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«I Comuni non accettano i tagli lineari» di Roberto Monteforte

«Non sono accettabili tagli lineari ai trasferimenti verso i comuni italiani. Il governo ci aveva garantito che si sarebbe operato contro gli sprechi, invece, si procede verso un puro taglio alle risorse destinate ai comuni. Abbiamo offerto la nostra massima disponibilità per una razionalizzazione dei costi, per una rapida definizione dei costi standard e per una riduzione degli spechi. Se, invece, tutto si trasformerà in un taglio lineare per di più imposto dall’alto, ci sarà la nostra più ferma opposizione». Lo mette in chiaro il presidente dell’Anci, l’associazione dei comuni italiani, il sindaco di Reggio Emilia, Graziano Delrio. Il messaggio al premier Mario Monti è chiaro: non si cambino le carte in tavola.

Che cosa accadrebbe se si procedesse già quest’anno al taglio lineare di 500 milioni di euro sui trasferimenti ai comuni? «Siamo praticamente a quattro mesi dalla chiusura del bilancio del 2012 e tagliare i trasferimenti nell’ultima parte dell’anno significa mandare in dissesto la gran parte dei comuni interessati. Se poi guardiamo ai 2 miliardi di cui si parla per il 2013 andiamo all’incredibile. Vorrei proprio capire su quali calcoli si sono fatte queste stime. Non ho traccia di sprechi negli enti locali di questa entità. Ricordiamo che negli ultimi tre anni i comuni hanno già tagliato di 7 miliardi la loro spesa…».

Avete chiesto di incontrare il governo?

«Chiediamo chiarezza. Sulla razionalizzazione della spesa abbiamo delle nostre proposte sulle quali il commissario Bondi ha espresso qualche interesse. Abbiamo chiesto di discuterle con il governo».

Ci può fare qualche esempio?

«Fare dei piccoli investimenti per risparmiare. Ad esempio per installare dei regolatori di flusso ai lampioni di tutte le città che consentirebbe di risparmiare diversi milioni di euro di bollette. Si vuole risparmiare sugli acquisti e sui servizi? Si realizzi un’informatizzazione completa degli atti anagrafici. Pensi al risparmio che si realizzerebbe con un contratto tipo, con criteri stabiliti a livello nazionale con le compagne assicurative con cui hanno rapporto i comuni, spuntando uno sconto del 20%. Poi vi è il rapporto con le banche. Come fa un comune di 10mila abitanti a trattare delle condizioni migliorative con un’assicurazione o con una banca? È così che si potrebbero ottenere dei cali strutturali della spesa della pubblica amministrazione. Se la si vuole aggredire veramente, almeno lo si faccia operando su quei capitoli di spesa che possono dare effetti strutturali». Parlava anche degli standard di spesa… «Va accelerato il lavoro sui costi standard per le singoli funzioni, per un terzo già definiti e utilizzabili. Si pensi ad esempio al costo unitario di un vigile urbano. Si effettuino i confronti, si vada a vedere dove si spende di più e perché. Si intervenga. Operare in questo modo è molto più equo dei tagli verticali che finirebbero per penalizzare esclusivamente le amministrazioni più virtuose».

Il premier Monti dovrebbe apprezzare…

«Sono abituato a giudicare dai fatti. Se nei fatti, nonostante le rassicurazioni, le parole del presidente del Consiglio si trasformeranno in tagli lineari allora è evi- dente che ci opporremo con tutte le nostre forze. Intendiamo difendere i bilanci dei comuni italiani che sino adesso per il 98% hanno rispettato il patto di stabilità, portando risparmi veri. Mi domando quali siano stati quelli reali realizzati dalle amministrazioni centrali negli ultimi cinque anni. I nostri sono stati tagli veri, non correzioni alla crescita tendenziale della spesa. Se si punta a rendere più efficiente la pubblica amministrazione saremo in prima linea e faremo la nostra parte. Se, invece, si intende mascherare l’ennesima manovra per recuperare risorse, allora diciamo no». Sindaci e Comuni di fronte all’emergenza della crisi sono in prima linea nella difesa dei cittadini. Una politica di tagli non rischia di porre anche un problema di demo- crazia?
«Oramai la Repubblica siamo noi. In prima linea ci siano sempre più solo noi e nella testa dei cittadini sono i sindaci a rappresentare le istituzioni democratiche. Questo non va sottovalutato. Lo Stato è una parte della Repubblica, come lo sono i Comuni. E con pari dignità. La Costituzione è chiara. Vogliamo fare la nostra parte. Ma deve essere altrettanto chiaro che non c’è chi dà ordini e chi esegue. Stato ed enti locali decidono assieme le misure strutturali da prendere. Lo prevede la legge 42 sul federalismo che ha istituito il coordinamento di finanza pubblica e che da tempo chiediamo si riunisca. Noi ai tagli lineari non ci staremo. Non accettiamo che vadano in dissesto la metà dei comuni italiani, perdi più sulla base di obiettivi decisi a priori e dall’alto. Alla fine si andrebbe al dissesto del bilancio pubblico. Per questo è necessario vederci subito con il governo e mettere a punto le metodiche di risparmio. Spero che i nostri interlocutori non deludano. Il percorso che ci era stato presentato aveva altre caratteristiche…».

l’Unità 09.07.12

“Con la nostra ricerca cresce tutta l’economia”, di Cristina Galavotti

Che l’annuncio della scoperta del bosone di Higgs potesse essere il canto del cigno della fisica italiana, non l’avevamo messo in conto. Tutto avrebbe fatto pensare il contrario: l’enorme valore del contributo dell’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare (Infn) al Cern, provato dalla presenza di moltissimi italiani ai vertici del Laboratorio Europeo, la gioia senza ombre di centinaia di scienziati, e l’entusiasmo del grande pubblico. Eppure sabato, ad appena tre giorni dall’evento, è arrivato quella che suona come una condanna a morte. Tra tutti i grandi enti l’Infn è il più colpito dai tagli alla ricerca previsti dalla spending review. Nadia Pastrone, dell’Infn di Torino, coordinatrice dei fisici italiani impegnati in Cms (uno dei due esperimenti che hanno scoperto la nuova particella), non nasconde gli enormi problemi che si profilano.

