Latest Posts

"50 gradi nelle tende: l’odissea degli sfollati", di Chiara Affronte

Bologna, Ferrara e Roma le città più calde d’Europa che toccheranno i 40 gradi tra le 12 e le 17 di oggi. Caronte e Scipione sono stati tra gli anticicloni africani più forti di sempre per intensità ed estensione: il bollino rosso del ministero della Salute è per dieci città italiane dove è prevista un’ondata di calore «in grado di avere effetti negativi non solo su anziani, bambini e malati», ma anche su «persone sane e attive». E quest’anno a subire le conseguenze del caldo che soffia dall’Algeria saranno soprattutto gli sfollati delle tendopoli dell’Emilia terremotata. Se all’esterno si registrano 40 gradi, dentro una tenda si possono raggiungere i 50. Da una settimana nelle tendopoli gestite dalla Protezione civile sono arrivati «duemila condizionatori, comprese le strutture sanitarie», riferisce Demetrio Egidi, responsabile della Protezione civile regionale. Sono gli apparecchi che erano stati utilizzati all’Aquila. «Sono stati recuperati e portati qua – spiega Egidi -, ovviamente poi si è provveduto a far arrivare nelle tendopoli ulteriori cavi dell’Enel perché in questi casi c’è bisogno di una tensione elettrica maggiore».

Nonostante i condizionatori, la situazione resta comunque di elevato disagio. Lo ribadisce il sindaco di Novi Luisa Turci: «Anche se dotate di aria condizionata, si tratta pur sempre di tende, e pensare che si possa stare al fresco è impensabile», riferisce il primo cittadino, che ha perso la casa nel sisma così come i suoi concittadini. «La maggior parte delle persone non sta sotto la tenda , se può: durante la settimana vanno a lavorare in molti, e chi invece resta “a casa” si muove, cerca refrigerio nei parchi, utilizza l’auto».

I CAMPI AUTOGESTITI

Più critica è senz’altro la situazione delle tendopoli autogestite. A Fossoli, dove, nella zona del palazzetto dello sport, si sono sistemate 200 persone, di cui una quarantina di bambini, il disagio è fortissimo: «Nelle tende è impossibile stare, e non possiamo installare condi- zionatori perché, non avendo certificazioni, non possiamo rischiare che prendano fuoco – racconta Mohammed -; ci stiamo concentrando soprattutto sui bambini con delle piscinette gonfiabili». Con un cavo elettrico si riesce a fare funzionare alcuni frigoriferi per l’acqua: «Soprattutto quella, in questi casi è la cosa che bisogna avere sempre in grandi quantità. Adesso, stiamo cercando di costruire delle specie di gazebi per fare un po’ di ombra», racconta ancora Mohammed. Nel campo autogestito di Sant’Antonio in Mercadello, le auto restano all’ingresso e magari vengono utilizzate anche per rinfrescarsi un po’, oltre che per spostarsi», racconta il sindaco Turci.

Chi è più a rischio, anche in questo caso, sono i bambini e gli anziani: «Sono quelli che si possono disidratare più facilmente perché bevono di meno», racconta Luisa Zappini della Protezione civile, responsabile del Campo Trento a San Felice sul Panaro. I distributori d’acqua posizionati all’ingresso della tendopoli che ha preso posto nella piazza del mercato funzionano a rotta di collo. «Acqua se ne consuma in quantità industriali – conferma Zappini – e noi passiamo continuamente nelle tende a distribuirne altra, a portare integratori».

Un’altra soluzione adottata da chi resta in tendopoli è quella di trascorrere la maggior parte del tempo negli spazi comuni: «Nelle nostre tendopoli sono stati anche installati degli ombreggianti, nella maggior parte dei casi nei tendoni mensa, che sono i più ventilati». Lì la temperatura scende un po’ di più e si riesce a trovare qualcosa di simile al refrigerio. Episodi di disidratazione o di malori sono stati comunque registrati: «Non cose gravi, ma per fortuna ci sono sempre a disposizione i Pma (Posti medici avanzati, ndr) a cui la gente può rivolgersi in ogni momento», aggiunge Egidi.

La situazione è questa «e non ci è possibile prendere il telecomando e cambiare canale», conclude amara Turci. Che trova pace al pensiero che nel suo comune, delle 3.300 case per le quali è stata fatta richiesta di verifica, «1.700 sono oggi agibili». Praticamente la metà. Avere la casa agibile ancora non significa sempre abitarla davvero, anche se pian piano, ad un mese dal sisma, si cerca di mettersi almeno un po’ la paura dietro le spalle e tentare di ricominciare a vivere normalmente.

l’Unità 01.07.12

Bersani: "Ora tocca a noi"

Dal Nord parte la riscossa civica. Bersani conclude i lavori del Forum delle Assemblee del Nord. “Quando dico che ora ‘tocca a noi’ non indico una pretesa, ma una sfida. Indico la volontà di non avere paura di metterci in gioco”. Così il segretario del PD, Pier Luigi Bersani ha introdotto il suo intervento al forum delle Assemblee delle Regioni del Nord, concludendone i lavori.

