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Torri e chiese, i sindaci: «Subito le verifiche». di Chiara Affronte

Campanili, chiese, torri. l’Emilia Romagna ne è costellata e le cittadine colpite duramente dal terremoto ne sono un esempio. Queste torri simbolo con gli orologi fermi all’ora delle scosse e questi monumenti rischiano di diventare un problema vero per la ricostruzione. Così, oltre al dolore nel vedere sbriciolarsi davanti a se’ la propria identità di cittadini, oggi queste stesse città trovano nei monumenti storici un ostacolo per la ripartenza.
Luisa Turci, sindaco di Novi, la cittadina che il 3 giugno ha perso la sua torre con l’orologio, lo dice chiaramente: «un esempio: una casa agibile non può essere abitata perché le pende sopra un campanile che sta per crollare; i proprietari sono arrabbiatissimi perché i giorni passano e nessuno sta facendo nulla». Le zone rosse della città colpite dal terremoto coincidono con i loro centri storici costellati di monumenti vincolati dalla soprintendenza per i beni culturali e paesaggistici dell’Emilia-Romagna. Zone che potrebbero e dovrebbero essere mano a mano ristrette per ripartire perché da un monumento vincolato dipende la rimessa in agibilità di molti altri edifici. «Ne ho parlato proprio qualche minuto fa con il presidente Vasco Errani – racconta il sindaco Turci, che con il sisma ha visto crollare la
sua abitazione – per porgli questo come prioritario tra i tanti temi». Lo stesso allarme viene lanciato anche dal collega di Cavezzo, Stefano Draghetti: «la gente vuole ripartire: se aspettiamo i tempi standard delle soprintendenze non usciamo più da questo circolo vizioso. Chiederò alla soprintendenza un progetto per poi avere dal dipartimento della protezione civile le autorizzazioni a procedere». La “velocità” di valutazioni tecniche e interventi è la richiesta che arriva anche dal sindaco di Mirandola Maino Benetti: «è evidente che la ricostruzione finirà tra qualche anno e noi abbiamo pensato di indire una gara di idee internazionale per cogliere nel dramma l’opportunità di fare qualcosa di innovativo. Ma adesso abbiamo bisogno che si sblocchino quei casi in cui il monumento costituisce un pericolo, dove impedisce di rientrare nelle abitazioni, nelle attività, e dove, come accade nel caso della nostra chiesa di san francesco,
addirittura siamo stati costretti a chiudere una strada provinciale creando difficoltà alla mobilità e ai soccorsi». Alberto Silvestri, primo cittadino di San Felice è preoccupato soprattutto per il susseguirsi delle scosse: «le operazioni di verifica ripartono in continuazione perché il terremoto non ci dà tregua». La Rocca crepata, simbolo di questo sisma, verrà messa in sicurezza nei prossimi giorni, perché se dovesse cadere sarebbe un vero disastro. La replica della soprintendenza Carla di Francesco, a capo della direzione regionale dei beni culturali e paesaggistici, tuttavia, non accetta proprio che le si dica che non si sta lavorando celermente. Il problema è un altro, avverte: «siamo di fronte ad una situazione mai vista in terremoti precedenti. In questo sisma è stata colpita una quantità inimmaginabile di campanili e chiese nelle cittadine, nelle frazioni: chi ha operato in Abruzzo mi dice che la situazione non è paragonabile». I campanili soprattutto, Di Francesco lo conferma, costituiscono la vera priorità: «almeno 40 sono “in crisi”, per una decina abbiamo trovato soluzioni, due sono stati abbattuti, uno di questi era recente,metà 900 e non sottoposto a vincoli». Cerchiature, bloccaggi sono gli interventi che vengono predisposti: «le celle campanarie sono state molto danneggiate ma sono certa che nei prossimi mesi si porrà il problema dei muri delle chiese, delle abitazioni: sono molte le case che dall’esterno sembravano intatte ma che abbiamo scoperto essere distrutte all’interno». Sono due le modalità attraverso cui la direzione regionale predispone gli interventi: «con l’aiuto e l’intervento dei vigili del fuoco, laddove è possibile».
Ma, proprio nell’ottica della velocità degli accertamenti tecnici, Di Francesco ha chiesto l’aiuto di “tre saggi”:Carlo Blasi dell’Università di Parma, Angelo Di Tommaso, professore emerito di Bologna, e Claudio Modena di Padova che stanno procedendo a fornire indicazioni di recupero o modalità di conservazione.
«Corriamo come dannati – sbotta Di Francesco – e bisogna rendersi conto che si tratta di un tema di grossa responsabilità e di una casistica enorme». In alcuni casi poi, racconta, «il campanile ci ha tolto ogni problema, come è accaduto nel caso di quello bellissimo di San Francesco a Mirandola che è proprio scomparso
del tutto. un dispiacere grande».