Dopo l’entusiasmo del giorno dell’annuncio, come si sente oggi?

«Estremamente preoccupata, questa decisione è un vero disastro e non ce la saremmo aspettata. Per molti anni abbiamo cercato di essere un ente virtuoso e di mantenere al minimo le spese fisse, come gli stipendi, in modo da dedicare buona parte del nostro bilancio alla ricerca. Ora questi sforzi ci si ritorcono contro, perché siamo i più tagliati. Da qui alla fine del 2012 ci viene chiesto di risparmiare una cifra che è circa la metà di quanto spendiamo per esperimenti come quelli al Cern».

Quali sono le conseguenze?

«Dovremo ridurre drasticamente le nostre attività di ricerca, cosa non facile perché molti dei nostri studi si svolgono nell’ambito di collaborazioni internazionali nelle quali ci siamo impegnati anche economicamente Ad esempio l’entità del nostro contributo finanziario al Cern non è rinegoziabile».

Il Paese ci perde a tagliare sulla ricerca?

«A mio avviso perde moltissimo. La ricerca ha spesso delle ricadute economiche importanti, anche a breve termine. Noi ad esempio collaboriamo con molte imprese, commissionando loro strumenti. In questo modo “reinvestiamo” automaticamente parte dei fondi che riceviamo dallo Stato, e allo stesso tempo aiutiamo le imprese a crescere e ad acquisire nuove competenze che spesso le rendono più competitive a livello internazionale. Lo stesso fanno molti degli enti di ricerca che oggi vengono tagliati».

Capita mai che alcuni degli strumenti da voi sviluppati aiutino tutti a vivere meglio?

«Capita spessissimo. La ricerca del bosone di Higgs può sembrare futile in un momento di crisi, eppure da questo tipo di ricerca discendono ad esempio strumenti che aiutano la diagnostica medica come la Pet».

È la perdita di questo tipo di ricadute che la preoccupa di più?

«No, la cosa che più mi preoccupa è la perdita dei giovani. La ricerca di base è una scuola straordinaria: forma persone capaci di risolvere problemi complessi, che sanno affrontare le difficoltà e raccogliere le sfide. Moltissime di queste persone non scelgono poi di lavorare nella scienza, ma si riversano ovunque ci sia bisogno di menti versatili.

Per un Paese rappresentano una risorsa straordinaria. Per formare queste persone ci vuole continuità: non si può pensare che si possa interrompere una grande tradizione scientifica per uno o due anni e poi ritrovarla come prima. In queste condizioni i fili si spezzano».

Eppure in questo momento tutti sono in difficoltà, sarebbe stato pensabile che la ricerca si salvasse?

«Non sono i sacrifici a spaventarci, ma la modalità con cui vengono imposti. In condizioni difficilissime siamo pronti a fare delle scelte, per quanto dolorose, ad esempio a privilegiare degli esperimenti e magari a rinunciare a nuovi progetti che non sono ancora partiti.

Ma i tagli che colpiscono in modo improvviso sono catastrofici perché ci impediscono di formulare un piano per minimizzare il danno. Così siamo costretti a risparmiare in modo orizzontale, penalizzando le nostre eccellenze».

La Stampa 09.07.12

"Ricerca, salvare le eccellenze", di Giovanni Bignami

Per fortuna che c’è l’Anvur, l’Agenzia nazionale per la valutazione della ricerca, ci dicevamo fino a ieri. Ha appena lanciato un megaprogramma di valutazione degli enti di ricerca per poi presentare al governo una lista ragionata dei «buoni e dei cattivi». Un lavoraccio per valutatori e valutandi, ma tutti l’abbiamo fatto volentieri, soprattutto noi degli enti di ricerca. Finalmente, ci dicevamo, avremo un giudizio di merito basato su standards internazionali, in base al quale assegnare i fondi.

Noi dell’Istituto nazionale di Astrofisica ci sentivamo particolarmente contenti: qualunque graduatoria internazionale mette l’Inaf (e l’Italia) al quarto/quinto posto assoluto al mondo per produttività scientifica nel campo astrofisico. Ci eravamo, quindi, sottoposti volentieri al non piccolo sforzo della valutazione, contenti che l’Italia, finalmente, avesse anche lei una Agenzia ad hoc, come le grandi nazioni, da Usa a Francia. E pazienza se tutto il processo ha un suo costo: soldi ben spesi, ci dicevamo, pur di riuscire a far valere il merito, forse per la prima volta in Italia.

Invece, colpo di scena: senza aspettare i risultati della valutazione, sotto la pressione della spending review si comincia a parlare di tagli a tutti e perfino di soppressioni di enti di ricerca. Prima voci inquietanti escono dai corridoi del Mef. Poi il panico si scatena quando, nella bozza del decreto che entra in Consiglio dei ministri, c’è scritta esplicitamente, tra l’altro, la soppressione dell’Inaf attraverso un accorpamento all’Istituto nazionale di Fisica nucleare. Ci sono molte altre notizie negative di tagli (anche alla Agenzia spaziale italiana) e soppressioni di enti minori. Ma come, ci diciamo, così senza una consultazione con la comunità? E tutto lo sforzo (e costo) Anvur è buttato via? Perché se fossimo stati valutati come i peggiori si potrebbe capire, ma così… i risultati Anvur ci saranno, forse, a fine anno.

Per fortuna, la norma che riguarda Inaf e gli altri enti di ricerca in extremis viene «espunta» (splendido participio passato ministeriale), ma i tagli rimangono e, ci dicono, la guerra continua. Infatti, il problema si riproporrà, a breve. Frenetiche consultazioni tra gli enti, dove perfino i presidenti sanno usare l’algebra elementare: ma tu quanto spendi, ma se ci accorpano quanto risparmieremmo? Risultato dei nostri conti, garantito al limone: risparmio nullo o addirittura negativo, cioè aumento dei costi, per esempio per il problema sedi. Piuttosto, pensiamo in tanti, offriamoci per lavorare insieme per rifare qualcosa che abbia un senso più globale, più europeo per i maggiori enti di ricerca italiani.