“Alle parole devono seguire i fatti” ha continuato il leader democratico. “Il PD non può guardarsi la punta delle scarpe ma essere uno strumento per il cambiamento del paese”

È evidente che siamo davanti ad un cambio di fase. Con l’impatto con la crisi la destra è arrivata ad un confuso e fiammeggiante tramonto. Il ciclo si sta finendo: il crollo del Pdl e della Lega è prezzo del fallimento di 10 anni di governo, un fallimento che adesso trascina con sé elementi di malcostume e di rapporti malati. Viene a compimento una forma sbagliata della politica: la politica del personalismo e del populismo. Ma i rischi non sono finiti perché potrebbero ripresentarsi sotto nuove forme di eccezionalismo. Tocca cambiare il sistema pena perdere altri dieci anni e più. Quello che abbiamo avuto ci ha portato nel luogo del disastro.

Quando dico che occorre restare larghi, intendo sapere affrontare le nuove sfide che si presentano come quella con Grillo. Al di là del messaggio che viene proposto, il nucleo di verità della sovrabbondanza di consensi di Grillo viene da un rifiuto verso la politica e dalla conseguente protesta.

Le spinte di protesta sono più cariche di domande che di risposte e questo è il tratto preminente una corrente di pensiero che ha fatto da base del populismo per troppo tempo: quello che conta sono le domande! Berlusconi ha governato cavalcando le domande finché non è arrivato contro un muro. Il Paese è abbastanza pronto per un progetto che parta dalla verità e dal tentativo di dare risposte?

Al nord tocca a noi! E per interpretare bene le esigenze del nord dobbiamo partire da dove si è sbagliato. Dopo dieci-quindici anni di governo del centrodestra non c’è un risultato qui. Hanno separato l’orgoglio del Nord dalla sua reponsabilità. Si è gonfiato il Nord a parole, ma lo hanno sgonfiato nei fatti. Questo riguarda tutti i nord, ovvero le parti dinamiche più forti del paese, chiamate a rispondere alla sfida globale e alle spinte di difesa e di protezione. È qui dove molti ceti sociali hanno subito l’incertezza se affrontare la sfida europea e mondiale o arretrare verso forme protezioniste. Nel passato la destra ha saputo vincere proprio perché, in nome della razionalizzazione del mercato, ha abbracciato e coltivato i soli mezzi difensivi e regressivi. Ma questo oggi è fallito e non è più realizzabile. I cavalli di battaglia sono stati sempre gli stessi: localismo, individualismo, il diverso è una minaccia, lo Stato è un ingombro. E con questa ideologia che si ripresenta oggi Maroni al congresso della Lega. “Prima il nord” è suo slogan. Io dico che se la pensi così, ci sarà sempre un nord più nord di te e per il quale sei un terrone! Per l’Italia, e anche per Maroni, i problemi maggiori nel consiglio europeo sono arrivati dalla Finlandia, guidata da un governo di destra. Non si puo’ dire, ‘prima il Nord’, semmai, “il Nord in sala macchine, nel posto davanti sul tandem” del Paese. Ma quelli della Lega non ragionano così, ma in modo regressivo. Basti pensare che si alzavano in Parlamento contro il contributo al solare perché il sole è al sud. Come se gli impianti del solare non li facessero al Nord…”.

La Lega in questi anni non è stata in grado di fare nessuna opera di sistema, di crescita, di infrastruttura ma solo politiche di localismo. Adesso non siamo più subalterni e tocca a noi. Il nord si deve prendere le sue responsabilità difronte ai problemi nazionali. Da oggi in poi si parla solo di Italia. Il “ci si salva da soli” è un’idea tramontata. E si deve parlare di Italia in un contesto sempre più europeo. Anche il risultato di ieri in consiglio europeo va in questa direzione: è il risultato tra forze progressiste e di sinistra e quelle moderate di un centro europeista.

Ci deve essere del buono anche al di fuori di noi, non si tratta solo di inglobare ma di crescere anche dando la mano. Accumulare forze per un cambio di passo. Il rinnovamento parte dalla politica che deve dare segni di sobrietà e saper riconoscere i propri limiti.

La legge elettorale deve essere il primo passo . Il giorno dopo le elezioni ogni cittadino deve sapere chi governa e chi lo rappresenta. Occorre una legge sulla trasparenza dei partiti; non bastano le operazioni di restyling, del nome del formaggino o la tecnica di comandare e fare tutto in proprio senza neanche candidarsi. Le conseguenze di questo modo di fare sarebbero allucinanti. Quale paese democratico vorrebbe una legge che garantisce solo i “listoni” dove non si sa più chi entra e chi esce.

