“La spending review non colpisca l’università e la ricerca, settori di eccellenza che negli anni sono stati già duramente vessati dai tagli e che, come riscontrato anche oggi, dimostra l’eccellenza della ricerca italiana. – è quanto si augura Manuela Ghizzoni, presidente della Commissione Cultura Scienza e Istruzione della Camera dei Deputati, dopo la diffusione dei dati raccolti dai due esperimenti del Cern in merito alla scoperta del bosone di Higgs – Grazie anche al valore dei fisici italiani la ricerca scientifica ha compiuto un altro importante passo di cui la fisica contemporanea aveva bisogno. Nello staff internazionale di ricercatori impegnati negli esperimenti europei del Large Hadron Collider (Lhc) del Cern di Ginevra, Cms, diretto da Joseph Incandela e Atlas, diretto Fabiola Gianotti, vi sono molti fisici provenienti dagli atenei italiani e dall’Istituto nazionale di fisica nucleare.
È una ulteriore prova dell’eccellenza dei nostri scienziati che, nonostante il nostro Paese sia decisamente indietro rispetto al resto dell’Europa per quanto riguarda il finanziamento della ricerca e il numero dei ricercatori – ha spiegato Ghizzoni, riferendosi ai risultati dell’indagine conoscitiva svolta dalla Commissione -, li posiziona tra i maggiori attori internazionali in questo campo.
A loro non possiamo far mancare il nostro ringraziamento per aver portato la ricerca scientifica italiana in un contesto internazionale di così alto profilo. Non possiamo, la politica non può farlo, non impegnarci per evitare che, in nome della crisi, ulteriori tagli si abbattano su un settore già penalizzato dalla scarsità di finanziamenti, ma che continua a donare al Paese conoscenza, ricerca e innovazione.”
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"Quelle donne che restano con il marito violento", di Michela Marzano
“GLI uomini che nascono con il giogo sul collo, nutriti e allevati nella servitù, si accontentano di vivere come sono nati, e non riuscendo ad immaginare altri beni e altri diritti da quelli che si sono trovati dinnanzi prendono per naturale la condizione in cui sono nati”. Questo è il famoso passaggio del Discorso sulla servitù volontaria (1548) di Étienne de La Boétie. Ed è forse l’unica chiave per cercare di capire come sia possibile che tante donne, nonostante le violenze fisiche e psicologiche che subiscono quotidianamente, restino poi accanto ai propri carnefici. Come fare ad immaginare che la vita possa essere altro, se da quando si è piccoli si è stati messi di fronte alla violenza? Come fare a pensare alla possibilità di un amore diverso, se non si è avuta la possibilità, e talvolta anche solo la fortuna, di sperimentarlo?
Può sembrare assurdo che tante donne, pur essendo consapevoli del male che subiscono, e che talvolta fanno poi anche subire ai propri figli, non reagiscano, non denuncino i propri aguzzini, non se ne vadano via, non cerchino di uscire dall’inferno in cui si trovano. E in parte lo è. Perché ogni persona dovrebbe essere portata a far di tutto per evitare la sofferenza e cercare di essere felice. Ogni essere umano, come scrive Spinoza, dovrebbe sforzarsi “di perseverare nel suo essere”.
Solo che non è poi così assurdo quando si pensa che ci sono tante donne che, fin dalla più tenera età, hanno conosciuto solo tanta violenza e tanto dolore. Al punto di essersi talmente abituate a questo stato di cose, che il solo fatto di pensare che la vita possa essere diversa diventa impossibile. È il “giogo” dell’abitudine, come direbbe ancora una volta La Boétie. Anche perché l’essere umano si abitua praticamente a tutto. Anche ad essere considerato un semplice oggetto a disposizione delle pulsioni altrui.
Ma è anche la prigione della ripetizione, per dirla in termini più contemporanei con la psicanalisi di Freud.
Perché quando si parla dell’amore, si parla quasi sempre del tentativo disperato di ritrovare l’“oggetto perso” quando si era piccoli. Quel famoso “oggetto” per il quale si sarebbe stati pronti a fare qualunque cosa, anche morire, pur di non perderlo.
