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"Terremoto, nasce il marchio EmiliAmo: 100 donne imprenditrici e negozianti unite per fare business", di Paolo Bricco

Se cento vi sembran poche. Sono le donne del cratere. Le mogli e le mamme, ma anche le imprenditrici e le negozianti. Della Bassa Modenese e dell’Alto Ferrarese. E, appena fuori dal raggio della morte e della distruzione del terremoto, di Modena. Si sono riunite dando vita al network EmiliAmo. «Non vorremmo sembrare delle sentimentali disorganizzate – dice la loro coordinatrice, Claudia Miglia, di professione consulente aziendale – in realtà siamo delle pragmatiche organizzate. La scelta del nome, dal nome Emilia e dal verbo amare, risponde a una precisa scelta di branding: abbiamo creato un marchio che garantisca una sorta di certificazione di qualità».

Una certificazione di qualità finalizzata a due precise attività economiche: la vendita dei prodotti degli esercizi commerciali oggi chiusi per il terremoto e la pressione sulla politica nazionale e locale perché la ricostruzione avvenga con il recupero dei centri storici, cuori pulsanti oggi feriti di queste comunità economiche e civili.

«Stare insieme ci fa bene – racconta Claudia – ma soprattutto ci permette di reagire con forza a qualunque ipotesi di sciacallaggio. Con il marchio EmiliAmo vogliamo vendere i prodotti delle nostre aziende. Vestiti, scarpe, profumi, borse, prodotti agroalimentari. In questa maniera, ci sottraiamo a qualunque speculazione che, dall’esterno, qualcuno volesse provare a fare: i prezzi saranno giusti, nessuno potrà venire qui a imporre quotazioni ridicole». Dalla prossima settimana, sarà attivo anche il portale www.emiliamo.it, che appunto servirà a fare e-business, etico e a tutela delle imprenditrici emiliane, dei beni strappati ai magazzini e ai negozi danneggiati dal sisma. Dice Susanna Benatti, titolare di tre negozi di profumeria e di pelletteria a Mirandola, Cavezzo e San Felice sul Panaro: «Un altro obiettivo di EmiliAmo è trovare tutte insieme dei luoghi dove ricominciare a fare business. Ora abbiamo bisogno di piccoli centri commerciali e capannoni dove riorganizzare la merce e dove tornare a incontrare i nostri clienti e le nostre clienti. Naturalmente, si tratta di un obiettivo temporaneo. Per noi è fondamentale tornare nei centri storici».

Qui nella Bassa Modenese e nell’Alto Ferrarese, nessuno vuole la ripetizione del modello dell’Aquila. È questa la frase che ripetono tutti, in particolare le professioniste e le piccole imprenditrici del network EmiliAmo: «I centri storici sono un pezzo fondamentale delle nostre vite. Io avevo sei mesi, quando mia mamma aprì la prima erboristeria a San Felice sul Panaro», racconta Silvia Ferrari, che con la sua famiglia ora ne ha due. La prima è completamente distrutta. La seconda ha meno danni, sembra agibile, ma si trova nella zona rossa del borgo. Silvia dorme in macchina dal primo giorno, ma si ritiene fortunata perché può rientrare in casa a mangiare e a farsi la doccia, a differenza di quanto capita a tanti altri emiliani. «L’obiettivo della vendita online dei prodotti e della moral suasion a favore del rientro nei centri storici è fondamentale – spiega Silvia Ferrari – ma è altrettanto importante per noi, in questa fase, stare insieme, muoverci, fare delle cose, sentirci unite. Noi emiliane siamo così».

