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"La Germania davanti al bivio", di Barbara Spinelli

A volte, quando critichiamo Angela Merkel, dimentichiamo quel che sta succedendo in Germania: l’astio che domina tanti commenti di cittadini e politici, contro un’Europa del Sud che sta divenendo loro estranea. L’esigenza democratica, che si mescola ambiguamente a un nuovo nazionalismo e che spinge i tedeschi a fidarsi quasi solo della Corte costituzionale: proprio ieri, la Corte ha iniziato l’esame degli impegni presi da Berlino a Bruxelles, per verificare la loro compatibilità con la sovranità del popolo e del parlamento. Il Sud Europa non si stanca di ammonire Berlino, evocando l’espandersi di sentimenti antitedeschi. Ma conoscono poco i sentimenti antieuropei che si addensano in Germania.
Citiamo, fra gli epiteti usati dai frequentatori dei giornali sul web, i più significativi: gli italiani, greci, spagnoli, portoghesi sono scrocconi, parassiti, perfidi, svergognati.
Puntando l’indice sul passato tedesco, sono soprattutto ricattatori.
Sono «cani, e che abbaino pure alla loro altezza ». Un lettore conclude: «Chi ha amici simili, non ha più bisogno di nemici». L’astio colpisce anche europeisti come gli ex cancellieri Schmidt e Kohl, i verdi Trittin e Roth, l’ex ministro degli Esteri Joschka Fischer («un depravato morale»): sono «traditori del popolo», «odiatori della Germania ».
Bastano queste citazioni per capire che sarà pieno di insidie, il cammino degli europei verso una progressiva messa in comune dei debiti. La parola solidarietà è vista come una trappola, tesa per costringere i tedeschi a svenarsi per espiare chissà quale colpa.
Questo clima va tenuto presente, quando si parla di scudo antispread o Fondi salva- stati, o si celebrano i progressi raggiunti ai vertici europei. È un clima incendiario, che le classi dirigenti tedesche non sanno evidentemente governare: il più delle volte lo lusingano, altre volte lo contrastano, ma avendone paura. Manca tragicamente la pedagogica capacità di spiegare le cose «nei dettagli»: è l’accusa, pesante, che il Presidente Gauck ha rivolto sabato al governo. Né serve la politica dei piccoli passi: solo un salto qualitativo (Unione politica, potenziamento della Bce) creerebbe la scossa che calmerebbe gli animi oltre che i mercati. Le misure piccole sono vissute come una tortura della goccia cinese. Ma nessuno osa, e tra chi osa di meno nelle classi dirigenti ci sono gli economisti: una corporazione che ovunque ha mancato — salvo eccezioni — l’appuntamento con la crisi del 2007-2008.
Ben 172 economisti tedeschi, e non dei minori, hanno firmato giovedì un appello in cui intimano al governo di non cedere alle pressioni e ricusare le misure concordate al vertice del 28 giugno, troppo costose per Berlino. Pur non firmando, è d’accordo anche il governatore della Bundesbank Weidmann, ostile a scudi salvaspread e unione bancaria. Weidmann è membro di un’istituzione comunitaria (il Consiglio direttivo della Bce), e l’uscita è quantomeno anomala.
All’appello dei 172 hanno risposto due contro-appelli, firmati tra gli altri da Peter Bofinger e Bert Rürup, membri del Consiglio degli esperti economici che nel 2011 suggerì una messa in comune parziale dei debiti: i 172 sono accusati di nazionalismo e incompetenza. Siamo, insomma, di fronte a un grande dibattito che lascerà tracce, non dissimile dalla disputa fra storici del 1986-87 attorno al passato nazista.
Oggi è l’economia al centro, e il ruolo più o meno egemonico, o dominatore, che Berlino deve svolgere nell’Unione.
L’economia può sembrare un tema minore, ma per la storia tedesca non lo è affatto. Quando la Repubblica federale nacque dalle rovine della guerra, l’economia prese il posto della coscienza nazionale, statale, democratica. Quanto all’egemonia: molti invitano la Merkel a esercitarla –— Obama per primo — ma Berlino tentenna. Non dubita del proprio modello economico, che giudica anzi l’unico valido, superiore a ogni altro. Quel che fatica a fare, è guidare con efficace magnanimità i paesi deboli dell’Unione, come fecero gli americani col Piano Marshall nel dopoguerra. Irretita in dogmi contabili, la Germania ricade nel passato: sa comandare, non ancora guidare.
