerca “fino al punto di vedere compromessa la possibilità di espletare il proprio lavoro”. Il problema degli spazi è dovuto alle scadenze imminenti dei contratti di affitto, mentre si allontana al 2015 la possibilità per l’Enea di avere la nuova casa, come già stabilito, nel Tecnopolo all’ex Manifattura ancora al palo. Una situazione di limbo aggravata dai tagli alla ricerca già attuati (il bilancio per la sede bolognese è passato da 4,3 milioni nel 2010 a 4 nel 2011 a 3,6 per il 2012) e in arrivo. L’incertezza è tale, si legge nella petizione, “da rendere impossibile una normale progettualità nelle attività di ricerca”.

E “nebuloso” viene definito il futuro dei 24 ricercatori

assunti per tre anni nel Tecnopolo “sotto inquadrati e con contratti inadeguati”. Il malessere è diffuso, il mondo della ricerca bolognese è in agitazione. Già nel 2010 avevano chiuso i laboratori Enea che si occupavano di controllo delle acque in via dei Fornaciai. Ora questi saranno riallestiti nella sede centrale in via Martiri Monte Sole, al Navile. Ma in un edificio il cui contratto di affitto è in scadenza e da dove dovranno andarsene anche i laboratori che si occupano di sismica, controllo della qualità dell’aria, trasferimento tecnologico all’industria.

Le strutture sotto sfratto potranno essere trasferite nel palazzo a fianco, sede principale dell’Enea. Ma il sindacato avverte: “L’unico effetto sarà mettere a disagio l’intero centro”. Insomma, soluzioni tampone, “solo un lungo calvario di spostamenti in luoghi non idonei”. “Non è un attacco all’amministrazione bolognese dell’Enea, è che oggettivamente così sono a rischio le attività scientifiche”, insiste Bernabei. Il direttore dell’Enea di Bologna Alessandro Martelli frena le preoccupazioni sugli spazi, “ci sono già ipotesi in campo, ci stiamo attivando per non perdere i contratti”. Ma non nasconde quelle sulle ricadute locali della spending review: “Le incognite ci sono”.

La Repubblica

Sisma, i parlamentari Pd “I soldi in totale sono a quota 3.340 mln”

Non solo i 2,5 miliardi stanziati dal Governo, ma altri fondi “conquistati” pro-terremotati. Il decreto è ora stato convertito in legge: pur tra luci e ombre, stanzia 2,5 miliardi di euro da destinare alle zone colpite dal sisma. In realtà, a quella cifra devono aggiungersi altri 840 milioni, 640 dei quali letteralmente “conquistati” su diversi fronti grazie all’impegno dei parlamentari emiliani. La cifra totale, diffusa dai parlamentari modenesi del Pd Giuliano Barbolini, Mariangela Bastico, Manuela Ghizzoni, Ricardo Franco Levi, Ivano Miglioli e Giulio Santagata, è ora, quindi, di 3.340 milioni di euro. Non è certo la copertura integrale del fabbisogno, ma è sicuramente un risultato importante.

“Questi sono soldi veri, non facili slogan. Sono aiuti concreti a tutto vantaggio delle popolazioni terremotate”: è questo il commento unanime dei parlamentari modenesi del Pd dopo che, nella seduta di mercoledì 10 luglio, la Camera dei deputati ha approvato la legge di conversione del decreto n.74 sul terremoto. “E’ un risultato importante – spiegano – sia dal punto di vista normativo che della disponibilità di risorse. Com’è noto, sono stati, infatti, stanziati 2,5 miliardi per la ricostruzione. Ma la cifra complessiva, grazie all’impegno pervicace di tutti noi, e questo lo sottolineiamo con orgoglio, ha raggiunto la cifra di 3.340 milioni di euro”. L’azione dei parlamentari emiliani con la straordinaria disponibilità di tutti i gruppi parlamentari e del Governo ha consentito, infatti, di destinare alle aree colpite dal sisma risorse ulteriori per 640 milioni di euro cui si devono aggiungere i 200 milioni promessi dalla Commissione Europea. In totale, insomma, le risorse disponibili salgono cosi a 3.340 milioni. “Le voci principali cui abbiamo attinto per raggiungere questo risultato – spiegano i parlamentari modenesi del Pd – sono: i risparmi per 193 milioni dal finanziamento pubblico dei partiti, 150 milioni dai tagli dei costi di funzionamento della Camera, 82 milioni da fondi INAIL, 120 milioni da fondi del Ministero della scuola, 5 milioni dai Beni Culturali, 50 milioni da nuova programmazione di Fondi europei e 40 milioni dalla cosi detta “legge mancia”. “Certo – continuano i nostri parlamentari – non siamo ancora alla copertura integrale del fabbisogno stimato per far fronte agli ingentissimi danni che abbiamo subito ma, in attesa di una legge ad hoc, possiamo dire che Governo, commissario Errani e Parlamento hanno compiuto un significativo primo passo”. Restano aperti, come già sottolineato a più riprese da esponenti del Pd, alcuni problemi rilevanti: prima tra tutte la questione della sospensione del pagamento dei tributi che la legge proroga solo sino al 30 novembre. Su questo e su altri problemi quali l’allentamento del Patto di stabilità per gli enti locali, occorrerà intervenire a partire dai provvedimenti ancora in discussione e con una legge organica sul terremoto.