Il SOle 24 Ore 10.06.12

"Rai, le nomine alla prova dei veti del Pdl in Vigilanza", di Natalia Lombardo

All’indomani della spiazzante mossa di Mario Monti con le nomine di altri super tecnici alla guida della Rai, è incerto l’esito di tutta la partita, che potrebbe essere ostacolata dai meccanismi della stessa legge Gasparri che il premier ha rinunciato a cambiare per i veti del Pdl.
Un match si aprirà in commissione di Vigilanza tra il 12 e il 20 giugno, considerato il fatto che il Pd, con Pier Luigi Bersani, è rimasto sul punto: davanti a nomine «credibili», come quella di Anna Maria Tarantola, «non faremo mancare il voto,mai partiti non devono partecipare alle nomine e quindi, per quanto riguarda i nostri, non li nominiamo».
Il Pd, quindi, si tiene fuori dal Cda, ma permetterà che la presidente designata raggiunga i due terzi dei voti, 27 su 40. Ammesso che nasca un nuovo Cda, il Pdl potrebbe però fare le barricate sul nuovo direttore generale indicato da Monti.
Lorenza Lei, la dg che fino all’ultimo era convinta di vivacchiare in proroga fino alle elezioni, da venerdì sera ha fatto fuoco e fiamme, raccontano da viale Mazzini, telefonando furiosa a Silvio
Berlusconi e agli altri referenti, da Paolo Romani a Gasparri, fino a Oltretevere. Prova ne sia la raffica di dichiarazioni del Pdl, in testa il segretario Alfano: bene il nome della presidente ma «perché togliere Lorenza Lei?». Il bocconiano Monti una gaffe l’ha fatta, quella di dire che Luigi Gubitosi è «direttore generale», saltando le procedure formali, come hanno fatto notare
Gentiloni, Merlo, Vita del Pd e, con toni più bellicosi, il Pdl. Palazzo Chigi ha poi recuperato: solo una «intenzione di presentare» la candidatura. Perché il dg viene nominato con un voto dal Cda, «d’intesa» con l’azionista che deve ratificarlo nell’assemblea, poi viene rivotato in consiglio.Un Cda che ancora non c’è, e qui si nascondono gli «agguati» della legge Gasparri sui quali mette in guardia in un tweet l’ex consigliere Rai, Nino Rizzo Nervo. Quindi i berlusconiani nel Cda potrebbero bocciare il montiano Gubitosi. E anche la riforma dello Statuto Rai (per dare più poteri al presidente, come varare con il dg contratti fino a 10mila euro) deve essere votato da una maggioranza nel Cda e con gli azionisti. Ora i passaggi sono questi: il 13 l’assemblea degli azionisti formalizzerà le nomine di Marco Pinto consigliere fiduciario del Tesoro (al posto del forzista Petroni) e la presidente Tarantola. Poi martedì il presidente della Vigilanza, Sergio Zavoli, convocherà l’ufficio di presidenza per aprire i seggi verso il 20. Se il Pd non voterà i suoi, Pdl, Lega e Terzo Polo potrebbero votare da soli i sette consiglieri se avranno il numero legale. Nel Pd non tutti sono d’accordo, ma la segreteria è convinta che l’unica via sia cambiare la Gasparri. L’Udc apprezza a gran voce Tarantola (vicina al cardinale Bertone) e ripropone Raffaele De Laurentiis come consigliere; per l’Italia dei Valori i nomi sono «indigeribili» e non dà per scontato il sì alla presidente (al Senato ci sono da tempo quattro interrogazioni sulla numero due di Bankitalia). Di Pietro parla di «commissariamento mascherato in Rai» e oggi in una lettera a Zavoli chiederà un’audizione di Tarantola e l’esame dei curricula
dei consiglieri, dopo «la vergognosa spartizione» sulle Authority. La Lega potrebbe chiedere al Pdl il voto su Caparini. I berlusconiani non rinunciano alle nomine, (sperando nell’en plain, di sicuro confermando Verro e Rositani), a meno che non vogliano fare un bel gesto e puntare su candidature neutre, ma sembra difficile.
Nulla è scontato, e in Rai c’è molta preoccupazione. Lucia Annunziata non mette in discussione la scelta di due «persone rispettabilissime» fatta con la logica della «solidità di gestione», come ha detto Monti, ma, avverte l’ex presidente, «la crisi di gestione dalla Rai dipende dalla crisi del prodotto, e non viceversa». Perché è un’azienda «culturale» che «ha perso smalto» e ascolti e che potrebbe indebolirsi ancora se i tagli
colpiranno il prodotto, dall’informazione alla fiction, ai nuovi canali. A giugno si fermano i talk show Rai, per la gioia di Sky e La7: «Con la guerra del Golfo rivoltammo tutti i palinsesti», ricorda Annunziata, «ma l’attuale crisi europea è meno grave?».
Preoccupato Carlo Verna, segretario Usigrai: «Perché il Consiglio dei ministri ha deciso le nomine? Non era un decreto per cambiare la governance, Monti avrà voluto dare un segnale ai partiti, ma così ha reso la Rai dipendente dal governo di turno, un precedente pericoloso».

