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"Se l’emergenza non finisce mai", di Barbara Spinelli

Non credo che il Presidente della Repubblica abbia da temere le critiche che da qualche settimana gli vengono rivolte sui rapporti intercorsi con Nicola Mancino prima che questi venisse indagato per falsa testimonianza nelle indagini su Stato e mafia. Non credo nemmeno che le critiche possano affliggere Monti, perché il presidente del Consiglio ha una sua forza autonoma, che nasce da delicati equilibri interni garantiti
dal Quirinale. Ma anche, e in misura crescente, da equilibri europei e internazionali. Lo stesso si dica per il capo dello Stato: l’autorità che ha acquisito chiudendo gli anni berlusconiani non si cancella, e l’improprio favore che dal Quirinale è venuto a Mancino non l’indebolisce oltremisura.
Viene in mente la prefazione di Roberto Scarpinato alla raccolta di scritti di Falcone e Borsellino: tutto quello che sentiamo ufficialmente dire su mafia e politica sono eventi che vanno in scena(Le ultime parole di Falcone e Borsellino, Chiarelettere 2012). Ma esistono eventi non detti, banditi (il «gioco grande» del potere cui alludeva Falcone), che restano fuori scena. E il chiarimento sembra non venire mai: o perché lo impone la ragione di Stato, o perché lo vieta un contingente stato di emergenza.
Nell’emergenza viviamo da tanto, troppo tempo. È come un treno sterminato, ogni convoglio è uno stato d’eccezione che subito cede il passo a un identico convoglio, e questo ha deformato non solo i modi e le regole della politica, ma la vigilanza di noi tutti. Con Achille Campanile potremmo concludere: «Ci sono regole che sono fatte di sole eccezioni. Sono confermatissime». Sono microscopici i periodi in cui il paese può dire a se stesso: questo non è uno stato di necessità, che mi obbliga a scegliere tra stabilità e normale dialettica democratica, che giustifica interventi anomali o leggi bavaglio per custodire segreti di Stato. Tra le innumerevoli emergenze ricordiamo il terrorismo, le stragi degli anni ’90, i patti con la mafia che s’accoppiarono alle stragi. Nell’intermezzo: le emergenze terremoto (Irpinia, Molise, Abruzzo), che permisero a cricche e camorre di lucrare sui disastri. Sono emergenze minori ma assieme alle altre hanno rafforzato, nelle menti, l’idea che la norma in Italia sia appunto fatta di sole eccezioni, che il potere giudiziario debba adattarsi a esse, e che tale sia il prezzo da pagare a un’unica, accentratrice istanza superiore: la ragione di Stato.
Questo prevalere della ragione di Stato è il nodo centrale che la politica dovrebbe guardare in faccia, risolvere. E non può farlo, a mio parere, se non va alle radici del fenomeno, e non scoperchia i due grandi eventi che hanno generato, come risposta, sia la logica dello stato di necessità, sia il conflitto politica-giustizia. Ambedue gli eventi sono insorti quando è finita la guerra fredda, nei primi anni ’90, ed è giusto chiamarli col nome di rivoluzione: quella di Mani Pulite, e quella di Falcone e Borsellino in Sicilia. Furono rivoluzioni perché un equilibrio malato si spezzò, travolgendo una partitocrazia che aveva lungamente sgovernato. E perché gli italiani videro in esse una possibile redenzione della politica e anche dello Stato. La ragione di Stato poteva divenire il bene comune, non coincidere più solo con le convenienze partitiche.
A vent’anni di distanza, è chiaro che le rivoluzioni – ostacolate, svilite – sono rimaste incompiute. L’una e l’altra puntavano a una rigenerazione della politica, che non c’è stata. C’è stata anzi regressione: sono aumentati scandali, corruzione, mafie. I magistrati avevano iniziato l’opera (avevano «appena inciso la superficie della crosta», disse Gherardo Colombo a Giuseppe D’Avanzo nel ’98) ma i politici non raccolsero il testimonio per cominciare una nuova e diversa corsa.
Ricordiamo quel che disse Borsellino delle responsabilità politiche, il 26 gennaio 1989 a Bassano del Grappa: «La magistratura può fare soltanto un accertamento di carattere giudiziale. Può dire: ci sono sospetti anche gravi, ma io non ho la certezza giuridica… che mi consente di dire che quest’uomo è mafioso. Però siccome dalle indagini sono emersi altri fatti del genere, altri organi, altri poteri, cioè i politici, le organizzazioni disciplinari delle varie amministrazioni, i consigli comunali dovevano trarre le dovute conseguenze da certe vicinanze tra politici e mafiosi che non costituivano reato ma rendevano comunque il politico inaffidabile nella gestione della cosa pubblica.
Questi giudizi non sono stati tratti perché ci si è nascosti dietro lo schermo della sentenza: questo tizio non è mai stato condannato, quindi è un uomo onesto. Il sospetto dovrebbe indurre soprattutto i partiti politici quantomeno a fare grossa pulizia, non soltanto a essere onesti, ma ad apparire onesti facendo pulizia al loro interno di tutti coloro che sono raggiunti comunque da episodi o da fatti inquietanti anche se non costituenti reati».
L’emergenza infinita ha permesso di eludere precisamente questo: la presa di coscienza nei politici. Erano loro a dover far proprie le rivoluzioni dei giudici: per approfondirle, e trarne le necessarie conseguenze. Nulla di tutto questo è stato fatto, e una serie di patti d’emergenza sono stati stretti al suo posto, a cominciare dai negoziati con la mafia. Non dimentichiamo che l’emergenza ha avuto i suoi martiri: Dalla Chiesa, Chinnici, Falcone, Borsellino, con le rispettive scorte. L’uccisione di Borsellino assume speciale importanza perché le trappole emergenziali lui le vide, ne fu inorridito, e lottò perché lo Stato, pur di evitare nuove stragi, non patteggiasse con la mafia. Parliamo di presunte trattative, ma l’aggettivo è incongruo. I negoziati con la mafia non sono presunti: il colonnello Mario Mori e l’ex capitano dei carabinieri Giuseppe De Donno hanno ammesso in più sedi giudiziarie d’aver parlato con Vito Ciancimino perché facesse da tramite con Riina. E la Corte d’Assise di Firenze, nel condannare all’ergastolo il boss Tagliavia, confermò il connubio politico-mafioso («Una trattativa indubbiamente ci fu e venne, quantomeno inizialmente, impostata su un do ut des. L’iniziativa fu assunta da rappresentanti delle istituzioni e non dagli uomini di mafia »). Presunti sono i
reati legati alla trattativa, sui quali indagano i pm di Palermo, ma è proprio su questo punto che la politica (non la magistratura) ha eluso i propri obblighi. Prevalsero la nebbia, la melma: nella melma, nell’omertà, nell’ininterrotta ricerca di capri espiatori, le classi dirigenti italiane possono meglio scongiurare la rigenerazione che toglierebbe loro i nutrimenti cui sono abituati.
Hanno mai detto, i politici, che trattare con la Cupola è comunque un reato, soprattutto quando venne fuori che chi rifiutava i negoziati, come Borsellino, finiva ammazzato? Hanno preferito tacere, e attaccare i giudici quando faticavano a configurare l’esatto reato: perché non configuravano loro reato e rimedi? Si sono «nascosti dietro lo schermo delle sentenze», affidandosi completamente ai giudici e denunciandone contemporaneamente il «protagonismo ». Lo stesso hanno fatto con Mani Pulite. Non hanno proseguito con le loro mani la rigenerazione dei partiti, non hanno fatto la «grossa pulizia» che veniva loro richiesta. Il quasi ventennio berlusconiano è stato una lunga contro-rivoluzione, una contro-memoria di Mani Pulite e del pool di Palermo. Ma la melma comincia prima di lui. Si capisce allora la rabbia di giudici come Scarpinato, che si sente sempre più
spaesato nelle cerimonie sui martiri di mafia. Ci sono commemorazioni che a questo servono: alla fuga dalle proprie responsabi-lità, alla voglia di tener sotto coperchio quel che in politica avviene «fuori scena», a perpetuare la contaminazione della ragion di Stato. Se la politica è scesa così in basso da essere oggi screditata radicalmente, è perché la redenzione non c’è stata, e tanti italiani hanno perfino dimenticato di averne sentito il profumo.