Nel frattempo, tempeste di telefonate da tutta Europa, dove, nel caso di Inaf ma anche di altri enti, siamo alquanto ben posizionati: ma cos’è questa storia? Ma allora cosa sarà dei programmi che avete ottenuto? (per far tornare commesse in Italia, guarda un po’ che ingenuità…). Non so per gli altri, ma le mie risposte rassicuranti a me suonavano un po’ affannate.

Lasciatemi essere chiaro: se c’è una eccellenza assoluta della ricerca in Italia questa è l’astrofisica. Non meglio, ma certo non peggio delle altre branche della ricerca fondamentale. Non voglio buttarla in cifre, ma, anche passando per le armi i circa 1200 astrofisici italiani, il risparmio sarebbe trascurabile e perderemmo un posto al mondo e in Europa che tutti ci invidiano e che pochi in Italia hanno.

Giovanni Bignami, astrofisico, è attualmente presidente dell’Inaf

La Stampa 09.07.12

"Esternazioni irresponsabili", di Tito Boeri

Giorgio Squinzi è un noto appassionato di ciclismo. Sarà forse per questo motivo che ha deciso di ispirare la sua personale interpretazione del ruolo di Presidente di Confindustria al temperamento di un corridore di altri tempi. Ogniqualvolta si trova a commentare una qualche scelta del governo, non trova di meglio che ripetere la celebre frase di Gino Bartali al termine di ogni gara in cui non avesse trionfato: «L’è tutto sbagliato, l’è tutto da rifare». Peccato che ciò su cui viene chiesto il parere di Squinzi non sia il risultato di una tappa del Giro, ma le scelte di un governo che opera in condizioni di emergenza con gli occhi del mondo puntati addosso. Peccato che Squinzi non si riferisca come Bartali a una sua prestazione, non parli del tempo da lui impiegato nella salita dello Stelvio, ma intervenga a nome di tutti gli industriali italiani, impegnati oggi in una prova molto più difficile di una salita di 24 chilometri. C’è sempre un tempo di apprendimento nel cambiare mestiere e speriamo che Squinzi rapidamente capisca che il suo nuovo ruolo gli pone nuove responsabilità anche sul piano della comunicazione. Ma quello che preoccupa delle esternazioni di sabato di Giorgio Squinzi non è solo lo stile. Confindustria, a quanto pare, ha nostalgia dei governi politici. Lo si capisce non solo dal voto insufficiente attribuito al governo Monti (dal 5 al 6), ma anche dal suo condividere “al cento per cento” le affermazioni del segretario della Cgil, Susanna Camusso, quando invoca un cambiamento di metodo nello stile di governo. Ci sono due possibili interpretazioni di questa presa di posizione. La prima è che Confindustria senta di poter condizionare maggiormente un governo politico di un governo tecnico e reputi questa possibilità di condizionamento più importante di qualsiasi altra cosa nel valutare l’operato di un esecutivo. In altre parole, per l’associazione Confindustria conta solo poter giustificare la propria esistenza, come gruppo di pressione, di fronte ai propri iscritti. Se vuole fugare questo dubbio, Squinzi dovrebbe rivelare il voto che attribuisce al governo Berlusconi che ci ha portato sull’orlo del baratro, concedendo però ampio spazio ai tavoli della concertazione. Non ha fatto un bel nulla per riformare il Paese, ma ha offerto ampia esposizione mediatica alle parti sociali, facendole entrare nelle cucine degli italiani in tempo per l’edizione serale dei Tg.
La seconda spiegazione è che Squinzi voglia genuinamente contribuire a migliorare la qualità delle scelte di politica economica, con l’intento di minimizzare gli errori di un governo che, a differenza del precedente, sta cercando di agire per affrontare
la crisi. Si sa che quando si fanno delle cose, si commettono inevitabilmente degli errori e il leader degli industriali vuole contribuire a farne il meno possibile, apportando il contributo pragmatico della categoria che rappresenta. Se è valida questa seconda interpretazione, bene allora che Squinzi proponga un metodo, il più possibile lontano dai riflettori e incentrato sull’esame nei dettagli delle norme in discussione. Niente più riunioni attorno al tavolo verde di Palazzo Chigi, dove si discute di nulla perché manca un testo di riferimento (come nella “concertazione” sulla riforma del mercato del lavoro), ma quel che conta è tenere la conferenza stampa sui banchi del governo al termine della riunione. Al posto di questo inutile teatrino, chieda allora il leader degli industriali al governo di avere i testi di legge prima che questi vengano presentati in Parlamento e un tempo ragionevole (una settimana dovrebbe essere sufficiente in considerazione delle condizioni di emergenza economica) per poter esprimere un proprio parere circostanziato, in maniera riservata. Questo permetterebbe poi al governo di apportare eventuali correttivi prima della trasmissione in Parlamento. Certo, ci rendiamo conto che questo governo sta ricorrendo spesso alla decretazione d’urgenza, ma anche in questo caso è possibile esprimere un parere prima dell’emanazione dei decreti e, in ogni caso, si ha tutto il tempo di farlo prima della conversione in legge degli stessi. Siamo anche consapevoli del fatto che le parti sociali cercano di influire sulle scelte politiche proprio mobilitando i loro iscritti e l’opinione pubblica, ma questa possibilità l’avrebbero comunque. Quello che conta, soprattutto in questo momento, è far precedere l’esternazione da una valutazione approfondita.
Non sembra, questo, il caso dei giudizi affrettati espressi in questi giorni sulla spending review. A proposito, il sospetto è che Squinzi non ami le verifiche sull’efficacia della spesa perché è difficile per lui giustificare l’esistenza di un’organizzazione così costosa come Confindustria. Soprattutto dopo che, forzando lo statuto, ha imposto la nomina di undici vicepresidenti, cinque presidenti di comitati tecnici e due delegati del presidente per un totale di diciotto (dicasi diciotto!) membri della presidenza. I datori di lavoro oggi tartassati e forzati a versare quote associative importanti si chiederanno: che senso ha pagare tutto questo per mantenere in piedi una struttura che si dichiara in tutto e per tutto d’accordo con la Cgil?