Occorre prendere l’irrisolto che abbiamo alle spalle e affrontarlo in una chiave riformista e di battaglia. La crisi reale non sarà breve e la recessione si farà sentire. Ma dobbiamo ricordarci che otterremo fiducia solo se ci saremo, se saremo presenti. La buona politica non ci rimette anche se lavora dentro un disastro. Se ci sei ti viene perdonato anche l’inevitabile sbaglio. Se non ci sei non ti viene perdonato nulla. Noi oggi non abbiamo tutte le risposte ma ce poco da fare: dobbiamo esserci. Essere un partito popolare che va dove ci sono i problemi e si impegna a risolverli, ci mette la faccia.

Nel frattempo mentre diciamo e costruiamo il nostro progetto, non ci si tiri per la giacca. Siamo accoglienti, ci stiamo se ci sta anche l’altro. Ma se poi ci dicono che ci sta Grillo allora non va più bene. Siamo ragionevoli e abbiamo in testa l’Italia. Siamo riformisti, non populisti.

www.partitodemocratico.it

Prodi: «In Ue nuovi rapporti di forza. E l’Italia è tornata», di Simone Collini

Se il Consiglio europeo di giovedì e venerdì è riuscito a dare «una prima risposta concreta all’emergenza», se con le misure decise a Bruxelles si è recuperata quella «solidarietà» che finora era mancata nell’affrontare la crisi è perché, dice Romano Prodi, «è cambiato il fronte politico».
Grazie al cambio di governo in Francia?
«Ma non perché Hollande sia socialista. Semplicemente, la gestione solitaria franco-tedesca aveva fortemente indebolito la Francia».

Mentre oggi?
« È tornata a fare la Francia. E l’alleanza con Italia e Spagna, che parte da comuni interessi, ha cambiato il rapporto di forza del Consiglio europeo. Questo ha prodotto alcune decisioni che rovesciano la tendenza precedente di un’Europa sempre più frammentata, mentre ora è possibile un’ azione comune fra Paesi europei».

Forse fra alcuni Paesi contro la Germania, non crede?
«No, non avrebbe senso lavorare contro la Germania. È necessario dimostrare a Berlino che c’ è un fronte comune che ha piattaforme nuove ma accettabili per tutti. Se al Consiglio europeo ci fosse stata una rottura con la Germania ci sarebbe stata la fine dell’Europa. Invece è emerso un diverso rapporto di forza e la Germania ha capito che la piattaforma presentata non poteva essere rifiutata. La Germania è la prima a non avere convenienza alla rottura. Dall’Europa e dall’Euro sta guadagnando posizioni di forza e di ricchezza che prima non si sognava di avere».

Cos’ha fatto la differenza, all’appuntamento di Bruxelles?
«Un accordo stretto tra Francia, Italia e Spagna aveva spazio per potersi affermare. E così è stato». E cosa ha reso possibile l’accordo, visto che non si tratta di Paesi con governi politicamente simili? «Sono Paesi che hanno interessi simili. E che li interpretano. Sarkozy non interpretava gli interessi della Francia perché riteneva di poter reggere da solo il confronto con la Germania. Ai precedenti vertici, la Cancelliera tedesca dettava le conclusioni e il presidente francese faceva una conferenza stampa per comunicarle».

Prima c’era Sarkozy ma c’era anche, per quel che ci riguarda, Berlusconi: una valutazione dell’operato di Monti?
«Con Monti l’Italia ha capito che stando da sola perdeva. Berlusconi ha portato l’Italia in un angolo. E in politica se stai in un angolo non vinci neanche se ti chiami Merkel, figuriamoci se ti chiami Berlusconi».

Pare che Monti abbia minacciato il veto, pur di portare a casa il risultato: ha fatto bene?
«Quando in un club, in un consiglio di amministrazione, in un comitato politico cambiano i rapporti di forza, ciò non avviene con semplici atti di amore. Ogni cambiamento richiede un momento di durezza, un momento in cui si rende evidente che c’è un mutamento degli equilibri. Per questo è importante che Francia, Italia e Spagna siano andati insieme».

Difficile pensare che tre governi così diversi possano proseguire compatti e forse è meglio lavorare a rafforzare il fronte dei progressisti che tanto ha insistito sulla crescita, o no?
«L’insistenza sulla crescita è un’esigenza drammatica di tutti e tre quei Paesi. È vero che sono guidati da un governo tecnico, da uno di destra e da uno di sinistra. Però hanno tutti lo stesso problema, derivante da quella politica del rigore astratto che non teneva conto della realtà. È questo che ha portato alle difficoltà che abbiamo di fronte ed è questo che ha unito in un solo disegno tre governi di colore diverso».

Col vertice di Bruxelles si può dire alle spalle quella politica?
«Sicuramente col Consiglio europeo è cambiata la direzione. Poi la riunione dell’Ecofin del 9 luglio dovrà tradurre in pratica le decisioni assunte. Quel che deve essere però chiaro a questo punto è che le misure decise sono sì positive, però la risposta all’emergenza, pur necessaria, non è sufficiente. Non ci può cioè essere una Unione europea monetaria, finanziaria e politica stabile se non si passa attraverso tre elementari decisioni».