l’Unità 11.06.12

"Anticorruzione, la migliore riforma possibile", di Carlo Federico Grosso

Se il governo chiederà davvero la fiducia sul ddl anticorruzione, e se la Camera l’approverà, ci troveremmo di fronte ad un’ulteriore «tacca» che l’esecutivo potrebbe inserire nel suo carnet di provvedimenti positivamente assunti nell’interesse del Paese. La riforma non è, in astratto, la migliore possibile. Di fronte al dilagare della corruzione sarebbe stato opportuno essere più drastici: ripristinando la vecchia durata della prescrizione, vergognosamente accorciata dalla legge ex Cirielli; reinserendo (o inserendo ex novo) reati utili a colpire le provvigioni di denaro «nero», usuale premessa per l’esecuzione di operazioni corruttive (recupero di reati quali il falso in bilancio, repressione più pesante delle false fatturazioni, introduzione del reato di autoriciclaggio); prevedendo minimi di pena più elevati; disciplinando in maniera più incisiva talune fattispecie (pur opportunamente introdotte nel nuovo testo legislativo) come la corruzione tra privati e il traffico d’influenze.

In concreto, l’articolato proposto costituisce tuttavia uno dei testi «migliori» praticabili nell’attuale, difficile, contesto politico.

Esso adempie, finalmente, agli impegni internazionali assunti dallo Stato italiano (Convenzione contro la corruzione delle Nazioni Unite, Convenzione di Strasburgo); rispetto alla legislazione vigente rafforza in modo rilevante gli strumenti di prevenzione e repressione contro la corruttela; sotto diversi profili si allinea ai meccanismi di contrasto utilizzati dalla maggior parte delle legislazioni europee.

In questo contesto, nell’impossibilità «politica» di realizzare una legislazione ancora più incisiva, è preferibile fare saltare l’intera riforma (in attesa di ipotetici tempi «migliori») ovvero approvare la soluzione «compromissoria», ma tutto sommato equilibrata, elaborata dal governo? Personalmente non avrei dubbi: poiché il disegno di legge prevede l’introduzione d’istituti amministrativi di forte impatto nella lotta alla corruzione e rafforza, pur con diverse timidezze, l’attuale livello della repressione penale, perché soprassedere, rinunciando a un significativo passo avanti nella lotta alla corruzione?

Per dare, sia pure brevemente, conto dell’utilità di approvare il progetto mi sembra opportuno riassumere alcuni dei suoi profili qualificanti. Il ddl prevede d’introdurre, in attuazione dell’art. 6 della Convenzione delle Nazioni Unite e degli artt. 20 e 21 della Convenzione di Strasburgo, una «Autorità nazionale anticorruzione» deputata a realizzare attività coordinata di controllo e di prevenzione della corruzione e ad approvare un «Piano nazionale anticorruzione» in grado di programmare il contrasto dei fenomeni corruttivi; assicura trasparenza alle pubbliche amministrazioni prescrivendo la pubblicazione sui siti istituzionali delle informazioni relative ad ogni procedimento amministrativo; prescrive la pubblicità delle posizioni dirigenziali in modo da rendere palesi gli assetti decisionali delle pubbliche amministrazioni; prevede norme a protezione dei dipendenti pubblici che riferiscano condotte illecite; prevede norme di controllo delle imprese esposte al rischio d’infiltrazioni mafiose; prevede, novità davvero rilevante, l’adozione di norme in tema di divieto a ricoprire cariche elettive e di governo conseguente a sentenze definitive di condanna.

In materia penale prevede a sua volta un aumento pressoché generalizzato delle sanzioni (ancorché non sempre adeguato alla gravità di ciascun illecito previsto); introduce (sia pure in modo perfettibile) alcuni nuovi reati, come il traffico d’influenze illecite, particolarmente importante per colpire indebiti arricchimenti di pubblici ufficiali sganciati dal compimento di specifici atti di ufficio, e (sia pure con una configurazione non del tutto adeguata alla pluralità degli interessi offesi) la corruzione tra privati; per effetto degli aumenti delle sanzioni determina un allungamento (sia pure non sufficiente) dei tempi della prescrizione di buona parte dei reati previsti.

Perché allora, come dicevo, non approvare un progetto che, ancorché perfettibile, contiene comunque norme che migliorano, e di non poco, lo standard della nostra legislazione anticorruzione?