La Repubblica 03.07.12

"La miniera di Marcinelle diventa patrimonio Unesco", di Marco Zatterin

Forse non c’era bisogno del certificato. Il Bois du Cazier è scolpito nel patrimonio di tutti, da quell’8 agosto di 56 anni fa in cui nelle viscere della terra persero la vita 262 minatori tra cui 136 italiani. La tragedia della miniera di Marcinelle ha impiegato poco a diventare il simbolo di un’epopea drammatica e gloriosa, un luogo della memoria fra i più simbolici per l’emigrazione del dopoguerra, la seconda più grave sciagura nel suo genere dei tempi moderni. Era un lembo di ricordo collettivo eppure è stato a lungo sul punto di diventare un supermercato. Ora è chiaro che non succederà più. L’Unesco l’ha riconosciuto, insieme con altri tre siti minerari della Vallonia, patrimonio dell’umanità, come il centro storico di Firenze o Mont Saint-Michel. E l’ha salvato per sempre dalla speculazione.
Il carbone al Cazier non lo estraggono dal 1967. Dalla fine del conflitto sono stati 140 mila gli italiani venuti in Belgio per scavare sino a mille e passa metri nel sottosuolo. I loro posti di lavoro venivano scambiati per carbone da importare, 200 chili al giorno per emigrato, e col tempo s’è scoperto che il prezzo imposto dalle autorità di Bruxelles (nazionali) non era poi così conveniente. Era la ricchezza del Paese eppure, una volta chiusi gli impianti, c’era chi era pronto a dimenticare.
«All’ inizio degli Anni 90 le strutture della miniera erano in stato di totale abbandono», racconta Maria Laura Franciosi, autrice di un libro («Per un sacco di carbone») che ha contributo molto a sensibilizzare l’opinione pubblica. I minatori in pensione e i loro eredi si sono battuti perché la storia non finisse. Oggi il sito nei pressi di Charleroi è un museo sull’industria d’antan, oltre che un toccante memoriale. Jean-Louis Delaet, direttore del centro e promotore della campagna Unesco, lo definisce «luogo di confluenza culturale che ha assimilato scambi di tecnologie e apporti di conoscenze umane di origine assai diversa». Un luogo vivo, senza dubbio. Adesso ancora di più.

