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"Rianimare il Cavallo", di Vittorio Emiliani

Finalmente la Rai ha il proprio “governo” e può quindi tentare di risollevarsi dalle crisi. Si può criticare il fatto che Monti abbia nominato al vertice di Viale Mazzini due “guardiani dei conti” i quali poco sanno di Rai e di multimedialità. Ma va aperto loro tutto il credito necessario. Certo, il centrodestra, con le solite manovre di basso livello (avallate in corsa da un presidente del Senato sdraiato sulla sua parte politica) si è assicurato di nuovo la maggioranza in Cda. Come ai cari vecchi tempi. Grazie a Schifani e grazie all’assenza in Vigilanza del solito Marco Beltrandi radicale (ma l’impassibile Pannella denuncia, come un disco rotto, lo «scempio partitocratico» della Rai…).
Ai nuovi amministratori Rai (che il Pd ha concorso a eleggere seguendo con saggezza le corrette indicazioni delle associazioni) va ricordato che le crisi da affrontare sono parecchie. I conti non vanno per niente bene, ma minacciano di venire appesantiti dalla più generale crisi di identità del servizio pubblico, del suo rapporto con gli abbonati. Un caso fresco: la Rai ha avuto ascolti altissimi con gli europei di calcio e però, trasmettendo tutto – gol inclusi – sul digitale terrestre, ha escluso gli abbonati che ancora vedono i programmi dalla piattaforma Sky nonché gli abbonati di Sicilia e Puglia appena passate al digitale senza adeguata copertura. Quei programmi criptati hanno intaccato ancor più la popolarità della Rai, facendo imbufalire i suoi utenti che si servono (legittimamente) della piattaforma Sky. Verso di loro la Rai si è comportata come una pay-tv, contro ogni regola. Lo dimostra l’accordo realizzato in Gran Bretagna per consentire anche ai non abbonati di vedere gratis sulla piattaforma satellitare di BskyB i match trasmessi dalle tv terrestri, Bbc inclusa.

Alla Rai la falla del calo pubblicitario è recente, ma negli ultimi anni evasione/morosità del canone hanno scavato una voragine facendo mancare oltre 1/3 degli introiti. Come recuperare credito presso i teleutenti se – grazie alla imposizione da parte di Berlusconi della piattaforma satellitare comune Tivùsat in luogo di Sky – una parte di loro subisce esclusioni tanto detestabili? Direttive europee e delibere Agcom prescrivono da anni che gli eventi di particolare rilevanza sociale siano trasmessi in chiaro. V’è di più: nella crisi

Rai entra con forza l’emorragia, subita e/o incoraggiata, di conduttori/autori/attori costretti a emigrare. Dal prossimo autunno Michele Santoro non sarà più soltanto un “ospite”, ma farà parte – come Lerner, come Gruber, come altri – de La7, organicamente. Farà ascolti elevati e attrarrà prestigio e pubblicità. Doppia, tripla perdita secca per la Rai che, dal 2002 a oggi, ha rinunciato ormai a tutta la satira, all’intrattenimento intelligente, e quindi di prestigio. È sotto gli occhi di tutti l’autentico botto fatto da Corrado Guzzanti su Sky con «Aniene».

Veniamo alla raccolta pubblicitaria, strettamente legata peraltro all’offerta dei palinsesti. Nel 2012 il calo riguarda tutti, in modo speciale le tv generaliste, in modo specialissimo la Rai. Che paradossalmente batte Mediaset negli ascolti e però registra negli spotquasiun-11%controil-9,6 di Mediaset. Il presidente dell’Upa Lorenzo Sassoli de Bianchi ha previsto per il 2012 investimenti pubblicitari in calo per 700 milioni. Con una notazione che si attaglia anche alla Rai. «Troppo rigore può essere una terapia che, invece di guarire, intossica. Di questo passo il ceto medio rischia di polverizzarsi». Certo, a Viale Mazzini e dintorni c’è parecchio da tagliare, con rigore. Fino a dieci anni fa i compensi di presidente, direttore generale e consiglieri erano contenuti. Vennero raddoppiati di colpo dopo il 2002, in una gestione, temo, «di garanzia» (?). Poi la crescita è continuata, anzi, a quanto leggo, dilagata. E non parlo del solo vertice.
Tuttavia una politica di salassi diffusi farebbe crollare a terra il cavallo di Messina a viale Mazzini e quello di Ceroli a Saxa, nel momento in cui la Rai ha bisogno di investimenti «di qualità» (anche sul piano degli autori, un parco decisamente impoverito). Si riparla di vendere Rai Way, ma con quale ricavato con la crisi planetaria in atto? La cessione del suo 49% ai texani di Crown Castle decisa nel 2001 dal Cda Zaccaria, subito cancellata, con contorno di insulti, dal neo-ministro Gasparri, aveva messo in banca circa 900 milioni di euro di oggi. Come e a chi venderà ora la Rai? Con quale ribasso? Ecco i frutti avvelenati della politica di un centrodestra dominato dagli interessi di Berlusconi & famiglia. E il Cda appena eletto ha quella stessa maggioranza. Ricordiamolo.

