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"Tagli agli armamenti. Il Pd: si prendano lì 5-6 mld per il sociale", di Massimo Franchi

Parte oggi dal Senato il cammino parlamentare della Spending review. Pubblicato venerdì in Gazzetta ufficiale, il decreto numero 95 «Disposizioni urgenti per la revisione della spesa pubblica con invarianza dei servizi ai cittadini» dovrebbe essere convertito in legge entro la prima settimana di agosto, in tempo per la pausa estiva parlamentare prevista da venerdì 3.
Come accaduto per ogni provvedimento del governo Monti, il suo iter non sarà semplice. La stessa maggioranza, a partire dal Pd chiede a gran voce di modificarne molte parti, a cominciare dai tagli a sanità ed enti locali. Su un dato però governo e partiti concordano: come ribadito da Mario Monti, i saldi sono invariabili. Si potrà dunque modificarla solo trovando uguali risorse. Una prima stima sulla entità la fa il responsabile economia del Pd Stefano Fassina: «Per modificare i tagli insopportabili su sanità ed enti locali servono tra i 5 e i 6 miliardi già quest’anno». Una «prima idea» su come reperire i fondi necessari per rendere i tagli a sanità ed enti locali «sopportabili» è quella di ridurre «drasticamente la spesa in armamenti». Fassina e la Fp Cgil (che sul tema ha lanciato una campagna) la pensano allo stesso modo: «Con un F35 in meno si tengono aperti un centinaio di asili nido». Se questa proposta va annoverata fra uno spostamento di comparto all’interno dei tagli di spesa pubblica, Fassina poi rilancia anche l’imposta sui grandi patrimoni: «Con la patrimoniale potremo alleggerire fortemente i tagli a sanità ed enti locali e ripristinare un minimo di equità nelle politiche del governo», spiega il responsabile Economia del Pd. Della stessa opinione è l’ex ministro del Lavoro Cesare Damiano: «Dalla riforma delle pensioni a quella del lavoro abbiamo sempre dovuto correggere i testi del governo. Ora nella spending review il grosso del piatto è contro i lavoratori pubblici e lo Stato sociale con gli interventi su sanità ed enti locali. È necessario un riequilibrio: la patrimoniale sarebbe un segnale importante», spiega il capogruppo Pd in commissione Lavoro alla Camera.
UDC E PDL DIFENDONO IL GOVERNO
Bisogna però fare i conti con gli altri partiti della maggioranza e la parola “patrimoniale” l’Udc non la vuole neanche nominare. «Non è la soluzione e poi avrebbe un gettito basso spiega Gian Luca Galletti, vicecapogruppo Udc alla Camera . Per noi il presupposto è mantenere i saldi invariati per evitare l’aumento dell’Iva ed aiutare le popolazioni terremotate dell’Emilia e ad allargare la platea degli esodati continua Galletti . Detto questo, chi critica il decreto ha un obbligo: fare proposte alternative. Se ci saranno presentate buone idee in Parlamento non vedo perché non dovremmo votarle. La struttura della spending review va mantenuta, ma su alcuni capitoli si può interventire. In settimana anche noi dell’Udc inizieremo a discutere, ma al momento i nostri rappresentanti negli enti locali sono tutti abbastanza tranquilli e non si lamentano eccessivamente dei tagli», conclude Galletti.
Dal Pdl la difesa della spending review diventa poi un modo per attaccare il neo-presidente di Confindustria Gior-gio Squinzi, reo di avere posizioni «troppo filo Cgil». Per Giuliano Cazzola, che negli anni settanta è stato anche segretario nazionale della Fiom Cgil, difende le scelte del governo: «Se si vuole tagliare la spesa pubblica non ci sono misure diverse da quelle, forse ancora timide, previste nella spending review. Tanto più che una quota dei risparmi realizzati andranno a risolvere, almeno in parte, il tormentone degli esodati. Non so dove Giorgio Squinzi intraveda la “macelleria sociale” di cui parla assieme a Susanna Camusso». Sulla stessa lunghezza d’onda del Pdl c’è ReteImprese, l’associazione che riunisce i piccoli imprenditori. «Non possiamo non condividere la manovra del governo tesa a ridurre la spesa pubblica è la posizione espressa in una nota . Siccome sarebbe di grave danno a tutta l’economia italiana qualsiasi altra nuova imposta, diretta o indiretta, quel che va fatto è una severa riduzione della spesa pubblica, divenuta negli anni un mostro in grado di divorare ogni creazione di ricchezza».
Ma il Pd non si limita a criticare i tagli a enti locali e sanità. Anche le norme sui dipendenti pubblici «non sono coerenti». «Se il governo, per i dipendenti pubblici da accompagnare alla pensione, prevede una deroga all’applicazione della riforma previdenziale targata Fornero sino al 2014, perché si chiede Cesare Damiano non estendere questa stessa norma ai lavoratori privati e autonomi, anzichè fare continui rattoppi che non risolvono il problema? Del resto aggiunge l’esponente Pd trattamenti pensionistici diversi tra lavoratori non sarebbero accettabili e sarebbero contraddittori».
E che la conversione del decreto sulla spending review rappresenti un passaggio parlamentare delicato per il Pd lo conferma le dichiarazioni del senatore Marco Follini:
«Era ovvio che la spending review non potesse essere una passeggiata su un letto di rose. Tuttavia la riduzione della spesa è un passaggio ineludibile e fa parte di una moderna cultura di governo. Il partito aggiunge dovrà esercitare tutta la sua costruttività nel passaggio parlamentare che abbiamo davanti. È anche da questa cruna dell’ago che passeranno i futuri destini politici del nostro Paese».

