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Appello: «Fermare il colpo mortale alla tutela dei Beni culturali»

Un nutrito gruppo di intellettuali ha inviato una lettera-appello al Presidente della Repubblica e a Monti preoccupati per i tagli che potranno colpire anche la cultura. «No a nuovi tagli alla già boccheggiante tutela dei beni culturali e paesaggistici. No al suo assurdo annegamento nell’apparato burocratico si legge nella lettera Sulla tutela del patrimonio storico-artistico e del paesaggio non devono abbattersi altri tagli di fondi né amputazioni di strutture e di personale dopo quelle già pesantemente inferte nei mesi e negli anni scorsi fino ad intaccare l’ossatura stessa dei Beni Culturali e quindi la copertura territoriale della tutela. Rivolgiamo un appello forte e accorato al governo Monti affinché con la “revisione della spesa” in corso non pratichi né nuovi tagli di risorse né l’assurdo accorpamento burocratico delle Soprintendenze con altri uffici dello Stato, del tutto estranei alla tutela, né il pre-pensionamento di tecnici di grande esperienza e qualificazione di cui si parla in queste ore e che sguarnirebbe la salvaguardia territoriale».
«Nuovi colpi di accetta sui pochi fondi disponibili e nuovi vuoti nella rete della tutela aggraverebbero in modo irreversibile una situazione, già vicina al coma, la quale esibisce al mondo intero i nostri paesaggi aggrediti da cemento e asfalto senza piani regionali e spesso senza neppure controlli pubblici di sorta, con pesanti infiltrazioni malavitose si legge ancora nel testoNoi non ci stiamo ad assistere inerti al massacro del Belpaese. Noi crediamo alla ricerca, alla cultura e ai suoi beni come straordinario generatore di una nuova, epocale rinascita, anche economica, del Paese». Tra i firmatari una settantina di uomini e donne di cultura Vittorio Emiliani, Alberto Asor Rosa, Maria Pia Guermandi (Eddyburg), Donata Levi (PatrimonioSos), Carlo Alberto Pinelli (Mountains Wilderness), Giuseppe Basile (Associazione Cesare Brandi), Pier Luigi Cervellati, Vezio De Lucia, Luigi Manconi, Salvatore Settis, Arturo Osio, Cesare De Seta, Corrado Stajano, Marco Bellocchio, Marco Tullio Giordana, Sandro Petraglia, Jacqueline Risset, Chiara Valentini, Carmine Donzelli, Gianfranco Pasquino, Furio Colombo.

l’Unità 10.07.12

"Chi sono i veri anti-italiani che giocano solo per se stessi", di Francesco Cundari

Non si ricorda una dichiarazione di un presidente di Confindustria che sia stata sommersa da tante e così pesanti critiche come è accaduto con le parole pronunciate da Giorgio Squinzi a proposito di «macelleria sociale». Dopo la replica di Mario Monti, che lo ha accusato di far salire lo spread, le critiche più pesanti sono venute dal fior fiore dell’alta finanza, da Marco Tronchetti Provera a Luca Cordero di Montezemolo, secondo il quale le dichiarazioni di Squinzi «non si addicono a un presidente di Confindustria». Il direttore di Repubblica ha parlato addirittura di «ribellismo delle classi dirigenti», «tono sguaiato da organizzazione alla deriva», «pulsioni anarcoidi».
Ma cosa aveva detto di tanto grave il presidente di Confindustria? Queste le sue parole esatte: «Dal mio punto di vista dobbiamo evitare quella che proprio davanti al presidente io ho definito macelleria sociale, però nello stesso tempo dobbiamo razionalizzare, dobbiamo semplificare la pubblica amministrazione, perché abbiamo sicuramente delle ridondanze che vanno eliminate». Sembra incredibile, viste le reazioni, ma la scandalosa affermazione di Squinzi sulla «macelleria sociale» era tutta qui. Si sarebbe tentati di concluderne che il nostro establishment finanziario voglia dunque proprio la «macelleria sociale». Non certo per sadismo, s’intende. Magari solo perché l’alternativa è per esso meno conveniente. D’altronde, in quello stesso dibattito con Susanna Camusso da cui sono nate le dichiarazioni dello scandalo, oltre a esprimere la sua opinione sull’opportunità che nel 2013 si torni a un normale governo politico, Squinzi aveva mostrato apertura verso il sindacato, anche sulla patrimoniale, purché questa gravasse sulle persone e non sulle imprese. Posizione comprensibile: in piena crisi, si capisce che il leader degli imprenditori chieda di privilegiare impresa e lavoro per invertire la spirale della recessione e tornare a crescere. E che per questo chieda il massimo della coesione sociale e il minimo della conflittualità sindacale.