Il dogma non è solo quello che impone di mettere la «casa in ordine»
prima di creare unioni transnazionali (l’assioma non tiene, perché l’unione sovranazionale muta l’ordine casalingo). Dogmatico è il primato dell’economia, fonte pressoché unica dello Stato e della democrazia. Divenne tale soprattutto nel dopoguerra, quando ai tedeschi era negato il diritto di divenire Stato giuridico, ma ha radici lontane. È dai tempi dell’Unione doganale (il Zollverein
del 1834 e 1866) che i tedeschi fanno dell’economia il sifone della comunità politica. L’Unione europea deve ricalcare quel modello, che peraltro fallì quando la Prussia inglobò la Confederazione tedesca del nord: prima viene l’economia, poi la politica, lo Stato, il consenso dei popoli. Come scrive Marco D’Eramo su Micromega, anche in Europa, come nello Zollverein, «è la moneta a “battere” lo Stato invece dello Stato a battere moneta». La Merkel e il ministro Schäuble nuotano contro una corrente forte e anche contro se stessi, quando implorano un’unione politica federale: non ascoltarli, come non fu ascoltato Kohl, è letale.
Il primato economico ha una storia nel pensiero tedesco che va esplorata, se non vogliamo che l’unità europea degeneri in guerra prima verbale, poi civile. Alle origini, c’è l’esperienza d’un paese vinto dalla guerra, dimezzato, che nell’economia vide un surrogato di sovranità statale. Gli artefici del nuovo Stato economico furono Ludwig Erhard e i cosiddetti ordoliberali, che negli anni fra le due guerre avevano osteggiato l’idea keynesiana che i mercati possano, debbano esser governati.
L’ordoliberalismo divenne il credo della Repubblica federale, la via per uscire dallo statalismo nazista. Vale la pena ricordare come ne parla Michel Foucault, nelle lezioni del 1978-79. Le parole- chiave furono quelle che Erhard, futuro Cancelliere e allora responsabile
dell’amministrazione nella zona occupata dagli anglo-americani, pronunciò il 28 aprile ’48: «Bisogna liberare l’economia dai vincoli statali (…) ed evitare sia l’anarchia sia lo Stato-termite. Solo uno Stato capace di stabilire al contempo la libertà e la responsabilità dei cittadini può legittimamente parlare in nome del popolo». Decaduto lo Stato, solo la libera economia poteva ricostituirlo. Un marco solido, una crescita forte, una bilancia dei pagamenti salda: divennero la sovranità sostitutiva della Germania. «La storia aveva detto no allo Stato tedesco, ma d’ora in poi sarà l’economia a consentirgli di affermarsi», e in più di dimenticare un nazismo che non «parlava in nome del popolo» (Foucault, Nascita della biopolitica, Feltrinelli 2005). Mettere la casa in ordine, e soltanto dopo farsi Stato: il prototipo dello Zollverein fu ripreso da Erhard, e ora va applicato all’Europa. Gli Stati sono incitati a cedere sovranità, ma la costituzione europea sarà economica e di marca tedesca, o non sarà. È stupefacente la disinvoltura con cui un uomo intelligente come Thomas Schmid, vicino nel ’68 a Fischer e Cohn-Bendit, confonda il comando con l’egemonia, nel carteggio con Ezio Mauro apparso il 28 giugno su Repubblica: «La Germania deve usare la sua forza per aiutare altri, deve diventare un amministratore e garante per la stabilità riconquistata di Stati oggi deboli (…) deve essere egemone, ma in modo amichevole».
Forse è qui uno dei nodi da sciogliere, nelle discussioni fra governi e fra economisti. L’operazione tedesca è singolare. Parla di Federazione, ma intanto tratta i paesi meridionali dell’Eurozona come se fossero nazioni dimezzate e vinte in guerra, i cui Stati hanno perduto non tanto consistenza, quanto legittimità. Come se tutti dovessero percorrere la via tedesca, pur venendo da storie così diverse.