L’Unità 09.07.12

"Tre mosse per dare «scacco» alla crisi", di Giuliano Amato

Non è la prima volta che una settimana inizia nel segno della speranza e si chiude nel segno della paura. Questa volta la speranza l’avevano suscitata le novità finalmente uscite dal Consiglio Europeo del 28 giugno – oltre alle misure per la crescita, l’apertura dei fondi salva-Stati al salvataggio diretto delle banche e all’intervento sugli spread a favore dei paesi “virtuosi”. La paura l’hanno fatta tornare un insieme di circostanze – i dubbi dei mercati sulla effettiva portata di queste misure, le aspettative negative che gli stessi mercati hanno letto nelle parole usate da Mario Draghi per spiegare la riduzione dei tassi al di sotto dell’1%, i dati infine sulla disoccupazione americana, che venerdì hanno dato al nero la pennellata finale. Certo si è che le Borse hanno chiuso male e gli spread sono tornati a salire.

Era tutto sbagliato, dunque? Era meglio non fare ciò che si è fatto? No, questo non me la sento proprio di dirlo. Intanto, nella situazione nella quale ci trovavamo, il non far nulla era semplicemente restare in balia delle onde. E poi ciò che si è fatto rifletteva propositi sacrosanti. Insomma l’Unione Europea è la macchina regolatoria più imponente del mondo.

È possibile che per mesi e mesi, pur adottando una rilevante quantità di nuove misure, fosse riuscita ad imbrigliare (un po’) i debiti sovrani dei suoi Stati membri, senza farsi mai percepire dai mercati più forte di loro nella partita in atto sugli spread, sul valore capitale dei titoli e quindi sulla solidità delle stesse banche che li venivano acquistando ciascuna per il proprio paese?

In gioco era qui la credibilità delle istituzioni pubbliche, nazionali ed europee, come istituzioni di governo, alle quali era lecito chiedere non di governare i mercati, ma certo di non farsi governare da loro. Questa era la sfida ed è in realtà su di essa che si è cementato l’accordo di Bruxelles, poi ribadito dall’incontro bilaterale fra il nostro Mario Monti e Angela Merkel.

Che senso ha stabilire severi programmi di rientro dal debito, ottemperare alle loro prescrizioni e poi vedere i propri tassi volare come se nulla si stesse facendo, mettendo a quel punto a repentaglio il raggiungimento dell’obiettivo? È un governo a metà quello che consente un risultato del genere ed è dunque soltanto suicida, ha sostenuto giustamente Monti, permettere alla volatilità dei mercati di governare per l’altra e decisiva metà. Il fatto si è che per governare (se stessi) fino in fondo e non cadere in balia delle mille interazioni di mercato le cose vanno fatte a loro volta fino in fondo. Facendole invece a metà si continua a governare soltanto a metà e questa, ahinoi, è la contraddizione in cui si trova l’Europa di oggi, ben consapevole di ciò che serve, ma incapace per il momento di farlo.