La Stampa 02.07.12

"Il paese delle donne che fanno paura alle cosche", di Giulia Veltri

La lotta alla criminalità organizzata in Calabria cammina sempre più spesso sulle gambe delle donne. Amministratrici in prima linea, le prime a pagare sulla propria pelle la violenza e le prove di forza messe in atto da mani criminali. E’ accaduto, ad esempio, a Clelia Raspa, una signora che nella vita fa il medico all’Asp di Locri ed è anche capogruppo di maggioranza al Comune di Monasterace, piccolo paesino sulla statale ionica in provincia di Reggio Calabria. Schierata, Clelia Raspa, a fianco di un’altra amministratrice donna, il sindaco Maria Carmela Lanzetta, che si era dimessa a marzo, proprio a seguito di una serie di intimidazioni, per poi decidere di rimanere in carica.
All’alba di sabato, la parte posteriore dell’Alfa Romeo Mito del capogruppo non c’era più, risucchiata dalle fiamme appiccate da qualcuno che è arrivato a pochi metri dall’abitazione della donna, ha appiccato il fuoco e se ne è andato indisturbato.
E così torna la paura nel paese in cui si sono precipitati qualche mese fa, subito dopo le dimissioni del sindaco Lanzetta, il ministro dell’Interno Cancellieri e il segretario nazionale del Pd Bersani. Anche sull’onda di questa catena di solidarietà e di vicinanza istituzionale, a marzo, la Lanzetta ha deciso di ritornare in sella al Comune. E da allora, suo malgrado, è diventata un simbolo dell’impegno civile in terre di illegalità. Le hanno distrutto la farmacia di famiglia e la sua auto è stata tempestata di proiettili e ieri ha trascorso tutta la giornata accanto all’amica e sostenitrice politica.
Nessun dubbio sul fatto che il destinatario finale dell’intimidazione fatta al capogruppo sia il sindaco: «E’ un regalo che hanno fatto a me – dice la Lanzetta – domani (oggi per chi legge, ndr) è una giornata speciale per il paese, perché ospitiamo Salvatore Settis (storico calabrese e direttore della Scuola Normale di Pisa) per la prestazione nazionale dei quaderni della Normale, dedicati per la prima volta agli scavi archeologici di Monasterace. Mi hanno voluto fare male un’altra volta – confessa lei che oggi vive sotto scorta – ma io provo ad andare avanti, finché posso, finché ce la faccio».
E’ difficile? «Sì certo che è difficile – risponde il sindaco – abbiamo avviato una serie di progetti con il ministero dell’Interno ma è il giorno dopo giorno che tempra e richiede tanto impegno. Le stanno provando tutte per convincermi a mollare».
In prima linea, le più esposte ma non sole in una quotidiana azione di resistenza alla criminalità organizzata. Non solo il caso Monasterace racconta di una Calabria di donne e amministratici che per muoversi nel solco della legalità e del buon esempio, convivono con auto bruciate, lettere intimidatorie, messaggi di morte. Da Monasterace a Rosarno, nel cuore della piana di Gioia Tauro – sempre in provincia di Reggio Calabria – dove comandano i Pesce e i Bellocco, e qui nel 2010 è scoppiata la rivolta degli immigrati costretti a vivere in capannoni distrutti.
Proprio nel 2010, qualche mese dopo gli scontri, è stata eletta Elisabetta Tripodi a capo di un’amministrazione di centrosinistra, che con il Comune si è costituita in tutti i processi di mafia e riceve continuamente lettere di minaccia.
A Isola Capo Rizzuto, in provincia di Crotone, un’altra storia di donne coraggio, con Carolina Girasole, biologa e sindaco dal 2008. Qui dove comandano gli Arena, le hanno provate un po’ tutte per convincerla a lasciare il municipio. Auto incendiate, portoni degli uffici sfondati, luoghi privati ripetutamente violati. Carolina resta al suo posto e insieme ad Elisabetta, Maria Carmela e altre ostinate e orgogliose amministratrici gira la Calabria e non solo, parlando di resistenza alle inciviltà, di buon esempio nell’agire pubblico, di determinazione e passione.

La Stampa 02.07.12

Terremoto Ghizzoni (PD): servono altri 100 milioni per le scuole e 20 per beni culturali; Commissione cultura farà emendamento