Rimane, a questo punto, un’unica obiezione, riguardante il cosiddetto «spacchettamento» del delitto di concussione. Si tratta di questo. Nel ddl anticorruzione la «induzione» a dare o promettere utilità al pubblico ufficiale (oggi punita come concussione al pari della «costrizione» a pagare usando violenza o minaccia) viene estrapolata dal delitto di concussione e prevista come reato autonomo. Con questa innovazione s’intende trattare come vittima del reato (e pertanto come soggetto non punibile) soltanto chi paga la tangente perché «costretto», e punire invece chi si è lasciato semplicemente «indurre» a farlo. L’innovazione tende a rendere più incisiva la disciplina anticorruzione, evitando ampliamenti non giustificati dell’ambito d’impunità di chi, nella sostanza, è concorrente nel reato e non vittima dello stesso (si badi che in nessun altro Paese europeo si prevede il delitto di concussione per induzione: il privato «indotto» è sempre punito a titolo di concorso in corruzione).

Ebbene, si sostiene dai critici più accesi, con questa innovazione il governo tecnico, cedendo alle pressioni del Pdl, e con l’avallo del Pd, favorirebbe, nei fatti, Berlusconi, imputato di concussione per induzione del processo Ruby, in quanto i suoi difensori, dopo l’approvazione della riforma, avranno buon gioco nel sostenere che il reato di concussione per induzione è stato abrogato e che, pertanto, il loro assistito deve essere conseguentemente assolto.

Tecnicamente, quest’obiezione non sta in piedi. Il reato d’induzione a pagare tangenti al pubblico ufficiale, se la riforma dovesse essere approvata, non risulterebbe abrogato, ma sarebbe, semplicemente, previsto come un reato autonomo; in base ai principi vigenti in materia di successione di leggi penali, trattandosi di cambiamento della disciplina di un fatto che era, e continua ad essere, reato, troverà applicazione la norma penale più favorevole al reo. Berlusconi, ove venisse riconosciuto colpevole dei fatti ascrittigli, dovrebbe essere pertanto in ogni caso condannato, tutt’al più con una pena leggermente inferiore.

La Stampa 11.06.12

"Reddito, scende quello degli operai. Bene gli autonomi", di Marco Ventimiglia

Il fine settimana è ormai divenuto la sgradita occasione per fare il punto su quegli aspetti della crisi per i quali manca il tempo di soffermarsi nei giorni lavorativi, “schiacciati” da un’attualità economica sempre più drammatica. E così l’ultima domenica è coincisa con la diffusione di un poco incoraggiante studio di Bankitalia sul reddito reale delle famiglie e di un’altrettanto pesante indagine dell’Istat sulla disoccupazione giovanile, entrambe tratte dalle rispettive Relazioni annuali. Cominciamo da Via Nazionale e dalle sue rilevazioni sul reddito relative al periodo 2000/2010, uno studio dal quale emerge una crescita media di appena del 6,2% (da 18.358 a 19.495 euro), però con differenze rilevanti a seconda delle categorie prese in considerazione. Infatti, se nei nuclei con capofamiglia lavoratore autonomo il reddito è cresciuto del 15,7%, nelle famiglie di operai, apprendisti e commessi il reddito è diminuito nel decennio del 3,2%. Ed ancora, Bankitalia mette in evidenza che il reddito reale equivalente disponibile nelle famiglie di dirigenti è cresciuto dell’8% mentre in quelle di pensionati del 9,8%. Dati che cambiano faccia se si restringe lo sguardo al periodo della crisi, con un calo che risulta più consistente non solo per il reddito reale disponibile delle famiglie di operai (da 14.485 euro del 2006 a 13.249 del 2010 con un -8,5%) ma anche per quello delle famiglie di dirigenti (passate da 35.229 euro del 2000 a 43.825 del 2006 e a 38.065 del 2010 con un calo negli ultimi quattro anni considerati del 13,1%) e dei lavoratori autonomi (da 28.721 a 26.136 euro con una riduzione del 9%). Hanno relativamente tenuto, dal 2006 al 2010, i redditi reali delle famiglie di impiegati, quadri e insegnanti (da 21.344 euro a 21.311) mentre hanno avuto un lieve avanzamento i redditi dei nuclei con capofamiglia pensionato (da 18.579 a 19.194 con un +3,3%). DIFFERENZA GEOGRAFICA Impressionanti i numeri relativi alla distribuzione sul territorio: il reddito medio disponibile delle famiglie era nel 2010 di 22.758 euro nel Centro Nord e di 13.321 euro nel Sud e nelle Isole. «I dati di Bankitalia ci dicono che c’è un impoverimento del Paese e, soprattutto, di progressiva diseguaglianza dei redditi degli italiani», ha commentato Susanna Camusso. Il segretario della Cgil ha poi ribadito che «il rigore non ci permetterà di uscire dalla crisi e bisogna sostituire le politiche di rigore con politiche di investimento e di ridistribuzione del reddito, tassando di più i grandi patrimoni e alleggerendo il peso fiscale sui lavoratori dipendenti e sui pensionati». Quanto all’Istat, i suoi dati evidenziano una volta di più il divario record tra tra il tasso di disoccupazione giovanile e quello totale. In particolare, nel nostro Paese i giovani che risultano disoccupati sono 808mila mentre coloro che non studiano e non lavorano, sono oltre 2,1 milioni, vicino ai livelli della Spagna. Ed ancora, il tasso di disoccupazione dei 18-29enni, dopo una costante discesa tra il 2000 e il 2007, ha subito un’impennata nel corso degli ultimi quattro anni raggiungendo nel 2011 il 20,2%, un punto percentuale al di sotto del picco che si registrò nel 1997. Se si guarda al divario tra il tasso di occupazione dei 18-29enni e quello generale della popolazione tra i 15 e i 64 anni, dopo essere rimasto stabile tra il 1993 e il 2002 si è andato progressivamente allargando fino a raggiungere nel 2011 i 15,9 punti percentuali con tassi di occupazione rispettivamente al 41 e al 56,9%. Infine, i giovani che in Italia non studiano e non lavorano superano di molto la media europea (22,1% nel 2010 contro il 15,3%). Nel dettaglio, l’incidenza è più alta rispetto alle altre grandi nazioni europee come Germania (10,7%), Regno Unito e Francia (14,6% entrambe) ed è simile invece a quella della Spagna (20,4%).