"Premio di coalizione, male del sistema", di Claudio Sardo

Cambiare la legge elettorale è un dovere politico e morale. Pur di arrivare a un’intesa che cancelli il Porcellum bisogna accettare rinunce e sacrifici. In Europa le preferenze sono quasi sconosciute: il collegamento tra elettore ed eletto è assicurato dal collegio uninominale oppure da circoscrizioni ristrette. Le preferenze sono state da noi, soprattutto nell’epilogo della cosiddetta Prima Repubblica, una fonte di corruzione. È giusto battersi fino in fondo per i collegi uninominali: se tuttavia le preferenze fossero il solo modo per evitare lo scempio delle lunghe liste bloccate, probabilmente bisognerà accettare anche questo terreno di confronto, magari combinando l’«anomalia» con rigorosi limiti di spesa alle campagne elettorali e con più piccole circoscrizioni. Speriamo che non sia necessario.

C’è tuttavia un punto del Porcellum che rappresenta il suo nucleo fondante, e al tempo stesso la sua distorsione più grave rispetto a qualunque altro sistema occidentale: è il premio di coalizione. Se non si cambia qui, non si può dire di aver cambiato davvero il Porcellum. Una riforma che conservi il «maggioritario di coalizione» non sarebbe una riforma, ma solo una verniciatura a un impianto senza eguali in Paesi dotati di Costituzione democratica.

Purtroppo questo rischio c’è. Anzi, è un rischio molto alto. E speriamo che la buona volontà e il buon senso riescano infine a prevalere, dopo l’ennesima, estrema spinta che il Capo dello Stato ha dato al Parlamento.
L’argomento ricorrente usato a sostegno del premio di coalizione è che i cittadini sarebbero così posti nelle condizioni di conoscere in anticipo le alleanze tra i partiti, e dunque disporrebbero di maggior potere. Che si tratti di un argomento estremamente fragile è dimostrato dall’intero ciclo della Seconda Repubblica. Le alleanze si sono composte e sfasciate in Parlamento come prima, hanno prodotto molto più trasformismo di prima e hanno recato danni istituzionali assai maggiore di prima (basti pensare che un partito ha incassato il premio di coalizione e poi, nella stessa legislatura, è finito all’opposizione). La verità è che il premio di coalizione è stato, nella torsione plebiscitaria di Berlusconi, il surrogato di un presidenzialismo di fatto, il trampolino su cui lanciare il mito del premier «eletto direttamente». Questo è il cuore, o forse sarebbe meglio dire il morbo, del Porcellum.

Non c’è Paese democratico in cui le elezioni non siano competizione tra partiti. E ovviamente non c’è Paese dove i partiti nascondano le proprie intenzioni (cioè il leader e le alleanze) agli elettori. Qualcuno davvero pensa che in Italia le forze politiche, in un sistema che torna normale dopo la stagione del Porcellum, farebbero domani la campagna elettorale senza dire nulla agli elettori? Sia in Germania, che in Gran Bretagna, che in Spagna, che in Svezia la sera del voto è chiaro a tutti (salvo eccezioni rarissime determinate da sostanziali pareggi, dunque dalal volontà del popolo) chi sarà il premier e quale sarà la composizione del governo. Non fa differenza il proporzionale pieno, il proporzionale corretto, il maggioritario assoluto: perché non è il modello elettorale a determinare il vincolo di maggioranza. La prova è semplice: in tutti gli altri Paesi le eventuali coalizioni reggono una legislatura senza avere il premio di coalizione, mentre da noi non reggono nonostante il premio. Tra gli imbrogli della Seconda Repubblica c’è anche questo: aver detto che il maggioritario di coalizione serviva a stabilizzare i governi. Una fesseria colossale e una mostruosità giuridica: per stabilizzare gli esecutivi servono regole parlamentari, come insegnava il costituente Perassi, ideatore della «sfiducia costruttiva» poi applicata in Germania.

Il maggioritario di coalizione è stato il giogo per impedire ai partiti di avere autonomia politica, di rispondere direttamente ai cittadini, di contrastare il potere crescente delle oligarchie del Paese. È stato anche il cavallo di Troia dei partiti personali, della frammentazione esasperata, dunque dell’impotenza dei governi. Bisogna reagire. È difficile, costoso, ma guai a perdere l’occasione. Per il Pd è particolarmente difficile perché, in un passaggio così complicato, tornare a una decenza costituzionale rischia di indebolire la sua politica di alleanze. Ma il Pd è o non è il partito della Costituzione? Dalle difficoltà può anche nascere una virtù. Perché le primarie del Pd, da organizzare insieme a Sel e ai movimenti civici, non possono diventare il perimetro di un partito rafforzato e rinnovato? La possibilità di cancellare davvero il Porcellum esiste: lo hanno dimostrato le trattative di questi mesi. Si può dare un premio al partito primo arrivato (fino al 10%): non sarebbe un unicum europeo e non potrebbe mai consegnare il potere ad un partito privo di solide basi di consenso. Ancor meglio si può riprendere il modello «ispano-tedesco» ch12e, pur senza premi, rafforza i partiti maggiori, tiene alto lo sbarramento e consente una eventuale maggioranza parlamentare senza troppi partiti. Cambiare si può.

l’Unità 12.07.12