L’Unità 06.07.12

"Sisma, per le case rimborsi fino all'80% dei lavori", di Dino Martirano

D’ora in poi i partiti potranno contare su un finanziamento pubblico dimezzato ma la vera novità è che le risorse così risparmiate nel 2012 e nel 2013 andranno direttamente a finanziare la ricostruzione delle aree colpite dalle calamità naturali dopo il 2009. Si tratta di 165 milioni (91 per quest’anno, 74 per il prossimo) che già fra 15 giorni potrebbero transitare dalla disponibilità di cassa del Parlamento a quella del Tesoro per essere destinati alla ricostruzione dell’Emilia e dell’Abruzzo, regioni colpite dai terremoti, ma anche alle Cinque Terre e alle aree del Messinese flagellate dalle alluvioni.
Questi 165 milioni andranno comunque principalmente ad alimentare una parte del fondo istituito dal governo per l’Emilia. Ieri il presidente del Consiglio ha firmato l’apposito decreto che stabilisce la ripartizione dei fondi per la ricostruzione (contributi fino all’80% dei costi sostenuti dai privati e dalle imprese) tra le regioni: il 95% dello stanziamento spetterà all’Emilia Romagna, il 4% alla Lombardia, l’1% al Veneto. Nel 2013 e 2014 la ripartizione verrà rideterminata dopo la definitiva valutazione dei danni. Il fondo sarà alimentato dalle accise, per un limite di 500 milioni, dal Fondo di solidarietà della Ue, dallaspending review (per complessivi due miliardi) e appunto, dalla riduzione dei contributi pubblici destinati ai partiti per complessivi 165 milioni nel biennio 2012-2013.
Ieri, dunque, il Senato ha dato il via libera al disegno di legge taglia fondi ai partiti che è stato approvato in via definitiva tra qualche mugugno: 187 favorevoli (Pdl, Pd, Udc, Api, Coesione nazionale), 17 contrari (Idv, Antonio Del Pennino del Misto e i senatori radicali Perduca, Poretti e Bonino), 22 astenuti (per la Lega «si poteva fare di più») mentre i democratici Roberto Della Seta e Francesco Ferrante non hanno partecipato al voto perché insoddisfatti da un testo che sostanzialmente mantiene il finanziamento pubblico. Molto critico il dipietrista Luigi Li Gotti che annuncia una raccolta di firme per indire un referendum abrogativo.
Invece Anna Finocchiaro, capogruppo del Pd, si è voluta togliere un paio di sassolini dalla scarpa per smentire «tutti i commentatori, e non solo, che hanno strumentalmente agitato lo spauracchio secondo il quale i partiti promettevano e non mantenevano». In altre parole, la Finocchiaro ricorda che il Senato ha dovuto approvare in fetta e furia il testo giunto Camera, rinunciando a migliorarlo, altrimenti per una dimenticanza dei deputati non si sarebbe fatto in tempo a bloccare la seconda tranche di finanziamento 2012 in pagamento ai partiti a fine luglio. Scattano infatti dalla pubblicazione in Gazzetta ufficiale della legge i 15 giorni entro i quali il governo deve provvedere al cambio di capitolo di spesa. Per questo grande soddisfazione è stata espressa anche da Maurizio Gasparri, capogruppo del Pdl: «Il nostro contributo è stato decisivo per mantenere un impegno con i cittadini varando in tempi brevi che aumenta i controlli sui bilanci dei partiti, e riduce gli stanziamenti destinando una parte di essi alle popolazioni colpite dal terremoto».
Nel 2012 i partiti riceveranno complessivamente 91 milioni invece che 182. Ma di questi 91 milioni solo il 70% (63,7 milioni) saranno erogazioni dirette mentre il 30% (27,3 milioni) verrà percepito sotto forma di cofinanziamento. E questo vuol dire che per ogni euro donato dai privati (persone fisiche o enti non potranno elargire più di 10 mila euro) ai partiti lo Stato rimborsa 50 centesimi.

Il Corriere della Sera 06.07.12

"Ricerca choc. Sono i figli le altre vittime della violenza domestica", di Mariagrazia Gerina