Dietro l’amore, soprattutto nel caso di queste donne maltrattate (e che spesso non sopravvivono alle violenze subite), c’è il bisogno di rivivere qualcos’altro. Talvolta proprio il bisogno di ripetere gli stessi errori. Come per esorcizzare il passato e riuscire, almeno una volta, a staccarsi dal copione che era stato scritto per loro da chi avrebbe invece dovuto prendersi cura di loro; avrebbe dovuto aiutarle a crescere, insegnando loro ad avere fiducia nella vita e in loro stesse. Solo che la storia, purtroppo, si ripete. E la maggior parte delle volte finisce nello stesso modo. Tragicamente. Perché lui, che dice di amare la propria compagna anche quando è violento e l’umilia, in fondo non cambia. E queste donne umiliate e violentate, pian piano, finiscono col convincersi definitivamente di non valere niente, di non meritare nulla. Non smettono di credere nell’amore. Perché, nonostante tutto, l’amore resta l’orizzonte all’interno del quale cercano di evolvere. Solo che col passare del tempo si convincono che l’amore, quello vero, esiste solo per gli altri. Ecco perché l’unico motivo che talvolta le spinge a rompere il circolo vizioso nel quale si trovano sono i figli. Per i quali desiderano il meglio e che non vogliono coinvolgere nella propria tragedia. Altre volte, però, è proprio per i figli che restano accanto ai propri carnefici, convinte ancora una volta di non essere capaci, da sole, di proteggerli e di farli crescere serenamente. E allora tutto ricomincia da capo. Almeno fino a quando, “tolto il giogo dal collo”, non si accontentino più di “vivere come sono nate”.
La Repubblica 04.07.12
"L’Italia rischia il protettorato Ue", di Andrea Bonanni
«Abbiamo salvato il principio che non ci saranno interventi di sostegno senza condizionalità ». Angela Merkel ha così giustificato davanti al Bundestag le concessioni fatte alle richieste di maggiore solidarietà venute da Italia e Spagna sia nell’aiuto alle banche sia nella creazione di un meccanismo anti-spread. In modo un po’ ellittico, la Cancelliera ha toccato la sostanza del problema.
Il problema complica non poco la discussione sulle misure da mettere in atto per far fronte alla crisi dei debiti sovrani. Il fatto è che il dibattito si sta svolgendo su due piani paralleli: uno esplicito, che riguarda i passi da compiere per calmare i mercati e garantire la solvibilità dei debiti pubblici accumulati dai governi; l’altro implicito, che riguarda la credibilità dei Paesi nei loro impegni a rispettare la tabella di marcia di risanamento che si sono imposti. E su questo secondo piano, il grande punto di domanda che in questo momento preoccupa le cancellerie europee, e in particolar modo quella tedesca è, ancora una volta, l’Italia.
Intendiamoci, nessuno, e tanto meno la Cancelliera, mette in dubbio la determinazione di Mario Monti nel portare a termine le riforme annunciate. Una determinazione dimostrata dai fatti. L’Italia sarà uno dei pochi Paesi europei a riportare il proprio bilancio in equilibrio strutturale nel 2013. Il problema che angoscia i tedeschi, e con loro i finlandesi, gli olandesi, gli austriaci, e tutti i Paesi «virtuosi», è il dopo-Monti.
L’allontanamento di Berlusconi, sfiduciato dal G20 di Cannes, dai mercati e dai partner comuni-tari, e l’arrivo del Professore a Palazzo Chigi hanno permesso di imprimere una svolta radicale alle
finanze pubbliche italiane.
«Ma un debito pubblico che è pari al 120 per cento del Pil non si riassorbe in due o tre anni di politiche virtuose», osserva un alto funzionario comunitario. Ancora oggi il debito italiano continua a crescere per l’effetto inerziale delle politiche passate, e comincerà a diminuire in modo significativo solo l’anno prossimo. Ma per riportarlo ad una soglia vicina al 60 per cento previsto dal Trattato di Maastricht, occorreranno decenni di osservanza rigorosa della disciplina di bilancio e di mantenimento di un significativo avanzo primario. E su questo piano l’Italia non offre nessuna vera garanzia
di coerenza.