La Repubblica 09.07.12

"Il declino dei poteri locali", di Ilvo Diamanti

Il territorio. Dopo vent’anni di successi, adesso sembra perdere importanza. Insieme agli attori politici che ne hanno fatto una bandiera. Il “trionfo del territorio” si era materializzato, in modo inequivocabile, alle elezioni politiche del 1992. Interpretato dall’avanzata della Lega Nord, che aveva segnato la crisi definitiva della Prima Repubblica. Spostando il baricentro politico del Paese dal centro alla periferia. Una tendenza rafforzata e istituzionalizzata l’anno seguente, dalla legge 81 del 1993. Che sancisce l’elezione diretta dei sindaci. E, insieme, dei presidenti di Provincia. Sette anni dopo, nel 2000, lo stesso avviene per i presidenti di Regione. Da allora, anch’essi eletti direttamente dai cittadini. Da vent’anni, dunque, l’Italia si è trasformata in uno Stato a presidenzialismo diffuso. Una Repubblica federalista, ma “preterintenzionale”. Divenuta tale, cioè, senza un disegno preciso e condiviso. Quasi per caso. Nel segno del territorio. Esibito come una bandiera, oltre che dalla Lega, dagli amministratori eletti direttamente “dal popolo sovrano”. I sindaci, appunto. Ma anche i presidenti. Di Regione. E di Provincia. Oltre metà delle Province, però, domani potrebbe “scomparire”. O meglio, essere ridotta e “accorpata”.
Le Province. Secondo le principali forze politiche, avrebbero dovuto essere “cancellate” ancora trent’anni fa. Quand’erano circa 70. Nel frattempo, però, sono divenute 107. Perché le province non sono solo istituzioni, ma, come ha scritto Francesco Merlo, “la particella del Dio italiano”. Un Dna che sancisce “una separatezza e una diversità che in fondo ci rende tutti uguali, provinciali tra altri provinciali”. Ed è difficile
opporsi al nostro Dna. A contrastare il “provincialismo” italiano ha provveduto — o meglio, ci sta provando — il governo tecnico, guidato dal super-tecnico, Mario Monti. In base ai criteri tecnici che hanno orientato la spending review. In altri termini: la revisione della spesa. Meglio: degli sprechi. E le Province, in effetti, in gran parte erano e sono fonte di spreco. Peraltro, la spending review e, in generale, le politiche di bilancio del governo tecnico, pur senza cancellarli, hanno ridimensionato anche gli altri governi territoriali. E i loro sovrani. Regioni e Comuni. Governatori e sindaci.
Le Regioni. Pesantemente colpite dai tagli alla Sanità. Il che significa: la loro principale “missione”. D’altronde, cosa sono le Regioni se non una grande Asl, visto che circa l’80% dei loro bilanci è “saturato” dai capitoli sociosanitari?
Così i Comuni. Costretti a fare gli esattori delle imposte immobiliari, per conto dello Stato. Aggiungendovi le loro sovrattasse. Indotti, per finanziarsi, a edificare il territorio. In altri termini: a degradarlo ulteriormente. Perché gli oneri di fabbricazione costituiscono, per i Comuni, la principale fonte di auto-finanziamento.
I sindaci, così, sono divenuti “sovrani a parole”. Hanno ottenuto competenze e visibilità. Generato aspettative. Senza, tuttavia, disporre di adeguati poteri. Oggi fanno i conti con risorse — sempre più — ridotte. Hanno tradotto — e pagato — la maggiore autonomia mediante una maggiore pressione impositiva.
Certo, non è del governo Monti la responsabilità di questa tendenza. Avviata dai
governi che l’hanno preceduto. In modo, peraltro, contraddittorio. Si pensi allo sciagurato “patto di stabilità” che, negli anni scorsi, ha “premiato” i governi locali che avevano speso — e dissipato — di più. Beffando i Comuni virtuosi.
Attraverso la spending review, il governo Monti, pur senza dichiararlo, ha, però, nei fatti, decretato la fine del federalismo all’italiana. Tradotto nella moltiplicazione infinita delle Province, nel trasferimento — mediante referendum — di centinaia di comuni da una regione all’altra, in base a calcoli di opportunità e di vantaggio. Un federalismo ir-responsabile, dove i governi locali non sono chiamati a rispondere delle loro scelte. Per cui i “patti territoriali”, nel Sud, si sono spesso tradotti in meccanismi di spesa e burocratizzazione ulteriori. Questo federalismo, usato dalla Lega come una bandiera, oggi appare improduttivo e poco vantaggioso, ai cittadini. Non a caso solo una persona su cinque, oggi, ritiene che, fra dieci anni, “in Italia ci sarà un federalismo vero”. Mentre due su tre pensano il contrario (Sondaggio Demos, giugno 2012).
Così, dopo anni di federalismo a parole e di parole sul federalismo, oggi assistiamo alla ri-centralizzazione delle scelte. Alla crescente debolezza dei governi e dei governatori locali. Alla difficoltà dei soggetti politici che si riferiscono alla questione territoriale. Per prima la Lega Padana. O Nord, non importa. Assistiamo, ancora, alla centralizzazione organizzativa dei partiti. Sempre più “romani”. E alla marginalizzazione dei sindaci, un tempo, tanto tempo fa, attori politici di primo piano.
Il declino del territorio, come base del governo, della rappresentanza e dell’identità politica, tuttavia, si sta consumando senza che emergano altre soluzioni. Altre strade. Altri riferimenti. Senza che lo Stato e la politica “nazionale” abbiano assunto maggiore autorevolezza. (Al contrario). Senza che l’opacità del progetto federalista sia compensata da un progetto abbozzato, se non definito, di riforma dello Stato e del governo.
Il federalismo all’italiana, d’altronde, è avvenuto senza un’adeguata cessione di autorità e, soprattutto, risorse, dal centro alla periferia. Per cui ha prodotto e riprodotto conflitti infiniti fra Stato centrale ed enti locali.
Ma il declino del territorio, che erode l’autorità dei sindaci e dei presidenti di Regione — e di Provincia — non risolve i conflitti. Non restituisce lo scettro al sovrano. Allo Stato. Al potere centrale. Perché avviene per urgenza e necessità tecnica. Per iniziativa dei tecnici. Garanti e depositari di un potere che origina dall’esterno. Dall’emergenza imposta dalla crisi, i mercati, le autorità monetarie e finanziarie. Europee e internazionali. Qui sta il problema.
Perché se lo Stato è l’istituzione che esercita la propria sovranità e il proprio potere sul territorio, allora la dissolvenza del territorio può avere esiti ed effetti imprevedibili. Ma, certamente, insidiosi. Insieme al territorio e ai suoi attori, rischia di coinvolgere anche lo Stato. Di delineare un Paese senza centri né periferie. Riassunto in una unica, grande periferia.

