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"È ora di superare le due sinistre", di Mario Tronti

E’ vero questa volta quello che dicono un po’ tutti, il recente vertice di Bruxelles marca indubbiamente un passaggio di fase.
Se ne sono sottolineati fin qui gli effetti macroeconomici, sia a livello nazionale, sia a quello sovranazionale. L’attenzione andrebbe portata sugli effetti di quadro politico, interno. La situazione in certo modo si stabilizza. Si squadernano, davanti a noi, questi dieci mesi, di qui alle elezioni politiche. La proposta per un’alternativa a sinistra da offrire al Paese, ha questo tempo per organizzarsi. Pensare strategicamente e operare nella congiuntura misurano qui le loro necessarie compatibilità.
Più d’uno i livelli: distinti, ma intrecciati. L’attività parlamentare vive l’urgente bisogno di recuperare una sorta di legittimità perduta: credibilità, fiducia, efficacia, decisione. La parte a sinistra dell’emiciclo ha il compito certo di contribuire responsabilmente all’uscita dalla fase acuta della crisi economico-finanziaria, ma ha un compito supplementare: contenere, quanto più possibile, i danni, i disagi, a volte le ferite, che le misure da prendere infliggono al suo popolo. Qui, il dialogo quotidiano con il fondo del Paese reale e forme periodiche di vera e propria concertazione con le forze sindacali, diventano indispensabili.
Poi, c’è il terreno politico-istituzionale. La volontà di un’autoriforma di sistema va messa in campo con più coraggio. Primo, nuova legge elettorale, subito. Secondo, quel minimo di modifiche costituzionali, possibili, in questo tempo, che per esse è molto breve, senza quei macroscopici stravolgimenti, agitati più per propaganda che per reale effettualità.
La vera legislatura costituente sarà la prossima. Ed è indubbio che bisognerebbe inventarsi una sede inedita in grado di approntare una proposta finalmente complessiva. Ragionevole, mi sembra, l’idea, di grande valore simbolico, che sta circolando: una Commissione dei Settantacinque, chiamata a istruire la materia. Da precisare forse in questo modo: personalità autorevoli, non elette direttamente, ma indicate dai partiti, prese dal loro bacino di competenze, proporzionalmente alla rappresentanza conquistata nelle prossime elezioni politiche. Al nuovo Parlamento quindi l’assunzione, la possibilità di modifica, l’approvazione della proposta. Vedo conseguenze virtuose: i partiti riprendono la loro funzione dirigente, in sintonia con la capacità di utilizzare una tecnicalità, questa volta politica, di alto livello. C’è anche qui il bisogno di fermarsi davanti a un baratro: un default istituzionale, per eccesso di domanda antipolitica.
Ma quanto detto fin qui è solo la premessa del vero discorso che voglio fare, spostando l’asse di ragionamento, che si è riaperto su alleanze, coalizioni, in Italia, per l’Europa. I gruppi parlamentari dell’attuale centro-sinistra sono perfettamente in grado di gestire al meglio quelle urgenze sociali e istituzionali, senza bisogno di consigli da mosche cocchiere. C’è invece un secondo fronte piuttosto da aprire. Lo dico in una frase, che poi va spiegata: per un centro-sinistra diverso è indispensabile una sinistra diversa. I dieci mesi vanno anche impiegati per definire una mappa di percorso che miri a delineare la forma organizzata con cui il progetto di governo della sinistra si presenta di fronte al paese. Il dopo ’89 ha consegnato alla cosiddetta seconda Repubblica e questa ne ha fatto un motivo quasi costituente la teoria e la pratica delle “due sinistre”. Se è vero che queste due cose seconda Repubblica e due sinistre stavano insieme, allora insieme cadono. Il terremoto che ha devastato l’Italietta berlusconiana ha messo a nudo anche queste rovine. Ma direi di più. È tutta la fase neoliberista del capitalismo-mondo che ha prodotto e tenuto in piedi quella teoria e quella pratica. Da un lato la radicalizzazione movimentista no-global e new-global, dall’altra le Terze Vie e il neue Mittel. Nemmeno antagonisti e riformisti, piuttosto contestatori e liberisti. Fallimentari sia lo scontro nelle piazze, sia la coalizione al governo. Due entità, infatti, imprecise, e provvisorie, non autonome, incapaci di vera autonomia, culturale e politica, sia l’una che l’altra, vittime o delle proprie parole d’ordine o dei propri atti gestionali. Chiediamoci, realisticamente, se questa separatezza, con queste conseguenze, abbia ancora senso. E chiediamoci se il popolo della sinistra è ancora disposto a sopportarla.
Due no, rispondono a queste due domande. Dunque: bisogna fare qualcosa. Il processo va aperto, senza ansie di prestazione, con rigore, con metodo, tenendo fermo l’obiettivo, nei tempi necessari. L’atto conclusivo va messo a dopo le elezioni, ma il processo le deve attraversare, perché è un momento di chiarezza, e di mobilitazione. Le vere primarie sono queste: non la scheda con questo o quel nome, ma una grande partecipazione, dal basso, al dibattito sul destino strategico della sinistra: che cos’è, che cosa è stata, che cosa deve essere, quale forma deve prendere, quali risposte, quali proposte. La fase è favorevole. La crisi paradossalmente aiuta, perché fa vedere le contraddizioni di sistema, la debolezza delle attuali classi dirigenti, la necessità, l’urgenza, di sostituirle. E spinge il vento d’Europa, che cambia direzione, dalla Francia verso di noi, ma non solo per mettere meglio a posto i conti, piuttosto per cominciare a fare i conti con i veri responsabili dello sfascio attuale delle economie, delle società, delle istituzioni, della politica.
Insomma, veniamo tutti dallo stesso spettacolo e le metafore vengono spontanee. Forse è il momento di cambiare schema di gioco. Non si può rifare la stessa partita. È cambiata, tra l’altro, la squadra avversaria. Non c’è più da metter via Berlusconi. La cosa è un po’ più seria. Dobbiamo proprio riadattarci al programma minimo? Monti al posto che fu di Prodi? Grazie, abbiamo già dato. Il nostro popolo si merita finalmente qualche cosa d’altro. È sempre solo a quello che bisogna guardare, fisso negli occhi, per capire, e per fare.