La Repubblica 11.07.12

"Timbuctù. Quei tesori distrutti da barbari in nome di un falso Islam", di Tahar Ben Jelloun

Quando i Taliban distrussero le due grandi statue del Buddha nella valle di Swat, a nord-est dell’Afghanistan, tutta l’emozione del mondo civile non bastò a fermare quell’impresa criminale, perpetrata in nome dell’Islam. È facile immaginare il piacere provato da quei pericolosi ignoranti per aver fatto esplodere una statua alta più di 40 metri, che risaliva a 1300 anni fa. Le nevrosi e le frustrazioni covano a volte nelle profondità nell’inconscio, per esplodere un giorno devastando il frutto di secoli di civiltà.
Oggi altri barbari attaccano i mausolei di Timbuctù, e minacciano
di bruciare un tesoro di rari e magnifici manoscritti.
La peggiore nemica dell’uomo è l’ignoranza, soprattutto quando è arrogante e soddisfatta. Siamo in presenza di criminali che nulla potrà fermare, se non l’uso di una forza brutale quanto la loro stupidità.
I principi democratici privilegiano la legge e il diritto. Ma come contrapporre la giustizia a tanto fanatismo? Come può un discorso razionale aver ragione di sedicenti convinzioni religiose?
Per trovare l’origine di quest’ideologia che si accanisce contro i santi e le statue dobbiamo risalire al XVIII secolo, quando un teologo di nome Mohamed Abdel Wahab scrisse una serie di testi per la pratica di un islam puro e duro: testi che dovevano essere interpretati alla lettera, o in altri termini, in maniera fanatica, chiusa e violenta. Quest’ideologia ha dato vita a un rito denominato
“wahabismo”, adottato dall’Arabia Saudita, dal Qatar e da altri Paesi del Golfo: un rito che impone la sharia e l’applicazione rigorosa di regole e leggi efferate: lapidazione delle adultere, taglio delle mani ai ladri, esecuzione degli apostati sulla pubblica piazza ecc.
I Paesi del Maghreb si sono sottratti a questo rito. Ma in Algeria, quando in seguito alle elezioni del 1991 le autorità hanno deciso l’esclusione del Fis (partito del Fronte Islamico della salvezza), è esplosa una guerra civile: gli islamisti, privati della loro vittoria elettorale, hanno scatenato una jihad contro lo Stato e chiunque lo sostenesse, costata più di centomila morti.
Alcuni di questi islamisti si erano formati nelle scuole wahabite dell’Arabia Saudita. Uno dei loro primi misfatti è stata
la distruzione dei marabout che ospitavano i santi venerati dal popolo: difatti il wahabismo li vieta, al pari dei mausolei e delle statue, argomentando che non devono esistere intermediari tra il credente e Allah. Unica eccezione: il profeta Maometto; tutti gli altri sono usurpatori. «Haram, haram!» (è proibito!) gridavano i distruttori a Timbuctù. E avevano torto, poiché ciò che l’Islam condanna è adorare idoli di pietra e confondere il Dio unico con altre divinità. L’Islam ortodosso, al pari dell’ebraismo, proibisce queste forme di culto, a volte misteriose. Ma per queste due
religioni monoteiste i marabout sono solo un retaggio dell’epoca pagana; si tratta in realtà di usanze che non hanno alcuna conseguenza sulla fede. Ogni città, ogni villaggio ha il suo santo. Perciò distruggere il suo mausoleo è un atto di stupidità. Le loro statue sono opere d’arte: un patrimonio che i turisti vengono a visitare da ogni parte del mondo.
In Marocco si contano 652 santi, di cui 221 ebrei e 26 donne, ciascuna delle quali ha pure il suo mausoleo. Centoventisei di questi santi sono venerati da ebrei e musulmani. Ogni anno si organizzano pellegrinaggi in loro onore, e sono celebrati dagli ebrei del mondo intero.
In Marocco come nel Mali, in Algeria o in Tunisia, la gente ama “confidarsi” col proprio santo. Sarà superstizione, lontana da ogni razionalità scientifica; ma da sempre il Marocco ha consentito alla sua popolazione di partecipare a questo tipo di devozione, che fa parte della sua cultura popolare.
I distruttori oggi all’opera in Mali non sono gente di cultura. Si tratta di militanti, che avranno anche imparato il Corano a memoria, ma non l’hanno assolutamente compreso. È però il caso di ricordare che dietro questa barbarie c’ è il wahabismo, sostenuto dagli Stati e dai movimenti salafisti, che oggi minacciano rivoluzioni come quelle della Tunisia e dell’Egitto.
Traduzione di Elisabetta Horvat