Federico, lo chiameremo così, ha solo undici anni. Sua sorella, appena nove. Ma sa già come funziona la violenza, sa che ha un andamento ciclico. Sa che per quanto terribile sia l’esplosione di rabbia, prima o poi, finirà. E dopo, comunque, tornerà una specie di calma. Per questo mentre guarda sua fratello che si dimena, non si scompone. Federico sembra una furia. Urla, tira calci. Non c’è verso di calmarlo. E chi ci prova, si ritrova un morso sul braccio. Sua sorella, invece Sofia la chiameremo se ne resta in disparte. Assiste impassibile alla scena. «Non vi preoccupate», rassicura le operatrici del Centro Antiviolenza dove lei e Federico sono ospiti da qualche giorno insieme alla madre: «Fra un po’ si calma, papà fa la stessa cosa con mamma e poi smette…».
Scene dall’inferno domestico, da cui con fatica le donne vittime di violenza cercano di risalire, insieme ai loro bambini. In un anno, più di mille donne vittime di violenza si sono rivolte al Telefono Rosa, in cerca di aiuto. In nove casi su dieci, a picchiarle sono i loro mariti, compagni, fidanzati. In otto casi su dieci, le donne sono madri. E questo significa che dietro di loro, ci sono altre vittime, i loro figli: 760 minori, 404 di età compresa tra gli 0 e gli 8 anni, 356 ragazzini tra i 9 e i 17 anni, 438 maggiorenni, che da bambini non hanno ricevuto l’aiuto di cui avevano bisogno.
Il paradosso è che spesso proprio il pensiero dei figli a convincere le madri a restare, almeno fin tanto che sono «troppo piccoli». «Meglio un padre violento che nessun padre», è la regola che si ripetono per uno, due, cinque anni. Molte si illudono di poter tenere al riparo i bambini. Con stratagemmi che riempiono di pena. «Ormai ha spiegato una giovane madre a Paola Matteucci, psicologa e volontaria del Telefono Rosa so riconoscere quando arriva l’esplosione di violenza: mi prende per i capelli e allora io piano piano mi trascino in stanza da letto, così i bambini non vedono e non sentono nulla».
Poi, arriva il giorno che anche quella convinzione crolla. E le madri sono costrette a fare i conti oltre che con la loro sofferenza con quella inflitta ai loro figli. La letteratura scientifica la chiama «violenza assistita», ma è un termine che non dà abbastanza conto dell’orrore che i bambini nati in una delle tante case dove si consuma la violenza sulle donne sono costretti a subire. Figli di padri violenti e vittime, come le loro madri, anche quando sembrano non vedere e non sentire quello che il papà fa alla mamma. La «trasmissione della violenza» avviene lo stesso. Di padre in figlio, di madre in figlia, seguendo tutte le traiettorie possibili. Le bambine reagiscono chiudendosi in se stesse, con una timidezza che non lascia varchi. I bambini invece più spesso reagiscono imitando il padre. E allora le esplosioni di rabbia, i calci, i morsi. Violenza infantile, che è ripetizione della violenza adulta.
A SCUOLA
Nel caso di Federico e di Sofia è successa una cosa a che purtroppo spesso non accade. A scuola, gli insegnanti si sono accorti che qualcosa nel loro comportamento non andava. E da lì è iniziata la risalita. Per loro, e per Antonia. La chiameremo così, la loro mamma.
Un giorno, Antonia, dopo l’ennesimo episodio di violenza, si è presentata a scuola con i suoi figli, esausta. Aveva appena capito sulla sua pelle che poteva davvero rimetterci la vita. E ha chiesto aiuto. La preside ha chiamato i carabinieri. E quando il papà è andato a prendere i bambini lo hanno arrestato.
Ora lui è agli arresti domiciliari. Mentre lei, dopo tre mesi presso il Centro Antiviolenza gestito dal Telefono Rosa, è tornata a casa. Insieme ai suoi bambini. Il cerchio si è spezzato, la vita è ricominciata. La violenza, almeno per loro, è una trasmissione interrotta.
«Anche questa storia ci dice che è la scuola il luogo più importante dove agire», spiega la presidente di Telefono Rosa Maria Gabriella Moscatelli: «È lì che dobbiamo intervenire in aiuto dei bambini e degli insegnanti che hanno bisogno di strumenti mirati per imparare a riconoscere nei bambini i comportamenti sintomo di violenza domestica». Con il Dipartimento delle Pari Opportunità, durante la settimana contro la violenza, il Telefono Rosa quest’anno è riuscito a raggiungere 100 scuole. Ma la prevenzione dovrebbe essere condotta a tappeto, «anche a partire dalla scuola dell’infanzia». Il punto attacca Maria Moscatelli è che «per portare avanti delle politiche all’altezza dell’emergenza che abbiamo davanti, 71 donne uccise dai loro mariti dall’inizio dell’anno ad oggi, ci vorrebbe un ministero vero con poteri e portafoglio».

L’Unità 06.07.12

Quel delitto che l'Italia non punisce", di Vladimiro Zagrebelsky

La sentenza della Cassazione conclude sul piano della giustizia penale una vicenda nazionale tra le più gravi. Riferendosi ai dirigenti della polizia e agli agenti che avevano agito nella scuola Diaz in coda alla giornata di proteste contro il G8 del 2001, la Corte di appello di Genova, nella sentenza che ora la Cassazione sostanzialmente ha confermato, aveva parlato di «tradimento della fedeltà ai doveri assunti nei confronti della comunità civile» e di «enormità dei fatti che hanno portato discredito sulla Nazione agli occhi del mondo intero». I fatti sono noti. Per giustificare l’irruzione nella scuola vennero portate al suo interno delle bottiglie molotov per attribuirne il possesso ai manifestanti che vi si erano raccolti e che poi, tutti insieme, furono arrestati. E’ noto anche che costoro furono minacciati ed umiliati dalle forze di polizia, violentemente colpiti, feriti anche gravemente. Decine di persone, molte straniere, furono ferite, due furono in pericolo di vita. Le imputazioni hanno riguardato la calunnia nei confronti degli arrestati, la falsificazione dei verbali di arresto. Le violenze sulle persone hanno dato luogo ad imputazioni di lesioni. Mentre il primo blocco di accuse ha portato infine a un certo numero di condanne di dirigenti, funzionari, agenti di polizia, la sentenza ha concluso che i delitti di lesioni personali sono ormai estinti per il decorso del termine di prescrizione.

E’ sui fatti gravissimi cui si riferiscono le imputazioni di lesioni che merita qui soffermarsi. Sul resto almeno, pur dopo undici anni, la giustizia penale si è pronunciata. Ma le violenze fisiche, pur accertate, sono rimaste senza sanzione. Almeno alcune di queste hanno avuto la sostanza di ciò che a livello internazionale si chiama tortura. Mi riferisco alla definizione che ne offre la Convenzione dell’Onu contro la tortura, del 1984, che l’Italia ha ratificato nel 1988: l’atto con il quale un agente della funzione pubblica – personalmente o da altri su sua istigazione o con il suo consenso – infligge dolore o sofferenze forti, fisiche o mentali, per ottenere informazioni o confessioni, o per punire o intimorire la vittima. Oltre ad episodi di vera tortura, nell’assalto alla scuola Diaz se ne sono verificati altri, che costituiscono trattamenti inumani e degradanti, anch’essi vietati dalla Convezione europea dei diritti dell’uomo, che l’Italia ha ratificato nel 1955.

La Convenzione Onu contro la tortura impone agli Stati di prevedere nel loro sistema penale interno il delitto di tortura, con pene di gravità adeguata, mettere in atto opera di prevenzione e assicurare la punizione dei responsabili. Analogo obbligo deriva dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo e da quella europea contro la tortura.