Parliamoci chiaro. Il giudizio dato dai mercati sulle misure del Consiglio europeo e ribadito dai tanti commenti che abbiamo letto in questa settimana non colgono di sorpresa coloro che le hanno adottate. Lo sanno benissimo anche loro che quanto deciso per le banche è ben al di sotto di una effettiva Unione bancaria e che il fondo salva stati è uno scudo di sei volte più piccolo dei debiti italiano e spagnolo che dovrebbe difendere. Il fatto si è che per fare di più, e tecnicamente è facilissimo mettere nero su bianco il di più che servirebbe, i nostri leader dovrebbero essere legati da una solidarietà e quindi da una integrazione politica di cui oggi non sono in grado di disporre, ma in assenza della quale il consenso necessario semplicemente non c’è e non si trova. Qui vengono fuori le buone ragioni di Angela Merkel, che almeno noi italiani, vecchi e convinti fautori dell’integrazione politica, dovremmo capire. Facciamo bene a spronarla perché ai suoi tassisti e ai suoi bottegai lo dica senza reticenze che la salvaguardia dell’eurozona serve a loro non meno che a noi. Ma non possiamo pretendere che in un’Europa, che ancora è Europa delle patrie, le misure finanziarie suppliscano da sole all’assenza di una integrazione politica che, oltre un certo limite, ne è invece il necessario presupposto.

Se non lo capiamo noi, di sicuro lo capiscono i mercati. A quel punto, volgono gli occhi sulle finanze pubbliche e sulle economie dei singoli stati membri e ne traggono quelle previsioni negative, che li portano poi a dipingere di nero le stesse scelte espansive di una Banca Centrale, che di sicuro sarebbe stata criticata ove mai si fosse astenuta dal farle. Non è facile tirarsi fuori da un cul di sacco come questo e non è detto che riusciamo a farlo . Ma la ragione, e l’istinto di sopravvivenza, ci dettano tre obiettivi che dovremmo proporci. Il primo riguarda l’intera eurozona ed è immediato. A partire infatti da domani i ministri finanziari dovranno confezionare i dettagli operativi delle misure decise la settimana scorsa. Se si eviteranno procedure nuove e farraginose e se, in tema di spread, Mario Monti otterrà che si rimanga il più possibile vicini alla sua proposta iniziale, con automatismi conseguenti all’accertato rispetto delle condizionalità richieste, è intanto prevedibile che almeno in parte i dubbi dei mercati vengano rimossi.

Il secondo obiettivo riguarda di sicuro noi italiani e investe le aspettative sul futuro del nostro debito. Torno qui su un tema che ho già toccato nel mio ultimo articolo, ma lo ritengo sempre più ineludibile. La nostra capacità di ridurre il nostro debito totale è infatti cruciale davanti ai rafforzati dubbi del mercato, della Banca Centrale Europea e del Fondo Monetario sulle prospettive di crescita, fra le altre, della nostra economia. Potrebbe essere impossibile un unico, robusto intervento che faccia scendere di botto lo stock del nostro debito al di sotto del fatidico 100%. Ma potrebbe essere necessario un programma di annuale riduzione dello stock, se non altro per rendere credibili gli avanzi primari ai quali affidiamo il nostro riequilibrio. Un investitore che legga i nostri attuali documenti finanziari e veda che, tra ora e il 2015, il nostro debito totale dovrebbe scendere ben al di sotto del 120% del Pil rimanendo eguale a se stesso in valore assoluto, ha buoni motivi per dubitare che ciò sia possibile con un Pil ed entrate stagnanti. Se ha un senso allora la giusta decisione del Governo di creare nuovi fondi per la gestione e la valorizzazione del patrimonio pubblico, lo ha in questa prospettiva, alla quale, posso dirlo, lavora un gruppo di Astrid che spero possa offrire al più presto i suoi frutti.

