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"Protestano Pd e sindacati: solo tagli e Grilli prepara un nuovo decreto", di Roberto Petrini

Sale la tensione sul fronte sindacale dopo la lunga notte della spending review ma il governo tira dritto e rilancia. L’intervento di complessivi 26 miliardi di risparmi in tre anni (4,5 nel 2012, 10,5 nel 2013 e 11 nel 2014) non esaurisce l’azione di Mario Monti sul fronte dei tagli: durante la conferenza stampa che ha seguito il consiglio dei ministri il «numero due» del Tesoro Vittorio Grilli ha annunciato che l’esecutivo è alla ricerca di altri 6 miliardi: «Lo stop all’Iva aiuta il Pil: siamo riusciti a sterilizzare l’aumento, l’obiettivo è di farlo sparire», ha detto. Dunque già si lavora per evitare l’incremento di 2 punti dal luglio del prossimo anno.
Nelle prossime settimane mentre la spending review affronterà il cammino parlamentare con l’obiettivo di essere approvata prima della pausa estiva – sono attesi nuovi provvedimenti di riorganizzazione della spesa: si interverrà sulle agevolazioni fiscali e sui contributi pubblici alle imprese. I prossimi interventi potrebbero arrivare dai «dossier» affidati poco più di un mese fa a Francesco Giavazzi, al quale erano state chieste analisi e raccomandazioni sui contributi pubblici alle imprese, e a Giuliano Amato, che invece aveva il compito di studiare i finanziamenti pubblici a partiti e sindacati.
Se il governo già guarda alle prossime mosse, le parole d’ordine del sindacato vanno invece nella direzione opposta e sprigionano preoccupazione: mobilitazione subito e sciopero generale a settembre se Monti e Grilli non cambieranno il decreto sulla spending review. «Siamo di fronte ad un’altra manovra a carattere recessivo, che taglia molto più lavoro di quello che non dichiari: prepariamo una mobilitazione generale», ha detto il segretario della Cgil, Susanna Camusso. Il fronte sindacale tuttavia non sembra parlare lo stesso linguaggio: Cgil e Uil puntano a alzare i toni annunciando un autunno caldo con tanto di possibile sciopero generale mentre la Cisl di Raffaele Bonanni dice sì «alla mobilitazione» ma in favore di una «riorganizzazione» della macchina amministrativa. Sul piede di guerra le sigle del pubblico impiego: «manovra di emergenza e priva di progettualità », hanno detto in una nota congiunta Mimmo Pantaleo (Cgil-Flc) e Giovanni Torluccio (Uil-Flp).
Il governo per ora affida la replica a Filippo Patroni Griffi. «Ai sindacati dico che comprendo la loro preoccupazione e credo che non appena potremo avviare il processo intavoleremo un incontro sul tema della mobilità», ha osservato il ministro per la Funzione pubblica. Lo stesso Monti in nottata, nel corso della conferenza stampa, era intervenuto sulle proteste dei sindacati: «Non c’è stata né concertazione, né consultazione approfondita c’è stata la fornitura di informazioni generali sull’orientamento del provvedimento: troverei normale che ci fossero perplessità e opposizioni, spero di superarle». Alza il tono anche il Pd, che da giorni esprime preoccupazione. «Se saranno confermati questi tagli interverremo in Parlamento perché non è un taglio agli sprechi ma un taglio a servizi fondamentali — ha detto il responsabile per l’economia del Pd Stefano Fassina — possono mettere in discussione altri capitoli di
spesa meno prioritari, come tutto il settore della difesa. Il confronto avverrà in parlamento, valuteremo il provvedimento e proporremo misure correttive ove necessarie».
Positiva, infine la reazione della Confindustria: «La spending review è necessaria. Lo giudico
come un primo passo nella direzione giusta. Quindi mi sta bene come primo passo, però, bisogna andare avanti con maggiore decisione con più determinazione e fare seguire i passi successivi », ha detto il presidente degli industriali Giorgio Squinzi.

La repubblica 07.07.12

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A rischio 61 amministrazioni meno funzioni per le superstiti nascono 10 città metropolitane”, di VALENTINA CONTE