Ma l’Italia non ha mai introdotto nel suo codice penale il delitto di tortura. La tortura, quindi, come tale, non è punibile in Italia. E rispetto all’obbligo assunto dall’Italia nei confronti della comunità internazionale, non si tratta semplicemente di un lungo ritardo o di una disattenzione. L’Italia ha ricevuto nel corso degli anni una serie di solleciti da parte del Comitato europeo contro la tortura e dal Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite. L’Italia ha espressamente rifiutato di dare esecuzione a quelle raccomandazioni. Nel 2008 il governo italiano dell’epoca ha formalmente dichiarato di non accogliere la raccomandazione del Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite, sostenendo che in realtà già ora la tortura è punita, applicando quando è il caso le norme che sanzionano l’arresto illegale, le percosse, le lesioni, le minacce, l’omicidio. Una risposta capace di trarre in errore, come la vicenda delle violenze nella scuola Diaz o l’altra di violenze su detenuti in carcere recentemente giudicata dal Tribunale di Asti, ben dimostrano. Nessuna di quelle norme ha portato a condanne: i reati di lesioni contestati si sono prescritti, finendo nel nulla. Nel frattempo sembra che nemmeno siano state applicate sanzioni disciplinari e anzi che qualcuno dei responsabili abbia ottenuto promozioni.

Se fosse previsto il delitto di tortura, necessariamente le pene sarebbero ben più gravi e la prescrizione non si applicherebbe o avrebbe un termine molto lungo. Accanto all’inadeguata gravità delle pene e l’operare dei condoni, è il meccanismo italiano della prescrizione che rende solo apparente la repressione dei fatti di tortura (come peraltro anche quella di altri gravi reati). Ma di questo, nella sua risposta al Consiglio dei diritti umani, il governo non ha fatto cenno.

La conseguenza sul piano della credibilità internazionale dell’Italia è seria. Essa sarà aggravata e certificata quando sulla responsabilità del governo italiano, per aver lasciato impunite quelle violenze, si pronuncerà la Corte europea dei diritti dell’uomo, alla quale già sono stati presentati ricorsi.

In Parlamento si sono arenate iniziative legislative. Il pretesto fatto valere è stato quello della necessità di proteggere la polizia da false accuse. Ma le false accuse vanno scoperte e sanzionate nei processi. E purtroppo vi sono anche accuse più che fondate. Per altro verso in Parlamento si è preteso che le violenze, per costituire tortura, dovessero essere «ripetute» e non soltanto, come è ovvio, raggiungere un certo livello di gravità. In conclusione nulla si è fatto. Recentemente la discussione è ripresa. V’è chi si preoccupa e sostiene che solo ipotizzare in una legge che un agente pubblico possa torturare è offensivo per i corpi di polizia. Purtroppo i fatti dimostrano che non si tratta di ipotizzare, ma di prevedere ed essere pronti a punire. E a me pare sia offensivo piuttosto pensare che le forze di polizia, nel loro complesso, preferiscano l’impunità di coloro che tradiscono la loro missione di legalità e rispetto delle persone.

Per attenuare l’impressione che si abbiano di mira le forze di polizia e trovare in Parlamento la necessaria condivisione, sta emergendo l’ipotesi di prevedere un delitto generico di tortura, che potrebbe essere commesso da chiunque, aggiungendo un’aggravante quando il fatto sia commesso da un agente pubblico. Un recente disegno di legge di iniziativa del sen. Marcenaro ed altri va in questa direzione. Soluzione tuttavia non facile, perché la finalità che muove il torturatore, nella definizione data dalla Convenzione Onu, rinvia naturalmente alla azione di forze di polizia o comunque ad organi dello Stato e difficilmente invece ad un soggetto indifferenziato. Ma, se serve a sbloccare la situazione, può trattarsi di soluzione opportuna.

E sarebbe bene che, quando la Corte europea dei diritti dell’uomo discuterà i ricorsi contro l’Italia o il Consiglio dei diritti umani dell’Onu riprenderà in esame la questione, il governo si presenti potendo dire almeno che è stato messo rimedio, per il futuro, alla grave mancanza.

La Stampa 06.07.12

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“Undici anni dopo ma ora devono spiegarci il perché”, di Oreste Pivetta