l’Unità 05.07.12

"Sull’università un altro scempio", di Marco Mancini*

Puntuale come un orologio svizzero, si sarebbe detto una volta, ecco arrivare l’ennesimo “taglio” al sistema universitario. Mentre per settimane ci si è interrogati sul merito, sulla crescita, sullo sviluppo; si è dibattuto sull’ingresso dei giovani nel sistema della ricerca con nuove procedure; si sono organizzati fior di convegni nei quali ci si è riempita la bocca con espressioni trite e ritrite come la famigerata «economia della conoscenza», la famosa «cultura come motore di competitività», le mitiche «università come driver per lo sviluppo» e via dicendo, chi stava preparando la spendig review si è limitato a fare quello che hanno fatto i ministri delle Finanze del passato.

Semplice: la cultura, la ricerca, le università in questo Paese? Comprimibili. E quindi si tagliano, ieri in favore degli autotrasportatori, oggi per le scuole private o per l’Ici (peraltro ripristinata). Tutto è meno sacrificabile. Non importa quanti tagli abbiano subito in passato. Le università si fanno valutare e ricevono fondi di conseguenza (tra le poche amministrazioni pubbliche in Italia). Benissimo. Ma come si può parlare di valutazione se non ci sono le condizioni oggettive per produrre i livelli richiesti, dalla didattica alla ricerca?

L’internazionalizzazione: già con i tagli subiti gli atenei non sono più nelle condizioni di pagare le missioni all’estero, la partecipazione ai congressi internazionali, figuriamoci gli scambi, le collaborazioni e le ricerche! Qui non ci sono orientamenti politici o ideologie che tengano. Era stato detto in sede autorevolissima «niente più tagli lineari»? Acqua passata, preistoria. Dall’economia della conoscenza alle economie sulla conoscenza.

La proposta che sta girando in vista del Consiglio dei ministri di venerdì prossimo è di togliere altri 200 milioni di euro al finanziamento ordinario degli Atenei, accompagnata dall’impresentabile provvedimento di destinare quegli stessi 200 milioni alle scuole private. Le scuole private. Nemmeno Tremonti era arrivato a tanto! Anzi, l’allora ministro delle Finanze, dopo aver minacciato nel 2010 “tagli” micidiali, era tornato sui propri passi e a più miti consigli.

Per capire come stanno le cose facciamo due conti. Il finanziamento delle università statali per il 2013 è fissato a 6,514 miliardi; nel 2009 era di 7,485 miliardi. Come si vede la spending review alle università è stata già applicata, molto prima dell’intervento del “commissario tagliatore”, come lo hanno ribattezzato alcuni giornali. Ed è stata applicata duramente: quasi 1 miliardo in meno, un taglio in tre anni di circa il 13%. Cui si è affiancata una drastica riduzione degli organici passati da circa 60 mila a 50mila unità, con un bassissimo indice di sostituzione per turn-over. Le spese per stipendi e le obbligazioni per legge (in sostanza soldi già vincolati alla fonte) ammontano per il 2013, secondo un calcolo della Conferenza dei rettori, a 6,4 miliardi di euro tutto compreso. Dunque, come più volte sostenuto, una situazione ai limiti del collasso, con un margine di finanziamenti “liberi” rispetto ai trasferimenti dallo Stato pari a poco più dell’1%. Su questo 1% dovrebbero gravare le nuove assunzioni (si sono appena avviate le nuove abilitazioni), gli acquisti di beni e servizi (attrezzature per laboratori, libri, computer), le spese edilizie.

Poi ci si stupisce che i ricercatori italiani fanno scoperte come quella annunciata ieri della “particella di Dio” all’estero. Come competiamo in Europa a queste condizioni? E come possiamo vincere un campionato se giochiamo in 7 e non in 11? Nemmeno alle qualificazioni arriviamo. Se togliamo altri 200 milioni di euro siamo alla bancarotta. Dopo la drastica cura dimagrante, per il 2013 si sarebbe dovuto ripristinare un minimo di vivibilità restituendo al sistema 400 milioni per rimetterla in pista e limitarsi a confermare il finanziamento del 2012 (non un euro in più). Sembrava ci si fosse finalmente resi conto che i Paesi oggi con i più alti tassi di crescita, nei momenti di crisi, anziché tagliare, hanno investito in ricerca.

Oggi l’università va sostenuta, non uccisa. I fondi vanno aggiunti, non tolti. Altrimenti questo sventurato Paese (che sta applicando al pubblico impiego norme “greche”) precipiterà rapidissimamente alle ultime posizioni di qualunque classifica: altro che valutazione, efficienza, internazionalizzazione e ranking degli atenei di cui si compiacciono molti giornali (magari sbagliando come è accaduto su Repubblica)! Vogliamo sperare che non ci si limiti a contemplare questo scempio. Le università non potranno e non dovranno farlo.

* Presidente della Conferenza dei rettori

l’Unità 05.07.12

Rai: Ghizzoni, sceneggiata delle nomine non sia viatico dei futuri lavori

“Ci auguriamo che la sceneggiata rappresentata per le nomine dei consiglieri Rai non sia il viatico dei lavori che attendono quella che è stata la più grande azienda culturale del Paese. – lo dichiara Manuela Ghizzoni, Presidente della Commissione Cultura Scienza e Istruzione della Camera dei Deputati – Ora ognuno dovrà fare la propria parte. La politica sia in grado di restituire il giusto ruolo di servizio pubblico attraverso una riforma della governance che assicuri la valorizzazione delle competenze e dei talenti; e i consiglieri nominati rispondano soprattutto all’indirizzo di libertà di informazione. Se così non fosse il servizio pubblico sarebbe definitivamente compromesso, a discapito solo dei cittadini italiani. La rai e i suoi amministratori – ha concluso la presidente Ghizzoni – devono avere la capacità di valorizzare un patrimonio della cultura, dello spettacolo e dell’informazione che non può essere smantellato.”