Il Sole 24 Ore 08.07.12

"Beni fantasma, spese poco trasparenti. Così l'Italia non tutela i capolavori ", di Sergio Rizzo

Il nome in codice era «Giacimenti culturali». E ancora oggi rimane un dubbio. Al progetto di catalogazione del patrimonio artistico e monumentale italiano avevano dato quel nome consapevoli che si stava parlando del nostro petrolio, o perché sapevano che l’operazione si sarebbe rivelata una miniera d’oro per società di informatica private? Le tracce di tutti quei soldi (2.110 miliardi di lire, pari a circa 2,1 miliardi di euro di oggi) stanziati a partire dal 1986 (al governo c’era Bettino Craxi) si sono ormai perse. Ventisei anni dopo resta un’amara considerazione della Corte dei conti, rintracciabile a pagina 310 della memoria del procuratore generale Salvatore Nottola al giudizio sul rendiconto dello Stato approvato il 28 giugno: «Nonostante vari tentativi di giungere a una stima attendibile dei beni culturali, non esiste oggi una catalogazione definitiva specie per i reperti archeologici. Inoltre, per i grandi musei statali non esiste una stima del valore delle opere possedute». Molte delle quali, fra l’altro, restano chiuse nei magazzini. Un caso? Il museo più visitato d’Italia, e uno dei più frequentati del mondo, considerando il numero dei turisti in rapporto alla superficie. Ovvero, la Galleria degli Uffizi di Firenze. Ricorda però il giudice contabile Francesco D’Amaro, autore del capitolo sui beni culturali della memoria di Nottola, che il museo fiorentino espone al pubblico 1.835 opere mentre «ne conserva in deposito circa 2.300, offrendo in visione solo il 44%» di quelle possedute. Problemi di spazi espositivi, ma non soltanto. E dire che gli Uffizi, secondo uno studio di The European house Ambrosetti, hanno una quantità di visitatori per metro quadrato quattro volte maggiore del Louvre (45,8 contro 11,8). Anche se i numeri assoluti non sono certo confrontabili con quelli del museo parigino. L’anno scorso la Galleria degli Uffizi ha staccato un milione 369.300 biglietti, a cui si sono aggiunti 397.392 ingressi gratuiti. Incasso: 8,6 milioni di euro. Al Louvre sono entrati invece in più di 8 milioni, per un introito superiore a 40 milioni.
C’è chi dice che il nostro è un problema di abbondanza. Troppi beni architettonici, troppi siti archeologici, troppe opere d’arte da tutelare. Dice sempre la Corte dei conti che abbiamo 3.430 musei, di cui 409 in Toscana, 380 in Emilia-Romagna, 346 in Lombardia, 302 nel Lazio. Poi ci sono 216 siti archeologici, 10 mila chiese, 1.500 monasteri, 40 mila fra castelli, torri e rocche, 30 mila dimore storiche, 4 mila giardini, 1.000 centri storici importanti… A tutta questa roba si devono aggiungere i 4.381 immobili del demanio storico artistico che sono utilizzati come uffici pubblici. E di quelli, almeno, si conosce il valore esatto. Sono a libro per 16 miliardi 697 milioni 86.283 euro. Ovvio che tutto questo immenso patrimonio sia complicato da gestire. E che responsabilità nei confronti del resto del mondo, se si considera che l’Italia ha il maggior numero di beni tutelati dall’Unesco come patrimoni dell’umanità: 45 su 911.
Ma il modo in cui trattiamo tutto questo ben di Dio è comunque sconfortante. A cominciare dalla «diffusa perdurante carenza dello stato di manutenzione delle aree archeologiche, spesso oggetto di gestioni commissariali con possibilità di deroga rispetto all’ordinaria amministrazione, che determinano», sono parole della Corte dei conti, «poca trasparenza nelle procedure di spesa». Un chiaro riferimento alla vicenda del commissariamento di Pompei, che era stato già bombardato di critiche dalla stessa magistratura contabile. Ma i giudici, dopo aver concesso che causa di tale situazione sono anche i tagli al personale e alle risorse destinate alla manutenzione decisi dal ministero dell’Economia, non risparmiano nemmeno alcune soprintendenze, quando sottolineano «una certa incapacità di spesa degli organi periferici del ministero dei Beni culturali, che ha generato la formazione di una consistente giacenza di cassa, sia pure in parte determinata dalla lentezza delle procedure di gara e dal ritardo nell’accreditamento dei fondi statali». Vero è che quando si devono fare le nozze con i fichi secchi non è sempre facile. I fondi pubblici per i beni artistici e culturali sono ormai ridotti al lumicino: la Corte dei conti segnala che si è scesi allo 0,19% della spesa pubblica, contro lo 0,34% di «pochi anni fa» e lo 0,21% del 2010. Questo mentre lo stato francese ha un budget cinque volte superiore al nostro (oltre 7 miliardi di euro contro 1,4 miliardi) e la Germania ha aumentato quest’anno gli stanziamenti del 7 per cento. Non bastasse, se il dicastero del Collegio romano era stato risparmiato dai tagli «lineari» decisi dalle ultime manovre di Giulio Tremonti, ci ha pensato il governo di Mario Monti a pareggiare i conti con gli altri ministeri. Dirottando alle carceri 57 dei 140 milioni dell’8 per mille destinati ai beni culturali con il decreto sull’emergenza delle prigioni approvato in fretta e furia alla vigilia di Natale del 2011.
Un giro di vite al quale non si è rimediato neppure in seguito. A dispetto delle dichiarazioni ufficiali. Da quando esiste il dicastero dei Beni culturali non c’è mai stato un ministro che non abbia detto pubblicamente come l’attuale, Lorenzo Ornaghi, «la cultura deve agire come volano reale per la crescita». Ma la verità è probabilmente quella che si è fatta sfuggire il segretario generale del ministero Roberto Cecchi qualche mese fa, prima di essere nominato sottosegretario: «In Italia la cultura non è vista come uno strumento per lo sviluppo del Paese. Ci s’inalbera contro il vandalismo, come contro i musei che non sono perfettamente all’altezza della situazione. Ma poi quando si tratta di investire, non si investe».
Regola osservata anche in questa occasione. Nel decreto sviluppo appena sfornato dal governo Monti, non c’è traccia di interventi per i beni culturali e il turismo.