LA CASSAZIONE CONFERMA LE CONDANNE. CADE IL RISCHIO DELLA PRESCRIZIONE. QUALCOSA S’AGGIUNGE ALLA VERITÀ CHE SI SAREBBE DOVUTA COSTRUIRE NEL CORSO DI UNDICI ANNI FA ATTORNO A QUEL LUGLIO DI GENOVA, IL LUGLIO DEL G8. La sentenza riguarda quanto avvenne nella notte alla scuola Diaz: quattrocento agenti a caccia di no global, giovani, ragazzi e ragazze, anche qualche signore e qualche signora di mezza età, tutti coricati nei loro sacchi a pelo sul pavimento della palestra della scuola Diaz. Accanto ad ognuno di loro la borsa, con gli indumenti di ricambio, lo spazzolino da denti, i biscotti, i barattoli di marmellata, qualche libro, qualche giornale. Questa la scena del delitto: una «scena» che secondo i «vertici» di polizia e carabinieri meritava l’assalto, lo sfondamento dei cancelli (aperti) con i gipponi, le botte, le manganellate, il sangue… Nel cuore della notte. Davanti al mondo intero. La coraggiosa sentenza, che certifica falsificazioni, bugie, i soliti tentativi di insabbiare, dice molto. Non tutto però. Undici anni dopo ancora non sappiamo perché.
Ricordo le parole, il giorno dopo, di un appuntato della pubblica sicurezza, non più giovane, uno che, agente in strada, aveva seguito tanti cortei, tante manifestazioni, dal nostro Sessantotto in poi: «Qui hanno perso tutti la testa». Ricordo quanto ancora testimoniò, Michelangelo Fournier, all’epoca dei fatti vicequestore aggiunto del primo reparto mobile di Roma: «Sembrava una macelleria messicana».
Mi è capitato di assistere alla macelleria messicana, di raccogliere le voci delle vittime e quelle di chi, dalle case attorno, risvegliate nel cuore della notte, vi aveva assistito e la mattina dopo constatava di persona: la palestra ridotta a un tappeto di banali oggetti di ogni giorno; i caloriferi, alti termosifoni di ghisa, impiastrati di sangue; i gradini delle scale allo stesso modo sporchi di sangue, mentre qui e là ciocche di capelli erano l’evidenza di un corpo trascinato giù per le scale; le porte dei gabinetti, un ingenuo rifugio nel caos, sfondate; i computer di un’aula tecnica rovesciati a terra; fino alla staccionata che chiudeva il corridoio, perché dall’altra parte era aperto il cantiere di un’ala dell’edificio in ristrutturazione (non è un particolare da poco, perché due mattine più tardi, per la conferenza stampa dei carabinieri, erano stati esposti come corpi di reato, martelli da carpentiere, chiodi da carpentiere, qualche asse spezzata).
Tutto nella sequenza di quei giorni, dagli scontri ai primi cortei delle “tute bianche” alla morte di Carletto Giuliani in piazza Alimonda, dall’assalto alla Diaz all’ultimo attacco alla manifestazione popolare, alle violenze nella caserma di Bolzaneto, ai cori fascisti, tutto continua a stupire, scandalizzare, inorridire, perché dai tempi di Scelba, dei caroselli con le jeep, delle cariche a cavallo, dei morti in strada (l’altro luglio, quello del Sessanta), malgrado il terrorismo, malgrado le bombe e i depistaggi, malgrado le perdite di memoria di ministri e generali, qualcosa sembrava cambiato nel rapporto tra istituzioni, forze dell’ordine, cittadini, e nel segno della democrazia. Genova, piazza Alimonda, la Diaz, Bolzaneto furono un salto nel buio di un passato, un salto cercato, voluto, pensato, come una rivincita e una vendetta, rispetto al quale non teneva e non tiene una giustificazione che si richiama alle tensione di quei giorni, alla forza dei “neri” spacca vetrine. Come se invece si fosse cercata la “lezione”. Per questo un conto sono i poliziotti o i carabinieri violenti, un conto sono quanti hanno armato quei poliziotti e quei carabinieri, quanti li hanno “istruiti”, anche ingigantendo le paure e le minacce.
Molti, giudicando quelle vicende, si sono chiesti che cosa avesse ordinato Berlusconi; quali disposizioni avesse dato il ministro Scajola; che cosa ci facessero a Genova tra i tavoli dei comandi dei carabinieri o della polizia Fini e il suo parlamentare Filippo Ascierto. Loro potrebbero raccontare, dire, ricordare, aiutarci a dissolvere la nebbia, che le condanne non hanno dissolto, perché certo si possono indicare le responsabilità dirette della “catena di comando”, ma siamo lontani dal dare un nome e un cognome a chi architettò quell’esplosione di violenza sotto gli occhi del mondo e per quale ragione. Dopo undici anni, si potrebbe (e qualcuno lo farà) organizzare il bilancio dei condannati e degli assolti (la maggioranza), sommare gli anni di pena, contare le prescrizioni, elencare quanti non hanno visto neppure le porte di un tribunale. Si potrebbero confrontare le accuse (per lo più falso aggravato, calunnia, lesioni gravi). Si potrebbero citare quanti hanno fatto carriera. Qualcuno è andato in pensione. Molti abbiamo imparato a conoscerli: Gratteri, Luperi, Mortola, Canterini (ha lasciato per limiti d’età), eccetera eccetera. Si potrebbe… Resta inevasa quella domanda: perché? Cioè, di chi fu la responsabilità politica. Resta, dopo undici anni, una pagina oscura, scritta con impressionante e imperscrutabile (per noi) determinazione.

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Daniele Vicari Parla il regista del film Diaz «Quei dirigenti condannati oggi sono ai vertici. La stampa mi chiama, ma perché non si chiede conto ai politici di allora?», di Massimo Solani