Che sarebbero…
«Il rafforzamento dei poteri della Banca centrale, gli Eurobond, cioè la condivisione del debito pubblico dei Paesi comunitari, e un bilancio europeo di dimensioni più adatte alle necessità dell’Europa».

Merkel ha sempre detto che finché ci sarà lei non ci saranno gli Eurobond.
«La Germania è ancora ferma su questo, ma ormai è chiaro che la direzione in cui andare è quella di una maggiore integrazione europea. Al vertice di Bruxelles sono stati posti rimedi a un deterioramento rapido, ma non abbiamo assolutamente chiuso con tutti i grandi problemi che ci stanno di fronte. Bisogna rafforzare la casa dell’Europa con quei pilastri che all’inizio non si sono voluti porre. Sapevamo fin dall’inizio che erano indispensabili, ma presto capii che per far ragionare i governi europei si sarebbe dovuto passare attraverso una crisi».

E però non dura da poco, questa crisi…
«Finora è stata attraversata con poca saggezza. All’ultimo vertice ne è arrivata un po’. Non basta per rovesciare la direzione della speculazione ma intanto accontentiamoci di quanto avvenuto e guardiamo all’aspetto politico emerso, perché quello è lo strumento che dovrà essere usato in futuro per i cambiamenti necessari».

Quanto al futuro nostrano: secondo lei il Consiglio europeo spazza via le ipotesi di voto anticipato?
«Ho sempre pensato che il governo Monti avrebbe cavalcato tutta la legislatura. Credevo prima e credo ancor più oggi che si arrivi a elezioni la prossima primavera».

Insomma bisogna aspettare il 2013 perché si torni alla normalità democratica?
«Questo governo è stato ed è approvato dal Parlamento, ha assoluta normalità democratica. È chiaro che siccome non esiste in occidente alcun sistema democratico che prescinda dai partiti, questi dovranno tornare ad avere un ruolo attivo. Ma al di là della condizione speciale che presenta questo governo la normalità democratica è indubitata».

La fiducia nei partiti è in costante calo: il motivo, secondo lei?
«Se i cittadini si allontanano dai partiti è perché assistono a comportamenti in cui l’interesse di appartenenza prevale rispetto all’interesse del Paese».

Parlavamo di normalità democratica: può esserci se si dovesse tornare alle urne col Porcellum?
«Occorre un cambiamento di legge elettorale se vogliamo una democrazia al servizio del cittadino e un governo stabile».

Nuova legge: di che tipo?
«Bipolare, o di tipo britannico o ancor meglio di tipo francese, con il doppio turno. Con una pluralità di partiti sono necessari raggruppamenti, in modo che l’elettore, al secondo turno, abbia di fronte un quadro chiaro e sappia per chi votare».

Cosa che con un sistema proporzionale non sarebbe possibile?
«Guardi, nello stesso giorno si è votato il primo turno in Francia e ci sono state le elezioni in Grecia. C’è stato circa lo stesso risultato, con le frange estreme che hanno pesato in egual modo. Ma in Francia si è poi creato un governo stabile, la Grecia è stata costretta a ripetere il voto. Mi sembra che una riflessione su questo sia da fare».