Il Corriere della Sera 09.08.12

"Atenei, non svendiamo il nostro patrimonio", di Maurizio Mori Ordinario di Bioetica all'Università di Torino

Sia pure nell’indifferenza dei media, la macchina universitaria per il ricambio dei docenti partita. Si tratta di un processo decisivo per il futuro del Paese, visto che il risultato porterà a individuare l’intellighenzia che formerà la classe dirigente dell’Italia a venire. La cosa che più ha interessato la stampa è stata la sistematica denigrazione dell’università, quasi fosse in balìa di «baroni» strapagati e fannulloni che meritano solo di essere messi in riga. Si è dimenticato totalmente che quando i nostri giovani vanno all’estero alla ricerca di un lavoro negato in patria, trovano subito ottime posizioni perché la preparazione ricevuta all’università è tra le migliori al mondo. Segno che, pur tra tante manchevolezze e pecche, l’Università italiana ha funzionato e funziona. Le difficoltà non mancano, ma si tratta di sapere se la cura proposta non sia peggiore del male. Le diagnosi sono molte e una di grande valore è stata fatta dal collega dell’università Cattolica, Adriano Pessina, in un fine articolo visibile sul sito di filosofionline (http://www.filosofionline.com/?p=547), da cui prendo alcuni spunti, come altri dal bel Documento della Società Italiana di Filosofia Politica (http://www.nuovarivistastorica.it/?p=3747). Uno dei principali problemi della riforma in atto è la contraddittorietà degli obiettivi: l’università si qualifica per la ricerca, ma poi assume le persone solo per le esigenze della didattica. Ci si lamenta che i professori sono troppo vecchi, ma non si fanno concorsi per i giovani. Si vuole l’eccellenza, ma si promuove una università di massa. Si fanno le lauree brevi, ma poi si inventano percorsi che non finiscono mai: lauree specialistiche, master, dottorati ecc. Questo capita perché manca una «idea di università» adeguata ai nostri tempi, una università che sia capace di pensare le prospettive di una società sempre più scientifica ma socialmente multietnica e culturalmente pluralista. Invece di tenere conto di queste diverse esigenze che si giocano su vari livelli, si è proceduto a una «normalizzazione» che tiene presente solo modello esteso poi a tutti i settori disciplinari, senza tenere conto della peculiarità dei diversi ambiti e livelli. Quest’aspetto emerge chiaramente nelle procedure di valutazione per la «abilitazione» (i concorsi). Al riguardo si è costituita una nuova agenzia (l’Anvur) che ha il compito di valutare sia i «prodotti» dei docenti sia il valore delle università: una sorta di agenzia di rating in cui esaminati e esaminatori si scambiano gli abiti. Ma se gli esaminatori sono scientificamente screditati, com’è che fanno a valutare in modo scientifico e corretto? Inoltre, l’Anvur ha imposto il modello unico, così che, per esempio, «valgono» più gli articoli su riviste che i libri, e quelli scritti in lingua straniera (l’inglese in primis!) che quelli in italiano, ecc., perché nelle scienze naturali conta questo. Per non parlare dell’idea di arruolare nelle commissioni di concorso docenti stranieri, dimenticando le difficoltà connesse alla lingua, alle corrispondenze disciplinari e, anche, alla retribuzione dovuta per un compito tanto gravoso e delicato. Senza il «certificato» di un collega straniero, i professori italiani non sono in grado valutare la preparazione dei nostri «giovani»? Non è questo svendere il nostro patrimonio culturale o riconoscere la nostra subordinazione?