«C’è poco da festeggiare. Questa vicenda è talmente grave che neanche la sentenza definitiva rende giustizia». Daniele Vicari è il regista di “Diaz. Non lavate questo sangue”, il film che ha sconvolto il festival del cinema di Berlino, vincendo il premio del pubblico, e che ha riportato alle cronache le violenze della “macelleria messicana” di Genova 2001. «Tuttavia dice queste condanne possono essere un punto di partenza per una discussione pubblica, interna alle istituzioni, ai partiti, ai movimenti e alle associazioni, che prenda in esame il tema dei diritti civili».
Perché propri i diritti civili?
«Perché il fatto che in Italia non esista una norma sul reato di tortura rende vicende come quelle di Bolzaneto e della Diaz ripetibili. Per questo dico che non c’è molto da festeggiare: invece di metterci a saltare sui marciapiedi dobbiamo metterci a lavorare, perché fin quando non saranno affrontati e risolti i nodi che hanno portato alla degenerazione di momenti della nostra vita sociale corriamo il pericolo di riviverli».
In questo senso il film è servito. È come se avesse risvegliato il paese da un preoccupante torpore della memoria.
«Io ho avuto istintivamente la voglia di raccontare non tanto le trame delle vicende, quanto il modo in cui sono state massacrate le persone che erano alla Diaz e a Bolzaneto, il modo in cui sono state costruite le prove false e come è stato comunicato in maniera distorta l’accaduto alla stampa. A mio avviso queste tre cose sono importantissime, perché riguardano tre principi fondamentali della convivenza civile: la libertà delle persone e la loro integrità, il rispetto delle regole da parte delle forze dell’ordine e la libertà di pensiero e di informazione».
Nella preparazione del film lei ha incontrato alcune delle persone che furono pestate nella Diaz e ha rivissuto attraverso le loro parole quelle ore terribili. Che impressione ne ha avuto?
«Chi era lì non dimenticherà mai quello che ha vissuto e visto. Soprattutto chi, arrestato nella scuola, è stato poi portate a Bolzaneto. Un incubo durato giorni per persone ridotte all’impotenza, torturate e umiliate. Persone che non avevano commesso alcun reato improvvisamente spogliate della loro identità e private di ogni diritto per giorni e giorni, un tempo lunghissimo trascorso a convivere spalla a spalla con la paura di essere uccisi. Questo non può succedere in un paese democratico».
Che tipo di accoglienza ha avuto la sua pellicola nel pubblico?
«Quella del film è una narrazione molto dura, eppure il pubblico l’ha sempre ac-
colta favorevolmente. Soprattutto la cosa che più mi ha colpito e stupito maggiormente è la passione con cui la gente poi è venuta da me per parlare di ciò che è accaduto. Nelle loro parole ho letto lo spaesamento e l’incredulità. “Ma è possibile che siano davvero accadute queste cose?”, ho sentito chiedermi più e più volte. È la stessa incredulità che si leggeva negli occhi delle persone che erano state arrestate alla Diaz, gli sguardi di quei ragazzi feriti che uscivano guardandosi intorno incapaci di credere a cosa gli era capitato».
Diversa l’accoglienza del dipartimento di pubblica sicurezza che, come raccontò mesi fa l’Unità, ha di fatto vietato ai poliziotti di parlare del film con la stampa. «La settimana corsa sono stato invitato a Bologna da un gruppo di agenti che hanno deciso di manifestare il proprio dissenso nei confronti della circolare. Io credo che quel documento mortifichi non solo il ruolo delle persone che vestono una divisa, ma mortifichi anche la loro intelligenza».
Serve una discussione pubblica, dicevamo. Ma parte della politica ha fatto fallire il tentativo di istituire una vera commissione parlamentare di inchiesta.
«La stampa mi chiama per commentare la sentenza, ma perché non si chiede invece conto ai politici? Perché non si chiede a loro il motivo per cui non hanno voluto affrontare questioni che oggi sono una bomba atomica all’interno delle istituzioni? Quei poliziotti condannati ai tempi erano dirigenti importanti, ma oggi rappresentano i vertici della polizia italiana. Il trauma che queste condanne portano dentro le istituzioni è enorme, e chi si prende la responsabilità di tutto questo?».

L’Unità 06.07.12

"Meno soldi ai partiti aiuti ai terremotati", di Alberto Custodero

È finalmente legge il taglio ai soldi destinati ai partiti e che verranno invece dirottati a favore dei terremotati. L’articolo 16 del ddl è stato approvato ieri al Senato. In tutto alle popolazioni dell’Abruzzo e dell’Emilia colpite dal sisma andranno 165 milioni in due trance. Una taskforce di magistrati controllerà i bilanci. Soldi dei partiti ai terremotati, è legge. Alle popolazioni colpite a partire dal 2009 dal sisma sono stati destinati 91 milioni di euro nel 2012 e 74 nel 2013: in tutto, 165 milioni. L’articolo 16 del ddl approvato ieri dal Senato prevede, fra l’altro, un sistema misto di finanziamento pubblico- privato, bilanci certificati affidati anche al controllo di magi-strati, l’obbligo ai tesorieri di rendere pubblici i loro patrimoni, la pubblicazione dei conti online. I sì sono stati 187, i no 17, gli astenuti 22. Favorevoli, Pdl, Pd e Terzo polo. Contrario l’Idv che ora annuncia un referendum abrogativo: «Confidiamo che i cittadini cancelleranno questa legge» ha detto Li Gotti. Astenuta la Lega. Ma all’interno della maggioranza non sono mancati i “frondisti”. “Dissidenti” i Radicali Bonino, Perduca e Poretti che hanno denunciato «un ritorno al finanziamento pubblico per legge nonostante il referendum abrogativo del 1993». I senatori democratici Della Seta e Ferrante non hanno partecipato al voto. L’articolo 16 è stato approvato in concomitanza con il decreto del governo che ha istituito il fondo per la ricostruzione delle aree colpite dal sisma il 20 e 29 maggio.
Per il 2013 e il 2014 Monti ha stanziato 2 miliardi di euro attraverso la riduzione delle principali voci della pubblica amministrazione. Il 95% delle risorse andrà all’Emilia Romagna, il 4% alla Lombardia, l’1% al Veneto.
Il perché il Senato ha approvato
l’articolo 16 a tempi record l’ha spiegata il capogruppo dei senatori Pd. «Abbiamo dovuto sopperire — ha detto Finocchiaro — a una dimenticanza della Camera che non aveva reso immediatamente esecutiva la legge». La Finocchiaro s’era poi battuta, nei
giorni scorsi, affinché l’articolo 16 venisse approvato entro i primi giorni di luglio. «La promessa è stata mantenuta», ha detto. Per questo, il Senato, per dirla con Rutelli, «s’è limitato con rammarico a ratificare il ddl senza proporre emendamenti» per consentire
che a favore dei terremotati sia destinata già la rata di luglio del finanziamento ai partiti. L’articolo 16, secondo il senatore Pd Agostini, è stato una risposta all’antipolitica: «Dalla sera alla mattina — ha spiegato — si dimezzano i bilanci dei partiti che diventano più trasparenti». Il ddl approvato a Palazzo Madama prevede anche la certificazione dei bilanci da parte di società di revisione iscritte nell’albo della Consob. Il controllo dei bilanci è affidato poi ad una commissione ad hoc composta da 5 magistrati designati dai vertici delle massime magistrature (uno dalla Cassazione, uno dal Consiglio di Stato, tre dalla Corte dei conti). Sono previste sanzioni per i partiti che non presentano i bilanci, e per quelli che non abbiano destinato il 5 per cento dei rimborsi ad iniziative che accrescano la partecipazione delle donne. Cambia pure il sistema di contribuzione pubblica alla politica: il 70% viene erogato a titolo di rimborso per le spese sostenute in occasione delle elezioni, il restante 30% è legato alla capacità di autofinanziamento dei partiti che ricevono 50 centesimi per ogni euro ricevuto a titolo di quote associative ed erogazioni liberali da parte
di persone fisiche o enti.