Almeno altri 100 milioni di euro per le scuole e 20 per la messa in sicurezza dei beni culturali rimasti gravemente danneggiati nel terremoto. Li chiederanno al Governo, con una serie di emendamenti, i deputati della commissione cultura della Camera, che questa mattina hanno effettuato un sopralluogo nelle zone terremotate dell’Emilia-Romagna e del mantovano, dove hanno incontrato i sindaci dei Comuni colpiti dal sisma. Alla visita, che ha preso il via da Cavezzo (Modena), hanno partecipato la modenese Manuela Ghizzoni (Pd), presidente della commissione, e i parlamentari Emerenzio Barbieri (Pdl), Giancarlo Mazzuca (Pdl), Paola Goisis (Ln) e Enzo Carra (Udc). Nel pomeriggio, poi, all’esito della visita, si e’ tenuto una riunione in Regione a cui hanno partecipato anche gli assessori regionali Paola Gazzolo, Patrizio Bianchi e Mezzetti.
“Abbiamo incontrato gli amministratori locali e discusso soprattutto di due emergenze, tutela dei beni culturali e patrimonio edilizio scolastico”, spiega Ghizzoni prima del vertice in viale Aldo Moro. “A loro abbiamo chiesto come potevamo essere utili ora che abbiamo il decreto per la ricostruzione arriva in aula, lunedi’ comincera’ discussione. Abbiamo trovato un’unita’ di intenti su due interventi: potenziare il fondo a disposizione dell’edilizia scolastica e adeguate risorse per i beni culturali”. La richiesta, che i deputati della commissione Cultura presenteranno con un ‘pacchetto’ di emendamenti, in termini di soldi e’ di almeno 100 milioni per le scuole, “perche’ i 76 milioni gia’ stanziati sono assolutamente insufficienti a dare una risposta concreta affinche’ scuole possano riaprire in settembre”; mentre per il patrimonio culturale l’intenzione e’ di chiedere lo stanziamento di ulteriori 20 milioni. Per quanto riguarda i soldi necessari a ristrutturare e ricostruire le scuole, Ghizzoni ha gia’ chiaro fin da ora anche da dove potrebbero essere presi: dai 200 milioni di euro che sono gia’ nella disponibilita’ del bilancio dello Stato e che arrivano dal decreto semplificazione (100 milioni) e dal Cipe (gli altri 100). Spiega Ghizzoni: “Chiederemo che una quota parte di queste risorse, non meno della meta’, vengano messe a disposizione delle zone terremotate”. Per i beni culturali, invece, la commissione cultura chiedera’ di destinare “adeguate risorse in capo alla Direzione regionale per i beni culturali per poter intervenire in efficacia nella messa in sicurezza delle molte opere architettoniche culturali che sono state gravemente lesionati”. Oltre al denaro, Ghizzoni spiega che si chiederà’ anche un “potenziamento delle strutture che sono competenti dei beni culturali”.
Dopo la visita a Cavezzo, dove sono arrivati in delegazione anche sindaci di altri Comuni del modenese, i deputati della commissione Cultura si sono spostati nel mantovano, a Pegognana.
L’ultima tappa e’ stata la visita all’abbazia di San Benedetto Po’, che e’ in parte crollata dopo il terremoto (nonostante il recente restauro).

agenzia Dire

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TERREMOTO: DA COMMISSIONE CULTURA CAMERA ALTRI 100 MLN PER SCUOLE =
(AGI) – Bologna, 2 lug. – Risorse aggiuntive pari ad almeno 100 milioni di euro a favore dell’edilizia scolastica nei territori colpiti dal sisma e altri 20 milioni di euro per la messa in sicurezza dei beni culturali: queste le proposte della Commissione cultura alla Camera in vista della conversione in legge del decreto del governo sul terremoto che, lunedi’ prossimo, approdera’ in Aula per la conversione. Una delegazione di parlamentari della Commissione, presieduta da Manuela Ghizzoni (Pd) ha incontrato oggi a Cavezzo i sindaci del Comuni modenesi colpiti dal sisma. Al centro dell’iniziativa due emergenze: il patrimonio edilizio scolastico e la tutela dei beni culturali. “Abbiamo trovato un’unita’ di intenti su due interventi. Potenziare il fondo a disposizione dell’edilizia scolastica – ha spiegato Ghizzoni arrivata nella sede della Regione Emilia Romagna a Bologna per un incontro con gli assessori regionali alla scuola e alla protezione civile – perche’ i 76 milioni sono assolutamente insufficienti a dare una risposta concreta affinche’ le scuole possano riaprire a settembre. L’altra misura consiste nel fornire adeguate risorse in capo alla direzione regionale per i beni culturali per poter intervenire con efficacia nella messa in sicurezza delle opere lesionate”. In particolare i parlamentari proporranno al governo di destinare “venti milioni per i beni culturali. Per l’edilizia scolastica – ha chiarito Ghizzoni – la nostra proposta e’ di mettere a disposizione delle zone terremotate una quota a parte di risorse gia’ nella disponibilita’ del bilancio dello Stato e che derivano dal decreto semplificazione, 100 milioni, e altri 100 milioni dal Cipe. Una quota parte di queste risorse, non meno della meta’, a nostro avviso dovrebbe essere messe a disposizione delle scuole”.

Agenzia AGI

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SISMA: GHIZZONI (PD), INSUFFICIENTI 76 MLN PER SCUOLE
DELEGAZIONE COMMISSIONE CULTURA CAMERA A CAVEZZO E PEGOGNAGA (ANSA) – BOLOGNA, 2 LUG – ‘Consideriamo i 76 milioni per l’edilizia scolastica danneggiata dal terremoto insufficienti per la riapertura delle scuole a settembre’. Cosi’ la presidente della commissione Cultura della Camera, Manuela Ghizzoni (Pd), alla guida di una delegazione di deputati che ha incontrato a Cavezzo gli amministratori locali delle zone colpite nel Modenese e visitato Pegognaga e l’Abbazia di S.Benedetto Po nel Mantovano.
Presenti anche Emerenzio Barbieri (Pd), Giancarlo Mazzuca (Pdl), Paola Goisis (Lega) e, solo alle visite, Enzo Carra (Udc). Dopo la visite, la delegazione ha incontrato nella sede della Regione Emilia-Romagna una rappresentanza della Giunta (assessori alla Scuola Patrizio Bianchi, alla Cultura Massimo Mezzetti e alla Protezione civile Paola Gazzolo), il dirigente dell’Ufficio scolastico regionale Stefano Versari e la responsabile della Direzione regionale Beni culturali, arch. Carla Di Francesco.
‘La commissione Cultura della Camera – ha precisato la Ghizzoni – ha ritenuto utile prendere visione direttamente dei luoghi colpiti dal terremoto per la tutela dei beni culturali e per affrontare i danni all’edilizia scolastica. Per i beni culturali sono previsti venti milioni, per i primi interventi di messa in sicurezza’. La presidente ha precisato che la delegazione ‘ha concordato sulla presentazione di piu’ emendamenti al decreto 74/12, in aula lunedi’ prossimo, per chiedere di destinare all’edilizia scolastica anche una quota parte dei 200 milioni provenienti meta’ dal decreto semplificazione e l’altra meta’ dal Cipe’.