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Quattro new entry e tre conferme nei sette componenti di indicazione parlamentare del nuovo consiglio di amministrazione della Rai, eletti stamattina dalla commissione di Vigilanza. Queste, in sintesi e in ordine alfabetico, le loro biografie.

GHERARDO COLOMBO (ELETTO DAL PD)
Nato a Briosco (Monza) il 23 giugno 1946, ex magistrato, è noto soprattutto per aver fatto parte del Pool di Mani pulite, ma come pm della procura di Milano ha condotto altre inchieste celebri come quelle sul delitto Ambrosoli, sulla Loggia P2 e su Imi-Sir/Lodo Mondadori/Sme. Ha lasciato la magistratura nel febbraio 2007, due anni dopo essere stato nominato consigliere presso la Corte Cassazione. Da allora si è impegnato nella diffusione della cultura della legalità nelle scuole. Nel 2009 è stato nominato presidente della casa editrice Garzanti Libri.

RODOLFO DE LAURENTIIS (ELETTO DAL TERZO POLO)
Nato a Collelongo (L’Aquila) il 21 settembre 1960, eletto in Parlamento prima nelle liste del Ccd, poi per l’Udc, nelle ultime tre legislature, è stato segretario della commissione di Vigilanza (tra il 2006 e il 2008), nonchè membro delle commissioni Cultura e Trasporti della Camera. Per il partito di Pier Ferdinando Casini nel 2008 è stato in corsa per la presidenza della Regione Abruzzo (alle elezioni si è imposto il candidato del Pdl Gianni Chiodi). Dal febbraio 2009 è nel cda Rai.

ANTONIO PILATI (ELETTO DAL PDL)
Nato a Milano nel 1947, laureato nel 1970 in Filosofia all’Università Statale di Milano, dal 1992 al febbraio 1998 è stato direttore dell’Istituto di economia dei Media della Fondazione Rosselli e consulente nei settori della comunicazione, ha pubblicato sull’argomento libri e saggi. Dal marzo 1998 a gennaio 2005 è stato commissario dell’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni, quindi dal 2005 all’anno in corso componente dell’Autorità garante della concorrenza e del mercato. Considerato da alcuni tra i padri della legge Gasparri, ha già precisato in passato di non essere tra gli autori della normativa.

GUGLIELMO ROSITANI (ELETTO DAL PDL)
Nato il 14 febbraio 1938 a Varapodio (Reggio Calabria), città della quale è sindaco, è membro della Direzione nazionale di Alleanza nazionale. Laureato in Economia e commercio, ha militato fin da ragazzo prima nel Movimento Sociale Italiano e poi in An. Tra il 1986 e il 1992 ha fatto anche parte del Collegio sindacale della Rai. Rositani è stato deputato di An nell’XI, XII, XIV e XV legislatura e ha ricoperto, tra l’altro, il ruolo di vicepresidente della commissione Cultura di Montecitorio. Dal 2009 siede nel cda Rai.

BENEDETTA TOBAGI (ELETTA DAL PD)
Figlia minore di Walter Tobagi, giornalista assassinato dalle Brigate Rosse, è nata a Milano il 24 gennaio 1977. Laureata in Filosofia, ha nel suo curriculum una collaborazione con La Repubblica, oltre alla conduzione di programmi radiofonici, prima su Radio 3 e poi su Radio 2. Ha dedicato alla memoria del padre il libro ‘Come mi batte forte il tuo cuorè, pubblicato nel 2009 e vincitore di diversi premi. Impegnata con alcune associazioni nella lotta a terrorismo e mafia, nel 2009 è stata candidata per la lista civica che sosteneva la conferma alla presidenza della provincia di Milano di Filippo Penati, sconfitto al ballottaggio.

LUISA TODINI (ELETTA DA PDL-LEGA)
Nata a Perugia il 22 ottobre 1966 è un’imprenditrice impegnata nel settore agricolo ed immobiliare. È stata eletta deputata europea nel 1994 per Forza Italia a soli 28 anni. Dal 2010 è presidente della Federazione industria europea delle costruzioni, mentre da quest’anno è consigliere di amministrazione della Fondazione Child. È stata vicepresidente dell’Istituto per la Promozione Industriale e consigliere di amministrazione dell’Università Luiss.

ANTONIO VERRO (ELETTO DAL PDL)
Nato a Palermo il 24 gennaio 1946, è stato eletto deputato per Forza Italia nel 2001 e nel 2006 con Forza Italia, ha fatto parte delle commissioni Agricoltura, Ambiente e Bilancio. È stato anche assessore al Demanio per il Comune di Milano con Albertini sindaco. Dal 2009 fa parte del consiglio di amministrazione Rai

"Al di sotto delle parti", di Luca Landò

« Non si uccidono così anche i cavalli». Era un bellissimo film di Pollack su una gara di ballo a oltranza, dove non vince chi è più bravo ma chi resiste di più. È quello che accade in questi giorni a palazzo San Macuto dove la commissione di vigilanza dovrebbe eleggere il nuovo cda Rai. Dovrebbe. Perché i balletti e le giravolte del Pdl puntano a questo: resistere, resistere, resistere.