La Repubblica 06.07.12

Errani: «No a tagli lineari, così si compromette il futuro», di Laura Matteucci

«Questa non è spending review. Siamo di fronte, ancora una volta, a tagli lineari che vanno ad aggravare ulteriormente la situazione già drammatica in cui versa la sanità. Quelle del governo sono ipotesi insostenibili e del tutto sbagliate. Adesso attendiamo di capire come risponderà alle nostre proposte». Vasco Errani, presidente della Conferenza delle Regioni oltre che dell’Emilia-Romagna, parla a nome di tutti i governatori, usciti dall’incontro con il ministro della Salute Renato Balduzzi determinati a contrastare quella che definiscono una «manovra subdola» perché «viola i precedenti accordi sottoscritti con le Regioni». L’ipotesi di tagli, ancora in via di definizione, punta a risparmiare 5 miliardi di euro nei prossimi due anni e mezzo in sanità (3 tra 2012 e 2013, altri 2 nel 2014). Nel caso in cui il documento della spending review venisse approvato come annunciato, i presidenti delle Regioni minacciano la rottura istituzionale e il ricorso al Capo dello Stato, Giorgio Napolitano, come garante della Costituzione. E, mentre si rincorrono le voci sulla chiusura dei «piccoli» ospedali, annunciata, ritirata, riproposta, e sull’entità dei tagli, hanno messo a punto la loro contromossa.
Errani, al governo avete presentato una controproposta: di che si tratta?
«La premessa è che intendiamo farci carico del problema. Ci chiedono di tagliare un miliardo nel 2012? Per noi è troppo, ma siamo comunque disposti nelle prossime settimane ad individuare un meccanismo per ridurre ancora la spesa, diciamo di un po’ meno di un miliardo, senza però intaccare i servizi. Un’operazione che dev’essere fatta in modo equo e non lineare. Per il 2013 e 2014, poi, nessuna spending review: mettiamoci intorno ad un tavolo, costruiamo col governo un patto per la salute in grado di garantire il sistema sanitario nazionale. Bisogna capire che oltre alle pure questioni economiche occorre avere in testa la qualità del sistema, perché se ragioniamo solo in termini ragionieristici perdiamo di vista la sostanza delle cose».

Reazioni da parte del ministro?

«Attendiamo una risposta. All’incontro di oggi (ieri, ndr) abbiamo avanzato queste ipotesi al ministro della Salute, ora vediamo come verranno accolte. Auspico davvero che il governo colga questa opportunità, e questa disponibilità da parte delle Regioni, anche perché se decidesse di andare avanti con le proprie idee si aprirebbe un conflitto che finirebbe per compromettere l’intero sistema. La nostra posizione è molto determinata. È una questione di sostenibilità: con il piano prospettato tutte le Regioni rischierebbero il default».
Meno tagli e più concertati, insomma? «Il governo non può e non deve intervenire unilateralmente, questo è certo. Semmai, se dobbiamo discutere di come ridurre la spesa, facciamolo sulla base di un patto per la salute. Gli interventi unilaterali non sono costituzionali, e comunque non tengono conto di una drammatica realtà oggettiva: la Sanità è il comparto di spesa pubblica che negli ultimi anni ha subìto più riduzioni. Solo con le manovre degli ultimi due anni, e comprendendo anche i tagli già programmati anche per il 2013 e 2014, stiamo parlando di una riduzione reale di qualcosa come 20 miliardi. Non c’è più alcuna sostenibilità».
Siete disposti a recuperare quasi un miliardo nel 2012: da quali capitoli di spesa? Li avete già individuati?
«È un percorso da fare con il governo. Il nostro obiettivo è che si possa decidere noi, insieme con il ministro della Salute, a partire però da un confronto serio. Finora si sono sprecate tante parole, tirate fuori un sacco di tabelle senza alcun reale fondamento, e avanzate proposte assurde: quella della chiusura degli ospedali, per esempio, è profondamente sbagliata. Un’operazione di questo genere non può essere gestita centralmente, in modo burocratico, senza contare che finirebbe per comportare anche costi più alti per la mobilità sanitaria. Così non può funzionare. Se il governo ritiene di coinvolgerci in un ragionamento serio di riduzione della spesa noi siamo pronti. Ma le proposte presentate finora non le condividiamo, di tagli lineari non vogliamo più discutere. E, ripeto: per quanto riguarda i prossimi due anni, già le manovre fatte in precedenza pesano in modo drammatico e insostenibile».

l’Unità 06.07.12

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“Le Regioni non ci stanno, Napolitano aiutaci tu”, di Gianni del Vecchio