La repubblica 11.07.12

"Tagli, tasse e recessione. Non convince il decreto", di Walter Tocci

Non convincono gli argomenti del Governo a sostegno dell’ultimo decreto. Non è una spending review, è una manovra di tagli lineari, alquanto rozza soprattutto per la sanità e i Comuni. La vera spending review fu impostata dal compianto Padoa Schioppi con il suo ambizioso progetto di riforma della spesa pubblica. L’alta burocrazia statale, in primis la Ragioneria, lo bloccò convincendo il ministro Tremonti peraltro desideroso di prendere le distanze dal predecessore. Si poteva immaginare che il governo tecnico riprendesse il progetto e invece, dopo aver perso otto mesi, procede per decreto all’ennesimo intervento emergenziale, scopiazzando alcune parti del documento del 2007, che nella sostanza viene archiviato e usato solo come foglia di fico. Da dieci anni si approvano decreti con tagli lineari, scritti dagli stessi burocrati ieri e oggi, e i risultati sono sotto gli occhi di tutti: la spesa è aumentata e la qualità dell’amministrazione è crollata. È una logica sbagliata e dannosa per almeno quattro motivi: a) il taglio a sciabolata ignora le differenze di qualità dell’Amministrazione e di solito mette in difficoltà i settori più innovativi, senza mai impensierire le varie cricche che infatti sono prosperate; b) gli obiettivi fissati apoditticamente, senza un reale governo dei processi, rinviano i problemi che si ripresentano poi in maniera aggravata, come avrebbe dovuto insegnare la vicenda degli esodati (e ancor di più il caso storico del Gosplan sovietico); c) le sventagliate di micro norme in tutti i settori ripetute ogni anno, senza mai tentare un approccio organico, aggravano la burocrazia e i contenziosi nella fase attuativa; d) il blocco del turn over a prescindere dalla valutazione delle esigenze impedisce l’accesso dei giovani nativi digitali ai ruoli dirigenziali e priva l’Amministrazione della linfa vitale per l’innovazione.

Da un governo tecnico ci si poteva attendere un discorso inattuale e quindi davvero impopolare del tipo: «La spesa pubblica italiana non è più alta che negli altri Paesi, è molto meno efficace; per riqualificarla occorre una profonda riforma che non durerà meno di dieci anni; se lo avessero fatto i predecessori oggi saremmo un Paese diverso; noi comunque proponiamo un progetto serio che non potrà essere eluso dai governi successivi sia di destra sia di sinistra».