Diversa, però, è l’ottica di un’oligarchia finanziaria che ha ben
poco da produrre, abituata da tempi immemorabili a giocare alla roulette soltanto con i soldi degli altri, e la cui unica preoccupazione, di conseguenza, è che tutto resti com’è. Un’oligarchia trasversale che controlla banche e giornali, che alimenta quotidianamente le campagne contro la politica e i sindacati, che non esita a civettare persino con Beppe Grillo (a proposito di sovversivismo delle classi dominanti), quando serva a perpetuare l’attuale polverizzazione politica e sociale, unica sicura garanzia del suo potere di interdizione e ricatto su governi e maggioranze di ogni colore.
Ecco chi sono i veri anti-italiani, quelli che da uno sforzo collettivo e solidale del Paese per uscire dalla crisi hanno tutto da perdere. Sono sempre gli stessi, sono i sostenitori del modello Marchionne, sono quelli che alla guida della Confindustria avrebbero voluto il fidato Alberto Bombassei (sostenuto da Montezemolo come da Carlo De Benedetti). Sono gli ultimi giapponesi di dottrine economiche e sociali che nel resto del mondo sostengono ormai solo estremisti da Tea Party, e che giusto in Italia qualcuno ha ancora il coraggio di spacciare come «di sinistra». Sono quelli che se un tribunale condanna la Fiat per discriminazione antisindacale è «folclore locale». Quelli che non possiamo più permetterci né una normale dialettica democratica, né elementari diritti sindacali, né alcuna autonomia sociale. Quelli che non vogliono permetterci più niente, per continuare a permettersi tutto.

l’Unità 10.07.12

"La scuola perde la moneta contante", di Alessandra Ricciardi

Dopo gli enti di ricerca, anche le scuole. In perfetta continuità con il primo decreto di revisione della spesa pubblica, curato dal ministro dei rapporti con il parlamento, Piero Giarda, il decreto legge di spending review messo a punto dal commissario straordinario Enrico Bondi istituisce anche per le scuole l’obbligo della Tesoreria unica. E dunque quando a settembre riapriranno i battenti del nuovo anno, i cassieri si ritroveranno a dover passare i soldi che gestivano in autonomia con il fondo di istituto alla Tesoreria: si tratta di circa 900 milioni di euro. A prevederlo l’articolo 7, comma 33 del decreto legge n. 95, da ieri all’esame del senato per il primo sì alla conversione. Niente più conti correnti autonomi, le scuole dovranno disporre i pagamenti, per spese di funzionamento e supplenti, attraverso il meccanismo del mandato elettronico. Una misura che, a leggere la relazione tecnica allegata al decreto legge, certamente serve ad evitare inefficienze nella gestione dei pagamenti ma anche a ridurre il debito pubblico: ipotizzando una giacenza minima di 900 milioni di euro e un tasso per il ricorso al mercato del 3,13% nel 2012, del 4,38% nel 2013 e del 5,01% nel 2014, «si otterrebbe una riduzione della spesa per interessi sul debito pubblico pari a circa 4 milioni nel primo anno, che salgono poi a 31 milioni nel 2013 e a 36 nel successivo». Un impatto sull’avanzo/deficit minimo, ma comunque positivo.
Dall’attribuzione dell’autonomia alle scuole, gli istituti hanno acquistato i servizi di incasso e pagamento sul mercato, curando le procedure per conto proprio e con tassi di interesse molto diversi: in media dello 0,15%. E poi si sono riscontrate le inefficienze nei pagamenti (fatture non pagate e soldi lasciati in giacenza), tanto da far ritenere preferibile l’accentramento della liquidità. Nessuna riduzione di risorse, comunque, tiene a precisare la relazione messa a punto tra il ministero dell’istruzione e la Ragioneria generale dello stato. Ciascuno dei 100 ambiti scolastici territoriali, corrispondenti agli ex provveditorati, sarà titolare di un conto corrente infruttifero di contabilità presso la Tesoreria, ogni cc a sua volta sarà suddiviso in tanti sottoconti in corrispondenza dei capitoli di bilancio che lo alimentano. Sui vari sottoconti verranno emessi gli ordini a pagare. Per le supplenze brevi si prevede poi lo stesso meccanismo di pagamento del cedolino unico, per cui la liquidazione dei compesi sarà a carico del Mef/Stp: obiettivo, garantire precisione e rapidità. E poi ci sono i fondi per le contabilità speciali: fondi appoggiati sui conti delle scuole, utilizzati per progetti decisi a livello centrale dal ministero. Negli anni le risorse sono calate da 1,8 miliardi sino ai 423 milioni del 2012. Fondi la cui gestione non è sempre stata chiara e che oggi tornano, a colpi di 100 milioni l’anno fino al 2016, al bilancio dello stato per essere assegnati per le spese di funzionamento delle scuole. I restanti 30 milioni andranno a contribuire ai miglioramenti dei saldi di cassa.