I CRITERI si conosceranno solo alla fine del mese. E saranno ispirati alla «dimensione territoriale» e alla «popolazione residente». Ma l’obiettivo del governo è chiaro: dimezzare il numero delle Province italiane entro la fine dell’anno, tramite «soppressione» o «accorpamento».
Queste le parole chiave inserite nella notte, a sorpresa, nel decreto sulla spending review, che così passa da 17 a 23 articoli nella sua versione finale. «È stata ridisegnata l’architettura istituzionale dello Stato sul territorio, la prima volta nella storia repubblicana », esulta il ministro Filippo Patroni Griffi che auspica in «circa 50» il numero delle Province residue dopo la “cura”, dalle 107 esistenti. «Una vera e propria svolta. Basta con i microfeudi». Le prime simulazioni del governo individuano in 75 le amministrazioni da eliminare o fondere. Tutte quelle al di sotto dei 350 mila abitanti o meno estese di 3 mila chilometri quadrati. Due parametri più volte circolati nei giorni scorsi (assieme a un terzo, il numero dei comuni nel territorio provinciale, poi saltato), ritenuti ragionevoli, ma tuttavia non definitivi. Il Consiglio dei ministri ha dieci giorni di tempo, dall’entrata in vigore del decreto, per deliberare i criteri definitivi e trasmetterli al Consiglio delle autonomie locali delle singoli Regioni che poi, entro 40 giorni, dovranno definire il piano di «riduzioni e accorpamenti».
La cifra di 75 “tagli” rischia tuttavia di essere fuorviante. In realtà il decreto avrà efficacia stringente solo nei confronti delle Regioni a statuto ordinario (86 Province totali). Per quelle speciali, lo Stato centrale nulla può, tranne un “atto di indirizzo”. Ecco allora che le Province nel mirino scendono a 61. Le salvate appena 25 che diventeranno 15 il primo gennaio 2014 quando nasceranno le dieci Città metropolitane (Roma, Torino, Milano, Venezia, Genova, Bologna, Firenze, Bari, Napoli, Reggio Calabria). Un taglio netto di 61 amministrazioni lascerebbe alla Toscana la sola provincia di Firenze. Alla Lombardia, solo Milano e Brescia. Al Piemonte, Torino, Cuneo, Alessandria. All’Emilia Romagna, Bologna e Parma. Alle Marche, Ancona. Per citare le Regioni dove è più probabile che si proceda per accorpamenti e dove i malumori salgono. Norma ad hoc per La Spezia, salva nonostante i requisiti, perché nei fatti non può accorparsi (Genova sarà Città metropolitana e confina con altre due Regioni).
Il problema resta aperto per le Regioni a Statuto speciale. La Sardegna è nel caos: ha cancellato 4 Province con il referendum abrogativo di maggio, ma il “parlamento” sardo con una leggina le ha prorogate fino al 28 febbraio 2013. In Sicilia, Lombardo è pronto alle dimissioni e forse si voterà in ottobre. Fuori tempo massimo per “asciugare” entro dicembre 5 Province su 9. Poi c’è la questione delle funzioni. Il decreto sulla
spending review lascia alle Province “salve” solo pianificazione territoriale, ambiente, trasporto, viabilità. Togliendo scuola e centri per l’impiego. «Non sta in piedi. Lo correggeremo in Parlamento », avverte Giuseppe Castiglione, presidente Upi (Unione province).