agenzia ANSA

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SISMA: REGIONE E-R, TUTTI A SCUOLA ENTRO META’ SETTEMBRE
RICHIESTA GHIZZONI PER ULTERIORI FONDI NON RESTI SOLO AUSPICIO (ANSA) – BOLOGNA, 2 LUG – ‘E’ un dato importante che pero’ deve essere piu’ di un auspicio’: cosi’ l’assessore regionale alla scuola, Patrizio Bianchi, ha commentato le risorse in piu’ sollecitate per gli edifici scolastici danneggiati dal terremoti in Emilia dalla presidente della commissione Cultura della Camera, Manuela Ghizzoni, che – in visita nei luoghi del sisma – ha annunciato emendamenti al decreto 74 in Aula da lunedi’ prossimo.
L’assessore Patrizio Bianchi ha detto che tutti i bambini delle 330 scuole colpite devono tornare a scuola per la riapertura dell’anno ‘entro la meta’ di settembre’. Per questo ha giudicato importante la visita della delegazione della commissione Cultura della Camera, che ha anche incontrato gli amministratori locali a Cavezzo (Modena) e Pegognaga (Mantova).
Parlando con i giornalisti, Bianchi ha anche mostrato le foto della demolizione, oggi a mezzogiorno, della scuola media di San Carlo, nel Ferrarese, una di quelle che dovranno essere ricostruite. Nel frattempo, sia nelle scuole da ripristinare per settembre con piccoli interventi che in quelle del tutto inagibili da sostituire in edilizia pre-costruita (‘sono prefabbricati di grande qualita”), la riapertura dell’anno scolastico dovra’ essere rispettata.

Agenzia Ansa

"Il vertice di Bruxelles porta consensi a Monti. Ora si attende meno rigore e più welfare" di Carlo Buttaroni