l’Unità 11.06.12

"Il lavoro: giovani per la pensione, vecchi per un posto a 40 anni con l’incubo della disoccupazione", di Roberto Mania

Scarti a 40 anni. Scarti dopo aver perso un lavoro e non riuscirne a trovare un altro. Scarti. Quella degli over 40 espulsi dal mercato del lavoro rischia di diventare presto una nuova emergenza sociale. Perché non ci sono solo i giovani precari del lavoro. Secondo alcune stime sarebbero quasi un milione e mezzo i disoccupati e gli scoraggiati cosiddetti “maturi” (età media 45 anni), troppo giovani per la pensione, troppo vecchi per una nuova occupazione stabile. Con una differenza: i giovani possono tornare (e in molti casi lo fanno) alla famiglia d’origine, i “vecchi” hanno moglie e figli da mantenere e un mutuo da pagare.
Il 65% dei disoccupati over 40 è capofamiglia, l’80% è uomo. È una vita che finisce quando si viene licenziati a 40 anni e passa. Ne comincia un’altra dominata dall’incertezza. Meno del 5% ritrova un lavoro solido. Non si torna più indietro. È uno sconquasso, anche emotivo. Gli esodati, nuova categoria sociale prodotta dall’ultima durissima riforma delle pensioni, ci hanno mostrato un pezzo del fenomeno in carne ed ossa che altrimenti sarebbe rimasto in chiaroscuro. Come in tutti questi anni mentre in silenzio si ingrossavano, dalla fine degli anni Novanta, le file degli over 40 senza lavoro: disoccupati, mobbizzati, scoraggiati, precari, discriminati, sommersi, invisibili, poveri e, infine, abbandonati. Gli ultimi figli del baby boom, vittime della globalizzazione che ha dettato anche i tagli al welfare state nazionale. Aggrediti nella propria identità. Perché «il lavoro – ha scritto il sociologo Luciano Gallino – non è soltanto un mezzo di sussistenza. Il lavoro rimane ed è destinato a rimanere per generazioni un fattore primario di integrazione sociale ».
IL TURN OVER
A metà degli anni 80 l’economista torinese Bruno Contini studiò il processo di sostituzione del personale all’interno delle aziende italiane attraverso la leva dei contratti di formazione e lavoro, incentivati dagli sgravi fiscali e contributivi. Parlò allora di “old out, young in”: i giovani assunti al posto degli anziani espulsi. Quasi un patto tra padri e figli, un patto non proprio raffinato, ma un patto.
«Oggi non ha più senso parlarne – dice Contini – . Oggi continuano ad esserci gli old out, ma non ci sono più i giovani che entrano nelle imprese. Da più di dieci anni a questa parte, il ricambio è scarsissimo. Gli over quaranta senza lavoro sono uno dei nuovi soggetti della precarietà. Molti di loro sono entrati nel mercato del lavoro con i contratti flessibili, e sono rimasti precari ». Stefano Giusti è un cinquantenne. Vive a Roma. È il presidente di Atdal, l’associazione per la tutela dei lavoratori over 40. È laureato in sociologia. Nel 2004 si ritrova senza lavoro: chiude la società con cui collaborava. «Nessun problema, mi dissi. Figuriamoci se non trovo un altro lavoro! Mi sbagliavo. Cerco, ma non trovo nulla per quasi un paio d’anni. Qualunque lavoro. Faccio il cameriere, l’addetto dei call center, il giardiniere. Faccio di tutto, ma non tutti mi vogliono. Un giorno vedo un cartello affisso sulle vetrine di un negozio di calzature: “Cercasi commesso”. Eccomi! Il titolare mi chiede il curriculum e quando glielo porto mi fa:
“Ma lei è laureato. No, non me la sento di prenderla”». Perché l’85% dei disoccupati over 40 – secondo Atdal – è in possesso di una laurea o di un diploma di scuola media superiore. Sa usare il computer e conosce l’inglese. Ma alle aziende non interessa: è vecchio. Qualche anno fa la Sda Bocconi ha effettuato una ricerca sugli annunci di lavoro pubblicati sui quotidiani. Quasi il 43% delle inserzioni indica un vincolo anagrafico e nell’87% dei casi è inferiore ai 44 anni. In media si cerca personale con un’età compresa tra i 24 e 34 anni. Gli altri sono out. Ma gli annunci che escludono gli anziani sono contro le leggi europee recepite in Italia e che vietano le discriminazioni anche per l’età.