l’Unità 09.07.12

Ma Bersani per il 2013 ha un'altra idea: «Toccherà a noi creare la maggioranza», di Maria Teresa Mieli

La frase del premier Mario Monti sull’incertezza politica del dopo-voto in Italia non ha turbato Pier Luigi Bersani più di tanto. Il segretario del Partito democratico non l’ha interpretata (o non ha voluto interpretarla) come una riproposizione anche per il futuro dell’attuale grande coalizione, guidata magari dallo stesso presidente del Consiglio. Secondo il leader del Pd si tratta di «una normale constatazione», dovuta al fatto che, tra grillini, Pdl versione Berlusconi e problemi economici, per qualsiasi governo la prossima non sarà una legislatura facile. Anzi. E «comunque è la straordinarietà dell’oggi» che, per Bersani, «porta necessariamente all’interrogativo sul domani».
E la «straordinarietà dell’oggi» è questa maggioranza, non politica e non coesa, litigiosa e poco affine, che regge un esecutivo tecnico. Perciò il segretario del Pd non ha dubbi: «Tocca a noi — ripete spesso e volentieri — costruire un programma di governo per il 2013, con una maggioranza solida politicamente». È una sfida difficile, il leader del Partito democratico non vuole nasconderlo, ma è anche una sfida che il Pd «dovrà giocare in prima persona, mettendoci la faccia».
Dunque, non sono le parole di Mario Monti sulla vaghezza della politica italiana a preoccupare il segretario. Semmai ciò che lo impensierisce è altro, ossia una spending review che, pur «avendo dei punti validi», presenta alcuni risvolti che «potrebbero produrre costi sociali insostenibili». Sono «i tagli lineari alla sanità, alle Regioni e ai Comuni» a preoccupare Bersani, perché, a suo avviso così verranno colpiti enti locali e servizi sociali, con il rischio di ridurre in povertà persino una parte del cosiddetto ceto medio. È per questa ragione che il segretario del Pd annuncia già da ora: «Correggeremo la manovra in Parlamento, è il nostro fermo intendimento». Con un obiettivo ben preciso: quello della maggiore equità sociale. Bersani ha parlato di questi problemi non solo con il presidente della Conferenza delle Regioni Vasco Errani e con quello dell’Anci Domenico Delrio. Ne ha discusso anche con il segretario della Cgil Susanna Camusso, che si oppone con grande determinazione alla spending review. E questo vale per l’oggi. Ma il leader del Partito democratico ha un programma anche per il domani, quando, e di questo è convinto, la politica tornerà a farla da protagonista e il centrosinistra governerà il Paese.
Per questo motivo da qualche tempo in qua Bersani ha cominciato a delineare il futuro che verrà. E sarà un futuro di segno riformista in cui la coalizione che dopo le elezioni prenderà le redini della situazione lo farà «in continuità con il meglio del governo Monti, ma facendo anche cose nuove». Non ci sta, il segretario del Pd, a sentire il rosario dei «luoghi comuni» secondo cui la politica e il dialogo sociale impediscono di prendere le decisioni. Per questo, ogni volta che può, ricorda che è stato proprio un governo politico, di centrosinistra, a fare «lo spezzatino Enel» e a «liberalizzare le licenze del piccolo commercio». E per la precisione è stato proprio lui, quando era ministro, a fare tutto ciò. Ma Bersani non lo dice per farsi bello. Non è nel suo stile. Lo ricorda soltanto per sottolineare che la politica non è un magma indistinto e che non tutti i partiti sono uguali. Proprio per questa ragione sta preparando con cura la carta d’intenti del Partito democratico, ossia il manifesto programmatico che il Pd offrirà alle altre forze dell’alleanza che verrà. Alleanza che, assicura il leader, «non sarà certamente un bis dell’Unione o il vecchio centrosinistra». Sa che con un’improbabile macchina da guerra di questo tipo si possono pure vincere le elezioni, ma non varare «le riforme di cui il Paese ha bisogno in questa fase così complicata».
Il segretario non nega le difficoltà («sappiamo che sarà dura e che la recessione si farà sentire ancora nella prossima legislatura»), ma ripete a tutti i compagni di partito quello che per lui è diventato una sorta di mantra: «Non possiamo tirarci indietro». E Pier Luigi Bersani, per quanto lo riguarda, non si tirerà indietro nemmeno di fronte alla sfida di palazzo Chigi.