Pochi giorni prima del vertice, mentre Monti si preparava ad una battaglia fondata sulla ritrovata credibilità del Paese, i nostri partner hanno ascoltato sbigottiti le dichiarazioni di Berlusconi, leader del partito di maggioranza relativa in Parlamento e colonna portante del governo, sull’opportunità di uscire dalla moneta unica. I tedeschi conoscono bene il fondatore del Pdl e sanno che non va sempre preso sul serio. Ma sanno anche quanto inconsistente sia il suo spirito europeo e quanto poco affidabili siano i suoi impegni politici. E, ancora più di Berlusconi, la Germania ha paura di Grillo: altro nemico dichiarato della moneta unica e del rigore che essa comporta. Un timore reso ancora più bruciante dal fatto che il Movimento 5 stelle ricorda per molti aspetti quello dei Piraten tedeschi, che pure stanno germogliando nelle elezioni locali con straordinaria rapidità. Se i media germanici cadono facilmente nel trabocchetto dei più vieti luoghi comuni anti-italiani, l’establishment tedesco è molto più sobrio e realistico nei suoi giudizi. Ma quando arriva alla conclusione che Grillo e Berlusconi esprimono comunque gli umori di una parte consistente dell’elettorato italiano, una parte che potrebbe facilmente diventare maggioritaria e rinnegare gli impegni assunti dal governo Monti, è difficile dare loro torto.
A fronte di questi timori, i guardiani della moneta unica sanno per certo che l’esperienza del governo tecnico di Monti si concluderà, se tutto va bene, tra meno di un anno. E che nella primavera prossima scadrà anche il mandato di Giorgio Napolitano, che in questi anni difficili è stato l’interlocutore privilegiato delle capitali europee. Inoltre constatano ogni giorno che il centro sinistra ancora esita sui prossimi schieramenti elettorali ed è a sua volta percorso da correnti fortemente contrarie, se non all’euro, alla politica di rigore del governo tecnico.
La fortissima opposizione della Germania e di tutto il Nord Europa a soluzioni che teoricamente appaiono ovvie, come gli eurobond, si spiega proprio con la sfiducia nel fatto che il sistema politico italiano sia in grado di esprimere sui tempi lunghi una leadership credibile e coerente con gli impegni assunti. Berlino si fida di più della Spagna, i cui conti sono peggiori dei nostri ma che comunque ha una classe dirigente, di destra e di sinistra, su cui si può fare affidamento. Ma che succederebbe se, una volta accettata una parziale mutualizzazione del debito, i partiti antieuropei prendessero il controllo del Parlamento italiano e venissero meno agli impegni di rigore assunti?
Questo spiega l’insistenza quasi ossessiva della Merkel perché qualsiasi concessione sulla condivisione del debito avvenga solo dopo che i governi nazionali avranno rinunciato alla sovranità sui bilanci. E spiega anche perché la Germania si oppone a qualsiasi meccanismo, come lo scudo anti-spread, che potrebbe alleviare la condizione di un Paese senza che questo debba sottomettersi al commissariamento della troika. Questa, in fondo, è proprio la battaglia che Monti sta cercando di portare a compimento in Europa: calmare i mercati puntando sulla credibilità del Paese senza doversi sottomettere all’umiliante protettorato europeo. Ma la Merkel insiste: nessuna solidarietà senza “condizionalità”. E lo fa pensando ai rischi del sistema Italia, dove le forze politiche non sono neppure in grado di varare una legge elettorale che metta il Paese al riparo dal ricatto delle minoranze più estreme, come in Francia. Per vincere le resistenze della Cancelliera, la politica dei veti e dei «pugni sul tavolo» può assicurarci qualche successo, ma non ci porterà lontano. Ci vorrebbe un risveglio di auto-coscienza del Paese, di cui per ora non si vede traccia e che comunque Monti non è in grado di garantire.