La Repubblica 07.07.12

"La modica quantità", di Massimo Giannini

Ora si capisce perché i governi preferiscono aumentare le tasse. Soprattutto nei Paesi a statalismo diffuso come l’Italia, la spesa pubblica è l’“oggetto” del contratto sociale e il cuore della costituzione materiale. Tagliare la spesa equivale a rinegoziare il primo, e a riscrivere la seconda. Per questo il decreto sulla “spending review” varato da Monti, oltre che un forte impatto economico, ha un alto costo politico. La lama del governo affonda non solo sugli sprechi, ma nella carne viva della società italiana. La tempestività è soddisfacente. Ma ancora una volta l’equità è intermittente. Il tasso di riformismo del provvedimento non è assente, ma è insufficiente: siamo alla “modica quantità”.
“Tagli versus riforme”. Tommaso Padoa-Schioppa, che la “spending review” la lanciò nel 2007 da ministro del Tesoro, aveva colto (ma non sciolto) il nodo gordiano. Nell’Italia del compromesso permanente sulle spalle delle generazioni future, dei diritti acquisiti e dei privilegi consolidati, delle sinecure per gli inclusi e delle ingiustizie per gli esclusi, serve innanzitutto la “revisione della spesa”, non la sua “liquidazione”. Un’operazione che richiede il bisturi, non il machete. Una missione che esige un’idea di Paese, non
una “ideologia della cassa”.Questo, per un governo che consideri il Welfare un valore irrinunciabile dell’Occidente e non un ferrovecchio inservibile del Novecento, significa che la spesa pubblica in molti casi va tagliata, ma in qualche altro caso va aumentata. Il saldo finale deve generare un risparmio significativo per il bilancio dello Stato. Ma insieme a questo, deve propiziare anche un “compromesso al rialzo” tra lo Stato che offre servizi e il cittadino che li produce e che se ne serve.
La “spending review” di Monti inclina più verso la voce “tagli” che non verso la voce “riforme”. L’urgenza del gettito fa premio sull’efficienza del sistema. In parte era inevitabile, vista la criticità del giudizio dei mercati su un’Italia soverchiata dal suo debito sovrano e la necessità di scongiurare un nuovo giro di vite sull’Iva nel 2013. Almeno su questo, il premier ha mantenuto la promessa, costruendo una manovra estesa anche se non abbastanza profonda. Taglio per taglio. Prima di intervenire sulle “voci” più sensibili si doveva aggredire il capitolo delle spese militari, limitando o azzerando l’investimento da 12 miliardi sui caccia F-35, che servono alla Difesa come biglietto d’ingresso nelle commesse della Lockheed, ma non servono al Paese.
Risparmi per 26 miliardi non sono pochi, per un’economia che decresce da anni e per una società che sopporta sacrifici da mesi. Ma è una cura indispensabile. A dispetto del mal di pancia dei partiti, dell’ira degli enti locali, della rabbia dei sindacati e dei dubbi causidici degli economisti. Avevamo giustamente criticato il decreto Salva-Italia perché ruotava al 70% intorno agli aumenti d’imposta e rinviava i tagli di spesa. Ora che i tagli di spesa arrivano non si può opporre un dissenso uguale e contrario. Piaccia o no (e a noi questo impegno draconiano e non richiesto assunto da Tremonti non piace) l’Italia ha promesso alla Ue il pareggio di bilancio nel 2013. Per rispettare i patti, è giusto attingere con più determinazione al tesoretto “occulto” di un’evasione fiscale da 200 miliardi, e a quello “emerso” di un patrimonio alienabile da
450 miliardi. Ma non basta. E allora, delle due l’una: o si elevano le tasse, o si abbattono le spese. Non volere né l’una né l’altra è una fuga nell’irrealtà.
La voce più critica sul piano sociale riguarda la sanità. Il governo ha opportunamente rinunciato al taglio centralizzato degli ospedali minori: toccherà alle Regioni razionalizzare le strutture e portare lo standard a 3,7 posti letto ogni mille abitanti. Resta il fatto che alla sanità si chiederanno altri sacrifici per 5 miliardi in tre anni. Se si sommano agli 8 miliardi decisi dal precedente governo, il “conto” addebitato alla spesa sanitaria ammonta a 13 miliardi. Pochi, se si pensa che da noi una Tac costa il doppio che in Germania e il triplo che in Francia, e che un posto letto costa 134 mila euro l’anno in Lombardia e 200 mila in Campania. Troppi, se si pensa che l’attesa media per quella stessa Tac è di 3-6 mesi, e in molte strutture anche d’eccellenza quegli stessi posti letto mancano proprio.
Il pubblico impiego paga un dazio pesante, ma
obiettivamente non devastante. Gli organici si riducono di 6.954 dipendenti e 293 dirigenti. Il ricorso alla mobilità obbligatoria fa cadere il tabù del posto fisso. Può dispiacere a un settore che da tre anni sopporta già il blocco della contrattazione. Ma è un fatto che oggi la Pubblica amministrazione paga lo stipendio a 3 milioni 458 mila 857 dipendenti che secondo la Corte dei conti, in rapporto alla popolazione residente, costano in media 2.849 euro all’anno per ciascun italiano. Più della Germania (2.830 euro), ma anche della Spagna (2.708 euro) e persino della Grecia (2.436 euro). Ed è un altro fatto che dalla produttività del settore pubblico arrivano “segnali preoccupanti”. Pesano “l’assenza della meritocrazia” e la “distribuzione indifferenziata dei trattamenti accessori, al di fuori di criteri realmente selettivi e premiali”. L’amministrazione giudiziaria fa la sua parte. La “rivoluzione epocale” di cui parla il ministro Severino è un eccesso retorico, ma lo sfoltimento di 37 tribunali minori, 38 procure e 220 sezioni distaccate
non può far gridare allo scandalo, né incide sui tempi biblici della giustizia civile, che richiede in media 1.210 giorni per la risoluzione di una causa. La giustizia italiana è la più cara d’Europa, costa 67 euro l’anno per ogni cittadino, contro i 46 euro della Francia e i 22 del Regno Unito. La geografia giudiziaria del Paese è difforme e squilibrata: a Bolzano c’è un giudice ogni 110 cancellieri, a Campobasso ce n’è uno ogni 221. Gli avvocati possono urlare finché vogliono il loro sdegno corporativo. Ma disboscare questa giungla è l’affermazione di un dovere, non la lesione di un diritto.
In un quadro di austerità complessiva, anche i famosi “costi della politica” subiscono un ridimensionamento. La soppressione di 60 Province è una vittoria del premier, che ha resistito alle pressioni dei cacicchi, ed è riuscito a fare quello che i partiti promettono da anni e non fanno. Se si aggiungono il dimezzamento delle auto blu, l’abbattimento dei contratti d’affitto, il taglio parziale delle poltrone nei cda delle società pubbliche e delle consulenze negli enti, non si può dire che Monti abbia ceduto alle solite lobby. Una volta tanto, il Palazzo paga il suo tributo al risanamento. E un provvidenziale ripensamento notturno ha evitato al governo la più folle delle scelte: il taglio di altri 200 milioni all’Università, per dirottare il ricavato al sostegno delle scuole private parificate. Sarebbe stato un danno simbolico ma enorme per un’istruzione pubblica già mortificata in questi anni, e una beffa per i giovani ai quali si promettono ponti d’oro sospesi sull’abisso. Per fortuna il buon senso delle istituzioni repubblicane ha fatto premio sul consenso delle gerarchie ecclesiastiche.
La “spending review” è un “metodo di governo” della cosa pubblica, e dunque è molto più che un antidoto contro il deficit. Questo decreto è solo un passo iniziale, e ancora parziale, sulla strada del cambiamento dei processi di riqualificazione della spesa. Ne serviranno altri, più convincenti. Ma intanto il primo è stato compiuto. Ugo La Malfa sosteneva che in genere “l’Italia fa riforme con spirito corporativo, quindi fa contro-riforme”. Almeno questo, stavolta, non è accaduto.