Il Corriere della Sera 09.07.12

"La spendig review decreta che l’abilitazione è carta straccia", da La Tecnica della Scuola

Che l’abilitazione all’insegnamento specifico di una data disciplina sia diventata superflua o addirittura carta straccia lo avevamo capito già con le tabelle di confluenza sostitutive di un tardivo regolamento di accorpamento delle classi di concorso. Con il comma 17 dell’art.14 del decreto legge 95 del 6 luglio 2012, questa evidenza viene addirittura decretata in modo inequivocabile.
Infatti in questo particolare comma c’è scritto quanto segue:
Al personale dipendente docente a tempo indeterminato che, terminate le operazioni di mobilità e di assegnazione dei posti, risulti in esubero nella propria classe di concorso nella provincia in cui presta servizio, è assegnato per la durata dell’anno scolastico un posto nella medesima provincia, con priorità sul personale a tempo determinato, sulla base dei seguenti criteri:
a) posti rimasti disponibili in altri gradi d’istruzione o altre classi di concorso, anche quando il docente non è in possesso della relativa abilitazione o idoneità all’insegnamento, purché il medesimo possegga titolo di studio valido, secondo la normativa vigente, per l’accesso all’insegnamento nello specifico grado d’istruzione o per ciascuna classe di concorso;
b) posti di sostegno disponibili all’inizio dell’anno scolastico, nei casi in cui il dipendente disponga del previsto titolo di specializzazione oppure qualora abbia frequentato un apposito corso di formazione;
c) frazioni di posto disponibili presso gli istituti scolastici, assegnate prioritariamente dai rispettivi dirigenti scolastici al personale in esubero nella medesima provincia e classe di concorso o che si trovi in situazioni in cui si applichino le lettere a) e b), purché detto personale non trovi diversa utilizzazione ai sensi delle medesime lettere;
d) posti che dovessero rendersi disponibili durante l’anno scolastico, prioritariamente assegnati al personale della medesima provincia in esubero nella relativa classe di concorso o che si trovi in situazioni in cui si applichino le lettere a) e b), anche nel caso in cui sia stata già disposta la messa a disposizione di detto personale e purché non sia già diversamente utilizzato ai sensi delle precedenti lettere;
e) il personale in esubero che non trovi utilizzazione ai sensi delle precedenti lettere è utilizzato a disposizione per la copertura delle supplenze brevi e saltuarie che dovessero rendersi disponibili nella medesima provincia nella medesima classe di concorso ovvero per posti a cui possano applicarsi le lettere a) e b) anche nel caso ne sia stata già disposta la messa a disposizione.
Il Governo facendo puri calcoli ragionieristici e senza tenere in alcun conto gli aspetti epistemologici tipici di una qualità specifica dell’insegnamento, stabilisce che tutti possono insegnare tutto, purché siano in possesso, magari avendola presa anche trent’anni addietro, di una laurea che permetta quel tipo di insegnamento. Consigliamo ai dotti ministri del Governo di ricordarsi il significato del termine greco episteme che significa “conoscenza certa” e logos “discorso”, in modo tale che anche loro possano capire che per insegnare una specifica materia bisogna averne chiari, i fondamentali specifici e specialistici. Quindi non è sufficiente possedere una laurea, anche se ottenuta con merito, per potere essere buoni insegnanti. Purtroppo non ci resta che fare un’amara riflessione: “dura lex, sed lex” e constatare che l’abilitazione specifica è diventata carta straccia. Non ci si venga poi a lamentare dei pessimi risultati che OCSE-PISA rileva sulle competenze dei nostri ragazzi, forse questo è dovuto anche ad un “Governo” che scrive certe pessime leggi.