La repubblica 04.06.12
"Scuola, università e formazione professionale, ecco su cosa dovremmo puntare", di Walter Passerini
Possiamo fare come lo struzzo e nascondere la testa in quei 98mila nuovi occupati in più a maggio, ma è una pagliuzza rispetto alla trave della disoccupazione giovanile tra i 15 e i 24 anni che ha polverizzato ogni record (36,2%) ed è lì a rivelarci impietosamente tutti i nostri fallimenti. Né può consolare gli avventizi neofiti del mercato del lavoro quel 10,5% di disoccupati under 24 rispetto alla loro fascia di età, se lo confrontiamo con l’altra faccia della medaglia dell’occupazione, che sono i giovani occupati tra i 15 e i 24 anni, da tempo in discesa libera, che hanno raggiunto drammaticamente quota 18,6%. Vuol dire che più di quattro giovani su cinque sono fuori dal mercato e dal processo produttivo, nel migliore dei casi studiano o sono nella schiera dei Neet (Not in employment, education or training) o hanno rinunciato a cercare. Maldestri campioni del made in Italy sostengono che noi siamo meglio messi in Europa, che anche gli altri soffrono.
I giovani senza lavoro nel Vecchio continente sono oltre 5,5 milioni. Se in Italia oltre un giovane sui tre che cercano un lavoro è disoccupato, ci battono solo Grecia e Spagna, i campioni dello spread (oltre il 50% di disoccupazione giovanile), mentre i più virtuosi sono i tedeschi, gli austriaci e gli olandesi, compresi tra l’8 e il 9% di disoccupazione giovanile. Forse dovremmo mandare i nostri governanti degli ultimi 10-15 anni a studiare le politiche deipaesi più amici dei giovani e capiremmo che in quei paesi gli under 25 sono la priorità. In Italia invece sono il segno dell’impotenza, la cartina di tornasole della cattiva volontà di una classe dirigente di gerontocrati, legati come cozze ai loro privilegi. Certo l’anagrafe alla fine vincerà, ma intanto lo spreco di speranze, di risorse e di futuro grida vendetta e dovrebbe farci vergognare. Eppure i rimedi, il pentagramma delle cose da fare è sotto gli occhi di tutti. Le voci dell’agenda si chiamano scuola, università, orientamento, lavoro, culture. Il distacco della scuola dal mondo del lavoro è abissale. Certo vi sono esempi eroici di contatto tra mondi che non si amano, ma sono ancora una goccia rispetto ai bisogni. Stage, concorsi, alternanza, apprendistato sono strumenti che in altri paesi rappresentano la norma, mentre in Italia suscitano lo scherno degli scettici. Le università per legge dovrebbero fornire servizi di placement ai propri studenti, ma quelle che lo fanno davvero si contano sulle dita di due mani. L’orientamento è una cosa troppo seria per essere lasciato nelle mani delle famiglie, degli insegnanti o delle compagnie di giro, che stipano i ragazzi in sale cinematografiche altrimenti vuote e infliggono loro lezioni sul nulla.
I disorientati salgono in cattedra e pontificano sermoni che sono elio allo stato puro, mentre i ragazzi non vedono l’ora che squilli la campanella. Dovremmo cominciare a capire che l’orientamento si divide in tre, dovremmo ricominciare da tre bussole per i giovani: una riguarda l’orientamento scolastico, una l’orientamento professionale, l’altra la relazione d’aiuto con i singoli soggetti, che non sono categorie ma persone. Invece, cinicamente, mandiamo i giovani allo sbaraglio, con la scusa che tanto prima o poi dovranno imparare a nuotare, o a camminare con un cappuccio in testa. Un malsano sadismo pedagogico si sostituisce alla relazione d’aiuto, che richiede fatica, rispetto, competenza. Infine, il lavoro. Che dire di una riforma del lavoro che giustamente punta le sue carte sull’apprendistato quando le regioni sono inadempienti e si trincerano dietro un federalismo di facciata. Che dire del modello culturale della formazione professionale in Italia che, unico paese in Europa, la divide in 20 sottosistemi sordi, tra loro gelosi e corporativi.
Il risultato è quello di allontanare i giovani dal lavoro e dal lavoro manuale, da quelle tradizioni industriali e artigianali che continuano a reclamare posti vacanti. Che dire di una visione del lavoro ottocentesca, che riesce a immaginare solo mestieri da subordinati e dipendenti. Mentre il futuro è degli intraprendenti, di coloro che se lo costruiranno, di quelli che, nonostante i troppi cattivi maestri, preferiranno fare da soli.