Lo hanno fatto ieri con l’aiuto del presidente del Senato Renato Schifani che, smessi per l’occasione i panni della figura istituzionale, dunque super partes, è sceso in campo a dare una mano alla propria squadra, il Pdl. Una scena inaccettabile, tanto da spingere il presidente dell’altra Camera, Fini, a rompere il galateo istituzionale e a chiedere al “collega” senatore di chiarire la propria decisione.

A convincere Schifani a buttare il fischietto e menar calci, è stato il grido di allarme del Pdl che, dopo le prime due votazioni in commissione di vigilanza, aveva capito che il cda della Rai, per la prima volta dopo dieci anni, avrebbe potuto avere una maggioranza non più berlusconiana, anche a causa del voto disobbediente del senatore Amato il quale, anziché indicare un nome del Pdl ha preferito puntare su Flavia Nardelli. Il punto è proprio la Nardelli che, sostenuta dall’Idv, Flavia Perina e Giovanna Melandri, rischiava seriamente di soffiare il settimo posto (decisivo in una situazione di parità) al centrodestra.

Ed è qui che entra in gioco Schifani. Alle 12,40 di ieri, il presidente del Senato si è improvvisamente ricordato che in commissione vigilanza il Pdl era sovrarappresentato e dunque avrebbe dovuto rinunciare a uno dei propri membri. Destino toccato, guarda caso, proprio al dissidente Amato.

Premesso che lo squilibrio in commissione a favore del Pdl esiste da almeno un anno, è assai curioso che il presidente Schifani abbia deciso di affrontare la questione solo ieri e proprio durante le votazioni. C’è poi un altro fatto che rende ancora più sorprendente il comportamento del presidente dei senatori. L’articolo tre del regolamento della commissione dice in sostanza che i membri della stessa possono essere sostituiti solo per uno dei seguenti motivi: cessazione del mandato parlamentare (è stato il caso di Salvatore Cuffaro), sopraggiunto incarico di governo (è accaduto più volte) o dimissioni. La vicenda del senatore Amato non rientra in nessuno di quei tre casi, comprese le dimissioni che lo stesso senatore ha più volte ripetuto ieri, anche al nostro giornale, di non avere mai rassegnato. Perché Schifani ha ignorato questo articolo e quelle regole? Perché ha proceduto alla sostituzione? È ovvio che c’è stato un ordine «superiore», cioè di Berlusconi.

Che il Pdl sia pronto a tutto pur di non perdere la partita è evidente e non sorprende. Quello che invece è difficile da accettare è che ci sia una figura istituzionale che si presti al gioco. Paolo Gentiloni, ministro delle Comunicazioni nel governo Prodi, ha detto ieri che «quando c’è di mezzo la televisione, in Italia vengono meno le più elementari regole del fair play istituzionale». In questo caso si è fatto qualcosa di più, visto che si tratta di un autentico colpo di mano.
Nel frattempo la Rai continua ad essere un servizio più privato che pubblico, con l’obiettivo evidente di non alimentare la concorrenza con Mediaset. Una Rai al bromuro, con tanti saluti a audience e pubblicità (calata in solo anno dell’8,2%). Ma anche una Rai generosa, visti i continui regali a Sky per quanto riguarda i diritti di F1, MotoGp e mondiali di calcio. Per non parlare del metodico smantellamento della satira e dei programmi di alto ascolto come Santoro e Fazio-Saviano. E se a questo aggiungiamo la rivoluzione digitale (che aumenta l’offerta ma frammenta gli ascolti) il sospetto, anzi la certezza, è che la tv pubblica sia ferma sulle gambe proprio quando avrebbe bisogno di cominciare a correre.

Certo, non basta un nuovo cda per raddrizzare le sorti di un’azienda sottoposta a decenni di pressioni, ingerenze ed errori. Per farlo, ci vorrebbe un’autentica svolta e una nuova visione. Ma è indubitabile che, senza nuove mani e senza nuova guida, la Rai di domani sarà la copia anastatica di quella di ieri e di oggi.

Vedremo questa mattina, alla ripresa delle votazione, se la sostituzione in corsa del “traditore” Amato permetterà al Pdl di chiudere a proprio favore la partita, magari con un ripensamento della Lega che finora ha votato scheda bianca. In caso contrario, è assai probabile che il balletto di questi giorni del centrodestra avrà molte repliche. Se così fosse, si porrà seriamente il problema di come interrompere questo spettacolo triste se non indecente, visto che riguarda un servizio pubblico, cioé di tutti. Esiste un solo modo: il commissariamento. Che è parola grossa e antipatica, ma indica l’unico strumento capace di tirar fuori dalla palude il cavallo di Viale Mazzini. Prima che schianti sfinito a terra come i ballerini di Pollack.

l’Unità 05.07.12

Scuola: Spending review, più fondi a paritarie? No, c'è calo. I 200 milioni indicati sono parte capitolo spesa per private

La bozza di decreto per il contenimento della spesa pubblica (spending review) non prevede nessun aumento dei fondi per le scuole paritarie. Secondo quanto la Dire ha potuto verificare i 200 milioni indicati nel testo come previsione di spesa per il sistema degli istituti non statali non sono altro che una parte della quota annuale gia’ prevista per queste scuole che ammonta in tutto a 500 mln. Questa seconda tranche, cosi’ come la prima, ha subito un taglio lineare rispetto allo scorso anno ed e’ dunque in calo. Un calo che, secondo quanto spiegano tecnici del Miur alla Dire, negli ultimi anni e’ stato “costante”. C’e’ stato, insomma, un amento del taglio. “Nessun aumento di fondi” per le private. Ed e’ “solo per caso” se la cifra assegnata agli istituti privati coincide con il taglio previsto per l’universita’. I tecnici al lavoro sul testo fanno notare che la “polemica che si e’ innescata sui fondi alle private si inserisce in un clima gia’ difficile e non aiuta il lavoro”. Le due cifre (scuola privata e universita’) “sono indipendenti e non vanno fatte interpretazioni dei numeri che le accoppino. I due capitoli non sono vasi comunicanti”.