La Repubblica 09.07.12

"Pagelle web, tagli, tasse più care. Spending review in scuola e università", di Salvo Intravaia

Dalle pagelle scolastiche on line al taglio dei finanziamenti agli enti di ricerca, passando per le tasse universitarie. La Spending review “colpisce” anche scuole, università e ricerca, ma non com’era previsto nelle prime bozze del documento. L’azione “sotterranea” dei sindacati e di singoli gruppi ha addolcito l’amara pillola della revisione della spesa che mira a razionalizzare le risorse dello stato ed evitare il default. Alcune delle misure più dure sono state cancellate o modificate nelle ore successive alla conclusione del consiglio dei ministri di ieri mattina ed ora è possibile fare, con il decreto pubblicato in gazzetta, un primo resoconto di tutti i provvedimenti che riguardano scuola università e ricerca scientifica. Alla fine, il ministro dell’Istruzione, dell’Università e della ricerca, Francesco Profumo, è riuscito a limitare i danni.

Scuola. La novità più importante per alunni e famiglie riguarda la pagella e l’iscrizione all’anno scolastico 2013/2014. A decorrere dal prossimo anno scolastico “le iscrizioni alle istituzioni scolastiche statali di ogni ordine e grado per gli anni scolastici successivi avvengono esclusivamente in modalità on line” attraverso un apposito applicativo che il ministero metterà a disposizione delle scuole e delle famiglie. Sempre da settembre, “le istituzioni scolastiche ed educative redigono la pagella degli alunni in formato elettronico”. Addio per sempre, quindi, alla vecchia pagella cartacea. “La pagella elettronica – recita il decreto – ha la medesima validità legale del documento cartaceo ed è resa disponibile per le famiglie sul web o tramite posta elettronica o altra modalità digitale”.

I genitori che volessero comunque una copia cartacea del documento dovrà farne specifica richiesta alla scuola. Ma il processo di dematerializzazione lanciato dal governo riguarderà anche i docenti e gli alunni. “A decorrere dall’anno scolastico 2012/2013 le istituzioni scolastiche e i docenti adottano registri on line e inviano le comunicazioni agli alunni e alle famiglie in formato elettronico”. Non sarà più possibile per gli alunni somari nascondere i brutti voti e le assenze ai genitori né contraffare la firma in pagella. Per attuare questa mezza rivoluzione, le scuole dovranno organizzarsi “con le risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente, senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica”. Insomma, niente soldi in più per le scuole per la “rivoluzione on line”.

Docenti in esubero. Novità in vista anche per i docenti esubero, per quelli permanentemente inidonei per motivi di salute, per i cosiddetti insegnanti tecnico-pratici e per gli insegnanti italiani che insegnano all’estero. Per i docenti che a seguito della riforma Gelmini hanno perso la cattedra ( in esubero) si aprono le porte delle supplenze anche di qualche giorno. In questo modo il governo intende evitare che qualcuno dei 10 mila insegnanti in esubero possa rimenare “disoccupato” ma ugualmente pagato dallo stato. A settembre, i docenti senza cattedra verranno utilizzati, in ambito provinciale, sulle supplenze che sarebbero dovute andare ai precari. Coloro che sono in possesso del titolo di specializzazione su sostegno o che hanno iniziato il percorso di formazione potranno avere accesso anche alle supplenze di sostegno.

I docenti che per motivi di salute non possono più insegnare saranno “declassati” d’ufficio ad Ata: amministrativi e tecnici di laboratorio. I docenti tecnico-pratici, la cui figura è stata abilita nel 1994, e coloro che sono transitati dagli enti locali allo stato con una qualifica diversa da quelle previste dall’ordinamento statale, “transita (anche questi ultimi d’ufficio) nei ruoli del personale non docente con la qualifica di assistente amministrativo, tecnico o collaboratore scolastico, in base al titolo di studio posseduto”. Inoltre, il contingente del personale docente comandato presso il ministero degli Affari esteri verrà ridotto da 100 a 70 unità e i 1.400 insegnanti italiani in forza nelle scuole italiane all’estero vengono più che dimezzati: passeranno a 624.

Con queste tre manovre, la scuola italiana avrà più docenti, amministrativi, tecnici e bidelli e potrà evitare di pagare supplenti per la copertura dei corrispondenti posti. Ma non solo. I bilanci delle scuole verranno tenuti sottocchio attraverso una disposizione di cassa che costringerà le scuole a versare presso la Banca d’Italia i propri fondi e a non intrattenere più singoli rapporti con singole banche. E le supplenze brevi – da un giorno a qualche settimana, ma in casi eccezionali anche tutto l’anno – saranno soggette ad un monitoraggio per scovare le “istituzioni che sottoscrivono contratti in misura anormalmente alta in riferimento al numero di posti d’organico dell’istituzione scolastica”.

Un intervento “pesante” soprattutto quello sui docenti che insegnano all’estero “da sempre importante fattore di presidio della cultura italiana nel mondo”, a parere di Francesco Scrima, leader della Cisl scuola, che “manterrà comunque alta la vigilanza e l’iniziativa nella fase di conversione in legge del decreto, convinta che la concertazione con le parti sociali e le sedi negoziali devono essere fortemente valorizzate se davvero si vuole un’efficace revisione della spesa, e non un’ottusa e ingiusta politica di tagli lineari”. Per la Flc Cgil il decreto sulla spendine review è la solita “mannaia sui servizi pubblici” a carico dei cittadini e del lavoratori.