l’Unità 10.06.12

"Politica industriale, un dossier chiuso da oltre dieci anni", di Paolo Bonaretti

Siamo all’allarme rosso. La crisi che la manifattura sta attraversando rischia di mettere in discussione l’identità e il ruolo che il nostro Paese ha nell’economia mondiale, lasciando di fronte a noi una prospettiva di vuoto. La crisi dell’industria sta compromettendo gravemente la competitività del lavoro e delle imprese italiane, dell’insieme della nostra economia, i livelli occupazionali, di consumo e di reddito delle famiglie, del sistema di welfare ed in generale della coesione sociale del Paese. L’indice della produzione industriale scende di quasi 2 punti in un mese e del 9,2% su base annua, il peggior risultato degli ultimi anni. Ma il dato più preoccupante, ormai drammatico è che l’indice, sta scendendo ormai ininterrottamente da 12 mesi senza alcun segno di rallentamento, anzi. Insomma, ci siamo ormai dimenticati della timida ripresa della produzione del secondo semestre del 2011 e ci ritroviamo ancora sotto di 16 punti (!) percentuali rispetto al livello del 2005: un disastro. Un ruolo esiziale lo ha giocato e lo gioca la colpevole assenza di un quadro di riferimento per le politiche industriali. Il dossier della politica industriale italiana rimane ormai inesorabilmente chiuso da oltre 10 anni (fatta salva l’apprezzabilissima ma breve eccezione del secondo governo Prodi con Industria 2015, poi boicottata e affossata). Gli altri Paesi europei in questi anni hanno investito tra i 12 (la Francia ) e i 15 miliardi all’anno (la Germania) per stimoli di politica industriale, prevalentemente dedicati alla innovazione e allo sviluppo della ricerca e del lavoro della conoscenza. Questa settimana la Cina ha annunciato un programma di stimoli per 300 miliardi. L’Italia da almeno 5 anni zero; sia per la dimensione finanziaria sia per la definizione di un quadro strategico di priorità, traiettorie e strumenti. Encefalogramma piatto. La discussione degli ultimi 8 mesi sulla crescita è paradossale, mentre ogni giorno le imprese e i lavoratori cadono sul campo, si intavolano interminabili minuetti tra ministeri, su regole contabili e conflitti di competenze, giochi delle tre carte sulle risorse e sui fondi. E quando qualche voce dissonante, viene anche dal mondo delle imprese, allora il premier si impermalosisce e lamenta la mancanza di appoggio dei poteri forti. Se voleva essere ironico non gli è riuscita bene: nessuno oggi ha voglia di ridere. Il problema non è se Passera ha i soldi e Grilli non glieli vuole dare. Il problema è che Passera non ha offerto alcun concreto quadro di riferimento prioritario e strategico che possa supportare il «rinascimento dell’ industria» e che il Tesoro è contrario a qualsiasi misura di politica industriale attiva. La discussione sul credito di imposta per la ricerca ne è un esempio. La proposta del Ministero dell’Economia diffusa a mezzo stampa (plafond di 25 milioni!) è offensiva per l’intelligenza degli italiani e per le imprese che seriamente stanno investendo in innovazione ed internazionalizzazione. Il credito di imposta per la ricerca è una misura per sua natura strutturale. Le “coperture” non possono dunque essere ricercate se non negli effetti stessi che la misura genera, non possono essere definiti tetti di spesa. Il Presidente Monti dovrebbe tenere la catena molto più corta ai nostrani cani da guardia del rigore e dell’austerità, altrimenti saranno lui e il suo governo a subire un crollo irreversibile di una credibilità (peraltro già compromessa non poco) presso il mondo dell’impresa e del lavoro. È l’ora di fare immediatamente delle scelte di politica industriale. Il credito di imposta sulla ricerca senza vincoli assurdi. Una politica industriale ecologica per diventare il Paese più competitivo sui prodotti a basso uso di energia e materie prime. La scelta di settori e programmi strategici e l’investimento sulla crescita la ricerca e innovazione delle imprese: nella chimica verde, nella conversione energetica e ambientale del costruito, nella mobilità sostenibile, nello sviluppo intelligente delle comunità e delle città. Nella ricostruzione innovativa e internazionalizzata delle filiere del made in Italy. Bisogna fare anche scelte innovative e forti: superando la strozzatura del credito trasformandone parte in capitale di rischio, incentivando ulteriormente la crescita dimensionale e l’aggregazione delle imprese. Certo ci vogliono anche risorse, l’industria e il lavoro industriale non possono aspettare, il pareggio di bilancio invece, se non si farà nel 2013 si farà nel 2014. Certamente non si farà mai se le entrate fiscali continueranno a scendere. Il nostro è un Paese manifatturiero, sappiamo produrre con capacità tecnologica, lavoro qualificato e creatività, è quello che sappiamo fare e fare bene; è la nostra storia e il nostro futuro, non possiamo né vogliamo rinunciarvi.