l’Unità 01.07.12

"I diritti, la Chiesa e la sessualità", di Nadia Urbinati

La repubblica di San Marino ha riconosciuto in questi giorni le convivenze tra omosessuali. Il riconoscimento è entrato attraverso la legge che stabilisce che il permesso di soggiorno nella repubblica del monte Titano verrà garantito anche al partner straniero in quanto convivente, senza specificazione di sesso e di legame matrimoniale. La legge approvata a larga maggioranza (e con l’opposizione della Democrazia Cristiana) è stata salutata dai sostenitori come un atto di giustizia che mette fine a una palese discriminazione. A questa vittoria di civiltà dovrebbero ispirarsi i democratici italiani. Tra i quali il tema del riconoscimento delle coppie omosessuali è ragione di divisione, di separazione laici e cattolici tradizionalisti. Le ragioni di giustizia sono una ragione di diritti uguali, un principio difficile da metabolizzare come le reazioni al documento del Pd sui diritti ha provocato (ragioni bene analizzate su questo giornale da Chiara Saraceno). La difficoltà riflette quella che è forse la più importante questione della modernità: la tormentata relazione del pensiero cattolico con il liberalismo dei diritti individuali.
In un pregevole studio su
Chiesa e diritti umani
appena uscito presso Il mulino, Daniele Menozzi ci offre una chiara mappa storica e concettuale di questa tormentata relazione. Il libro si chiude con la menzione del recupero in anni recenti (soprattutto sotto questo pontificato) della dottrina della legge naturale con l’intento ideologico di contrastare l’ideologia liberale, la sua difesa di principio dei diritti individuali, primo fra tutti quello della scelta in questioni morali. La filosofia della legge naturale, impressa da Dio nel cuore degli uomini e interpretata dalla Chiesa che ne è il custode supremo in terra, si propone esplicitamente come alternativa alla filosofia che, a partire dalla Dichiarazione dei diritti del 1789, si è imposta come la sfida più radicale al potere della trascendenza religiosa nella vita civile e politica. Cadute le ideologie totalizzanti che hanno mesmerizzato le società europee del ventesimo secolo, queste due letture dei diritti e della libertà – l’una tomistica e l’altra liberale– sono a tutti gli effetti le due visioni antagonistiche che si confrontano oggi.
La tensione non è peculiare al nostro paese, benché da noi si esprima con la forza di una tradizione religiosa che è largamente maggioritaria. Basti ricordare che il Presidente Obama, che qualche mese fa difese esplicitamente il riconoscimento delle unioni omosessuali, si è tirato addosso la condanna feroce dei cristiani di tutte le denominazioni, dagli evangelici fondamentalisti ai cattolici tradizionalisti. Una simile reazione, benché nei toni più civile e contenuta, si manifesta in Italia verso la proposta di Bersani di includere il riconoscimento delle coppie gay nel programma del Pd. L’obiezione all’interno del partito ha avuto nell’Onorevole Fioroni il suo portavoce. L’argomento usato da Fioroni è inquietante e consiste nel mettere su un piatto della bilancia le urgenze economiche che assillano la maggioranza degli italiani e sull’altro la proposta di sollevare le coppie omosessuali dallo stigma e dall’ineguaglianza di considerazione da parte dell’autorità pubblica. Di fronte all’erosione del benessere delle famiglie, ai problemi della disoccupazione, che senso ha preoccuparsi di una questione che pertinenze solo a una minoranza di italiani/e? C’è il rischio che questa strategia retorica sia efficace poiché in tempi di crisi i diritti possono apparire un lusso. Ma è pernicioso fare uso di questa strategia. I diritti individuali – di uguale considerazione e non discriminazione – non sono negoziabili, mai. Le esigenze economiche non valgono né devono valere a mettere un fermo ai diritti.
È comprensibile che un fedele che voglia essere coerente al magistero della Chiesa si senta a disagio con una cultura civile che mette il bene dell’individuo, la sua dignità di considerazione e la sua libertà di scelta morale, al primo posto, prima dell’interesse della comunità. Ma i diritti, quelli contenuti nella costituzione, non sono stati scritti per la maggioranza e nemmeno per proteggere una specifica comunità o particolari visioni della vita buona. I diritti sono stati scritti per le minoranze, per chi non ha altro baluardo contro la volontà della maggioranza se non lo scudo del diritto. E la democrazia moderna ha accettato di limitare la sfera di decisione della maggioranza per una ragione che è intrinseca: perché presume che è possibile che anche quelle persone che oggi sembrano non averne bisogno (perché la loro vita scorre lungo i binari della morale della maggioranza) domani potrebbero per le ragioni più disparate trovarsi ad essere minoranza. Poiché non possiamo ipotecare il futuro, i diritti individuali sono di tutti e per tutti, non di una minoranza; sono stati scritti proprio per impedire che il legislatore decida quando e con chi rispettarli. Senza di essi avremmo uno stato fondato sull’imperio della forza.
Tornando ai fondamenti ideali delle due culture, quella liberale e quella cristiana, la tensione riguarda quindi non la morale individuale, ma l’estensione del potere politico. Infatti che gli omosessuali o altre minoranze godano di diritti uguali non significa che lo Stato prescriva ai suoi cittadini di usare quei diritti. I diritti sono prescrittivi per lo Stato, non per il singolo. Dunque, il problema che angustia il cattolico tradizionalista non riguarda la scelta morale delle persone ma il comportamento dello Stato, il fatto che lo Stato faccia un passo indietro nella definizione di quale sia la giusta forma di convivenza o di scelta sessuale. Dietro alla tensione tra le due visioni dei diritti, sta la vera tensione, quella che riguarda il ruolo del pubblico. Rispetto al quale la Chiesa non intende abbandonare la sua millenaria missione di rendere la legge e la vita civile coerente al dettato, non di una costituzione politica, ma della dottrina religiosa. Il contenzioso è allora ben più radicale di quello che la discussione sui diritti delle coppie omosessuali implica. Anche per questa ragione, aprire un contenzioso sui diritti – quali e per chi – è inquietante.