Agenzia Dire

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“COSÌ VIENE UMILIATA L’ISTRUZIONE PUBBLICA”, di NADIA URBINATI

Il piano di tagli agli sprechi messo in cantiere dal governo Monti prevede alla voce scuola una ingiustificata partita di giro che toglie 200 milioni di euro alle istituzioni pubbliche per darli a quelle private. Con una motivazione che ha dell’ironico se non fosse per una logica rovesciata che fa rizzare i capelli in testa anche ai calvi. Leggiamo che si tolgono risorse pubbliche alle università statali al fine di “ottimizzare l’allocazione delle risorse” e “migliorare la qualità” dell’offerta educativa. Stornare risorse dal pubblico renderà la scuola più virtuosa. Ma perché la virtù del dimagrimento non dovrebbe valere anche per il settore privato? Perché solo nella già martoriata scuola pubblica i tagli dovrebbero tradursi in efficienza?
Lo stillicidio delle risorse all’istruzione pubblica e alla ricerca va avanti imperterrito da più di dieci anni, indipendentemente dal colore dei governi e dallo stato dei conti pubblici. Il paradosso, che suona irrisione a questo punto della nostra storia nazionale, la quale documenta di una disoccupazione giovanile che veleggia verso il 40%, è che l’apertura di credito alle scuole private è andata di pari passo all’umiliazione di quelle pubbliche, ottime scuole peggiorate progressivamente quasi a voler creare artificialmente, e con i soldi dei contribuenti, un mercato per il servizio privato educativo che non c’era.
A partire dalla legge 62/2000, concepita come attuazione dell’Art. 33 della Costituzione, le scuole private dell’infanzia, quelle primarie e quelle secondarie possono chiedere la parità ed entrare a far parte del sistema di istruzione nazionale. Ottenere la parità (rispetto al valore del titolo di studio rilasciato) non equivale per ciò stesso a ricevere denaro pubblico. Eppure l’interpretazione della Costituzione che ha fatto breccia alla fine della cosiddetta Prima Repubblica ha imboccato la strada della revisione della concezione del pubblico, un aggettivo esteso anche a tutta l’offerta educativa riconosciuta come “paritaria”. Ciò ha aperto i cordoni della borsa pubblica alle scuole private, che in Italia sono quasi tutte cattoliche e che ricevono denaro dallo Stato sotto forma di sussidi diretti, di finanziamenti di progetti finalizzati, e di contributi alle famiglie come “buoni scuola”. I politici cattolici (trasversali a tutti i partiti) hanno giustificato questa interpretazione della parità con una lettura del 3° comma dell’Art.33 che è discutibile. Il comma dispone che “Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato”. Ma dice anche che “la legge, nel fissare i diritti e gli obblighi delle scuole non statali che chiedono la parità, deve assicurare ad esse piena libertà e ai loro alunni un trattamento scolastico equipollente a quello degli alunni di scuole statali”. Tuttavia il trattamento “scolastico equipollente” pertiene alla qualità educativa e formativa, un bene che spetta alla scuola privata mettere sul mercato, senza “oneri per lo Stato”. L’Articolo 33 potrebbe essere interpretato in maniera diversa.
Nel 1950, uno dei padri fondatori della nostra Costituzione, Piero Calamandrei proponeva una interpretazione ben diversa. E lo faceva mentre elucidava le astuzie e le strategie che potevano essere usate per distruggere la scuola della Repubblica. Le sue parole sembrano scritte ora: “L’operazione si fa in tre modi: (1) rovinare le scuole di Stato. Lasciare che vadano in malora. Impoverire i loro bilanci. Ignorare i loro bisogni. (2) Attenuare la sorveglianza e il controllo sulle scuole private. Non controllarne la serietà. Lasciare che vi insegnino insegnanti che non hanno i titoli minimi per insegnare. Lasciare che gli esami siano burlette. (3) Dare alle scuole private denaro pubblico… Quest’ultimo è il metodo più pericoloso. È la fase più pericolosa di tutta l’operazione… Denaro di tutti i cittadini, di tutti i contribuenti, di tutti i credenti nelle diverse religioni, di tutti gli appartenenti ai diversi partiti, che invece viene destinato ad alimentare le scuole di una sola religione, di una sola setta, di un solo partito”.
Con il volgere dei decenni i timori di Calamandrei sono diventati realtà e a questo ha contribuito il mutamento nei rapporti di forza tra cattolici e laici con la crisi dei partiti tradizionali. Questo squilibrio di potere pesa come un macigno se neppure un governo tecnico riesce a evitare di farsi tanto politico da discriminare le scuole pubbliche e privilegiare quelle private quando si tratta di dare o togliere finanziamenti. E questa politicità a senso unico rende questo provvedimento ancora più ingiusto.

La Repubblica 05.07.12

Napolitano: “Ecco perché l’Italia deve farcela in Europa si aprono nuove strade si vada verso l’Unione politica”, di Eugenio Scalfari