Stretta sui compensi ai “vicari”. Infine, stretta anche sui compensi ai vicari dei dirigenti scolastici. Fino a quest’anno, i vicepresidi o i vicari delle scuole elementari e media, per assenze del dirigente scolastico superiori a 15 giorni, percepivano la cosiddetta retribuzione per “mansioni superiori”. E siccome il preside va in ferie in estate per più di due settimane, il compenso scattava per tutti e 10 mila vicari in forza nelle scuole italiane. Ma l’anno prossimo cambia tutto. Al vicario non spetterà più questo compenso, potrà essere remunerato per le sue fatiche aggiuntive soltanto con i soldi del fondo d’istituto. E per le visite fiscali, il ministero ha stanziato 23 milioni di euro che ripartirà alle regioni che non dovranno più chiedere alle scuole il pagamento delle visite di controllo in caso di malattia.

Università. Anche l’università entra nella Spending review e gli studenti sono sul piede di guerra. Al centro della contesa, quelle università che sforano il tetto massimo di tassazione universitaria a carico degli studenti. Come anticipato da Repubblica alcune settimane fa, le università che sfornano il 20 per cento previsto dalla legge – fra “contribuzione studentesca” e fondo di finanziamento ordinario – sono tantissime – il 59 per cento – e in alcuni casi, come è avvenuto a Pavia, il giudice ha condannato l’ateneo a restituire il maltolto agli studenti. Ma dal prossimo anno le cose cambieranno.

In futuro, il conteggio della “contribuzione studentesca” sarà effettuato prendendo in considerazione soltanto quello che verseranno gli studenti italiani e comunitari iscritti entro la durata normale dei diversi corsi di studio. Non verranno conteggiate le tasse versate i fuori corso, che oltre ad ammontare al 40 per cento del totale degli iscritti sono quelli che sborsano di più. Ma non solo. Il denominatore del rapporto tasse versate dagli studenti/Fondo di finanziamento ordinario cambierà con il più favorevole “trasferimento statale”, che include altre somme. Per gli studenti si tratta di “una truffa”. Perché limitando il conteggio delle tasse versate ai soli studenti in corso e dilatando il finanziamento complessivo sarà difficile che le università continuino a sforare il 20 per cento. E tutto “ritorna a posto”.

Le università che dovessero comunque sforare saranno tenute a trasformare gli introiti “non dovuti” in borse di studio. Circostanza che viene definita dagli studenti come una “beffa”. “Una sanzione – spiega Luca Spadon, portavoce nazionale Link – Coordinamento universitario – che sa di beffa e che risulta essere un ulteriore assist ai rettori per continuare a far pagare agli studenti gli effetti dei tagli operati dalla legge Gelmini e mai ristorati da questo Governo”. Ma almeno il paventato taglio di 200 milioni sul Fondo di finanziamento ordinario è sparito. Ma la nuova norma, secondo gli studenti, “apre ad una pericolosissima liberalizzazione delle tasse e dei contributi universitari, come già in passato richiesto e sostenuto dalla Crui e da alcuni partiti italiani”.

Per l’Unione degli universitari, che hanno patrocinato decine di ricorsi al Tar per costringere gli atenei a restituire le tasse pagate in più, quello del governo Monti è un “omicidio premeditato dell’università pubblica”. “Siamo il terzo paese per tasse universitarie in Europa – dichiara Michele Orezzi – e nonostante questo il Governo punta a cancellare il limite della tassazione e consentire aumenti sconsiderati dei contributi pagati dagli studenti. La verità è che se fino ad oggi gli studenti potevano fare ricorso per bloccare gli atenei con tassazioni eccessive, ora l’unico vincolo per le università fuori legge sarà quello di destinare dei fondi a qualche borsa di studio, neanche necessariamente per studenti capaci e meritevoli ma privi di mezzi”.

Assunzioni. E all’università sarà possibile assumere ma con parsimonia. “Per il triennio 2012/2014 il sistema delle università statali, può procedere ad assunzioni di personale a tempo indeterminato e di ricercatori a tempo determinato nel limite di un contingente corrispondente ad una spesa pari al venti per cento di quella relativa al corrispondente personale complessivamente cessato dal servizio nell’anno precedente”. Una quota che sale al 50 per cento nel 2015 e al cento per cento nel 2016. Del previsto taglio del trasferimento alle università private non sembra esserci traccia nel decreto, mentre spuntano 90 milioni per il diritto allo studio universitario falcidiato dal governo Berlusconi negli anni precedenti.

Ricerca. L’ipotesi di sopprimere una serie di istituti di ricerca è stata al momento scongiurata. L’unico istituto che verrà soppresso è l’Inran (l’Istituto nazionale di ricerca per gli alimenti e la nutrizione). Le sue funzioni saranno assorbite dall’Cra: il Centro per la ricerca e la sperimentazione in agricoltura. Ma, se parecchi istituti di ricerca restano in piedi, arrivano tagli – relativi ai soli istituti dipendenti dal ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca – per 19 milioni nel 2012 e 102 milioni per il biennio 2013/2014.

E sarà l’Istituto nazionale di Fisica nucleare 1 (meno 9,1 milioni nel 2012 e 24,4 nel 2013 e nel 2014), appena reduce dagli onori per la scoperta del Bosone, il più penalizzato. Segue, nella classifica degli istituti di che contribuiranno di più al risanamento del bilancio dello stato, il Cnr che complessivamente 38 milioni di euro in tre anni. E i tagli ai budget colpiranno tanti istituti: l’Agenzia spaziale italiana, l’Istituto nazionale di astrofisica, l’Ingv – l’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia – quello di Oceanografia e geofisica sperimentale e e anche l’Invalsi: l’Istituto nazionale per la valutazione del sistema d’istruzione. In tutto, il taglio sui bilanci dei centri di ricerca – anche quelli dipendenti da altri ministeri – ammonterà a 210 milioni.

da Repubblica.it

"Squinzi: a Monti do un 5/6, Camusso: no, è da bocciare", di Teodoro Chiarelli

Se non è il “patto di Serravalle”, poco ci manca. Metti una sera d’estate il segretario generale della Cgil, Susanna Camusso, e il neo presidente di Confindustria, Giorgio Squinzi, a dibattere all’ombra della torre di “Castruccio”, nel castello di Serravalle Pistoiese, e succede quello che non ti aspetti. Il leader degli industriali che, fra gli applausi dei militanti del sindacato, dice soavemente: «Condivido tutto quello che ha detto la signora Camusso». E la segretaria della Cgil: «E’ importante quello che dice il presidente Squinzi».