l’Unità 10.06.12

"Il testimone di Berlinguer", di Claudio Sardo

L’11 giugno di 28 anni fa moriva a Padova Enrico Berlinguer. Il suo tratto umano, la sua passione politica, il suo impegno rigoroso sono ancora nel cuore di tanti italiani. Anche di giovani che lo hanno conosciuto solo attraverso letture e racconti. Anche di cittadini delusi che oggi guardano alla politica con distacco e sfiducia. Il mondo, l’Italia sono profondamente cambiati da allora. Ma le idee di Berlinguer e la sua eredità conservano un grande valore. Politico, non solo etico. È vero che Berlinguer era comunista e che, entro quell’orizzonte ideale ha combattuto la battaglia della vita prima della caduta del Muro, ma era un comunista italiano. E di questa storia originale, di questa cultura fondativa della nostra vicenda costituzionale, di questo affluente che ha innervato e contribuito ad ampliare il circuito democratico del Paese, Berlinguer ha espresso le punte più avanzate. Ne è stato un traino. Ha raccolto un testimone e lo ha portato avanti, molto avanti.
La memoria, la storia sono parti costitutive della politica. Non sono mai separate dalla battaglia dell’oggi. Le stesse idee di rinnovamento, proprio perché propongono e preparano un cambiamento, non possono non contenere una lettura della storia. Altrimenti cosa vorrebbe dire innovare? Cancellare il passato e far finta che il mondo possa ricominciare da zero? Questa semplificazione «nuovista», purtroppo, è stata più volte riproposta nella cosiddetta seconda Repubblica. L’oblio della storia, il taglio delle radici costituzionali, la condanna implicita dei partiti popolari sono stati indicati come la catarsi necessaria per approdare nella modernità. Il nuovismo è diventato parte dell’ideologia di questi anni. E in questo penoso epilogo di seconda Repubblica si torna alla carica.
Non a caso la polemica tra gli storici si sta facendo più intensa. Non a caso tanta attenzione viene oggi riservata ad Antonio Gramsci (l’autore italiano più letto nel mondo dopo Dante Alighieri): si vuole separare Gramsci dal nucleo originario e vitale del comunismo italiano e far apparire Palmiro Togliatti come un passivo esecutore dei diktat staliniani, in questo modo togliendo al Pci la caratura e la dignità di soggetto promotore della ricostruzione democratica, e soprattutto tagliando ogni radice che possa arrivare fino a noi. Per fortuna Giuseppe Vacca ha da poco dato alle stampe un bellissimo libro su Gramsci, che contiene importanti risposte con le quali l’intera comunità scientifica dovrà confrontarsi.
Ma a ben guardare anche la memoria di Aldo Moro continua ad essere sottoposta a un trattamento spietato: la polemica sulla prigionia e sulla trattativa ha quasi oscurato agli occhi dei contemporanei la lezione politica e civile dello statista, che più di ogni altro ha guidato l’allargamento delle basi democratiche e incarnato la peculiarità del cattolicesimo politico italiano. In questo caso le mode nuoviste si sono mescolate con un’indulgenza culturale delle nostre élite verso i terroristi, come ha coraggiosamente scritto Miguel Gotor.