Con il Presidente abbiamo concordato di scambiarci idee e opinioni su quanto sta accadendo in Italia e in Europa ed io metterò in carta i suoi pensieri e le sue valutazioni, ma non sarà un compito facile con i tempi che corrono e la crisi che continua ad infierire ormai da quattro anni.
L’auto è arrivata al Castello. Girando a destra si va verso il mare, a sinistra una breve salita conduce alla residenza. Ci sono stato molte volte con Sandro Pertini, con Cossiga, con Ciampi ed anche con Napolitano due o tre anni fa.
Ora siamo arrivati. Napolitano mi viene incontro e mi conduce in una piccola stanza. In un tavolo c’è la televisione, accanto alla finestra che guarda sul prato un tavolinetto con due sedie. Chiedo il permesso di togliermi la giacca, lui m’aiuta a sfilarmela; indossa una maglietta azzurra, io resto in maniche di camicia. Ci sediamo e la nostra conversazione comincia.
Non posso tuttavia esimermi dal chiedergli le sue reazioni ad una vera e propria campagna che è stata lanciata contro di lui partendo da telefonate al Quirinale, che sono state intercettate, dell’ex ministro e vice Presidente del Csm Nicola Mancino.
Giorni fa Napolitano è intervenuto direttamente, ha fornito i chiarimenti che gli erano stati richiesti da varie parti ed ha messo per quanto lo riguarda la parola fine a quella polemica, “costruita sul nulla”. «La correttezza dei miei comportamenti ha trovato il più largo riconoscimento. Ho perfino resa pubblica la lettera da me inviata al Procuratore generale della Cassazione cui sono attribuiti precisi poteri per il corretto andamento dell’amministrazione della giustizia ».
Ma torniamo ai temi essenziali. Alcuni ritengono che i poteri del Quirinale abbiano registrato una forzatura in questi mesi. Come se ci fosse stata, in quest’ultima fase del settennato di Giorgio Napolitano una sorta di accentuazione presidenzialista a detrimento dei partiti e del Parlamento. È così? A me non pare, ma ho davanti a me l’autore di questa supposta forzatura. Lui che ne pensa?
Lui comincia con una constatazione comune a molti studiosi: quando il potere politico è forte il ruolo del capo dello Stato resta ben circoscritto, quando la politica è debole esso naturalmente si espande.
«Sai — mi dice — in questi sei anni al Quirinale ho potuto meglio comprendere come il presidente della Repubblica italiana sia forse il capo di Stato europeo dotato di maggiori prerogative. I Re, dove ancora ci sono, sono figure importanti storicamente ma essenzialmente simboliche. Gli altri capi di Stato “non esecutivi” hanno in generale poteri molto limitati. Il solo al quale, oltre a rappresentare l’unità nazionale, la Costituzione attribuisce poteri in vario modo precisi e incisivi è quello italiano. Naturalmente il presidente francese ha prerogative di rilievo molto maggiore ma in Francia c’è una forma di presidenzialismo, la nostra invece è una Repubblica parlamentare la cui Costituzione però ha riservato al Quirinale un peso effettivo. Penso sia stata una scelta molto meditata dei padri costituenti».
Domando quale sia il suo ruolo e lui spiega: sollecita quella “leale cooperazione istituzionale” che deve essere un criterio costante nei rapporti tra i vari poteri dello Stato e le diverse articolazioni della Repubblica. Presiede l’organo di autogoverno della magistratura; presiede il Consiglio Supremo di difesa che si riunisce periodicamente con la partecipazione del Presidente del Consiglio e dei ministri degli Esteri, della Difesa, dell’Interno e dell’Economia. Inoltre il Presidente nomina i senatori a vita, 5 dei 15 giudici della Corte Costituzionale e concorre alla scelta di membri di altre istituzioni pubbliche secondo quanto previsto da disposizioni di legge. Ma soprattutto spetta al capo dello Stato il potere di sciogliere anticipatamente le Camere quando esse non siano più in grado di esprimere una maggioranza e di svolgere correttamente la loro funzione e spetta a lui la nomina del presidente del Consiglio e, su proposta di quest’ultimo, dei ministri.
Così dispone la nostra Carta, gli dico, ma tu sai bene che questo fondamentale potere di nomina è stato rarissimamente esercitato. Certo che lo sa. La prima volta lo esercitò Luigi Einaudi. Era l’agosto del 1953. Einaudi si era ritirato nella villa di Caprarola e chiamò Giuseppe Pella, ministro del Tesoro del governo dimissionario. Gli comunicò che l’aveva nominato presidente del Consiglio. Lo pregò di mettere al Commercio Estero l’economista Bresciani Turroni e gli chiese di portargli la lista dei ministri entro i successivi tre giorni.
La Dc fu presa alla sprovvista; votò la fiducia a Pella ma definì “governo amico” quello da lui presieduto. Una forma di distacco? Risponde: «Il governo non può mai essere pertinenza esclusiva di un partito. È un’istituzione, il governo, e risponde a tutti gli italiani. Naturalmente deve avere la fiducia di una maggioranza parlamentare che lo consideri un governo da sostenere attivamente. Quando non fosse più così, le Camere lo sfiducerebbero. Questo è il funzionamento corretto dì una democrazia parlamentare: il capo dello Stato nomina tenendo ben presente che il governo dovrà avere la fiducia del Parlamento ».
Bene. Questa prassi è stata sempre rispettata? Vediamo. Fu seguita da Scalfaro quando nominò Ciampi nel ’93 e poi quando nominò Dini un anno dopo. Poi da te nello scorso novembre quando nominasti Monti dopo averlo nominato senatore a vita. «Per nominarlo senatore a vita c’era bisogno della controfirma di Berlusconi che era ancora a Palazzo Chigi. La diede subito». Insomma, la Costituzione esiste da 65 anni e per un atto importantissimo com’è la nomina del capo del governo è stata rispettata solo quattro volte. Qui il Presidente obbietta: «Intendiamoci, è normale, nelle democrazie parlamentari, che sia il partito cui gli elettori abbiano dato la maggioranza, anche se solo relativa, in Parlamento, a esprimere il Primo ministro. Quel partito, in Italia, è stato per oltre 40 anni la Democrazia Cristiana; e se in due occasioni (1981 e 1983), a formare il governo di coalizione imperniato sulla Dc fu chiamato un non democristiano, molto pesò la valutazione e propensione del capo dello Stato, anche in rapporto agli equilibri politici interni alla coalizione. Altro furono i quattro casi da te citati, nei quali il Presidente della Repubblica dové esercitare il suo potere per dare soluzioni a delle crisi politiche senza sbocco».
Gli ricordo che cosa sia stato il fenomeno della partitocrazia. Risponde: «Pressioni abnormi dei partiti sono state a lungo esercitate, più che per l’individuazione del capo del governo, per la nomina dei ministri (già con Einaudi Presidente) e soprattutto per la spartizione degli incarichi negli enti pubblici e nel sottogoverno, in una condizione — per di più — di democrazia bloccata fino agli anni ’90».