La Repubblica 07.07.12

Spending review: Ghizzoni, visione strategica debole su settore della conoscenza

Il Parlamento farà la sua parte su sviluppo e crescita. “Per esprimere un giudizio complessivo è necessario aspettare il testo definitivo, ma da quanto emerso sinora, in particolare per il settore della conoscenza, sembra che la visione strategica che ha guidato la Spending Review nel settore della conoscenza sia debole. -lo dichiara Manuela Ghizzoni, presidente della Commissione Cultura, scienza e Istruzione della Camera dei deputati –
La revisione della spesa pubblica è necessaria per indirizzare il nostro Paese verso un futuro di sviluppo. Quando questa, però, si abbatte su ricerca e università, attraverso la chiusura di piccoli enti di ricerca, indipendentemente dalla loro capacità produttiva, e con blocco del personale, si rischia di trovarsi un pugno di mosche in mano.
Il rapporto tra tagli effettuati e risparmi risulta negativo: non è sopprimendo piccoli enti di eccellenza, che fanno parte della storia della ricerca italiana, che si avrà un bilancio positivo per le casse dello stato e un supporto per il progresso. Adesso il Parlamento farà la propria parte – ha concluso la presidente Ghizzoni – nel compito di fornire alla spending review la missione di strumento per uscire dalla crisi senza perdere di vista innovazione e crescita.”

"Via libera al decreto, ecco i tagli dalla A alla Z", da unita.it

Con gli interventi odierni il risparmio per lo Stato sarà di 4,5 miliardi per il 2012, di 10,5 miliardi per il 2013 e di 11 miliardi per il 2014, per un totale di 26 miiardi di euro. 4,5 miliardi i tagli subito. Salvi i piccoli ospedali, 60 province in meno, slitta l’aumento Iva (era previsto a ottobre, sarà nel 2013), niente fondi alle scuole paritarie: “Non abbiamo toccato né scuola né sanità”.

Dopo sette ore di riunione, Il Consiglio dei ministri ha approvato nella notte il decreto legge «disposizioni urgenti per la riduzione della spesa pubblica a servizi invariati» (spending review), la «seconda rata», come la definisce il premier Mario Monti in conferenza stampa, dell’operazione di revisione della spesa pubblicata. Che, assicura il Professore non prevede «tagli lineari» ma bensì una sforbiciata «ponderata».

Si tratta, dice, di una «missione collettiva» pensata «per i cittadini» e che per i prossimi sei mesi del 2012 comporterà tagli per 4,5 miliardi, che l’anno successivo salgono a 10,5 e a 11 nel 2014. E nonostante numerosi stop and go, alla fine arriva anche il dimezzamento delle province, che entro l’anno dovranno scendere a quota 50. Il tutto con il raccordo con gli enti territoriali e accompagnato dalla creazione di 10 nuove città metropolitane, (Roma, Torino, Milano, Venezia, Genova, Bologna, Firenze, Bari, Napoli, Reggio Calabria).

Il governo scende in conferenza stampa in piena notte e il presidente del Consiglio coglie l’occasione per riconoscere «il senso di responsabilità» manifestato dai ministri, che nel corso di queste settimane hanno cercato di opporre qualche resistenza alla sforbiciata prevista dal decreto ma che alla fine hanno approvato il provvedimento. Anche perchè sui due fronti principali, sanità e scuola, i rispettivi dicasteri l’hanno spuntata. In extremis infatti saltano i tagli ai ‘mini-ospedali’ e quelli alle università (200milioni nel 2012 e 300 a partire dagli anni successivi) e parimenti non vengono finanziate le scuole paritarie.

«La scuola non è toccata da questo decreto – ci tiene a precisare il viceministro dell’Economia Vittorio Grilli – e per la salute si mantengono i servizi invariati ma riducendone i costi». Nel complesso comunque la macchina centrale dell’amministrazione pubblica mette sul piatto 1,5 miliardi quest’anno e 3 miliardi a partire dal 2013, con tanto di soppressione della Covip e dell’Isvap.

Confermato lo stop all’incremento dell’Iva fino al primo luglio del 2013 e le risorse per fare in modo che altri 55 mila esodati possano essere salvaguardati con le vecchie regole con uno stanziamento complessivo di 1,2 miliardi di euro dal 2014. Tra le novità in arrivo, spunta il taglio di «almeno il 10%» del totale degli organici delle Forze armate, lo stop all’adeguamento degli affitti pagati dallo Stato e l’avvio della rinegoziazione delle locazioni per ridurre del 15% i canoni.

Una prima serie di interventi è stata deliberata con il «Provvedimento della PCM e del MEF sullo »snellimento delle strutture e la riduzione degli organici«. Le nuove disposizioni di revisione della spesa pubblica mirano a tre obiettivi.

Il primo, è quello di iscrivere il funzionamento dell’apparato statale – e le relative funzioni – entro un quadro razionale di valutazione e programmazione. Si tratta di un’operazione strutturale, il cui buon fine è legato alla ottimizzazione delle procedure e delle articolazioni dello Stato, inclusa quella giudiziaria, all’accorpamento o alla dismissione degli enti non necessari e alla progressiva riduzione degli organici, privilegiando la distribuzione razionale delle risorse umane e materiali a disposizione delle pubbliche amministrazioni.