Questa volta la buona notizia che arriva dai mercati è che la politica può vincere la crisi. È solo l’inizio, un piccolo passo, ma i segnali sono evidenti. L’intesa del Consiglio europeo sul fondo per calmierare lo spread, infatti, ha avuto immediate ripercussioni positive: è sceso il differenziale tra i titoli italiani e quelli tedeschi e i mercati hanno ripreso fiducia, facendo registrare risultati positivi in quasi tutte le borse del mondo. Il risultato del vertice rende politicamente più forte Barack Obama il quale, dopo aver incassato la sentenza della Corte suprema che rende esecutiva la riforma del sistema sanitario varato nel 2010, segna un altro punto a suo favore in vista delle prossime elezioni presidenziali. L’accordo raggiunto dai leader del vecchio continente, infatti, dà ragione alle pressioni del Presidente Usa rendendo, nelle previsioni, più forte e veloce la ripresa americana. Anche in questo caso, i segnali non si sono fatti attendere, visto che il tasso di cambio euro-dollaro è subito cresciuto di 2 punti base.
Ma a Bruxelles succede di più: la politica sembra disegnare nuovi equilibri. Terminata la “liason politica” Sarkozy-Merkel, a causa della mancata rielezione del primo, nuove e più ampie convergenze si stanno concretizzando e tra i promotori troviamo proprio l’Italia, la Spagna e la nuova Francia di Hollande.
Mario Monti è stato giustamente indicato come il protagonista del vertice. Aveva le idee chiare e ha posto fin da subito le condizioni che hanno evitato l’ennesima risposta palliativa alla crisi. Il premier italiano ha indubbiamente portato a casa i risultati che si era ripromesso e non è certo un caso che i mercati italiani siano stati quelli che hanno fatto registrare le performance migliori. Un indirizzo quello dato da Monti rispetto al quale Spagna e Francia non potevano che dare il loro avvallo. Ed è proprio il nuovo corso di Hollande a spingere gli eventi in questa direzione, gettando il seme di un’Europa meno tecnica e più politica.
È questa la vera grande svolta che arriva da Bruxelles: dopo averci spiegato che la politica deve guardare i mercati, abbiamo scoperto che i mercati guardano la politica. E che il corso degli eventi può essere governato, per portare a una soluzione per il bene dell’Europa nel suo complesso.
Il risultato del vertice di Bruxelles nasce però qualche mese fa, con l’elezione di Hollande. Le elezioni presidenziali avevano assunto un significato che andava oltre i confini della Francia nel momento in cui Francois Hollande aveva denunciato con forza i limiti, i ritardi e i problemi dell’Europa diretta dall’asse Merkel-Sarkozy. Da allora, lo scenario del confronto tra Sarkozy e il suo sfidante è stata l’Europa. O meglio, l’Europa politica. Per Francois Hollande, si può sconfiggere la crisi solo se la politica europea è in grado di agire sulla stabilità dell’Euro, ma non da sola, bensì intervenendo anche sulla qualità dello sviluppo, rimettendo in equilibrio crescita, solidarietà e coesione sociale. Per il Presidente francese, la linea del rigore fiscale e i tagli alla spesa pubblica in nome dell’equilibrio di bilancio sono inefficaci e rischiano di spingere l’Europa ancora più in recessione. Facendosi portatore di queste idee, Hollande ha vinto le elezioni e, fin dal primo giorno, ha fatto capire che la Francia avrebbe voltato pagina. Il vertice europeo è stata la prima occasione utile per imprimere questa svolta, cercando alleati nei Paesi più vicini dal punto di vista economico, Italia e Spagna appunto, e forzando la partita fino alla rottura dell’asse franco-tedesco.
Da Hollande è giunta anche la spinta ad andare oltre i risultati del vertice, con l’obiettivo di arrivare all’unione fiscale e a un ministero del Tesoro comune che emetta debito e lo mutualizzi, realizzando così una vera politica economica europea. Obiettivi che riecheggiano nelle parole del presidente della Commissione Ue, José Manuel Barroso, quando dice che in due giorni sono state prese decisioni impensabili solo fino a pochi mesi fa. Italia, Spagna e Francia. Paesi, questi, che così raddoppiano il successo facendo oltretutto retrocedere la Germania dalla sua posizione iniziale rispetto alla possibilità di accesso al fondo di salvataggio, subordinato ai pareri della troika Ue-Bce-Fmi.
Finora erano i tecnici a decidere sugli aiuti da concedere a uno Stato in base alla sua “virtuosità” economica e alla capacità di rimborso. D’ora in poi non sarà più così e, dopo l’esperienza greca, la parola tornerà alla politica.
E questa è la vera buona notizia. Perché a rendere più acuta la crisi è stata proprio l’assenza di una politica europea che favorisse la crescita, l’occupazione e la lotta alle disparità.
In questa delicata partita di equilibri e visioni che si è aperta a Bruxelles, l’Italia era di mano. E Monti ha giocato bene le sue carte. Colpisce, semmai, che la partita più politica ha visto come protagonista italiano un “tecnico”, seppur di alto livello come Mario Monti. Il premier, tra l’altro, ha esibito un colpo di gran classe e di raffinata sapienza comunicativa e politica, dichiarando che l’Italia non intende comunque avvalersi dello scudo anti-spread, smorzando sul nascere qualsiasi accenno riguardante presunti interessi specifici e conseguenti conflitti d’interesse del Paese. Nello stile, la distanza con il suo predecessore non potrebbe essere più ampia. E forse è anche per questo che la maggioranza relativa degli italiani continua a esprimere un giudizio positivo sul governo Monti, anche se la fiducia è in calo rispetto ai primi mesi del suo insediamento a Palazzo Chigi.
Il vertice di Bruxelles segna comunque il primo passaggio di un percorso, dove la politica sembra essere tornata protagonista delle scelte e intenzionata a determinare gli indirizzi di politica economica. Una buona partenza che adesso, però, occorre riempire di contenuti e coerenza con quanto annunciato.
Secondo uno studio della Cgia, le sofferenze bancarie delle imprese italiane hanno superato quest’anno gli 82 miliardi di euro, le insolvenze sono aumentate dell’11,9%, mentre l’erogazione dei prestiti ha continuato a scendere (-1,7%). Sono invece aumentate le segnalazioni di sospetto riciclaggio, legate a operazioni d’intermediazione finanziaria (+243,6%). Sul fronte lavoro, l’Istat registra un tasso di disoccupazione pari al 10,2%, con un incremento del 2,2% su base annua e con punte del 37% tra i giovani. Tra i lavoratori dipendenti, intanto, il potere reale d’acquisto diminuisce e sempre più famiglie vengono trascinate sotto la soglia di povertà.
Ora, si possono avviare le riforme del mercato del lavoro, alzare o abbassare i tassi d’interesse, aumentare o diminuire l’iva, immettere nuove tasse, ma fino a quando non si deciderà d’investire su uno sviluppo di qualità sarà difficile uscire dalla crisi. Serve un cambio di visione. E il coraggio di perseguire strade nuove perché l’asprezza della crisi merita risposte forti in termini di rilancio di politiche attive per il lavoro, di difesa e valorizzazione del patrimonio industriale, di rafforzamento del sistema di welfare. Se questa ricetta vale in Francia e sembra affermarsi anche in Europa, perché in Italia non dovrebbe avere effetto?
C’è bisogno di ridare fiducia alle imprese attraverso investimenti che consentano di produrre meglio. C’è bisogno di “piani casa” che puntino a recuperare, costruendo sul costruito, anziché realizzare edifici ex novo. C’è bisogno di più infrastrutture sociali, più scuole, più trasporti pubblici e di ridisegnare un ruolo attivo delle politiche pubbliche nel governo dell’economia. Questa sembra la strada tracciata in Europa dopo le elezioni francesi. Al successo del nuovo corso europeo ha contribuito, in maniera decisiva, anche l’Italia. Ora c’è da attendersi che anche nel nostro Paese siano introdotte quelle novità che sembrano annunciarsi nella nuova Europa nata da Bruxelles. Grosso modo, l’auspicio dello stesso Monti dopo il vertice europeo. Speriamo sia così perché, oltre l’Europa, ne uscirebbe rafforzata anche l’Italia.