Napolitano ritiene i partiti insostituibili; il loro ruolo è previsto in Costituzione: contribuiscono con metodo democratico all’indirizzo politico del Paese e sono il raccordo tra il popolo e le istituzioni. Ma per farlo devono oggi profondamente rinnovarsi e operare in modo trasparente, non possono e non debbono incombere sulle istituzioni.
La nomina di Monti è stata un’innovazione, ma oggi? Che cosa accadrà dopo Monti? Si ricomincerà col predominio dei partiti?
Arriva una telefonata e lui risponde brevemente. Stiamo chiacchierando da un’ora e gli domando se gli dà noia il fumo. «Clio fuma spesso, lo sai». Così accendo anch’io. «Vuoi fare due passi in giardino?». Meglio no, gli dico, non siamo forti di gamba nessuno dei due. Tu però non porti neanche il bastone. Telefona a Clio che ci aspetta in riva al mare per il pranzo. Le dice che abbiano ancora una mezz’ora di lavoro. Poi riprendiamo, ma parliamo di Sraffa e delle lettere di Gramsci. Lui era divenuto amico di Sraffa negli anni ’60, l’aveva conosciuto attraverso Giorgio Amendola e andava a trovarlo ogni tanto al Trinity College a Cambridge. Sraffa aveva incontrato Gramsci da giovane a Torino e gli era rimasto legatissimo nei lunghi anni del carcere. Il giovane Gramsci aveva anche scritto su “Ordine Nuovo”, ed era in rapporto con Piero Gobetti. Vedi, gli dico, lì i liberali si incontrarono con i comunisti. «Sì, diciamo però che Gobetti era un liberale molto
sui generis». Diciamo pure che anche Gramsci era un comunista fuori ordinanza. Mi racconta come riuscì a convincere Sraffa che custodiva una parte importante della corrispondenza gramsciana, a depositarla presso l’istituto che porta quel nome. Sraffa non si fidava.
Chiese garanzie. Giorgio gliele dette in nome del partito e Sraffa si convinse. Intanto la mezz’ora è passata e lui ritelefona a Clio per spostare il pranzo alle due.
Mi sembra venuto il momento di parlare dell’Europa. «Non mi domandare se ce la faremo. Io so soltanto che dobbiamo farcela». Sì, ma come? «Hanno provato ad aprire nuove strade, e con successo, a fine giugno a Bruxelles Monti, Hollande, Rajoy, Draghi e altri». La Merkel secondo te come si muove? Terreno scivoloso. Un capo di Stato non dà giudizi sul cancelliere della Germania parlando con un amico che poi scriverà. Ma lui qualche cosa la vuole dire: «Nei diversi scambi di opinioni che ho avuto in questi anni con la signora Merkel, si è sempre espressa reciproca comprensione e fiducia tra noi. Sono in giuoco questioni complesse, si sono manifestati disaccordi non lievi, ma il rapporto tra l’Italia e la Germania, e quindi tra i due governi e le rispettive rappresentanze e opinioni pubbliche, rimane un pilastro fondamentale della costruzione europea». Napolitano ha incontrato pochi giorni fa l’ex cancelliere Schmidt, governò la Germania per molti anni, è stata una delle figure che fanno parte del pantheon nazionale ed europeo come Adenauer e come Kohl. Schmidt parla della solidarietà europea come di una necessità assoluta e sa bene come per uscire dalla crisi occorrano, nel rispetto delle discipline di bilancio, investimenti pubblici e interventi che mettano al sicuro il sistema bancario europeo. Nei giorni scorsi si sono in effetti prese da parte del Consiglio Europeo e dell’Euro Summit decisioni significative in questo senso. E non c’è bisogno di essere di sinistra per apprezzarle. Keynes era un liberale, Beveridge era un liberale, ma il primo, per dominare la crisi rilanciando la domanda, volle a suo tempo l’intervento pubblico, e l’altro tracciò, già alla fine della seconda guerra mondiale, le linee del welfare state.
«Io posso citare Luigi Einaudi, a te che sei liberale farà piacere. Ad esempio, l’Einaudi delle “Lezioni di politica sociale”. La libertà è un principio fondamentale e l’eguaglianza pure: così si costruiscono le libere società e si fa crescere la democrazia».
Appunto. Da tempo ho la sensazione che Napolitano, da Presidente della Repubblica, sia più attento al pensiero di Einaudi. Ad un certo punto mi ha ricordato una pagina dello “Scrittoio del presidente” sulla quale Einaudi scrisse che uno dei suoi compiti era quello di trasmettere intatte le prerogative costituzionali del capo dello Stato ai suoi successori. Questo è anche l’impegno di Napolitano, non ne fa un mistero anzi lo considera un dovere.
Gli domando se è favorevole allo Stato federale europeo, lui che rappresenta lo Stato italiano. Certo, bisogna muovere in quella direzione senza remore e tabù. «Gli Stati nazionali, dice, garantiscono una tradizione, una cultura, una storia, ma soltanto l’unione politica dell’Europa, secondo l’originaria ispirazione federale, garantisce la speranza del futuro». C’è chi vuole uscire dall’euro. «Sciocchezze o peggio pura demagogia».
Gli pongo l’ultima domanda: si può passare dalla Repubblica parlamentare a quella presidenziale con un emendamento e nel quadro delle modifiche previste dall’articolo 138? La risposta è un secco no a ogni approccio improvvisato e parziale. «Non mi pronuncio nel merito di progetti volti a cambiare l’architettura costituzionale, ma occorre in ogni caso una visione ponderata dei nuovi equilibri da stabilire tra le istituzioni e tra i poteri, una visione ponderata alla luce di fondamentali principi e garanzie. È stata appena presentata la proposta della elezione di un’Assemblea costituente, e dopo trent’anni di tentativi abortiti di riforma costituzionale non si può negare che questo approccio abbia una sua motivazione. Tocca al Parlamento valutare quella e altre proposte».
Montiamo in macchina e finalmente raggiungiamo Clio a tavola. Parliamo di comuni amici. Di vacanze. Lui ne farà poche. Di solito va a Stromboli e poi sta qui. Finché tocca a lui, deve stare al pezzo. «Però conto i giorni alla rovescia fino al maggio del ‘13». Tu sai come la penso, gli dico. Ma mi ferma subito. Prendo congedo con un “a presto” reciproco.
Durante il ritorno a Roma rimugino su quanto ci siamo detti. L’Europa si può suicidare? Sembra impossibile ma un colpo può partire per caso ed esser fatale, perciò con le pistole politiche e mediatiche non bisogna giocare.
Quando ci siamo lasciati, Giorgio mi ha regalato il “Doppio diario” di Giaime Pintor, una copia sua con molte sottolineature. Una frase (della lettera al fratello Luigi) sottolineata due volte è questa: «La corsa dei migliori verso la politica è un fenomeno che si produce quando la politica cessa di essere ordinaria amministrazione e impegna tutte le forze d’una società per salvarla da una grave malattia, per rispondere ad un estremo pericolo».
Questo è un testamento: Giaime morì poco dopo mentre attraversava le linee tedesche. Era il 1943 e lui aveva 24 anni. Vale la pena di ricordarla la storia di quel giovane e insegnarla ai giovani d’oggi. Quella “corsa verso la politica” di cui egli parlava condusse alla libertà e alla democrazia. Dove mai può condurre – si chiede Napolitano – il fenomeno opposto, la allarmante tendenza attuale a una “fuga dalla politica”?