La riduzione della spesa non incide in alcun modo sulla quantità di servizi erogati dalle pubbliche amministrazioni a favore dei cittadini ma mira a migliorarne la qualità e l’efficienza. Stimola, così, la crescita e la competitività del Paese, in linea con le best practices europee e con le sollecitazioni degli investitori internazionali.

L’eliminazione degli eccessi di spesa – ed è questo il terzo obiettivo – produrrà una serie di benefici concreti per i cittadini. Permetterà, anzitutto, di evitare l’aumento di due punti percentuali dell’IVA per gli ultimi tre mesi del 2012 e per il primo semestre del 2013.

Grazie al risparmio ottenuto sarà inoltre possibile estendere la clausola di salvaguardia in materia pensionistica prevista dal decreto legge «Salva Italia» ad altri 55.000 soggetti, anche se maturano i requisiti per l’accesso al pensionamento successivamente al 31 dicembre 2011. Complessivamente, l’importo a favore dei lavoratori «salvaguardati» è di 1,2 miliardi ( a partire dal 2014). Sono infine previsti stanziamenti per la ricostruzione delle zone danneggiate dal sisma. 500 milioni sono stati già stanziati con il decreto d’urgenza per le zone terremotate. La spending garantirà ulteriori risorse: 1 miliardo per il 2013 e 1 miliardo per il 2014.

Sarà adottato un terzo provvedimento di spending review. Esso riguarderà le agevolazioni fiscali, la revisione strutturale della spesa e i contributi pubblici sulla base delle analisi effettuate, per incarico del Governo, dal Professor Giuliano Amato e dal Professor Francesco Giavazzi.

La riduzione degli eccessi di spesa delle pubbliche amministrazioni, per la parte relativa ai beni e servizi, è frutto dell’analisi svolta del Commissario straordinario per la spending review, Enrico Bondi. L’analisi ha permesso di individuare un benchmark di riferimento – o indicatore di valore mediano di spesa – in base al quale stimare l’eccesso di spesa in capo alle amministrazioni (lo Stato centrale, le Regioni, le Province, i Comuni e gli enti pubblici non territoriali). L’indicatore, che tiene conto delle peculiarità di ciascuna amministrazione, costituisce la base analitica per superare una metodologia di riduzione della spesa che colpisce nella stessa proporzione i soggetti virtuosi e quelli meno virtuosi, disincentivando il perseguimento di comportamenti efficienti. Il nuovo metodo allinea i centri di spesa meno performanti a quelli efficienti ed è, quindi, la premessa per operare riduzioni di spesa selettive. Per calcolare la mediana sono stati prese in considerazione 72 merceologie (prendendo spunto anche dalle lettere dei cittadini). Tra queste, ad esempio, le spese di cancelleria e quelle per i carburanti; il consumo di energia elettrica; le spese di pulizia e quelle postali, i buoni pasto, le spese per pubblicità, quelle per la somministrazione di pasti nelle scuole e ospedali. Per ciascuna di queste merceologie è stata confrontata la spesa di ciascuna amministrazione con quelle omologhe, prendendo in considerazione il numero di dipendenti e la popolazione residente.

Per la parte restante, relativa alla riduzione delle dotazioni organiche delle pubbliche amministrazioni, la razionalizzazione del patrimonio pubblico, l’organizzazione degli enti pubblici e la soppressione di enti e società, la riduzione della spesa si basa sull’elaborazione svolta dai Ministeri, ciascuno per la parte di propria competenza. Un valido supporto è giunto infine dagli oltre 135.000 messaggi di cittadini che hanno aderito alla consultazione pubblica sulla spending review, segnalando al Governo sprechi e inefficienze. Singoli cittadini e associazioni hanno scritto individuando, in modo puntuale ed esaustivo, i disservizi nell’azione delle pubbliche amministrazioni. Nella distribuzione geografica – che vede un sostanziale equilibrio tra Nord e Sud – il primato per numero di segnalazioni spetta a Lombardia, Lazio, Emilia Romagna, Campania e Sicilia. Amministrazioni territoriali (37% del totale), spese sanitarie (14% delle segnalazioni), acquisti di beni pubblici (8%), personale (7%), efficienza energetica (6%): sono questi i temi delle segnalazioni che hanno contribuito a orientare l’azione di ricognizione del Commissario e dei Ministeri. Tra le iniziative segnalate più frequentemente come esempi di buone prassi spiccano «Cielobuio» (che propone una riduzione dei tempi e dei punti di illuminazione negli edifici pubblici), l’esternalizzazione del trasporto pubblico locale (già sperimentata con successo da alcune amministrazioni locali) e la riduzione del parco auto (con oltre il 20% della segnalazioni) ricorrendo a soluzioni alternative come il car sharing o il car pooling.

www.unita.it

"La sfida del cambiamento per ripartire", di Marina Sereni

«Proprio dalle grandi crisi tendono a scaturire le rotture più profonde», scriveva qualche giorno fa Gianni Cuperlo, sollecitando il Pd e le forze progressiste a non rinunciare a coltivare l`utopia, la prospettiva di un cambiamento radicale. Condivido. Siamo di fronte al fallimento di un modello in cui è stata egemone la destra su scala mondiale e rispetto al quale la sinistra di governo, in Europa e non solo, non è stata in grado di elaborare una visione alternativa e credibile. Questa inadeguatezza ha coinciso con la perdita di peso della politica, organizzata ancora in gran parte su scala nazionale, nei confronti dei poteri globali della finanza e della comunicazione.