Saranno ridotte infine le spese per il controllo di regolarità amministrativa e contabile delle istituzioni scolastiche, per un risparmio di 8 milioni.

ItaliaOggi 10.07.12

Legge elettorale, scossa di Napolitano "Basta rinvii, si decida a maggioranza", di Umberto Rosso

La lettera-ultimatum arriva sulle scrivanie dei presidenti delle Camere mentre Giorgio Napolitano sta ormai per lasciare Roma per Lubiana, dove da ieri sera è in visita di Stato per due giorni. La nuova legge elettorale, avverte il capo dello Stato, «è ormai opportuna e non più rinviabile». Non è certo il primo appello a cambiare subito il Porcellum, ma stavolta c´è qualcosa di più. Perché Napolitano sollecita, di fronte alla melina e al gioco di veti che rischiano di insabbiare la riforma, di procedere rimettendo «alla volontà maggioritaria delle Camere la decisione sui punti che non risultassero oggetto di più larga intesa preventiva». Se non ci sono larghe intese, si proceda con chi ci sta. Insomma, scrive il presidente della Repubblica a Schifani e Fini perché i segretari politici intendano, è tempo di andare verso un «confronto conclusivo», che è bene «non resti ulteriormente chiuso nell´ambito delle consultazioni riservate dei partiti». I presidenti delle Camere, si augura Napolitano, possono autorevolmente sollecitare la presentazione in Parlamento di «una o più proposte» di legge per cambiare quella attuale.
Tradotto, è la richiesta del capo dello Stato alle forze politiche di giocare a carte scoperte sull´unico tavolo che conta: quello del Parlamento. E così facendo Giorgio Napolitano punta a stanare chi magari tesse di giorno e disfa di notte, con la segreta speranza di arrivare al voto tenendosi la legge porcata firmata da Calderoli. Il presidente del Senato e quello della Camera promettono che convocheranno ad horas i capigruppo per portare in aula il confronto. Fini si toglie un sassolino dalle scarpe: «È dal 2010 che il Senato si è impegnato a discutere la riforma, per un doveroso rispetto la Camera non ha avviato una discussione parallela».
Tutti i partiti si dicono d´accordo con Napolitano. Bersani è disponibile a discutere «da domani mattina», e altrettanto Alfano che si dichiara apertissimo a «valutare diverse ipotesi nel confronto in Senato». Anche se il Pdl con Gasparri e Quagliarello chiede che si leghi la riforma elettorale alle riforme istituzionali e al semipresidenzialismo. Che però – e lo stesso presidente della Repubblica aveva chiuso la porta a riforme «radicali « per cui non c´è il tempo né il clima giusto – è giusto il grimaldello che rischia di far saltare tutto.
Un appello, quello di Napolitano, che si intreccia con le grandi manovre attorno a Mario Monti, apparso sensibile all´ipotesi di continuare il lavoro da premier anche nella prossima tornata con una larga coalizione, tanto che in una cena riservata con i suoi avrebbe risposto con un «ci penserò ma questo non è il momento» all´invito ad una ricandidatura. Ma l´esercizio sul Monti-bis per Casini «non ci deve distrarre», e per Cicchitto «niente laboratori per escludere il Pdl». Ma c´è tutta un´ala dello schieramento decisamente contraria a che il professore resti in sella. Vendola parla di «impudicizia ambrosiana» del premier che lega spread e incertezza economica, e che «non può rappresentare una liquidazione coatta della nostra democrazia». E per l´Italia dei valori «al peggio ci deve essere un limite, quindi no secco alla riconferma di Monti, una evenienza «da scongiurare a priori visto il fallimento del governo attuale» secondo il capogruppo Belisario.
Ma è il nodo riforma elettorale a tenere, concretamente, banco. Il presidente della Repubblica ricorda che consultò in gennaio tutte le forze politiche ricevendone «indicazioni largamente convergenti anche se non del tutto coincidenti a favore di una nuova legge». Stanno però «purtroppo trascorrendo le settimane senza che si concretizzi la presentazione alle Camere del progetto», e questo proprio da parte dei partiti che «hanno da tempo annunciato di voler raggiungere in proposito un´intesa tra loro». Il tempo ormai è scaduto.