Berlinguer, è vero, è stato in parte risparmiato da tanto aggressivo revisionismo. Era comunista, tuttavia era troppo dentro la modernità per poter subire un trattamento come quello di Togliatti o di Moro. Si è cercato però di depotenziare il suo messaggio, estraendo solo la «questione morale» e cercando di piegarla ad una invettiva contro i partiti. Quasi che lui, comunista, fosse un precursore dell’antipolitica. Berlinguer invece va riletto per intero. È un segno di rispetto, ma è anche il modo per ricevere di più dalla sua testimonianza. Il Berlinguer dell’austerità come leva di un nuovo sviluppo. Il Berlinguer della democrazia come valore universale (discorso pronunciato a Mosca, nel 60esimo della Rivoluzione d’ottobre). Il Berlinguer della laicità e del dialogo con i cattolici nella lettera a monsignor Bettazzi. Il Berlinguer del compromesso storico. Il Berlinguer del movimento di liberazione delle donne. Il Berlinguer dei nuovi bisogni e dell’emergenza ecologica. Il Berlinguer della diversità.
La questione morale fu la grande intuizione e il grande assillo degli ultimi anni della sua vita. Il blocco del sistema politico, seguito alla fine tragica della solidarietà nazionale, aveva iniziato a produrre quei fenomeni corrosivi che avrebbero poi portato al collasso della prima Repubblica. Berlinguer li comprese in anticipo. Ma la sua fu sempre, innanzitutto, una denuncia politica finalizzata a produrre un cambiamento reale. Del resto, il blocco del sistema era stato la risposta al progetto nel quale lui e Moro, muovendo da sponde diverse, avevano creduto.
Ricordare Berlinguer oggi non è, dunque, solo un atto di omaggio che ci consente di alzare la testa dall’affanno quotidiano. È parte della battaglia politica per il centrosinistra di domani. Perché la polemica sulla storia riguarda anzitutto il Pd, la sua natura, la sua identità. Il Pd è davanti a un bivio: cedere ad un nuovismo senza radici oppure progettare il futuro sentendosi parte viva della migliore storia nazionale. Rassegnarsi ad una società di individui, senza autonomia dei corpi intermedi e senza vere battaglie sociali, oppure essere ancora il «partito della Costituzione» e del cambiamento.

L’Unità 10.06.12

"Catene alle pareti e check up delle crepe ecco il piano per salvare le case a rischio", di Elena Dusi

“Ridurre la vulnerabilità del patrimonio edilizio”, come chiede la Commissione Grandi Rischi, non è pensabile nel bel mezzo di un’emergenza. Nei paesi colpiti dal sisma è molto più urgente proseguire con la messa in sicurezza degli edifici pericolanti. Ed è questo che i tecnici sul campo continuano a fare, per nulla distratti dall’allarme di venerdì del governo. «Sapevamo anche prima quali sono i rischi che corriamo. Dopo una scossa possono ripetersene altre ed è in questa prospettiva che valutiamo se dare o meno l’agibilità delle case. Il nostro lavoro non è cambiato dopo il documento della Commissione. Semmai, notiamo più ansia tra la popolazione» spiega Alberto Borghesi, architetto del Servizio geologico sismico dell’Emilia Romagna. E c’è un aspetto che gli ingegneri sismici puntualizzano all’indomani dell’allarme del governo. Il comunicato della Grandi Rischi sottolineava infatti che “i valori dello scuotimento del terreno sono compatibili con i valori della mappa di pericolosità sismica”. Ma Alessandro Martelli e Paolo Clemente, esperti di ingegneria antisismica dell’Enea, fanno presente che le normative per costruire in Emilia Romagna prevedono uno scuotimento orizzontale massimo del terreno pari a 0,15 volte la forza di gravità. «A Mirandola e dintorni – fanno presente i due ingegneri – lo scuotimento ha raggiunto un valore di 0,3». Cioè il doppio. «Sarebbe ora di fare prevenzione in maniera seria, non di lanciare allarmi quando ormai siamo in mezzo a uno sciame sismico» chiede Martelli.