La Repubblica 01.07.12

"Un piano per la Giustizia senza bavagli", di Antonio Ingroia

Quale deve essere oggi la priorità delle priorità nell’agenda politica nazionale? Domanda diretta che impone risposta altrettanto secca. Una risposta, a prima vista, perfino facile. Tutti direbbero, senza esitazione, che la priorità è la crisi economica. Una crisi che impedisce la crescita del nostro Paese, che sta mettendo a rischio l’euro e la stessa idea di Europa, e che avvilisce la quotidianità degli italiani. Non è un caso che la politica abbia fatto un passo indietro per cederlo a un governo di tecnici, qualificatissimi proprio per fronteggiare l’emergenza e rilanciare l’economia nazionale. E la Giustizia?
Dove collochiamo la Giustizia nella scala gerarchica delle priorità? L’impressione è che la comune opinione la faccia scivolare se non nel fondo, quanto meno a metà classifica. Un errore gravissimo che pagheremmo salato aggravando la stessa crisi economica.
Mi spiego. L’Italia è stata più volte condannata dalla Corte europea dei Diritti umani per l’ingiustizia dei tempi della sua giustizia. Troppo lunga la durata del processo, sia penale che civile. E pensate che sia indifferente per gli operatori economici sapere di non potere contare sull’efficienza di un sistema di soluzione del contenzioso civile e di un processo penale che li protegga dalle mafie e dalla pressione corruttiva di ogni sorta? Certo che no. Se chi deve investire sa di non poter contare su un’adeguata tutela giudiziaria per le vittime di reati e soprusi, indirizza i propri capitali altrove. E addio speranze di crescita…
Del resto, veniamo da una stagione, quella del berlusconismo delle leggi ad personam, anzi dovremmo dire ad classem, che ha creato ampie sacche di impunità, grazie al combinarsi dei vari ostacoli frapposti all’azione giudiziaria. Ostacoli che si sono risolti nell’allungamento a dismisura dei tempi del processo e nella cultura dell’impunità e dell’elusione della legge ben oltre il limite della decenza. Il che ha mortificato sempre di più l’immagine del nostro Paese agli occhi degli stranieri, investitori compresi, e delle nostre istituzioni agli occhi dei propri cittadini, dando luogo ad una sempre più allarmante disaffezione nei confronti dello Stato e della politica. Ed allora, se si vuole arrestare la deriva del Paese, occorre dare una sterzata alla politica della giustizia in Italia. Recuperare il terreno perduto, azzerare le nefandezze del passato per costruire un’Italia più giusta. Serve un nuovo «Piano per la Giustizia», iniziando a capovolgere le priorità. Alla priorità dell’impunità dei potenti che ha costituito il nocciolo della politica del diritto nel ventennio berlusconiano, contro la magistratura e la Giustizia, va contrapposta una priorità di supporto alla magistratura anziché di ostacolo, che venga incontro alle esigenze di giustizia dei cittadini. Una giustizia efficiente nelle garanzie, che dia risposte in tempi ragionevoli.
Occorre, insomma, una grande riforma della giustizia, articolata su alcuni punti forti. Innanzitutto un’urgente revisione dei tempi della giustizia, anche attraverso interventi drastici. Riforma della prescrizione, una «prescrizione lunga» il cui decorso inizi solo dal momento in cui viene scoperto il delitto e si interrompa con l’apertura del processo, dimostrativa della volontà statale di perseguire il (presunto) colpevole. Riforma delle impugnazioni, che possa contemplare l’abolizione dell’appello, e incentivazione dei riti alternativi che preveda l’esito dibattimentale come extrema ratio. Ma anche riduzione del contenzioso penale attraverso una robusta depenalizzazione dei reati minori, restituendo efficienza deterrente alle sanzioni amministrative alternative allo strumento penale. Il tutto, se accompagnato ad una razionale revisione delle circoscrizioni giudiziarie, senza remore nell’abolire sedi giudiziarie inutili, consentirebbe anche di recuperare personale per una più razionale politica delle risorse. E, a proposito di risorse, potenziamento degli strumenti di recupero del maltolto alla comunità da parte del mondo del crimine tutto, delle organizzazioni mafiose, ma anche della corruzione, e destinazione del confiscato, almeno in parte, allo stesso pianeta giustizia.
Riforma del diritto penale cominciando dalla riforma della normativa anticorruzione, ed il recente ddl in materia può essere solo un primo passo. Ma anche adeguamento della legislazione antiriciclaggio e del diritto penale economico per contrastare ogni forma di finanza criminale, delle mafie e dei colletti bianchi, a cominciare dal ripristino dell’incriminazione per falso in bilancio fino alla introduzione del reato di autoriciclaggio, così colmando una lacuna che agevola i riciclatori di professione delle grandi organizzazioni criminali. Riforma del codice antimafia per dargli reale efficacia anche su settori del tutto scoperti, ad esempio introducendo un efficiente reato di scambio elettorale politico-mafioso che sanzioni il patto politico-mafioso, oggi di fatto impunito.
La riforma della disciplina degli strumenti di investigazione deve indirizzarsi verso il suo potenziamento e non certo verso la neutralizzazione dei poteri della magistratura e delle polizia giudiziaria. A partire dai collaboratori di giustizia, fenomeno pressoché estinto perché vittima di una legge che, introdotta nel 2001, ha disincentivato la collaborazione, dove bisogna invece avviare un’inversione di tendenza per affrontare la nuova emergenza costituita dalla mafia politico-finanziaria. E scongiurare il pericolo all’orizzonte di rivitalizzare il progetto di legge-bavaglio sulle intercettazioni, magari strumentalizzando le polemiche sorte intorno alle legittime e doverose intercettazioni disposte in alcuni procedimenti in corso, come quello sulla cosiddetta «trattativa Stato-mafia», quando si è sostenuta la inopportunità» delle intercettazioni stesse, criterio di opportunità che però non può e non deve entrare nelle valutazioni giudiziarie. Inopportune semmai sono certe polemiche da parte di chi dimostra di conoscere poco gli atti d’indagine, benché ormai a disposizione di molti a seguito del deposito delle carte, quando si tratta, come in questo caso, di intercettazioni dimostratesi rilevanti rispetto al procedimento in corso perché contenenti risultanze illustrative di aspetti non secondari della vicenda oggetto dell’indagine. Ciò che più conta, anche per evitare esercizi di dietrologia, diventa allora non dare l’impressione di voler enfatizzare le polemiche per legittimare la rivitalizzazione di quell’ormai antico minacciato intervento legislativo sulle intercettazioni, equivalente ad un colpo di spugna della residua efficienza dell’azione di magistratura e forze di polizia contro ogni forma di criminalità occulta.