La repubblica 10.07.12

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“In aula si vedrà finalmente chi fa sul serio e chi ostacola Le preferenze? Pericolose”, di Giovanna Casadio

Proponemmo di far marciare le riforme al Senato e la legge elettorale alla Camera ma Schifani disse no. I capisaldi: vincolo di coalizione con premio di maggioranza, sbarramento alto, via le liste bloccate. Il punto d´incontro per cambiare la legge elettorale potrebbe essere il ritorno alle preferenze. Anche se alcuni nel suo partito hanno aperto, il Pd si oppone onorevole Franceschini?
«Le preferenze sono belle da dire e drammatiche da applicare. Non viviamo nel mondo delle favole, l´ultima volta che si votò alle politiche con le preferenze fu nel 1992: i miliardi spesi in quelle campagne elettorali sono finiti in buona parte nell´inchiesta di Tangentopoli. Le preferenze comportano costi elevatissimi, con tutti i rischi che ne seguono. Non a caso in nessun grande paese d´Europa si vota con le preferenze, né in Spagna, né in Francia, né in Germania, né in Inghilterra. La via maestra sono i collegi uninominali che consentono agli elettori di scegliere la persona da cui far rappresentare il proprio territorio».
Ma fate sul serio? Finora è sembrata solo melina tra i partiti. Tant´è che è arrivato il nuovo appello di Napolitano: ci vuole il capo dello Stato per scuotervi?
«Le parole del presidente della Repubblica sono utili per portare tutta la questione nelle sedi istituzionali in modo trasparente, alla luce del sole così che si capisca con chiarezza chi vuole fare la legge elettorale e chi non vuole farla».
E voi del Pd volete davvero cambiare il Porcellum?
«Assolutamente sì. Noi abbiamo contrastato la “legge porcata”, quando fu approvata con un colpo di mano della maggioranza alla fine della legislatura, nel 2005. Non abbiamo mai avuto i numeri, né li abbiamo ora, per cambiarla. Ma è dall´inizio di questa legislatura che mettiamo in cima alle nostre priorità l´esigenza di restituire ai cittadini-elettori il diritto di scegliersi gli eletti, che gli è stato tolto con le liste bloccate del Porcellum».
Però siete finiti nel pantano. Insieme a Pdl e Udc avete fatto e disfatto. Prima il modello ispano-tedesco, poi il ritorno all´idea del Pd sul doppio turno; infine la trovata del “Provincellum”. Risultato?
«Quando è nato il governo Monti, in base a una “divisione dei compiti”, fu detto che al governo era affidata la missione economia-crisi e il Parlamento si sarebbe impegnato a fare alcune riforme istituzionali, a cominciare dalla riduzione dei parlamentari e dalla legge elettorale. Proponemmo che i due percorsi andassero avanti parallelamente, facendo marciare le riforme costituzionali al Senato e trasferendo l´iter della legge elettorale alla Camera. Ma Schifani ha sempre risposto “no”. È ancora tutto là. E Gasparri ripete che prima si devono completare le riforme costituzionali, e poi…
Il tempo passa. Di chi è la colpa del nulla di fatto?
«In fondo, nel crepuscolo, a Berlusconi e alla Lega va bene conservare le liste bloccate, penso faccia molto comodo per tutelare chi va tutelato».
Quali sono i presupposti irrinunciabili per voi?
«Ci sono tre punti, su cui mi pareva si fossero fatti passi avanti nella trattativa: soglia di sbarramento più alto, per ridurre la frammentazione dei troppi partiti; vincolo di coalizione con premio di maggioranza; superare le liste bloccate, perché siano gli elettori a scegliere. Questi sono i capisaldi di una possibile mediazione. Noi siamo però per il doppio turno. Se c´è ancora melina, noi ci presenteremo in aula con la nostra proposta».
Il modello elettorale condiziona la politica del post-voto, nel senso che ci sono leggi che favoriscono l´ipotesi di una grnde coalizione e altre no?
«Le leggi elettorali oggettivamente condizionano molto il sistema politico. Ma il progetto del Pd, indipendentemente da quale modello passa, resta la stesso: un´alleanza tra progressisti e moderati per battere le destre, il qualunquismo e per riuscire poi a governare il paese del dopo Monti».
Da uno a dieci, lei quanto scommette su una nuova legge elettorale?
«Cento, per la nostra volontà. Non posso fare previsioni, perché servono i numeri e perché tra le parole e i fatti del Pdl c´è al momento una distanza enorme».