E’ il loro primo incontro pubblico, ma sul palco di Serravalle le convergenze sono quasi su tutto, sicuramente più delle divergenze. Stesso giudizio sul governo Monti (largamente insufficiente per la Camusso, tra il 5 e il & per Squinzi), stessa difesa della concertazione fra le parti sociali aborrita dal presidente del Consiglio, stessa richiesta (anche se con sfumature diverse) di una patrimoniale, stesso giudizio negativo (partendo da sponde dioverse) su riforma del lavoro e pensioni, stesso ripudio della “macelleria sociale”. Con Squinzi che ribadisce il suo giudizio («una boiata») sulla riforma Fornero e prende le distanze dal «modello Marchionne di scontro: non è il mio modello».

Per la verità il leader degli industriali inizia con toni concilianti. La spending review? «E’ un primo passo nella direzione giusta». Poi però la Camusso attacca: «Non è una seria accetta che interviene su sprechi e problemi, ma è una manovra che deve fare cassa e taglia orizzontalmente su tutto».

Squinzi si sistema sulla sedia, dà un’occhiata alle sue carte, poi butta lì: «Beh, di quello che ho sentito dire dalla segretaria Camusso condivido tutto». Poi precisa: «Dico che é un primo passo perché Monti ci ha detto che gli obiettivi erano il posticipo dell’aumento dell’Iva, i fondi ai terremotati e gli esodati. Le motivazioni vanno nella direzione giusta. Ma c’é da fare ancora moltissimo».

Un attimo e Squinzi rincara, fra gli applausi della platea. «Dobbiamo evitare una macelleria sociale, ma si deve semplificare la pubblica amministrazione perché dobbiamo evitare ridondanze che vanno eliminate». Tocca al segretario della Cgil. «L’Italia non ha più tempo di aspettare. Avevamo immaginato che sulla spending review potessero esserci risposte ma non ci sono. E a tutto ciò si risponde con la mobilitazione». Sciopero generale, quindi, ma quando? Probabilmente non si farà a luglio, più probabile a settembre. «Il governo – insiste la Camusso – non ha neanche provato a trovare soluzioni condivise nelle scelte di politica economica. Una scelta miope e supponente».

Anche Squinzi insiste sulla necessità della concertazione e ricorda come lui fosse schierato sull’inutilità di una battaglia sull’articolo 18 («Ma abbiamo anche noi i nostri oltranzisti»). Monti sostiene che la concertazione è morta? Lui fa spallucce: «In questo momento storico è assolutamente fondamentale. Io ho firmato quando ero in Federchimica sei contratti nazionali, con tutti al tavolo e senza un’ora di sciopero. Non dobbiamo andare allo scontro. Siamo tutti sulla stessa barca. Ce ne vorrebbe di più di concertazione». Poi una battuta. «L’occupazione non si crea per decreto, ma con un decreto la si può distruggere».

Inevitabile il richiamo alla Fiat di Sergio Marchionne. «Io sono per un sistema di relazioni sindacali condivise – insiste Squinzi – Il modello Marchionne di scontro non è il mio modello». Eppure il fatto che il Lingotto sia fuori da Confindustria non lo lascia indifferente. «E’ un vulnus, perché Fiat è uno dei pezzi più importanti del comparto manifatturiero italiano». Ci sarà prima o poi un incontro fra Squinzi e il manager italo canadese? «Non ho mai visto Marchionne – dice sornione – Se capiterà lo incontrerò. Ma è lui che non mi vuole parlare».

Il moderatore, Massimo Giannini di Repubblica, butta lì la provocazione: e una patrimoniale? Scontato il sì della Camusso. Squinzi sembra tentennare («Solo se fossimo in emergenza»), ma poi aggiunge: «Io sostengo il detto “famiglia povera, impresa ricca”, e nella mia azienda tutti gli utili sono reinvestiti nel gruppo. Se la patrimoniale non tocca le imprese, ma i grandi patrimoni personali, mi sta bene». E ancora: «Comunque la patrimoniale l’abbiamo già, è l’Imu, la paghiamo tutti. Penso inoltre che bisognerà considerare la Tobin Tax a livello europeo».

E allora che voto dare al governo Monti? Susanna Camusso parla di grave insufficienza, in pratica un bel 4. Squinzi è un po’ meno drastico, ma comunque severo: «Direi 6 meno meno. No, meglio tra il 5 e il 6». E spiega: «Il mio giudizio è ancora un po’ sospeso, perché da un governo tecnico mi sarei aspettato cose che non sono state ancora fatte. Ad esempio nel sostegno alla ricerca».

Identica, fra Cgil e Confindustria, l’opinione sul governo dei tecnici: «E’ una parentesi, si deve tornare alla politica. La buona politica». Spiega ancora Squinzi: «Sono molto perplesso per il fatto che siamo rientrati nel pareggio di bilancio prima degli altri Paesi europei. E’ stato decisamente esagerato, perché si sono depressi drammaticamente i consumi accentuando la recessione. Siamo veramente sull’orlo del baratro».