L’Unità 02.07.12

"Mercato del lavoro, ora le modifiche", di Cesare Damiano e Teresa Bellanova

Il Presidente del Consiglio, Mario Monti, non torna da Bruxelles a mani vuote. Noi abbiamo sperato in questo risultato e lo abbiamo voluto fortemente. La decisione europea di varare un piano per lo sviluppo e per l’occupazione, con uno stanziamento di 120 miliardi di euro, è un buon inizio. È quel segno di una inversione di marcia nelle politiche europee che auspicavamo e che abbiamo chiesto da tempo perché abbiamo sempre pensato che un rigore fine a se stesso non ci avrebbe fatti uscire dal baratro della recessione e della disoccupazione. Come Partito democratico, insieme agli altri gruppi che sostengono il governo, pensiamo di aver dato un importante contributo al raggiungimento di questo risultato, anche se la partita non è finita, come ha ricordato Bersani. L’obiettivo di avere la riforma del mercato del lavoro approvata prima del Consiglio europeo, come ci ha chiesto il premier per dare autorevolezza al ruolo dell’Italia, è andato in porto, nonostante le nostre riserve e le nostre critiche su una parte dei contenuti. Non a caso chiediamo importanti correzioni. Come previsto, si sono tenuti quattro voti di fiducia corrispondenti ai quattro articoli della proposta di legge. Va però notato il fatto che mentre il voto del Partito democratico non ha registrato defezioni, per quanto riguarda invece il centrodestra, Berlusconi insieme ad altri non ha partecipato alla fiducia e ci sono stati parecchi no ed astenuti: in totale 87 parlamentari. Adesso, visti i risultati, in modo opportunistico e contraddittorio il Pdl si proclama convinto sostenitore dell’esecutivo. Ex post sono tutti capaci. Il nostro consenso non è stato né facile né scontato. È stato il frutto di una lunga discu sione nel partito a cui si è accompagnata una intensa attivitá delle Commissioni Lavoro di Camera e Senato, che hanno svolto una preziosa opera di discussione e di ascolto attraverso le audizioni delle parti sociali.

Tutto è cominciato, come abbiamo precedentemente ricordato, con la richiesta del premier di poter approdare al Consiglio europeo con la riforma approvata. Noi abbiamo ascoltato questo appello e abbiamo voluto, a nostra volta, essere ascoltati. Abbiamo formulato a Monti precise richieste sugli argomenti di carattere sociale. In particolare, ci siamo soffermati sul tema delle pensioni e degli ammortizzatori sociali, mentre il centrodestra ha sollevato quello delle flessibilità in entrata. Il comunicato di palazzo Chigi del 20 giugno scorso nel quale il presidente del Consiglio accoglieva le richieste dei partiti che sostengono il governo, è stato ulteriormente confermato da un suo autorevole intervento alla Camera nel corso della discussione sulla riforma del mercato del lavoro. In sintesi, viene evidenziata la disponibilità del governo ad affrontare tempestivamente tre temi: quello dei cosiddetti esodati (termine con il quale ormai si intende la composita platea dei lavoratori rimasti senza stipendio e senza pensione a causa della riforma previdenziale), degli ammortizzatori sociali e delle flessibilità in entrata. Sui primi due temi il Pd ha avanzato le sue proposte di merito. Sulla previdenza abbiamo un indiscutibile vantaggio costituito dal fatto che esiste, alla Commissione Lavoro della Camera, un testo di legge unificato, condiviso da tutti i partiti di maggioranza e opposizione. A questo approdo siamo arrivati grazie all’iniziativa del Pd che ha presentato una proposta di legge sottoscritta dagli altri gruppi e successivamente perfezionata grazie al confronto con le organizzazioni sindacali. Da questa piattaforma, che stiamo completando con una proposta di copertura finanziaria, vogliamo partire subito per confrontarci con il ministro del Lavoro. Non vogliamo più legarci ai numeri, data la difficoltà di determinare le platee, ma ai criteri in base ai quali le persone possono richiedere di andare in pensione con le vecchie regole previdenziali. Vogliamo ancora una volta ricordare che stiamo parlando di lavoratori con accordi di mobilità, che si sono licenziati individualmente dalle piccole imprese, che sono esodati (da Poste, Eni, Telecom, Ibm… ), che hanno usufruito dei fondi di solidarietà del settore del credito sottoposto a pesanti processi di ristrutturazione o che hanno la prosecuzione volontaria dei versamenti contributivi. Tutte persone che si sono viste allontanare, a causa della riforma previdenziale, anche di cinque o sei anni il momento della pensione.
Il secondo tema è quello degli ammortizzatori sociali. Noi abbiamo evidenziato fin dall’inizio come una pensione più lontana nel tempo ed ammortizzatori sociali con coperture più brevi, soprattutto in un momento di recessione dell’economia, avrebbero comportato la creazione di platee strutturali di persone senza reddito. Per questo chiediamo al governo di spostare avanti di un anno l’ingresso nella nuova Assicurazione Sociale per l’Impiego, soprattutto per mantenere la vecchia e più efficace indennità di mobilità anche per il prossimo anno. Del resto, i recenti dati di Confindustria hanno lanciato un vero allarme sociale ed evidenziato che recessione ed aumento della disoccupazione andranno ben oltre il 2012. In questo ambito, noi pensiamo che non vada abbandonata la nostra iniziativa a favore dei giovani. Vorremmo una mini Aspi rafforzata e di maggiore qualità; un più facile accesso al bonus precari; una revisione della contribuzione figurativa del lavoro stagionale; il non innalzamento al 33% del contributo previdenziale delle partite Iva autentiche, per non far pagare a questa parte del lavoro autonomo, in molti casi giovane, il costo della riforma. Sappiamo che per ottenere dei risultati dovremo trovare un accordo con gli altri partiti che sostengono il governo, anche sul tema della flessibilità in entrata, pur essendo noi dell’opinione che il compromesso raggiunto al Senato su questo tema sia più che soddisfacente. Cercheremo una sintesi positiva, come abbiamo sempre fatto nel passato. Il governo deve sapere che, riformato il mercato del lavoro, si tratta ora di onorare l’impegno politico sottoscritto dal presidente del Consiglio su questi temi sociali. Il Paese ci sta aspettando tutti alla prova dei fatti. Tempestivamente.