La Tecnica della Scuola 09.07.12

"Statali, gli esuberi sono 24mila", di Valerio Raspelli

Sono 24mila i dipendenti pubblici in esubero. Lo si spiega nella relazione alla spending review: circa 11mila nei ministeri e negli enti pubblici non economici (di cui 5.600 nei ministeri) e 13mila negli enti territoriali (escluse le regioni). Tra gli 11mila nei ministeri sono 6mila i pensionabili al 31/12/2011 e 2mila negli enti locali. I soggetti che hanno maturato i requisiti al 31/12/2011, sono rilevati sulla base di un importo medio di buonuscita/Tfr stimabile in circa 87mila euro per quanto concerne i dipendenti di ministeri e gli enti pubblici non economici e in circa 50mila euro per quanto concerne i dipendenti di enti locali, a fronte di un maggior onere pensionistico (di fatto compensato da minor costi retributivi e quindi non incidente sui saldi di finanza pubblica). Si stimano così gli effetti in termini di erogazione anticipata di buonuscita/Tfr (tenuto conto nella valutazione che in assenza della disposizione i soggetti in esame avrebbero acceduto al pensionamento in parte nel 2013 e in parte nel 2014 e delle relative regole di liquidazione della prestazione di buonuscita/ Tfr). Ci sarebbe quindi, al lordo degli effetti fiscali, un maggior esborso di 208 milioni nel 2013 ma con un risparmio già dall’anno successivo (138 milioni), un risparmio di 35 milioni sia nel 2015, sia nel 2016 fino allo zero del 2017. Passando al capitolo sanità, da qui al 2014 saranno tagliati 900 milioni nel 2012, 1,8 miliardi nel 2013 e 2 nel 2014. I maggiori risparmi arriveranno dal taglio della spesa per gli acquisti di beni e servizi compresi i dispositivi e per i farmaci. Un taglio di 20 milioni per il 2013 e 50 per il 2014. È il risparmio calcolato per il taglio dei posti letto, perché «prudenzialmente» nella relazione tecnica si calcola solo «la contrazione della spesa per beni e servizi correlata ai posti letto cessanti», quindi ad esempio meno lenzuola da lavare o pasti in meno da portare. I posti letto a “saltare” dovrebbero essere circa 18mila, passando da 4 per mille abitanti a 3,7. I sacrifici previsti dal decreto legge sulla spending review non saranno però gli ultimi. Lo stesso decreto legge prevede l’aumento di due punti dell’Iva a partire dal primo luglio 2013, a meno che non si approvino entro il 30 giugno 2013 provvediementi non inferiori a 6,56 miliardi annui a decorrere dal 2013». Lo stesso decreto legge stabilisce un aumento dell’Iva dal 10 all’11% e dal 21 al 22% a decorrere dal primo gennaio 2014.

l’Unità 09.07.12