La Repubblica 10.07.12

"La nuova vita di 10 mila esuberi", di Antimo Di Geronimo

I docenti in esubero che non troveranno piena ricollocazione in sede di mobilità annuale saranno assegnati a posti o cattedre disponibili per i quali possiedano il titolo di studio di accesso. Anche se non hanno l’abilitazione specifica. Per esempio, un docente di economia aziendale (classe A017), se ha la laurea prevista per insegnare geografia (A039), potrà essere assegnato per un anno su una cattedra di geografia invece che di economia aziendale.

Oppure, se si tratta di una maestra elementare, l’amministrazione potrà tentare anche la ricollocazione nella scuola dell’infanzia. Il tutto con assegnazioni d’ufficio.

Lo prevede una disposizione contenuta ne decreto sulla spending review varato dal governo. Il dispositivo riscrive l’intera disciplina del trattamento dei docenti in esubero e, cioè, dei docenti che dopo essere diventati soprannumerari, non riescono ad ottenere una nuova sede nemmeno con il trasferimento d’ufficio. E quindi vengono collocati nella famigerata Dop (dotazione organica provinciale): una specie di limbo in cui vengono tenuti in stand by fino all’assegnazione di una sede provvisoria per un anno, ad esito delle operazione di utilizzazione o assegnazione provvisoria. Sono circa 10 mila, recita la relazione tecnica.Se non sarà possibile ricollocare i docenti in esubero su altro posto o classe di concorso secondo il titolo di studio posseduto, l’amministrazione dovrà ricollocarlo sul sostegno.

A patto, però, che il docente interessato risulti in possesso dell’apposito diploma di specializzazione oppure abbia frequentato almeno un corso di formazione specifico. Se nemmeno in questo modo sarà possibile trovare all’insegnante interessato una nuova collocazione, l’amministrazione potrà ricollocarlo su eventuali spezzoni residui, con priorità rispetto ai docenti interni.

Inoltre, ad anno scolastico già avviato, l’amministrazione potrà comunque procedere all’assegnazione dei docenti in esubero su posti che dovessero rendersi successivamente disponibili. Infine, in assenza di diversa collocazione, i docenti interessati saranno assegnati a disposizione delle scuole per la copertura delle supplenze brevi e saltuarie nella provincia di appartenenza.

Le assegnazioni dei docenti sugli spezzoni o sui posti che si renderanno disponibili in corso d’anno saranno effettuate secondo un piano di utilizzo, predisposto dall’ufficio scolastico regionale. Idem per quanto riguarda le assegnazioni a disposizione nelle scuole, ai fini della copertura delle supplenze brevi e saltuarie. Il provvedimento prevede, inoltre, che qualora l’insegnante venga utilizzato in scuole di ordine o grado superiore, percepirà le relative differenze stipendiali. Nessuna decurtazione, per i gradi inferiori. Tutte queste operazioni saranno effettuate con priorità rispetto all’attribuzione delle supplenze. Va detto, inoltre, che le operazioni di ricollocazione del personale in esubero, attualmente, sono regolate da norme contrattuali. E quindi, fino ad ora, le relative disposizioni venivano scritte al tavolo negoziale. Adesso la disciplina della mobilità d’ufficio dei docenti in esubero sarà sottratta alla contrattazione collettiva. Il tutto in continuità con l’orientamento assunto dal governo precedente che, con l’avvento della legge 15/2009, ha dato prima un colpo di spugna alla facoltà di derogare le norme di legge da parte della contrattazione collettiva. E poi, con il decreto Brunetta, ha riscritto una serie di regole con le quali ha decontrattualizzato materie importanti del rapporto di lavoro dei dipendenti pubblici. Come per esempio, le sanzioni disciplinari e le assenze per malattia.