UOMINI A RISCHIO
Per gli uomini è peggio che per le donne. Perché gli uomini non sanno gestire l’insuccesso sociale. Molti ricevono la lettera di licenziamento ma non lo dicono a nessuno, nemmeno alla moglie. Fingono di continuare a condurre la vita precedente. Raccontano innanzitutto a se stessi una grande bugia che allunga e complica il recupero dopo lo shock della perdita del lavoro. «Che – spiega Laura Menza, psicologa del lavoro, impegnata da anni tra i disoccupati maturi – è un trauma pari a
quello di un lutto. I disoccupati maturi hanno una serie di responsabilità sulle proprie spalle: la famiglia, i figli da mantenere, spesso i genitori anziani da sostenere. Privati del lavoro non possono più affrontare queste responsabilità. È la perdita di una parte di sé. All’inizio c’è l’incredulità e, soprattutto tra gli uomini, si coltiva un senso di colpa: ho perso il lavoro, è colpa mia. C’è un senso di vergogna. Si frantuma la propria identità. Si perde l’autostima».
Quello che rimarcano di più i disoccupati over 40 è il senso di abbandono che sono costretti a vivere. Le istituzioni evaporano perché nei fatti i centri per l’impiego non funzionano e il sostegno al reddito (cassa integrazione o mobilità) non è per tutti (solo un lavoratore su quattro è protetto). «Per l’azienda sei diventato un nemico dopo che gli hai dato tutto per anni », dice Aurelio D., 55 anni, che per una cessione di ramo d’azienda (settore delle consulenze) si è ritrovato senza niente dalla sera alla mattina. E il sindacato? «Quando sei licenziato non c’è più il sindacato ». Resta, anche in questo caso, la famiglia nei casi in cui l’altro coniuge lavora. E la famiglia regge se c’è «una situazione ben strutturata», spiega ancora Menza. Altrimenti si frantuma, pure sul piano affettivo. «Almeno nel 30% dei casi finisce con la separazione». Poi c’è la rete informale, i rapporti di amicizia, quei pochi fili che non si rompono e tengono in collegamento gli ex colleghi. «Ora lavoro all’Università – racconta Giusti -. Ho trovato un contratto a termine grazie alla segnalazione di un mio amico. Scado a luglio. Poi si vedrà».
TREND IN CRESCITA
Pure l’ultimo Rapporto dell’Istat certifica che i contratti a termine crescono tra gli adulti: nel 2011 la quota dei 30-39enni sul totale degli occupati a termine è stata pari al 12,6 % e quella dei 40-49enni all’8,8 % (erano, rispettivamente, il 7,7 e il 5,3% nel 1993). Nella maggioranza dei casi, l’over 40 licenziato si trasforma da dipendente a partita Iva forzata, diventa consulente. Si mette in proprio. È un modo per ricostruirsi un’identità sociale. Spesso per non rivelare di essere disoccupato. Da qui lo scarto tra i numeri dell’Istat che per gli over 40 registra nel suo ultimo Rapporto 846 mila disoccupati (erano 540 mila nel 1993) e le stime di Atdal che parla di almeno 1,5 milioni.
Inviare il curriculum non serve a niente. Lo sanno tutti, eppure tutti lo fanno. Marco N. ha 54 anni, da quasi dieci è in cassa integrazione a zero ore. È un informatico che non ama l’informatica. Il suo sogno professionale rimane quello di fare il ferroviere, «macchinista, operatore, qualunque cosa tra i binari». «Ho mandato il curriculum a Ntv di Montezemolo anche in inglese. Nessuna risposta: vogliono solo giovani». Il paradosso, nel continuo sordo declino italiano, è che questi over 40 senza lavoro sentono di contare meno, nel dibattito pubblico, dei giovani precari. Eppure l’età media dell’elettore italiano coincide proprio con la loro. «Ma noi – sostiene Aurelio – non blocchiamo il traffico ferroviario, non saliamo sui tetti, non incendiamo i cassonetti. Noi siamo invisibili».