I presidenti delle Regioni non ci stanno e si appellano direttamente al presidente della repubblica, Giorgio Napolitano, in quanto garante del rispetto della Costituzione: con i tagli derivanti dallaspending review – secondo loro – è a serio rischio il sistema sanitario nazionale. E a pagare, come al solito, saranno i cittadini che utilizzano gli ospedali e la sanità pubblica, che vedranno un ulteriore scadimento della qualità dei servizi.
Vito De Filippo, presidente della Basilicata, ha sottolineato come sia la prima volta nella storia che il governo agisca in modo così unilaterale. «Siamo disponibili a un incontro anche ad agosto per parlare del nuovo patto sulla salute ma certamente i tagli prospettati metterebbero in gravissima difficoltà tutti i sistemi sanitari regionali». La riduzione di un miliardo nel 2012, due miliardi nel 2013 e due miliardi nel 2014 e per gli anni a seguire, «si aggiungerebbe ai tagli delle precedenti manovre e quindi si arriverebbe a 22 miliardi in meno sul Fondo sanitario nazionale». «È inaccettabile che il governo proceda in maniera unilaterale», gli ha fatto eco il presidente della Regione Lazio, Renata Polverini.
«Per il 2012 si è rotto un patto sottoscritto con il premier Monti. Nella mia regione bisogna ancora assorbire i tagli del precedente governo Berlusconi, per il Lazio parliamo di 700 milioni. Non è sostenibile il taglio di un miliardo per quest’anno». Pur apprezzando l’impegno del ministro della salute, Renato Balduzzi, a un dialogo con le Regioni, i governatori ribadiscono la non chiarezza dell’esecutivo. «Se sommiamo tutti i tagli fatti compresi quelli del precedente ministro Tremonti – ha detto Enrico Rossi, presidente della Toscana – nel 2014 si arriverebbe a 10 miliardi e 500 milioni a cui bisogna aggiungere i tagli dell’Irpef, e cioè due miliardi. Siamo allo stremo. Chiediamo quindi di stralciare i risparmi previsti per il 2013-2014 e discutere ancora per il 2012 perché vogliamo chiarezza ». Catiuscia Marini, presidente dell’Umbria, ha infine sottolineato che la manovra proposta non è «economica o finanziaria ma finisce per effettuare un taglio lineare al fondo sanitario».
«I cittadini pagano l’Irpef e i ticket aggiuntivi ma contemporaneamente subiranno tagli ai servizi. Il governo inoltre non fa i conti con quanto le Regioni hanno già fatto sul riordino ospedaliero Questo è un vero smantellamento della rete degli ospedali». Parla «di azione di sabotaggio alle nostre competenze» anche il governatore pugliese, Nichi Vendola, che dice di «non poter sopportare questa controriforma perché si spianano autostrade alle assicurazioni private».

da Europa Quotidiano 06.07.12

"Maxi sforbiciata sugli statali via un dirigente ogni cinque", di Francesca Schianchi

Dalla pagellina per la valutazione «organizzativa e individuale» dei dipendenti pubblici al livellamento (verso il basso) del buono pasto: mai più sopra i 7 euro, chi avesse ottenuto una cifra più generosa se la vedrà abbassare dal 1° ottobre. Stop ai concorsi per dirigenti di prima fascia fino al 2015 e fine dell’abitudine di alzare un po’ lo stipendio facendosi pagare le ferie non godute: così come i riposi e i permessi, non saranno più monetizzabili, «anche in caso di cessazione del rapporto di lavoro per mobilità, dimissioni, risoluzione, pensionamento e raggiungimento del limite di età».

L’ultima bozza di decreto sulla spending review, quella arrivata fin dentro le stanze di Palazzo Chigi per essere benedetta dal Consiglio dei ministri, conferma un’attenzione tutta speciale (e parecchio sgradita dai diretti interessati) per i dipendenti pubblici.

A cominciare dall’intervento più drastico: sono destinati a calare del 20 per cento i dirigenti, non meno del 10% gli altri dipendenti delle amministrazioni dello Stato, delle agenzie, enti pubblici non economici, enti di ricerca. Non sfuggono alla sforbiciata neppure le Forze armate: anche per loro, organici ridotti di almeno il 10%, personale «in aspettativa per riduzione quadri». Escluse dalla cura dimagrante, si legge nel testo del provvedimento, «le strutture del comparto sicurezza e del Corpo nazionale dei vigili del fuoco, il personale amministrativo operante presso gli uffici giudiziari» e il «personale di magistratura». E una stretta la si prevede anche per chi lavora negli enti locali: si stabilisce di definire «parametri di virtuosità» per determinare gli organici in rapporto alla popolazione residente, «a tal fine è determinata la media nazionale del personale in servizio presso gli enti», dopodiché chi è sopra alla media del 20% non potrà fare assunzioni «a qualsiasi titolo», chi del 40 dovrà applicare le sforbiciate previste dal decreto.

Interventi in programma anche per le assunzioni a tempo determinato e i contratti Co.co.co delle società pubbliche: non potranno superare il 50% della spesa sostenuta nel 2009. Assunzioni “calmierate” anche per Camere di Commercio, industria, artigianato e agricoltura: a tempo indeterminato solo per il 20% della spesa delle cessazioni precedenti, sino al 2014 ; mentre per i segretari comunali e provinciali potranno essere nel limite dell’80% dell’anno precedente.

Capitolo docenti: quelli non più idonei all’insegnamento per ragioni di salute dovranno riconvertirsi in assistenti tecnici o assumere il ruolo di personale amministrativo o ausiliario. Secondo i sindacati si tratta di 3800 professori coinvolti. Sempre i sindacati prevedono che siano invece tra gli otto e i diecimila gli insegnanti che perderanno la cattedra per effetto dei tagli: per loro, prevista la mobilità regionale.

Non è invece prevista, come trapelato nei giorni scorsi, la chiusura degli uffici pubblici nella settimana di Ferragosto e in quella tra Natale e Capodanno.

«Se le indiscrezioni verranno confermate, la risposta che daremo sarà ferma e immediata, avviando una mobilitazione unitaria e non escludendo lo sciopero», promette Rossana Dettori, segretario generale della Fp-Cgil. «Comprensibile» l’allarme dei sindacati, concede il ministro della Pubblica amministrazione, Filippo Patroni Griffi, «ma è importante che anche loro leggano il testo definitivo che stiamo mettendo a punto», a tarda sera non ancora disponibile. Sperando che non ci siano altre inattese, sgradite novità

La Stampa 06.07.12