Per quanto riguarda le tasse si è detto che non ne sarebbero state introdotte di nuove. Non è vero. Purtroppo, il decreto contiene il raddoppio Ma quale spending review, sono sciabolate Grave il raddoppio delle tasse universitarie delle tasse universitarie, in modo furbesco, senza neppure dirlo nel comunicato ufficiale, tramite una revisione del calcolo del limite del 20% rispetto ai contributi statali agli atenei. È un meccanismo complesso che potrà comportare anche un aumento di circa mille euro per figlio a famiglia.

Gli atenei avranno la possibilità di chiedere agli studenti una somma aggiuntiva di oltre un miliardo di euro. Potrebbero anche non farlo ma saranno costretti dal corrispondente taglio che hanno subito per il 2013: 400 milioni già deciso in precedenza, 150 milioni alle borse e all’attività di ricerca e meno 200 milioni con l’attuale decreto tramite il blocco del turn over che costringerà migliaia di talenti italiani ad emigrare.

Il raddoppio delle tasse è benzina sul fuoco rispetto al crollo delle immatricolazioni universitarie del 10% solo nell’ultimo anno. Si scoraggiano le famiglie e i giovani che già oggi sotto i colpi della crisi economica non ce la fanno a sostenere i costi degli studi.

Intollerabile poi è la norma che incentiva gli atenei ad aumentare le tasse ai giovani immigrati, che è un atto discriminatorio che nega la cittadinanza alle seconde generazioni nate o cresciute in Italia. Si diffonde inoltre lo sconcerto in tutta Europa per il taglio all’istituto di ricerca (Infn) che è stato protagonista del grande successo per la scoperta del bosone di Higgs.

Sul capitolo recessione, doveva cominciare la seconda fase della crescita e della lotta alla disoccupazione. Dopo lungo meditare a Passera l’ideona non è venuta, la montagna ha partorito il topolino del decreto sviluppo e si continua con tagli e tasse. Secondo il governatore della Banca d’Italia la stretta recessiva degli ultimi mesi ha contribuito per un terzo all’attuale diminuzione del Pil. Se continua così, per fermare il deficit si rischia di dover prendere altri provvedimenti che aggraveranno il deficit. Nel frattempo rimane alto il famoso spread per ragioni che attengono agli errori della politica europea. Il premier va facendo molto per rimuovere le cause vere del problema. Anche per questo non può dire che lo spread aumenta quando viene criticato il governo.

l’Unità 10.07.12

Ghizzoni (Pd): Alle scuole dell'Emilia i risparmi della Camera

Come si può ascoltare in questo AUDIO con cui Tuttoscuola ha raccolto la presentazione effettuata dal presidente della Commissione Cultura di Montecitorio, Manuela Ghizzoni, destinare i 150 milioni di euro che la Camera risparmierà in tre anni per ricostruire il tessuto scolastico e i beni culturali dell’Emilia terremotata.

E’ questa dunque la proposta bipartisan avanzata da tutti i deputati eletti in Emilia Romagna, quasi quaranta.

L’iniziativa è stata presentata in una conferenza stampa alla quale hanno partecipato, tra gli altri, il questore di Montecitorio Gabriele Albonetti (Pd), i deputati Tommaso Foti (Pdl), Gian Luca Galletti (Udc), Angelo Alessandri (Lega Nord), Silvana Mura (Idv), Massimo Marchignoli e appunto Manuela Ghizzoni (Pd).

Come ha ricordato Albonetti nei giorni scorsi i parlamentari dell’Emilia Romagna hanno scritto al presidente della Camera Gianfranco Fini per chiedergli di appoggiare la richiesta di utilizzare i risparmi del ”Palazzo” per aiutare una terra ”profondamente colpita da un sisma devastante con una ricostruzione celere e procedure legislative e amministrative efficienti ed efficaci”.