L’Unità 01.06.12

"L’alleanza e le pulsioni populiste", di Massimo Adinolfi

E’ stato detto che il populismo esprime, sia pure in modo distorto, un’esigenza di partecipazione che i meccanismi istituzionali della democrazia rappresentativa non riesce più a soddisfare. Può darsi sia così. Ma in tal caso credo sia giusto prendere un po’ di fiato e poi obiettare con il più classico degli: «embé?». Visto che per i populisti i ragionamenti sono sempre troppo intellettuali, immagino che la mia obiezione sarà apprezzata. Ma posso comunque provare ad articolarla meglio.
E cioè: nelle pulsioni populiste che percorrono le società contemporanee (non solo l’Italia) ci sarà pure del buono, anche se si esprime in modi decisamente meno buoni. Resta vero tuttavia che regole e istituzioni del gioco democratico sono essenziali e dobbiamo averne cura. Perciò direi: grazie per la precisazione sociologicamente corretta, nessuno demonizzi nessuno, ma lasciateci ancora compiere lo sforzo di mettere la politica nelle forme richieste da una democrazia parlamentare, con il senso delle istituzioni e dello Stato che ciò richiede, con il profilo di una forza di governo consapevole di impegni e responsabilità nazionali e internazionali, e, da ultimo, con la consapevolezza di dover costruire un futuro possibile per questo Paese. Pigiare ossessivamente il pedale della contrapposizione fra partiti, istituzioni, professionisti della politica, élites, caste e via denigrando da una parte e, dall’altra, il popolo o la gente di cui i movimenti populisti sarebbero diretta e genuina manifestazione, non è accettabile.
Lo schema di Bersani, ad ogni modo, discende da questo ragionamento. Che non è l’unico possibile, ma è quello proposto dal Pd. Il patto tra progressisti e moderati si inserisce infatti in questa delimitazione del campo di gioco, che ha una precisa linea di demarcazione nel rifiuto degli argomenti populisti contro l’Euro, contro le tasse, contro gli immigrati, contro il finanziamento pubblico ai partiti, contro i parassiti del pubblico impiego e, a detta del suocero di Grillo (se capisco), pure contro i sionisti cattivi.
Naturalmente, ci sarà sempre un populista come il comico genovese che traccerà una divisione diversa: fra il Palazzo e i cittadini, fra i partiti incistati nelle istituzioni e movimenti al fianco dei cittadini tartassati, ma sarà, per l’appunto, la rappresentazione di un populista che lucra su questo schema.
E oramai Di Pietro deve decidere se intende adottarlo oppure no. Se infatti si torna a discutere di alleanze non è per l’inguaribile deriva politicista dei partiti, ma per i pencolamenti dell’Idv, che non ha ancora chiaro se deve inseguire Grillo e gridare più forte di lui, o se accetta invece la proposta politica del Pd. E, cosa curiosa, sembra non averlo chiaro neppure Vendola. Il quale ovviamente ha tutte le ragioni di chiedere di discutere con il centrosinistra di contenuti e programmi, ma deve pure mostrare qualche preoccupazione per l’agibilità dello spazio politico in cui quei programmi dovranno essere realizzati.
Vendola tituba, Di Pietro si spolmona, il tutto perché Bersani sembra avere occhi solo per Casini. Ma non mi pare che le cose stiano così. Stanno anzi al contrario: invece di avere occhi per il proprio posizionamento presso l’elettorato, preoccupati del crescente consenso dei grillini, bisogna che la strana coppia scommetta su una nuova stagione della democrazia italiana e sulla ricostruzione civile del Paese, piuttosto che sulla maniera in cui approfittare della fine poco gloriosa della seconda Repubblica. Lascino a Grillo e a suo suocero il compito di fare di tutte l’erbe un fascio. Alla fine, si scoprirà che i più legati al passato, al berlusconismo e all’Italietta sono proprio i nuovissimi populisti: urlatori quando si parla di quel che è stato, privi di voce quando si tratta del futuro.