È dunque indispensabile prendere le mosse da una riflessione strategica sull`Europa che affronti le contraddizioni che questa crisi ha fatto emergere drammaticamente.

Queste contraddizioni possono avere un effetto deflagrante oppure spingere l`Europa, e i soggetti politici che credono nell`utopia realistica del progetto originario, a compiere una svolta. «In ogni singolo stato dell`Europa – scrive Ulrich Beck – si è finora potuta adottare la metafora nota e diffusa secondo cui quanto più è grande la torta da spartirsi, tanto più saranno grandi le fette che toccheranno ai singoli paesi. Finora non era mai accaduto che la spartizione fosse in negativo. (…) Negli Stati Uniti la disparità concerne gli individui, nell`Unione Europea le nazioni. (…) Sulla scia della crisi finanziaria globale si inasprisce la differenza tra stati creditori e stati debitori, il che provoca reazioni antieuropeistiche e xenofobe in entrambi i gruppi di Paesi».

L`attacco all`Euro ci costringe a fare in fretta. È bene non alimentare miti e dirci che su questo terreno il confronto in Europa non è semplicemente riconducibile alla dialettica destra/sinistra, conservatori/riformatori. Ha ragione Bersani quando dice, anche in riferimento all`esito positivo dell`ultimo Consiglio Europeo, che a Bruxelles come a Roma c`è spazio e bisogno di un`alleanza tra tutte le forze che intendono contrastare le pulsioni populiste e antieuropee. Ciò non significa che siano venute meno le ragioni di una competizione tra destra e sinistra e che non sia necessario, per tornare alla suggestione di Cuperlo, cogliere l`occasione di questa crisi, e dell`implosione che essa sta provocando in Italia nel campo conservatore, per misurarci con la sfida di dare alla sinistra una nuova identità, di allestire un treno fatto di vagoni nuovi. Proporrei di tematizzare questo lavoro e di metterlo definitivamente al centro dell`agenda politica di questi mesi come grande discussione pubblica nel Pd e con le forze vitali della società italiana.

«La società post-industriale, la globalizzazione portano con sé dilemmi in larga misura nuovi: equità-efficienza, tutele-merito, protezione-concorrenza, diritti sociali-competitività. Dilemmi che non possono essere ricondotti al confronto pubblico-privato. Se i progressisti, i riformisti, vogliono essere una forza che aspira a governare gli eventi e non a subirli devono accettare la sfida di questi cambiamenti».

Così iniziava il documento conclusivo del nostro ultimo incontro di Cortona in cui identificammo alcune questioni-chiave che mi sembra possano risultare utili per riassumere la natura della sfida: democrazia e rappresentanza, ovvero come dare governo democratico ai processi politici ed economici e come regolare la sfera pubblica per rendere più efficiente la pubblica amministrazione e l`azione di governo; bene comune, ovvero come rileggere criticamente la stagione delle privatizzazioni senza liberalizzazioni e come costruire ambiti e meccanismi in cui gli attori economici interagiscano tra di loro fuori dai puri rapporti di potere o di forza economica; protezione, per una comunità aperta e inclusiva, ovvero come ridare centralità al lavoro e rileggere il welfare alla luce delle trasformazioni avvenute in questi decenni; nuovo patto per il futuro, ovvero come premiare il merito e offrire opportunità. Sono soltanto dei titoli, che provano tuttavia a scendere dai valori e dai principi alla concretezza delle proposte politiche, sapendo che per un tempo non breve l`Italia – e più in generale l`Europa – dovranno fare i conti con una disciplina di bilancio stringente. A risorse decrescenti dobbiamo far corrispondere un tasso crescente di innovazione e fantasia, per proporre un`idea dello sviluppo e del benessere capaci di dare valore ai beni relazionali, alla qualità, alla conoscenza, alla sostenibilità ambientale.

Ecco, se nei prossimi mesi – a partire dall`Assemblea del 14 luglio – potessimo confrontarci su questi temi, sul merito della nostra idea di cambiamento dell`Italia e dell`Europa, credo troveremmo anche la risposta più equilibrata sul grado di continuità/discontinuità che possiamo immaginare tra la proposta che il Pd porterà agli elettori nel 2013 e l`esperienza complessa del Governo Monti che noi stiamo sostenendo.