La Repubblica 11.06.12

"Per fronteggiare la crisi serve un Piano del Lavoro", di Laura Pennacchi

Il dinamismo impresso da Bersani all’iniziativa politica del Pd con la proposta congiunta «carta di intenti/primarie aperte» rilancia l’elaborazione valoriale, progettuale, programmatica, nel cui ambito le problematiche di medio periodo dovranno inevitabilmente misurarsi con quelle immediate. L’emergenza economico-sociale da fronteggiare è di proporzioni immani. Se guardiamo alla catastrofe che incombe sulla Grecia e al possibile dilagare della crisi bancaria spagnola, vediamo che non è sconfitto il rischio di una deflagrazione dell’euro e dell’intera Europa. La recessione avanza in tutti i Paesi europei e in Italia il cui Pil si prevede crolli nel 2012 fino al -2% non abbiamo ancora raggiunto l’apice perché il picco negativo è atteso verso la fine dell’anno e nei primi mesi del 2013, quando entreranno in vigore le misure di austerità recessiva già prese nel 2011. E il governo Monti si è impegnato ad adottare se niente varierà nel quadro istituzionale, per esempio con un rinvio nel raggiungimento del pareggio di bilancio ben altri 40 miliardi netti di manovra finanziaria. A dare la misura della gravità è l’esplosione della disoccupazione: dei 56 milioni di persone senza lavoro nel mondo per diretta conseguenza della crisi più della metà si concentra in Europa e di questa quasi un terzo in Italia (7-8 milioni sommando ai disoccupati espliciti i cassintegrati e gli scoraggiati). Una situazione eccezionale imporrebbe politiche economico-sociali eccezionali, quale può essere un «Piano straordinario per la creazione diretta di lavoro per giovani e donne», ispirandosi al New Deal di Roosevelt, come fa esplicitamente Obama negli Usa. Questa scelta rappresenterebbe la giusta alternativa anche alla sbagliata perché assistenziale e meramente «risarcitoria», non autenticamente «promozionale» parola d’ordine del «salario sociale» che torna ad aleggiare nella sinistra radicale. Il punto è che per trattare lo sconvolgimento epocale che la crisi globale sta provocando non bastano strategie difensive, occorre una rivoluzione culturale. Oggi assistiamo a un’ondata di rigetto verso il capitalismo deregolato, ma essa non costituisce un’alternativa. Al contrario, sono in gioco modelli di economia e di società con diverse implicazioni in termini di occupazione, di diritti fondamentali di cittadinanza, di regolazione dei mercati, di gestione dell’economia, di riforma della pubblica amministrazione, di modellazione delle visioni dell’impresa, di legittimazione della tassazione e della redistribuzione. A fronte di tutto ciò si manifesta l’inadeguatezza del governo Monti, soprattutto in termini di profilo culturale, la cui insufficienza è già emersa con la vicenda pensionistica. Per la quale la questione degli «esodati» i 300.000 stimati dovendo essere correlati a leve di pensionamento di 100.000 persone annue si configura non come un semplice «buco» ma come il verdetto di «fallacia» dell’intero disegno di riforma (senza dire che nulla dei 20 miliardi di risparmi in pochi anni viene destinato ad affrontare il vero problema lasciato insoluto dall’efficace processo riformatore precedente, e cioè le basse prestazioni pensionistiche future per i lavoratori oggi giovani). In generale, il mix «rigore più liberalizzazioni», nell’affidare il rilancio della crescita solo all’approfondimento concorrenziale del mercato interno, ripropone una visione «ordoliberale» a la Hayek secondo cui l’imputata spiazzante l’investimento privato è sempre la spesa pubblica specie sociale, ridurre la quale sarebbe il prerequisito primario per liberare l’offerta, sollecitare la concorrenza e la competizione, stimolare l’investimento privato e così alla fine attivare magari dopo una ventina d’anni la crescita. Al contrario, oggi abbiamo bisogno di un «big push», una grande spinta, possibile solo con un eccezionale intervento pubblico. Oggi si riproducono condizioni analoghe a quelle studiate da Keynes: la distruzione di valore patrimoniale netto e l’illiquidità feriscono tutti gli operatori, gli investimenti crollano e i profitti flettono, la riduzione del reddito e la disoccupazione di massa scaturiscono dalla trasmissione delle turbolenze finanziarie all’economia reale e dalla deflazione da debito, anche la liquidità creata dalle politiche non convenzionali della Bce non prende la via degli investimenti. Bisognerebbe ricordare che Keynes negli anni ’30 giunse a parlare di «socializzazione dell’investimento», che più tardi Minsky non a caso riscoperto ora anche dall’Economist riprese come «socializzazione della banca» (e Obama crea oggi una banca pubblica per le infrastrutture) e «socializzazione dell’occupazione».