l’Unità 01.07.12

Nelle tendopoli sfiancate da Caronte “Durante il giorno impossibile resistere”, di Jenner Meletti

La signora Vittorina esce dalla tenda vestita di tutto punto. «Più tardi c’è la Messa », dice. La borsetta in una mano, un ventaglio nell’altra. «Il caldo? C’è sempre stato. Certo, fossi a casa mia…». Una casa di campagna, crollata assieme alla stalla. «Anche nell’ora più calda, sotto il noce, si stava sempre bene. E facevo corrente, fra la cucina e la cantina. I muri erano forti, tenevano fuori il freddo e il caldo». Adesso è arrivato Caronte e la nuova «casa», la tenda della Protezione civile, sembra ancora più fragile. Si usa ogni mezzo, in questa guerra fra i terremotati e il caldo che toglie il respiro. In ogni tenda c’è il condizionatore e molte sono coperte dagli «ombreggiatori ». Ma basta entrare in una di queste case di tela per sentirsi soffocare. «Durante il giorno — dice Marco Cestari, responsabile della Protezione civile di Finale Emilia — non puoi resistere. Con otto persone, dopo poco tempo, anche con il condizionatore devi cambiare l’aria, e se apri la porta o la finestra entra la vampata di calore».
Trentatré gradi a mezzogiorno, poi il termometro sale. I display dei distributori di benzina segnano anche 42 e 44 gradi. Qui a San Felice la tendopoli delle scuole medie è in un parco, a Finale la tendopoli 2 è sul cemento di una pista di pattinaggio. «Può sembrare strano — racconta Samir Abou Merhé, il medico coordinatore sanitario di Mirandola e dei Comuni vicini — ma ad essere colpiti dai colpi di calore sono più i volontari che i terremotati. Se devo fare una statistica, su 10 persone colpite da insolazione ben nove sono volontari o addetti ai lavori. Operano sotto il sole, per montare tende o altri servizi, oppure si trovano sotto una lamiera davanti a pentoloni giganti per dare da mangiare a 500 persone ».
Dopo 40 giorni di tenda ci sono già le abitudini. Ogni anziano sceglie il suo «posto fisso» — a fianco di un container, sotto un
albero, accanto alla tenda dell’infermeria — per cercare una fetta d’ombra e un filo d’aria. «Non abbiamo avuto drammi — spiega il dottor Abou Merhé — anche perché gli anziani più fragili, con l’intervento della Regione, sono stati mandati in montagna o al mare. Con loro anche le famiglie con molti bambini. Ma ci sono anziani che non vogliono andare lontano da casa. Dormono in tendopoli così ogni giorno possono andare a vedere il loro appartamento, oppure vivono in un camper nel giardino di casa. Noi andiamo ad assistere anche quelli. I medici di base non hanno più l’ambulatorio ma sono ogni giorno nei campi a fianco dei loro pazienti. Con il sisma, si è rotta però un’alleanza che sembrava inattaccabile: quella fra gli anziani e le loro badanti. Molte di queste donne sono scappate, dopo le grandi scosse e solo poche sono tornate. Per ora gli anziani sono assistiti al mare o in montagna, o sono in tenda assieme ai loro familiari, ma quando torneranno a casa non avranno più l’assistente romena o moldava». «Ogni mattina — racconta Mario Ferrari, capocampo a San Felice — le infermiere entrano nelle tende degli anziani — qui da noi sono una cinquantina — per misurare la pressione, vedere se ci siano casi di disidratazione. Abbiamo avuto un caso stamane, è bastata una flebo per risolvere la situazione». Il caldo porta però tensione e nervosismo. Basta guardare i nomi scritti sulle tende, come fossero campanelli di un condominio. Angiolina, Umberto ed Elvira sono in tenda con Kaur, Singh e Hamza. «Dopo tanti giorni — racconta Fernando Ferioli, sindaco di Finale Emilia — la convivenza si fa difficile. Ma questo succederebbe anche se tutti fossero italiani. Non puoi passare giorni e giorni senza fare nulla, come sono costretti a fare centinaia di cassintegrati e disoccupati. Per togliere l’ansia e la tensione, bisogna dare risposte precise a chi chiede quando riaprirà la fabbrica, quando potrà tornare a casa e soprattutto chi pagherà i danni. Per martedì noi sindaci siano convocati in Regione e il presidente Vasco Errani ci dirà in che percentuale lo Stato rimborserà i soldi per la ricostruzione. Solo così potremo sapere se possiamo ripartire o no. Io per l’emergenza ho già speso 3 milioni che non ho. Per abbattere un solo condominio ho speso 85.000 euro più Iva. Dallo Stato non è ancora arrivato un soldo. Da un paesino dell’Abruzzo, Opi, mi hanno mandato 650 euro, in contanti. Sono 60 abitanti in tutto. Mi hanno fatto piangere».

La Repubblica 01.07.12