La Stampa 03.07.12
"Bersani: non voglio rifare il vecchio centrosinistra", di Simone Collini
Bersani dice che vuole un centrosinistra diverso da «quello di una volta» e che non vuole «arruolare» Monti. Due precisazioni, una per rispondere a chi (Di Pietro in primis) grida all’«inciucio» con Casini e una per porre un freno a chi (dentro e fuori il suo partito) parla di un presidente del Consiglio connotato politicamente.
La discussione sulle alleanze non è argomento che il leader Pd vuole tenere in primo piano, almeno quanto non voglia parlare adesso di primarie: «Abbiamo detto che le faremo, non che si aprono adesso, perché altrimenti saremmo da ricovero, chiamerebbero il 118». Adesso per Bersani si deve discutere dei «problemi dell’Italia» ed è partendo da qui che deve aprirsi anche il confronto sull’alleanza che si candida a governare nella prossima legislatura. Per questo liquida con poche battute chi lo avvicina al teatro Goldoni di Livorno, dove si svolge una conferenza programmatica del partito, mostrandogli le ultime dichiarazioni di Di Pietro sulle «alleanze innaturali» a cui starebbe lavorando il Pd: «Io non sto facendo inciuci con nessuno, io voglio partire da un centrosinistra, ma non da un centrosinistra di una volta, voglio partire da un centrosinistra di governo, dove non esistono teorie a scavalco, o di proprietà transitive per cui se ci sta uno deve starci anche l’altro finché si arriva a Grillo. No, perché c’è da governarlo questo Paese».
NO A OGNI TENDENZA POPULISTA
Bersani sta lavorando a una prima bozza della «carta di intenti» che dovrà servire da base programmatica e valoriale del nuovo centrosinistra. Si tratta di un testo breve, nella forma di decalogo, che poi verrà integrato dopo una serie di incontri con personalità del mondo della cultura, del lavoro, dell’associazionismo, e che dopo l’estate verrà ulteriormente elaborato insieme alle altre forze che intendono far parte dell’alleanza progressista. Ci sarà il no a ogni «tendenza populista», oltre al rispetto di un vincolo di maggioranza in Parlamento, e se un dialogo con Vendola è ritenuto possibile, con Di Pietro il rapporto è sempre più complicato.
Non ci sono solo gli attacchi al Quirinale e allo stesso Pd a non andar giù ai Democratici («noi mai abbiamo avuto una parola men che rispettosa e abbiamo preso insulti tutti i giorni si è sfogato Bersani pensiamo di metterci insieme a gente che ci insulta? Non esiste»), o il continuo flirtare con Grillo. C’è anche il veto messo dal leader Idv nei confronti di Casini «carnefice del centrosinistra» (come ha detto nell’intervista a Left), in questo differenziandosi anche da Vendola, che pur chiedendo un confronto programmatico proprio come Di Pietro dice di non avere «pregiudiziali verso un allargamento».
Per Bersani la prossima legislatura dovrà ancora fare i conti con i tanti problemi dell’Italia ed avviare una fase costituente, e questo potrà essere possibile soltanto se a guidare i processi sarà un’alleanza «di tutte quelle forze democratiche, moderate, costituzionali ed europeiste che possono dare una mano a sconfiggere il populismo e le derive di destra che si stanno muovendo in Europa». L’appello è a Vendola, a Di Pietro («dicano se anche per loro questo è il punto o no perché da qui non si prescinde», manda a dire il segretario Pd) e a Casini.
Con il leader dell’Udc il dialogo continua. E il fatto che dopo il successo del vertice di Bruxelles Casini si sia detto pronto a lavorare insieme a un governo guidato tanto da Monti quanto da Bersani («è il segretario del più grande partito italiano», ha sottolineato facendo anche capire che il «patto» progressisti-moderati è legato a una vittoria del leader Pd alle primarie di centrosinistra), è una importante novità di cui tener conto.