La Repubblica 05.07.12

"Lo spettro di una Fiat senza Mirafiori", di Gianni Del Vecchio

Tanti indizi portano a uno scenario molto temuto da torinesi e sindacati. «Torino sta diventando un teatro di posa di presentazioni di auto, che non vengono costruite qui». Lo sconsolato commento del responsabile nazionale auto della Fiom, Giorgio Airaudo, sintetizza bene il timore dei sindacati e dei politici torinesi sul futuro della Fiat e, in particolar modo, dello storico stabilimento di Mirafiori. Tanti indizi, infatti, portano a tratteggiare uno scenario che solo fino a qualche mese fa sembrava lunare, e cioè il Lingotto che lascia la sua fabbrica-simbolo. L’indizio più pesante è anche l’ultimo in ordine di tempo. Martedì sera l’ad del gruppo, Sergio Marchionne, ha detto chiaramente: «Se le attuali capacità di assorbimento in Europa resteranno uguali nei prossimi 24-36 mesi, c’è uno stabilimento di troppo in Italia». E dei quattro che attualmente lavorano, seppur a basso ritmo, quello che rischia di più è proprio Mirafiori.
A Pomigliano infatti è appena partita la produzione della Panda, anche se in tono minore rispetto ai programmi iniziali; da Melfi esce fuori la Punto, spina dorsale delle vendite Fiat in Italia ed Europa; a Cassino si producono Giulietta, Bravo e Delta, tre macchine che puntano soprattutto sull’export verso gli Usa ovvero su di una strategia che per Marchionne è la stella polare da seguire nei prossimi anni. Resta così appeso solo lo stabilimento torinese, che adesso si trova nel guado fra modelli in esaurimento (Musa e Idea) e nuovi investimenti ancora molto fumosi (due Suv che dovrebbero partire a fine 2013 e a metà 2014). Non a caso è la fabbrica con la cassa integrazione più estesa e con la maggiore capacità produttiva in eccesso.
I numeri sciorinati da Federico Bellono, segretario provinciale della Fiom, sono impietosi: «Nel 2011 sono state prodotte 41mila Mito e 22mila tra Idea e Musa contro le 210mila vetture su sei modelli del 2007 ultimo anno senza cassa». E la situazione quest’anno peggiorerà, visto che nei primi sei mesi sono uscite dai cancelli solamente 25mila macchine. Un problema di sovrapproduzione che non lascia presagire nulla di buono. Non a caso lo stesso Marchionne, a domanda precisa sul futuro della fabbrica torinese, è stato vago: «Se avremo qualche cosa da dire su Mirafiori la diremo, per ora continuiamo a confermare gli investimenti».
Certo è che ci sono diversi altri segnali che finiscono per preoccupare più che rassicurare le istituzioni sabaude. Ad esempio, i sindacati hanno notato uno strano ritardo nella preparazione delle nuove linee di montaggio per gli ipotetici Suv da produrre a partire dall’anno prossimo. I lavori infatti sono in situazione di stand-by, e «la fase di allestimento delle linee non è ancora partita». A questo poi si deve aggiungere una naturale diffidenza nei confronti delle promesse dell’azienda, visto che non sarebbe la prima volta che produzioni previste per Mirafiori finiscano ad altri impianti: è successo per la Thema prima e per la 500L poi.
Infine, desta anche preoccupazione il fatto che Marchionne i suoi investimenti in altre parti del mondo continua a farli, nonostante la crisi del mercato europeo dell’auto. Il manager italo-canadese ha messo un miliardo di euro sugli stabilimenti serbi di Kragujevac, dove verrà costruita la nuova 500, e contemporaneamente non ha smesso di acquistare azioni Chrysler, direzione 100 per cento.

da Europa QUotidiano 05.07.12