Da Italia Oggi 10.07.12

"Lo scandalo del Porcellum", di Carlo Galli

I primi sei mesi dell´anno sembrano passati invano dal punto di vista delle riforme. I partiti non le fanno, insensibili all´emergenza civile e democratica in cui versa il Paese, esito temibile ma sempre più vicino di una crisi economica di cui prova a farsi carico Monti, e di una crisi politica il cui solo interprete credibile è il capo dello Stato. Napolitano sta cercando nei modi a sua disposizione – cioè esercitando una moral suasion di grande impegno e di largo respiro – di fare del nostro sistema politico una democrazia decidente.
Sta cercando di trasformare le chiacchiere in azione, il gretto e miope interesse di parte in contributo all´interesse nazionale. Miope è infatti quell´interesse che spinge i partiti – ma soprattutto il Pdl e la Lega – a cercare di confezionarsi una legge elettorale su misura (come fu peraltro il Porcellum di Calderoli, ideato per attenuare – con successo, come si vide – gli effetti della vittoria elettorale di Prodi nel 2006); col risultato di estenuarsi in trattative riservate (ultima debole figura degli arcana imperii) dalle quali escono proposte mostruose, subito abortite perché non vitali, che vogliono mettere insieme le frattaglie di questo e di quel sistema elettorale, combinando ciò che non può essere combinato – tutto va bene, purché alla fine sia salvo il supremo valore di ciascun partito: la propria sopravvivenza, senza la quale pereat mundus, vada in rovina tutto quanto –. La pretesa di garantire tutto e tutti – di neutralizzare la volontà dei cittadini, di minimizzare l´esito delle elezioni, poiché non le si può proprio evitare – porta con sé naturalmente la ridda dei veti incrociati e in ultima istanza la paralisi: ossia, la conferma del Porcellum (forse con qualche marginale aggiustamento sulle preferenze), che assurge così a emblema dell´impotenza del sistema dei partiti, e anche a simbolo dei loro desideri più profondi: nominare il Parlamento, divorare la rappresentanza del popolo.
È, questa, una nuova edizione della logica della tela di Penelope, fondata sul meccanismo del “rilancio”: poiché non si può dire semplicemente No al cambiamento, è meglio spostare il confronto ad altezze del tutto impraticabili, come fa il Pdl: per il quale la riforma elettorale deve essere preceduta da una modifica costituzionale della forma di governo, cioè dall´introduzione del presidenzialismo su base elettiva; che è come rinviare il fattibile a quando sarò realizzato l´infattibile. Ovvero, è fingere di darsi molto da fare perché nulla cambi. Una pratica miope, appunto, perché non vede che un´autentica riforma elettorale è l´unica via ancora percorribile per rilegittimare la politica – come sul versante economico la ripresa può legittimare i tagli della spesa pubblica –; che, insomma, la sopravvivenza dei partiti è garantita, eventualmente, dall´introdurre soluzioni che diano ai cittadini qualche motivo e qualche stimolo per votarli, e non certo dal permanere, offensivo e deprimente, di uno status quo che dimostrerebbe al di là di ogni ragionevole dubbio che l´Italia non ha un ceto politico ma, davvero, una corporazione, una Casta, destinata in quanto tale a perire sotto la marea montante dell´astensionismo e del grillismo. E a trascinare con sé il Paese.
Che il capo dello Stato indichi non solo l´obiettivo (una riforma reale, presto) ma anche la via (larghe intese fin che si può, e poi decisione a maggioranza in Parlamento – procedura del resto correttissima –), significa che Napolitano ha percepito che la melina dei partiti non è una tattica da cui ci si debba aspettare un fulmineo contropiede capace di portare a casa il risultato, ma è segno di una stanchezza radicale della nostra politica, di una vera impotenza del potere; e significa anche che l´ultima scintilla di energia del sistema politico sta in lui, nella sua persona e nella sua carica. E infatti la sta usando per spronare ceti dirigenti riottosi, pezzi di élite riluttanti, a fare quello che dovrebbe essere il loro dovere: assumersi finalmente qualche responsabilità a fronte del potere che è stato loro demandato, di cui pare non sappiano fare uso politico, ma solo privato (cioè, in questo caso, partitico).
Il ceto politico è una parte importante delle élite di un Paese. Il fatto che – nella sua maggioranza – non sappia affrontare alcun rischio, né assumersi alcuna responsabilità, né riconoscersi in un orizzonte generale a cui chiamare il Paese, ma pensi solo (e malamente) a se stesso, non è che una parte del nostro più grave problema: l´assenza (o la presenza minoritaria) di élite degne di questo nome, lo sfrangiarsi dell´establishment in innumerevoli cordate che parlano ormai solo il dialetto locale delle categorie e ignorano la lingua nazionale della politica. Quella che parla Napolitano, e che per gli uomini di buona volontà è davvero l´ultima chiamata.

La Repubblica 10.07.12