Il Pdl, ormai rassegnato all’impossibilità di un’alleanza con i centristi, ha reagito soprattutto all’ipotesi di una candidatura di Monti, nel 2013, alla guida dell’asse progressisti-moderati. Anche l’intervista a l’Unità di Enrico Letta, che ha parlato della necessità di una «forte continuità di programma e di uomini» tra questo e il prossimo governo, ha fatto scattare l’altolà nel Pdl, con Crosetto che accusa Pd e Udc di provocare elezioni anticipate e Gasparri che evoca i rischi insisti nel dare «connotazioni politiche» a questo esecutivo.
Bersani, oltre a far capire che la continuità con questo governo non sarà totale dal punto di vista programmatico («Vogliamo un’Imu più bassa e affiancata da un’imposta sui grandi patrimoni immobiliari, se non si farà ora si farà quando saremo al governo», e poi checché ne dica il governo «gli esodati per noi sono 270-280 mila e su questo non molliamo») mette anche un freno al tentativo di tirare per la giacca Monti. Un po’ per non rischiare di indebolirlo, un po’ perché il successo del premier a Bruxelles dipende da più fattori, non ultimo perché adesso a guidare la Francia c’è Hollande. «Che sia una risorsa lo vedrebbe anche un bambino, ma Monti non voglio arruolarlo», risponde a chi lo avvicina a Livorno. E poi: «Come mai si è riusciti a fare un patto al vertice Ue? Perché Monti ha giocato bene le sue carte, ma anche perché non c’era Sarkozy».
l’Unità 03.07.12
"La rivoluzione democratica delle donne tunisine", di Emilia De Biasi
La notizia l’ha data il Ministro degli Esteri: c’è l’impegno dell’Italia a seguire con attenzione la vicenda di Narges Mohammadi, assegnataria del premio internazionale Alexander Langer 2009, portavoce del Centro dei difensori dei diritti umani in Iran, collaboratrice del premio Nobel Shirin Ebadi. La signora Mohammadi sta scontando una condanna a sei anni di carcere. Fino a poco fa era custodita in una cella della sua città, ora è stata trasferita lontana da casa e dai figli piccoli. La sua unica colpa è aver militato a favore dei diritti umani nel suo Paese.
La scena di questa buona comunicazione è stata la consegna del Premio Langer 2012 all’Associazione delle donne democratiche tunisine, avvenuta l’altro giorno alla Camera dei deputati. Dunque qualcosa si muove. Ed è straordinario che tutto ciò passi anche dal lavoro incessante della società civile, in una collaborazione rara e virtuosa con la politica.
Un metodo che sarebbe piaciuto ad Alexander Langer, secondo il quale «In politica raramente si parla di qualcosa di vero, cioè di vissuto e realmente fatto proprio. Il reale incrocio tra esperienze, più che tra posizioni è un momento creativo». E ancora «… le scorciatoie sloganiste aiutano a contarsi, non a cambiare persone e circostanze. I patti reciproci aiutano a fare i conti gli uni con gli altri, visto che alla fine nessun altruismo regge alla prova del tempo e dell’usura. Non gridare non vuol dire rinunciare a spiegare e diffondere scelte solidali, serve per convincere, invece che mettere solo a verbale».
Non so se le donne tunisine abbiano urlato, ma certamente il loro lavoro non è servito solo per un verbale. La loro incessante lotta negli anni, dalla rivendicazione dei diritti delle donne come diritti umani fino alla consapevolezza, agita e non solo enunciata, per cui l’uguaglianza dei diritti tra uomini e donne è il fondamento di una società democratica, ci parla della rivoluzione dei gelsomini, in un misto di storia e modernità, ci dice dell’importanza della diffusione del messaggio di democratizzazione attraverso gli strumenti più moderni, la rete.
Ciò che è accaduto è nelle coscienze degli uomini e delle donne tunisine, di quella primavera araba, carica di contraddizioni e di incertezze sul futuro dell’area, ma che trova in Tunisia un ancoraggio sicuro, grazie all’azione delle donne e tra loro, in prima fila, dell’Associazione delle donne democratiche. A queste sorelle va la nostra gratitudine perché ci hanno scosso dal torpore dell’inevitabile, hanno superato ostacoli indicibili, non si sono mai rassegnate all’indifferenza della dimensione privata.