l’Unità 02.07.12

"Galline senza uova e pozzi d´acqua bollente ecco le spie del terremoto", di Elena Dusi

Le rilevazioni in Emilia nei luoghi delle scosse: morie di pesci e di topi, colpa del metano. L´acqua diventa nera, il suolo si scalda e il mais nei campi triplica la sua altezza
«Il giorno prima del terremoto ho preso l´acqua dal pozzo per innaffiare l´orto. Era bruttissima, tutta torbida» racconta un contadino di via Taddia a Renazzo. «Me ne sono accorto lavando la betoniera» aggiunge un operaio a Camposanto. «Da fine aprile l´acqua era diventata calda. Ho avvertito anche il Comune, ma senza drammatizzare. E così nessuno è venuto». A Medolla, in via Modena, un altro agricoltore indica con il dito il suo campo di mais e racconta: «Subito prima della scossa iniziale le piante hanno cominciato a crescere in modo impressionante. Sono triplicate in altezza nel giro di tre giorni. Poi all´improvviso sono morte tutte».
A interrogare gli abitanti delle campagne emiliane sui segnali della natura che hanno preceduto o accompagnato lo sciame sismico iniziato un mese fa è Fedora Quattrocchi, dirigente di ricerca dell´Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia (Ingv). «Prima o durante un sisma, a volte notiamo cambiamenti del livello dell´acqua dei pozzi, comportamenti anomali degli animali, emissioni gassose dal sottosuolo. Purtroppo però le nostre osservazioni non sono abbastanza sistematiche da permetterci di fare previsioni» spiega.
Le emissioni del gas radon, di cui tanto si parlò nel 2009 dopo il terremoto dell´Aquila, non sarebbero state di nessun aiuto in Emilia Romagna, il cui sottosuolo è privo di elementi di origine vulcanica. Ma altri gas probabilmente sono stati liberati dalle fratture delle rocce. A Medolla, zona già nota per le sue “terre calde”, la temperatura del terreno ha raggiunto i 50 gradi subito dopo la prima scossa del 20 maggio. «I contadini – spiega Quattrocchi – hanno visto crescere il mais a ritmi impressionanti per alcuni giorni prima del sisma. Poi le piante sono morte e sul terreno si sono creati dei cerchi privi di vegetazione. In quella zona, alcuni giorni dopo la prima scossa, abbiamo misurato emissioni di metano fino a cento volte superiori alla norma».
La risalita di gas nocivi dal sottosuolo o il calore anomalo del terreno sono probabilmente all´origine anche della moria di pesci nei canali e nei laghi di tutta l´area colpita dallo sciame. A soffrire sono stati soprattutto persici e pescigatto, che vivono vicino al fondale. Al ristorante “Al 50” di Finale Emilia il proprietario ha visto scappare le tartarughe dal laghetto poco prima del sisma. Un contadino di Medolla ha raccontato impressionato: «Tre giorni prima della scossa del 20 maggio tutte le galline hanno smesso improvvisamente di fare uova. Non mi era mai successo prima». E in molti dei paesi terremotati i ricercatori dell´Ingv hanno raccolto testimonianze di una variazione del livello dei pozzi d´acqua. «Alcuni sono saliti perfino di un metro e mezzo o due» continua Quattrocchi. «Segno che nel sottosuolo si stava verificando una compressione delle faglie, la stessa che ha fatto sollevare il terreno di 15 centimetri a Mirandola, come osservato dai satelliti».
Nessuno di questi segnali ovviamente sarebbe stato sufficiente a prevedere il terremoto, e tantomeno a lanciare un allarme di evacuazione per la popolazione. «Ma forse – sottolinea Quattrocchi – converrebbe studiare con più costanza i precursori geochimici dei terremoti, per capire se esistono delle regolarità. Una rete di stazioni di monitoraggio ci aiuterebbe a seguire i parametri del terreno per tempi lunghi, insieme a quelli di spostamento delle placche».
La storia dell´analisi dei precursori chimici, della temperatura del terreno e dell´acqua non inizia ovviamente oggi. I segnali che precedono la scossa furono notati per la prima volta in un sisma del 1966 a Tashkent. E in coincidenza con il grande sisma di Kobe del 1995 furono notate emissioni anomale di radon, mentre l´acqua minerale che si imbottiglia nella zona si arricchì di cloruri e solfati, i pesci morirono nei fiumi e l´acqua dei pozzi diventò nera. I sostenitori della ricerca sui precursori citano l´esempio del grande terremoto cinese del 1975. Allora il cambiamento del livello dei pozzi d´acqua e di alcuni terreni, unito al nervosismo degli animali e a uno sciame di piccole scosse anticipatrici portarono all´evacuazione della regione dell´Haicheng e al salvataggio di 120mila persone. Ma da allora nessun´altra previsione si è più rivelata esatta. L´anno dopo la Cina è stata presa alla sprovvista da un altro sisma devastante. E in Giappone, dove la rete di stazioni di monitoraggio geochimico invece esiste, a prevedere un terremoto non è ancora riuscito nessuno. Da allora l´illusione di poter fare previsioni misurando radon, metano, pozzi d´acqua o addirittura i segni di nervosismo degli animali ha inquinato una scienza purtroppo ancora immatura per essere applicata alla prevenzione.

La Repubblica 02.07.12