La terza carica dello Stato ha subito appoggiato l’iniziativa che ha definito ”lodevole” e ha girato la richiesta al premier Mario Monti. ”Non intendiamo insegnare al governo – ha sottolineato il questore di Montecitorio – come deve utilizzare i risparmi del Paese. Tuttavia abbiamo dato un’indicazione per la possibile utilizzazione solidale dei 150 milioni risparmiati dalla Camera, anche perché c’è una copertura finanziaria insufficiente per la rinascita delle zone colpite dall’ultimo sisma”.

da Tuttoscuola 10.07.12

Sisma, Miglioli e Ghizzoni “Restano da compiere molti passi”

I deputati del Pd sono intervenuti ieri in Aula per la conversione in legge del decreto. I 2.5 miliardi di euro stanziati per i danni del terremoto sono un primo passo importante, ma non sufficiente rispetto alle necessità del territorio: lo hanno ribadito alla Camera i deputati modenesi del Pd Ivano Miglioli e Manuela Ghizzoni che hanno portato in Aula le richieste dei sindaci e delle comunità colpite dal sisma.
Il decreto è una prima risposta, un primo passo importante per superare la fase dell’emergenza, ma tanto resta ancora da fare, soprattutto le risorse finanziarie stanziate non sono sufficienti rispetto alle necessità di un territorio che vuole rialzarsi e ricostruire. I deputati modenesi del Pd Ivano Miglioli e Manuela Ghizzoni, ieri pomeriggio, hanno portato in Aula alla Camera questo messaggio per conto delle comunità colpite dal terremoto. “Le risorse stanziate sono 2.5 miliardi di euro, – ha detto l’on. Miglioli – sono una cifra importante ma ancora non certa, non sicura e comunque largamente insufficiente visto che la stima dei danni è due-tre volte superiore a questa cifra. Inoltre – ha continuato Miglioli – non possiamo affidare ai sindaci solo le responsabilità. Dobbiamo metterli in condizioni di operare ed è indispensabile, ad esempio, superare il Patto di stabilità per il personale. Il rinvio degli adempimenti fiscali, poi, fino a novembre e dicembre, e non invece fino a giugno 2013, non è sufficiente”. E, una volta, ottenuti nuovi fondi e soprattutto una legislazione specifica, Ivano Miglioli ha le idee chiare su come si dovrà procedere: “Non vogliamo fare quello che è stato fatto all’Aquila, non dovremo espletare alcuna gara pubblica al massimo ribasso perché bisogna essere coscienti che l’infiltrazione mafiosa tenterà in tanti modi di mettere le mani sulla ricostruzione”. “Non chiediamo privilegi – ha aggiunto la presidente della Commissione Cultura e Istruzione della Camera Manuela Ghizzoni – chiediamo semplicemente che le istituzioni a tutti i livelli facciano la propria parte per mantenere fede al patto di cittadinanza con territori operosi, virtuosi, generosi, dalla forte propensione civica e che soprattutto non sono mai venuti meno alla fedeltà fiscale”. L’on. Ghizzoni ha, inoltre, rimarcato l’importanza di due emendamenti accolti nel testo del decreto che dovranno essere assolutamente confermati anche dalla commissione Bilancio: “Il primo emendamento – spiega Manuela Ghizzoni – dispone che per la messa in sicurezza delle scuole vengano assegnati alle province coinvolte e ai comuni interessati il 60% dello stanziamento per l’edilizia scolastica e la stessa percentuale dello stanziamento per la costruzione di nuovi edifici scolastici. L’altro emendamento, invece, dispone 20 milioni dal Fondo per interventi strutturali di politica economica da mettere in capo alle Direzioni regionali per i beni culturali per affrontare speditamente la messa in sicurezza del patrimonio culturale, mobile e immobile, danneggiato dalla crisi sismica”. “Dobbiamo fare di tutto – ha concluso Manuela Ghizzoni – affinché un terremoto, ancorché violento, non obliteri le testimonianze altissime di una civiltà che ci accompagna da secoli e che ci influenza anche ora, su come siamo noi oggi. Ma questo non è un impegno che riguarda solo le province colpite dal sisma, è un impegno che riguarda tutto il Paese, perché senza queste provincie l’Italia non sarebbe tale”.