l’Unità 11.06.12

“Nessuno è al riparo dal contagio” Monti in pressing sulla Merkel su investimenti e project bond, di Francesco Bei

È sabato pomeriggio quando lo spettro di un attacco speculativo contro i titoli italiani si materializza sugli schermi al plasma del ministero dell’Economia. E’ in corso la conference call dei ministri dell’eurozona, chiamati al capezzale di Madrid per evitare una bancarotta come la Grecia, ma è l’Italia ad angosciare di più le cancellerie europee. E sono proprio i rappresentanti del governo tedesco – con Monti collegato da Milano e il viceministro Grilli nella sede di Roma – a far saltare l’ultimo tabù, dichiarando esplicitamente la loro preoccupazione per il rischio di un «contagio » dell’Italia. La situazione è estremanente grave e già questa mattina, all’apertura dei mercati, Monti, Grilli, Moavero e tutta la squadra che in questi giorni sta affrontando l’emergenza, avrà gli occhi incollati ai monitor per verificare se gli investitori si fidano di quell’ultimo firewall da 100 miliardi di euro eretto a favore di Madrid.
Perché nel governo ne sono tutti consapevoli: «Dopo la Spagna ci siamo noi». Con l’accettazione del mega-prestito europeo Madrid si è aggiunta infatti all’elenco di Grecia, Irlanda e Portogallo, paesi già in amministrazione controllata. E’ saltato così l’ultimo paesecuscinetto che ci separava dalla speculazione. I prossimi siamo noi. E un fallimento del piano europeo per le banche spagnole suonerebbe come una campana a morto anche per il nostro paese.
Per questo l’attenzione a palazzo Chigi è molto alta. Certo, Monti è «molto soddisfatto» per la soluzione trovata, dopo mille esitazioni, anche grazie alla mediazione italiana. E tuttavia nel governo non si nascondono che «il prestito da 100 miliardi non risolve affatto i problemi di fondo spagnoli». Si rincorrono le voci di un altro imminente abbassamento del rating da parte di Moody’s, dopo che già l’agenzia Fitch ha portato il livello del debito pubblico spagnolo a “BBB”, un gradino sopra la «spazzatura» greca. Entro la fine dell’anno Madrid dovrà rifinanziarsi per 82,5 miliardi di euro, con un picco alla fine di ottobre, mentre le regioni autonome sono gravate di un’ulteriore soma da quasi 16 miliardi di euro da mettere all’asta nella seconda
metà del 2012.
Con questi pensieri in mente, oggi il presidente del Consiglio riceverà a palazzo Chigi il leader del Pasok, Evangélos Vénizélos. Un incontro chiesto dal greco, per dare una mano (vista la credibilità di Monti all’estero) nell’ultima, decisiva, settimana di campagna elettorale. Ma che servirà al Professore per rendersi conto di persona di quali sono le previsioni in vista del voto di domenica prossima. La questione greca rende infatti insonni le notti di Monti. «La scintilla che potrebbe innescare l’incendio – spiega una fonte di governo – è proprio quel voto. Se dalle urne uscisse una situazione di caos politico, sarebbe inevitabile l’uscita di Atene dall’euro, con conseguenze catastrofiche per tutti». In questa situazione di estremo pericolo una nota positiva, che ha fatto rallegrare il premier, è stato il risultato del voto di ieri in Francia. E’ stata infatti scongiurata la “coabitazione” tra l’Eliseo e una maggioranza ostile in Parlamento, condizione che avrebbe grandemente indebolito Hollande costringendolo a contrattare tutto con i gollisti. Mentre è proprio sulla sponda con la Francia socialista che si basa parte della strategia elaborata a palazzo Chigi. «Grazie all’intesa con Hollande – è il ragionamento del premier – possiamo davvero coinvolgere la Germania al prossimo consiglio europeo». Intanto il presidente francese volerà a Roma giovedì per mettere a punto le ultime mosse con Monti in vista del G20 in Messico, quando entrerà in campo, per insistere con la Merkel, anche Barak Obama. «La cancelliera tedesca – ha spiegato Monti in privato – fa la dura perché deve affrontare le elezioni nel 2013, ma noi non possiamo aspettare così tanto. Serve una svolta subito». Per l’Italia infatti dal Consiglio europeo di giugno, oltre alla road map verso un’unione politica e di bilancio, dovranno uscire decisioni concrete: la tanto attesa golden rule (ovvero la possibilità di scorporare la spesa per gli investimenti dal calcolo del deficit) e i project bond. Sui quali il discorso sarebbe già molto avanti, riferiscono fonti di palazzo Chigi, «ma non bisogna fare proclami altrimenti i tedeschi sono costretti a smentire».
L’agenda della settimana è comunque fittissima, gli appuntamenti si susseguono.
Mercoledì toccherà a Monti saggiare il grado di convinzione dei tedeschi in un bilaterale a Berlino con il ministro delle Finanze Wolfgang Schaeuble. In realtà il Professore passerà il pomeriggio nella capitale tedesca per ricevere il premio di «leader europeo» dell’anno conferitogli dalla European School of Management and Technology. E la “laudatio” sarà pronunciata proprio da Schaeuble. Ma i due si vedranno a quattr’occhi prima della cerimonia. E nel governo anticipano che la riunione potrebbe trasformarsi in una sorta di eurogruppo informale, chiamando in conference call altri ministri e leader europei. Un caminetto nell’ora più grave
dalla nascita dell’Ue.