Protagoniste di una rivoluzione voluta, non importata, hanno scelto negli anni il processo di democratizzazione come filo conduttore. Una rivoluzione nella rivoluzione, partita dalla lotta contro la violenza alle donne e contro gli abusi sessuali, concretizzata da un centro di ascolto e di sostegno, dalla battaglia contro le discriminazioni nel diritto di successione, che penalizzava il mondo femminile, dalla specifica dimensione della povertà, penso alla rivolta del pane. È una grande vittoria, quella della penalizzazione delle molestie sessuali nelle scuole e nei luoghi di lavoro, che oggi è reato nel codice penale tunisino. Insomma poche chiacchiere e molti fatti, fino all’affermazione della questione della cittadinanza femminile e della separazione tra vita civile e religiosa, l’ultimo approdo teorico oltre che pratico, la sfida tutta aperta della convivenza tra islam e modernità, per dirla con il cardinale Scola.
Democrazia, pluralismo, libertà di associazione e di espressione, autonomia delle donne, cultura e dimensione civile: sono tratti dell’universalità dei diritti umani in ogni area del mondo. E sono esempi che valgono per tutti. Langer, in uno dei suoi ultimi scritti, afferma: «In passato ho forse imparato più dai libri. Nei tempi più recenti mi sembra di imparare più dagli incontri che mi capita di fare». Il futuro passa dalla libertà e dalla dignità femminile, dal destino comune visto in diretta e dalla speranza di realizzazione di un Mediterraneo che si riconosce nei valori della democrazia e dell’autodeterminazione, delle culture che affratellano e non dividono.
L’Unità 03.07.12
Una domanda di sinistra", di Alfredo Reichlin
Sui risultati del vertice di Bruxelles è stato detto tutto. Le misure prese sono importanti ma non vanno sopravvalutate. Eppure è forte la sensazione che siamo arrivati a un punto di svolta. Emerge una consapevolezza nuova che l`insieme della costruzione europea è in gioco e che bisogna affrontare la sfida che sta dietro l`inaudita potenza delle forze che manovrano i cosiddetti mercati finanziari. Non c`è nessun complotto di un “grande vecchio”. Ed è vero che la speculazione c`è sempre stata. Ma non si era mai visto che un fondo di investimento americano potesse mettere in gioco risorse paragonabili al Pil di una media potenza come l`Italia. Si ammetterà che questo apre una qualche riflessione non solo sull`economia ma sulla politica e direi anche sulla storia delle nazioni. Ecco perché la zona euro non regge se l`Europa non si dà un nuovo potere politico unitario. Qui sta il merito di Monti. Ha puntato i piedi sul fatto che non siamo di fronte a normali fenomeni speculativi per controllare i quali basta mettere in ordine la finanza pubblica. Non ha elemosinato aiuti. Ha detto la verità. L`aggressione all`Italia fa saltare l`euro. Quindi è l`Europa che è in gioco.
Ma cos`è l`Europa? L`Europa non è solo una regione del mondo come altre. È potenzialmente la più grande concentrazione, non solo di ricchezza, ma di sapere e di creatività umana. Se la sorte dell`Europa cambia (nel bene come nel male) cambia la direzione in cui va il mondo. Forse è tempo che la sinistra si renda conto un po` meglio di quale sia la novità della vicenda politica e sociale in cui siamo immersi. E cominci a capire perché si è aperto un problema nuovo di alleanze: l`esigenza di organizzare un centro sinistra anche a livello europeo.
La crisi non è congiunturale. Si è rotto l`ordine mondiale ed è per questa ragione che siamo nel pieno di una guerra di dimensione mondiale, sia pure monetaria. Il che significa che si sta decidendo come redistribuire la ricchezza e quindi chi deve impoverirsi e a vantaggio di chi. La questione sociale ha ormai questa dimensione, e c`è poco da scherzare. Se continua a governare questa meschina destra europea è chiaro che le classi dirigenti italiane sono disposte a tutto: non potendo svalutare la moneta svalutano il lavoro: bassi salari, precarietà, disoccupazione, ciò che sta avvenendo sotto i nostri occhi.