Il governo non ha neanche provato a trovare soluzioni condivise è comunque una scelta politica e c’è supponenza nel pensare che noi non saremmo stati in grado di dare un contributoNell’esecutivo c’è un’idea di supremazia del tecnico rispetto a tutti gli altri soggetti In qualche caso c’è anche una qualche idea di rivalsa come se fosse il lavoro il colpevole dei grandi problemi che ha il Paese e che quindi è meglio non interloquire col lavoroL’Italia non ha più tempo di aspettare A luglio non ci sono le condizioni per dare vita ad uno sciopero generale ma probabilmente sarà organizzata una grande iniziativa legata ai tagli che il governo ha deciso di fare alla sanità

da Lastampa.it

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Monti gela Squinzi: fa salire lo spread

Parte da Palazzo Madama il tour de force parlamentare che porterà al via libera della revisione della spesa pubblica (la spending review) entro il prossimo 3 agosto. I tempi sono strettissimi: appena 15 giorni di esame per ogni ramo del Parlamento. Il decreto decadrebbe a settembre, ma è chiaro che il governo punta ad incassarlo prima della pausa estiva. E questo anche per consentire al premier, Mario Monti, di presentarsi domani a Bruxelles un altro pezzo di compiti a casa già chiuso o almeno ben incardinato.

Intanto sale la tensione nei rapporti tra governo e imprese dopo che il leader degli industriali, Giorgio Squinzi, ha bollato la spending review del supercommissario Enrico Bondi come una potenziale fonte di «macelleria sociale». Ed ha stilato la pagella di fine anno del professore, senza neppure dargli la sufficienza. Oggi un Monti visibilmente irritato non ha lasciato cadere la provocazione bacchettando il presidente di Confindustria. A fine giornata arrivano le scuse al premier da parte un ex presidente di Confindustria: Luca Cordero di Montezemolo. Certe frasi, dice l’ex numero uno di Viale dell’Astronomia, «fanno male e sono certo che non esprimano la linea di una Confindustria civile e responsabile». Monti, infatti, sembra trasecolare. «Dichiarazioni di questo tipo, come è avvenuto nei mesi scorsi, fanno aumentare lo spread e i tassi. A carico non solo del debito, ma anche delle imprese» reagisce gelido il premier spiegando al capo di Confindustria che se lo spread non scende è perché «c’è un pò di incertezza su quello che succederà nella governance dell’economia» dopo le elezioni.

Le imprese, mette bene in chiaro il premier, dovrebbero apprezzare gli sforzi del governo dei professori. «Avevo capito che le forze produttive migliori desiderassero il contenimento del disavanzo pubblico. E che obiettassero a manovre fatte in passato molto basate sull’aumento delle tasse e che era ora di incidere su spesa pubblica e strutture dello Stato. Ma – dice il Professore togliendosi finalmente il sassolino dalle scarpe – evidentemente avevo capito male». Sembrano lontani i tempi della luna di miele tra la Confindustria e il governo, quando l’allora presidente, Emma Marcegaglia, salutò l’arrivo del professore come l’unica chance che aveva l’Italia per uscire dal baratro. Da allora, però, è stato un crescendo di spiacevoli malintesi, battibecchi a volte vere e proprie prese di distanza, nonostante il passaggio di testimone tra Marcegaglia e Squinzi. Come quelli più recenti, quando il neo-presidente ha bollato come «boiata» la riforma del mercato del lavoro. O quando ha definito l’economia italiana sull’«orlo di un abisso» suscitando la piccata replica del premier che con il suo consueto humor, fingendo di mordersi la lingua si impose «una moderazione interpretativa» sulle parole dell’industriale. Squinzi oggi riesce oggi a catalizzare solo difese da parte della Lega o di Di Pietro, mentre industriali e manager prendono le distanze. Lo bacchetta Montezemolo, ma anche Franco Bernabè e Marco Tronchetti Provera difendono il premier. «Il lavoro di Mario Monti è vitale per il futuro del Paese, dicono.

Monti incassa anche la “promozione” del numero uno di Bankitalia (il governo è sulla strada giusta – dice Ignazio Visco – e deve «insistere il più possibile» sui tagli alla spesa per arrivare ad abbassare le tasse). Ma gli impegni non finiscono qui: bisogna chiudere anche il decreto Sviluppo ora a Montecitorio e varare un nuovo decreto in Cdm entro agosto, come annunciato nella conferenza stampa notturna sulla ’spending’ dallo stesso premier, che dovrebbe riguardare il finanziamento ai partiti, quello ai sindacati e non, come si ipotizzava in un primo momento, le agevolazioni fiscali. Ultimo tema questo che potrebbe essere affrontato con la delega fiscale anche questa in ’giacenzà alla Camera. Quindi dato il possibile ingorgo e le pulsioni al cambiamento non è escluso il ricorso alla fiducia sul decreto. Fiducia che dovrebbe essere già stata autorizzata dal Cdm. Intanto i partiti si preparano a dare battaglia su diversi fronti. È noto, ad esempio, che il Pd punta a modificare la parte del decreto che riguarda i tagli alla sanità. E che molti sono i malumori per i tagli che più o meno restano sempre gli stessi trasformandosi da “linearo” a “orizzontali”. E anche sui tagli alla ricerca (ci incappano anche gli scopritori della “Particella di Dio”) molte sono le spinte al cambiamento.

I partiti quindi stanno già scrivendo le modifiche. Mentre i sindacati si preparano allo sciopero generale (soprattutto a difesa dei travet). Oltre alle piazze il primo palcoscenico della guerra delle modifiche sarà dunque il Senato: il testo già trasmesso venerdì notte sarà stampato e assegnato domani dal Presidente Renato Schifani alle commissioni competenti: dovrebbero essere la Bilancio (V) e la Affari Costituzionali (I). Le commissioni riuniranno poi gli uffici di presidenza per nominare i relatori. Mentre per il Governo dovrebbero seguire il testo il viceministro all’Economia, Vittorio Grilli, il sottosegretario Gianfranco Polillo, lo stesso ministro ai Rapporti con il Parlamento Piero Giarda, il sottosegretario Antonio Malaschini. Le modifiche al testo, come ormai è prassi, dovrebbero arrivare solo durante il lavoro in commissione. E il Governo, in caso di “maretta”, potrebbe porre la fiducia sul testo modificato presentando un maxiemendamento. Poi un passaggio “formale” (senza modifiche) nelle analoghe commissioni della Camera e il via libera appena in tempo per la pausa estiva.

La Stampa 09.07.12