"Nel 2013 basta governi tecnici", di Claudio Sardo

L’italia non può tornare al voto con il porcellum. Sarebbe un delitto. Non è in gioco solo la credibilità della politica: ormai a rischio è la tenuta stessa delle istituzioni democratiche. Giorgio Napolitano ha lanciato ieri un appello estremo al Parlamento affinché non vadano sprecati i prossimi mesi. Purtroppo molti giocano contro la riforma, anche se non hanno il coraggio, né la dignità di dirlo apertamente.
Sono contro la riforma quanti sanno di perdere le prossime elezioni, a cominciare da un pezzo consistente del Pdl: perché consentire una correzione del sistema e assicurare così solidità al prossimo governo? Meglio restare tra le macerie e scommettere sull’instabilità futura, magari sul prolungamento dell’emergenza e della grande coalizione… Sono contro la riforma i partiti personali che hanno bisogno delle liste bloccate per perpetuare il potere del capo. Sono contro la riforma i cultori, non pentiti, della Seconda Repubblica, quelli che pur di costruire un «presidenzialismo domestico» si sono inventati il maggioritario di coalizione, istituto senza uguali in Paesi dotati di Costituzione democratica.

Sono contro la riforma anche quelle parti dell’establishment, quei pezzi di classe dirigente che oscillano tra l’esaltazione di Monti (contro i partiti) e la simpatia verso Grillo (va bene pure un altro comico purché sinistra e centrosinistra stiano lontani dal governo): la sinistra per loro accettabile è solo quella che sostiene soluzioni oligarchiche.
Invece bisogna dire con chiarezza che nel 2013 l’Italia ha bisogno di una competizione elettorale vera, tra alternative plausibili, legittime, europee. E che alla competizione elettorale deve seguire un governo coerente, dotato degli strumenti politici per attuare un programma di lavoro. Il governo dei tecnici è un’eccezione. Chi pensa di mantenerlo in vita oltre la legislatura non vuole bene all’Italia perché la esporrebbe al drammatico rischio di un esito greco. Se gli elettori si trovassero di fronte, non già ad una competizione democratica ma ad un rito politico senza carico di responsabilità perché l’approdo tecnocratico sarebbe comunque inevitabile, il voto di protesta, l’antipolitica, il populismo verrebbero gonfiati a dismisura. Ci troveremmo anche noi partiti anti-euro, albe dorate, demagoghi di ogni risma. E l’effetto sarebbe catastrofico. Non solo per l’indebolimento dei partiti “europei”, ma anche perché la legittimazione di un eventuale governo d’emergenza sarebbe indebolita. Come oggi in Grecia.
Forse non è giusto definire ultimatum una lettera del presidente della Repubblica. Ma sul piano morale è un ultimatum. Il Capo dello Stato si è assunto una grande responsabilità nel momento in cui, in piena tempesta finanziaria e dopo i danni di Berlusconi, ha dato vita al governo Monti. Ora la riforma elettorale sarebbe il giusto coronamento di uno dei settennati più difficili della storia repubblicana. Uscire dal Porcellum vorrebbe dire vedere la luce oltre il tunnel della Seconda Repubblica.
Tutti devono essere disposti a rinunciare a qualcosa, pur di arrivare ad una legge elettorale europea, in cui la sera del voto sono chiari il nome del premier e la maggioranza che lo sosterrà per l’intera legislatura. Accade così in Germania, in Gran Bretagna, in Spagna, in Svezia, insomma in tutti i Paesi con un sistema parlamentare funzionante. Non c’è motivo perché non accada anche in Italia.
Le battaglie tra preferenze e collegi uninominali, tra collegio unico nazionale e circoscrizioni sub-regionali, tra premio al primo partito oppure ai partiti apparentati sono molto rilevanti. Anche perché alcune scelte rischiano di avere un costo in termini di credibilità futura del sistema. Tuttavia è quasi impossibile fare peggio del Porcellum: dunque, meglio precedere in ogni caso.
Ha ragione il Capo dello Stato: al punto in cui siamo, si presentino i testi in Parlamento e si voti. Le leggi elettorali dovrebbero essere approvate con larghe maggioranze, perché le regole valgono di tutti. Ma non si può accettare il veto di chi scommette sullo sfascio anche della prossima legislatura. Quantomeno in Parlamento ognuno si prenda le proprie responsabilità davanti al Paese.
Abbiamo un bisogno vitale di ritrovare la strada di una democrazia competitiva, trasparente. Dove i governo si assumono le responsabilità davanti agli elettori e gli elettori si assumono le responsabilità delle loro scelte. O nel 2013 torna la una democrazia che funziona, oppure l’Italia sarà condannata. E non ci saranno tecnici capaci di salvare la patria. Giorgio Squinzi ha detto anche queste cose nel famigerato confronto con Susanna Camusso di sabato scorso: non vorremmo che fosse la ragione di alcuni attacchi. Siamo invece convinti che, senza riforma elettorale, lo stesso governo Monti sarà ricordato per un fallimento.