La Repubblica 11.06.12

"Mozart e Abbado grande successo della solidarietà", di Caterina Giusberti

Un teatro gremito, per Claudio Abbado e per i terremotati. Senza vip, né habitués perché i 1.234 posti del teatro Manzoni di Bologna, che ieri ha ospitato la “Prova di solidarietà” voluta dall’Orchestra Mozart con “La Repubblica delle idee”, andati a ruba in sole 72 ore, li hanno acquistati ragazzi, giovani, anziani, coppie di fidanzati. Un pubblico popolare, come di rado si vede ai concerti di musica sinfonica, popolare e informale, come informale era ieri sera anche l’Orchestra, con i suoi giovani musicisti vestiti in jeans e t-shirt.
È a questo pubblico che si è rivolto il direttore di Repubblica, Ezio Mauro, nel presentare la prova generale che l’Orchestra Mozart ha voluto aprire a tutti (il concerto sarà stasera) in segno di solidarietà con le persone colpite dal terremoto in Emilia, a fianco della “Repubblica delle idee” che da giovedì a domenica riempirà i palazzi e le piazze di Bologna. «Siamo e saremo a Bologna perché stiamo con l’Emilia», ha esordito il direttore dal palco, applaudito da una platea composita, tante giovani coppie ma anche famiglie di tutte le età, dai 30 agli 80 anni. Felici di avere i biglietti in mano — a ciascun ingresso è corrisposta un’offerta
minima di 20 euro devoluta alla Regione Emilia-Romagna per la ricostruzione — felici di partecipare, felici di dare un contributo. Alla fine sono stati raccolti 31.160 euro. «Quelle torri sbeccate, quelle chiese crollate, quei portici feriti — ha detto Ezio Mauro — sono un pezzo dell’Italia civile. Qualcosa verso cui noi sentiamo non da oggi
un impegno. Per questo oggi siamo tutti impegnati nella ricostruzione. Tanti sindaci mi hanno chiesto di spostare questo appuntamento nella loro città. Io ho detto a tutti di no. Abbiamo scelto di fare questa rassegna a Bologna per il peso culturale che questa città ha sempre avuto in Italia e nel mondo e perché è stata tra l’altro una delle prime ad ospitare una redazione locale del nostro giornale. Ribadiamo oggi ancora di più la scelta di Bologna perché vogliamo riaffermare con forza il nostro impegno e la nostra fiducia per una città e una regione colpita dal terremoto ».
Poi le parole hanno lasciato spazio
alla musica. Alle note della Missa Solemnis K 139 di Mozart, la “Messa degli Orfani” composta a soli 12 anni, e alla Messa in Mi bemolle maggiore D 950 di Schubert, la sua ultima, composta nell’anno della morte precoce. Un concerto intenso, emozionante. Per ricordare, come ha scritto Claudio Abbado su questo giornale, che «la ricostruzione non deve tralasciare i luoghi dell’arte e dei teatri, perché la cultura è parte integrante e fondante di quel tessuto sociale che ora è lacerato dal sisma». E proprio dalla cultura, lo dicevano ieri i volti in platea, si può attingere la forza di ripartire.

La Repubblica 11.06.12

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