l’Unità 06.07.12

"Compito del Cnr è il dialogo fra i saperi", di Luigi Nicolais*

Caro direttore, Tullio Gregory (sul Corriere del 27 giugno) attribuisce all’equilibrio imperfetto del Comitato internazionale di esperti la distrazione del Documento strategico del Cnr sulla cultura umanistica.
Avendo auspicato un dibattito ampio e costruttivo, non è mia intenzione replicare difendendo posizioni e indirizzi, ma portare punti a chiarimento e se possibile provocare ulteriori riflessioni.
L’equilibrio imperfetto non è un felice ossimoro, ma un dato di fatto. È inutile negarlo. È più agevole dialogare per macroambiti culturali piuttosto che per singole specificità. Ed è indubbio che alcune aree scientifiche, per storia, metodo, sensibilità, probabilmente scaltrezza degli stessi ricercatori, tendano con maggiore facilità a proporsi, presentarsi, riconoscersi e farsi riconoscere come masse critiche omogenee e coese, salvo poi frantumarsi in mille e mille rivoli.
La ricca articolazione della cultura umanistica dovuta alla specificità, autorevolezza e spesso anche alla individualità delle ricerche non ha fino a oggi favorito l’agglomerazione, tanto che quella più utilizzata resta sostanzialmente un ibrido concettuale di scarsa capacità attrattiva e rappresentativa. Ma non per questo però si disconosce valore e presenza. Quanto poi questa debba pesare all’interno di un ente che auspica, per la ragione stessa della sua esistenza, la concentrazione di strutture, risorse e competenze, nonché l’individuazione certa di interlocutori è questione aperta che il Documento indirettamente affronta. In esso, poi, Gregory legge e denuncia un’insofferenza diffusa per la ricerca di base. Premesso che, per la complessità espressa dalle attività di ricerca e la forte interazione dei diversi saperi, andrebbe superata la tripartizione della ricerca che la vuole di base, applicata e industriale, per arrivare a una distinzione solo tra ricerca qualitativamente buona e interessante e ricerca d’accatto, il documento tenta, azzarda, probabilmente non riuscendoci, di fare ordine.
L’obiettivo è restituire chiarezza di funzione e finalità a un ente, il Cnr, che ha il compito di far avanzare le frontiere di tutti saperi, sollecitandone a tal fine le interazioni. Ma al tempo stesso ha anche l’obbligo, il dovere civile, di utilizzare, applicare e far capitalizzare a livello sociale i risultati scientifici conseguiti o maturati. Questo comporta una specificità rispetto alle università cui spetta il compito di formare e indirizzare principalmente la creatività e le potenzialità dei giovani. È indubbio poi che le priorità derivino da una visione di un Cnr forte posizionato sul territorio come interfaccia fra il mondo dei saperi, quello della produzione e dell’innovazione. In questo sicuramente ci sarà stata qualche omissione, ma le stesse sono dettate anche dalle caratteristiche endogene del sistema sociale e produttivo italiano.
Infine sui rilievi per le competenze bibliometriche e le capacità manageriali. Il Documento assume solo apparentemente una posizione omologa alla moda imperante e sollecitando la crescita di consapevolezze e competenze su entrambi gli ambiti pone la necessità di stressare la trasparenza, la misurabilità e l’efficacia delle azioni e della conduzione delle strutture pubbliche di ricerca, avendo a riferimento non più solo il proprio contesto, locale o nazionale, ma quello internazionale.
Sono consapevole e certo che nessun documento potrà mai accampare pretese di esaustività e completezza. I testi vanno interpretati e migliorati nell’applicazione, per questo ho sollecitato il dibattito, fidando nell’onesta intellettuale degli interventi — così come intesa dallo stesso Gregory — e sull’opportunità di poter sviluppare insieme una nuova visione per l’intero sistema della ricerca pubblica.
Una visione organica che inevitabilmente porrà dei distinguo e delle differenze, ma che dovrà poggiare almeno su alcune consapevolezze: non possiamo più trincerarci dietro posizioni autocelebrative e autoreferenziali; non possiamo permetterci di progredire in un settore scientifico a scapito di un altro, non possiamo disporre di cattedrali nel deserto.
E se per innescare processi virtuosi di cambiamento è necessario adottare, anche e non solo, metodi e strumenti quantitativi, questi ultimi ben vengano. Perché la meta deve essere quella di ottimizzare, razionalizzare, concentrare gli sforzi; formare, trattenere e tutelare nuove leve di studiosi e ricercatori; far avanzare la frontiera della conoscenza; attrarre risorse private; aumentare il credito sociale di tutti i saperi.

*Presidente del Consiglio nazionale delle ricerche

Il Corriere della Sera 06.07.12

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“Il Cnr distratto sulla cultura umanista”, di Tullio Gregory

Il Cnr ha pubblicato il «Documento di visione strategica» per il prossimo decennio: documento importante nelle sue scelte e raccomandazioni, redatto da una commissione – nominata dal ministro Profumo – composta di 16 membri, dei quali due stranieri. In larga maggioranza autorevoli esperti delle cosiddette scienze dure, con un solo rappresentante delle scienze filologiche, storiche, filosofiche, Michel Gras, studioso francese di primo piano nel campo della ricerca archeologica: di questo «equilibrio imperfetto» il documento porta le conseguenze, come si vedrà.

Poiché il presidente Nicolais, presentando il Documento, ha auspicato che si apra un dibattito, cerchiamo qui di avviarlo.