Dunque, è questo il terreno sul quale il Pd cerca di ridefinire il proprio profilo politico e ideale, come partito della nazione italiana ma parte integrante di una nuova costellazione di centro-sinistra europea. Si tratta – vorrei farlo notare a Vendola – del terreno decisivo anche dello scontro sociale. È qui che si gioca il posto del lavoro nel mondo. E voglio aggiungere che ciò che ci spinge lungo questa strada è l`acuta consapevolezza che il cammino che sta di fronte a noi è lungo, ed è molto arduo.
La domanda quindi da porsi è come sia possibile avviare un processo di costruzione politica dell`Europa senza mettere in campo un movimento di forze reali. Le quali siano l`espressione di quel mondo del lavoro, del pensiero intellettuale e dell`impegno civile, della sete di nuove scoperte, insomma della libertà e dei diritti uguali che ha una storia di secoli e che sta sotto la pelle dell`Europa. La politica è questo, non è solo manovra dall`alto e conquista di cariche pubbliche. Certo, il compito che sta di fronte al Pd è molto difficile. Stare in mezzo alla gente che soffre, che è offesa da un mondo di ingiustizie vergognose, che ha paura del futuro, che sente che la miseria si può affacciare alle loro porte. E spiegare a questa gente che bisogna lottare in forme tali che i loro sacrifici servano agli interessi dell`Italia. Il tutto mentre da destra e da sinistra, e da quasi tutti i video televisivi si gioca allo sfascio e al populismo.
Mi rendo conto che questo articolo non ha la concretezza degli economisti. Ma io continuo a pensare che quando si chiedono così pesanti sacrifici bisogna spiegare anche altre cose: che non stiamo pestando l`acqua nel mortaio ma stiamo cercando di occupare un terreno più avanzato di lotta, che stiamo dicendo qual è la posta in gioco e quindi il perché del contro chi, del con chi, e del come. Stiamo attenti a non sbagliare. Il cuore del conflitto non è più solo l`antagonismo tra l`impresa e gli operai. È l`insieme del mondo dei produttori cioè delle persone che creano, pensano, lavorano e fanno impresa che sta subendo una forma nuova di sfruttamento. Pesa sui produttori delle merci e sui beni pubblici l`onere di stringere la cinta per garantire i guadagni astronomici, gli sprechi e i lussi della rendita finanziaria, per di più esentata dal pagare le tasse.
Sta, quindi, avvenendo qualcosa che colpisce le ragioni dello stare insieme e il senso della convivenza civile. Il fatto enorme è questo. Stiamo assistendo non solo ai fallimenti dell`economia finanziaria ma a un problema di “legittimità” di certi grandi poteri. Dove va il mondo se l`individuo lasciato solo non può fare appello a quelle straordinarie capacità creative che non vengono dal semplice scambio economico ma dalla memoria, dall`intelligenza accumulata, dalle speranze e dalla solidarietà umane?
Ecco perché si rinnova anche in un vecchio come me una domanda di “sinistra”. Nel senso che fermare il predominio globale del capitale finanziario è possibile solo alla condizione che l`individuo rompa il suo isolamento e si muova in modo creativo insieme agli altri individui. Questa è l`arma. L`enorme domanda di senso e dello stare insieme che esiste nella nuova umanità che si sta formando. In Italia come in Egitto e in Brasile. Non a caso è riemerso il tema dei “beni comuni”. Del resto, come diceva un vecchio intellettuale europeo tedesco ed ebreo, Carlo Marx: «Che cos`è la ricchezza se non il pieno sviluppo del dominio dell`uomo sulle forze della natura, sia su quelle della cosiddetta natura, sia su quelle della propria natura? Che cosa è se non l`estrinsecazione assoluta delle sue doti creative, senza altro presupposto che il precedente sviluppo storico, che rende fine a se stessa questa totalità dello sviluppo, cioè dello sviluppo di tutte le forze umane come tali, non misurate su di un metro già dato?».
L’Unità 03.07.12