L’Unità 10.07.12

Bersani: "Sulla sanità non accettiamo che comandi il mercato"

Il segretario Bersani ha concluso i lavori del seminario del PD sui temi della sanità organizzato in vista della Conferenza Nazionale del PD sulla
“Sono orgoglioso che mentre sui giornali prevale la chiacchiera o il gioco delle dichiarazioni un partito di governo come il nostro sia impegnato su un problema basico per gli italiani, la sanità. Un partito popolare che conosce i problemi degli italiani e conosce anche come la gente li percepisce”. Lo ha detto il Segretario Pd Pier Luigi Bersani, concludendo il Convegno organizzato dal PD sul Servizio Sanitario e i contraccolpi della spending review, in vista dellaConferenza Nazionale del PD sulla salute, prevista per ottobre.

“La discussione sulla sanità è sistemica e ruota attorno alla finanza pubblica, e al servizio del debito – ha spiegato Bersani – il Tesoro comanda dappertutto anche se più da noi, a livelli, secondo me, inverecondi. Ma è così un po’ dappertutto. E in queste fasi- ha aggiunto – può succedere qualcosa di irrazionale, come quello di smontare un sistema che funziona. E’ come quando si deve dar via l’argenteria”, ha detto con una battuta.

“Nella nostra visione utopica, davanti a bisogni come la salute non ci possono essere poveri e ricchi e questo vale per la salute come per la scuola e la sicurezza. Non accettiamo che sia il mercato a guidare la danza. In altri settori invece – ha chiarito Bersani- il mercato deve funzionare bene e a bevuta pari. Questa è la nostra idea di società e siamo affezionatissimi a questa visione. Dunque, accettiamo la sfida, ripensiamo questo sistema se non vogliamo finire che ci si affida al mercato”.

Bersani, concludendo il seminario del PD sul sistema sanitario ha dichiarato: “Bisogna aprire un tavolo tra governo e Regioni sulla sanità, perché altrimenti si rischia che la situazione diventi ingovernabile in Parlamento e una rottura istituzionale. In questi 15 giorni va ripresa da parte del ministro della Salute e anche da parte del Tesoro una discussione con le regioni. Chiaro che in Parlamento la nostra parte la facciamo, ma c’è anche la Pdl che la vedo più impegnata sulla Rai tv, noi non abbiamo una maggioranza. Allo stesso tempo – ha aggiunto Bersani – chiedo alle Regioni, a cominciare dalle nostre, che si mettano a ragionare su come può essere congegnato un patto sulla salute. In Parlamento garantisco per me, non posso garantire per gli altri. Se c’è un tavolo governo-regioni noi gli facciamo da sponda, senza è molto difficile”.

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