Tra le proposte molto positive e innovative mi sembra da segnalare l’istituzione di Scuole internazionali di dottorato presso i Dipartimenti e le aree di ricerca Cnr: si avrebbero finalmente scuole con corsi regolari, di alta specializzazione, con laboratori e biblioteche, cosa che avviene raramente nelle università dove i dottorandi sono per lo più abbandonati a se stessi, al massimo affidati a un tutor, senza corsi regolari.

Molto spazio è giustamente dato alle tecnologie informatiche e al trasferimento tecnologico. Ma quando si passa alla definizione delle aree tematiche (differentemente presentate nel Documento e nella I appendice) ci si trova innanzi a un elenco piuttosto disordinato di buone intenzioni, di saggi consigli, che prescindono del tutto dal bilancio del Cnr (la spesa per le iniziative proposte non è mai quantificata) e soprattutto sembrano ignorare le ricerche in corso presso i vari Istituti. Siamo di fronte a programmi che potrebbero trovare forse spazio in una rinata Casa di Salomone, di baconiana memoria.

Già qualche perplessità desta la serpeggiante insofferenza per la ricerca di base, riconosciuta come caratteristica del Cnr, insistendo piuttosto sul rapporto con il mondo dell’impresa, che è come dire vincolare la ricerca a commesse esterne per un immediato utile economico, mettendo in crisi quelle attività che garantiscono il progresso del sapere, come già era posto in evidenza dal panel generale di valutazione.

In questa prospettiva non stupisce l’emarginazione delle discipline umanistiche: in tutto il Documento di 63 pagine, i cenni a queste discipline (accorpate nell’ambigua dizione «scienze sociali e umane e patrimonio culturale») se fossero raccolti tutti insieme non occuperebbero più di una pagina; delle stesse discipline si torna a parlare nella I appendice, occupando due pagine su quindici complessive. Si aggiunga che in tutto il Documento sono ignorate le ricerche storiche, filologiche, filosofiche, la cui presenza nel Cnr e il cui valore sul piano internazionale era stato messo in evidenza dal panel di valutazione dell’ente collocando al vertice, su 107 istituti, proprio i due istituti che svolgono ricerche in questo campo. Dato del tutto ignorato nel Documento che pur utilizza, per altri settori, le valutazioni del panel.

Peraltro, quando definisce le aree tematiche, il Documento propone per le scienze economiche, sociali e umane e il patrimonio culturale (inserite nell’area intestata alla «sicurezza e inclusione sociale») temi di una genericità significativa: «innovazioni sociali creative», «lotta contro il crimine e il terrorismo», «libertà di accesso a Internet», «sensori per stati di crisi», «coesione sociale», «pace», «legalità e sicurezza», «la rappresentazione dei beni», «l’eredità storica», «le strategie territoriali». Il tutto servito con affermazioni di assoluta ovvietà: «il patrimonio culturale va valorizzato», «il patrimonio culturale immateriale va incrementato».

Né maggiore chiarezza troviamo nella I appendice, dedicata alle aree tematiche, ove – ancora una volta ignorando settori di ricerca nei quali l’ente ha posizioni di prestigio – si indicano alcune priorità: per il patrimonio culturale, «conoscenza approfondita dei litorali», «turismo planetario, «miglioramento della rappresentazione e dell’immagine dei beni culturali, in relazione soprattutto alla persona umana e alla natura». Per le scienze sociali e umane le priorità sono: «cambiamenti demografici», «coesione sociale e culturale, legalità e sicurezza», «competitività del sistema economico», «pace», «pensare il futuro della città». Affermazioni tutte che si commentano da sole per la loro banalità.

Come spiegare questa disattenzione del Documento per le discipline umanistiche senza riaprire un inutile dibattito – del tutto privo di senso – sulle cosiddette due culture? Semplicemente ricordando l’endemica indifferenza, a volte diffidenza, di larghi settori del Cnr verso le discipline umanistiche (ammesse nell’ente cinquanta anni orsono) che, come ho avuto altra volta occasione di ricordare, sono state recentemente «compresse» dal nuovo CdA del Cnr in un unico Dipartimento, così da mettere insieme l’archeologia micenea con il diritto privato europeo, la psicologia con il restauro, la filologia classica con la sociologia industriale. Va anche riconosciuto che la prospettiva del Documento non differisce dalla politica del Miur e del Cipe (come si rileva anche dal Piano nazionale della ricerca 2011-2013), espressione del più miope aziendalismo, tutto volto al prodotto (tanto caro all’Anvur) vendibile sul mercato e valutabile con criteri «quantitativi» (oggi ampiamente criticati da tutte le grandi istituzioni scientifiche europee); di qui l’emarginazione della ricerca di base, scientifica e umanistica, e più ancora di una cultura che crei valori, non commerciabili ma essenziali per la crescita della società civile. Dimenticavo: il Documento auspica l’avvento di apostoli specialisti di «analisi bibliometriche» per «posizionare la ricerca del Cnr nell’ambito europeo ed internazionale»; per i direttori scientifici di dipartimenti e istituti richiede «esperienze gestionali e manageriali», come vuole l’Anvur per i professori universitari, con i noti risultati.

Il Corriere della Sera 06.07.12