La Repubblica 10.06.12

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“Ma per capannoni e chiese ci vorranno tempi lunghi”

COSA fare ora? Il governo venerdì ha lanciato l’allarme: tra Finale e Ferrara potrebbero verificarsi nuovi forti sismi. «Mettere catene in ferro sulle pareti è una misura semplice ma efficace» dice Alberto Borghesi del Servizio sismico dell’Emilia Romagna. «Basta fare due fori con un trapano e fissare una barra sulle pareti per evitare che si aprano». Massimo Forni, l’ingegnere dell’Enea che fa parte del Comitato Operativo della Protezione Civile a Bologna, invita a tenersi alla larga da chiese e capannoni. «Questi edifici si sono rivelati molto vulnerabili. E, soprattutto per le chiese, rimediare in tempi brevi sarà difficile. Per le abitazioni, la popolazione dovrebbe fidarsi dei tecnici. Ho passato una serata a convincere gli abitanti di due caseggiati di Cento che il crollo dei comignoli e le crepe nelle strutture non portanti non sono pericolosi. Ma l’annuncio del governo ha fatto crescere la paura»

“Il primo nemico è il panico bisogna preparare la gente”

Mancanza di informazione e di “cultura sismica” hanno causato molti dei danni. «All’ospedale di Cento — spiega Massimo Forni, ingegnere dell’Enea — il 90% dei feriti si era fatto male scappando. Avevano urtato, erano scivolati o si erano gettati dalla finestra». Ma a chi si trova in un terremoto si consiglia di non scappare se l’uscita non è vicina. E a fare attenzione a quell’area vicina alla porta in cui tegole, vasi o cornicioni possono precipitare. «Quando non c’è conoscenza, è il panico a vincere» sostiene Forni. «Trasformiamo questa grande paura in cultura della prevenzione» chiede Alessandro Martelli, ingegnere antisismico e direttore del centro Enea di Bologna. «In Emilia Romagna non c’è memoria storica dei terremoti » spiega Alberto Borghesi del Servizio geologico regionale. «Ora che abbiamo scoperto il problema anche da noi, non facciamoci più cogliere impreparati».

Squadre di tre super tecnici per concedere l’agibilità

Valutare l’agibilità delle case è un lavoro rischioso, soprattutto se si annunciano nuovi forti terremoti. All’interno della Basilica di Assisi fu proprio una scossa di assestamento più violenta delle precedenti a uccidere due tecnici della Soprintendenza e due frati. Oggi a Cento Maurizio Indirli, ingegnere dell’Enea, dirige una squadra incaricata della valutazione dell’agibilità delle case. «Il nostro sopralluogo può richiedere poche ore o una giornata, come per il grattacielo di Cento. Prima di arrischiarci a entrare facciamo una perlustrazione esterna. Già così riusciamo a capire se ci sono lesioni alle strutture portanti. Se i danni sono limitati a tramezzi o tamponature possiamo anche entrare con i proprietari. Alla fine della perlustrazione compiliamo una scheda con la valutazione. Se necessario chiediamo interventi di puntellamento di travi o archi, transennature o bonifica di cornicioni e comignoli».

“Sisma di violenza inattesa gli ingegneri ne tengano conto”

E ORA adeguiamo le norme al rischio reale, chiedono tecnici e ingegneri. La Commissione grandi rischi ha chiesto edifici più robusti e “azioni mirate alla vulnerabilità del rischio sismico». Ma fino al 2003 l’ipotesi di un terremoto non era nemmeno contemplata per l’Emilia Romagna. «E oggi va meglio fino a un certo punto » spiega Paolo Clemente, ingegnere antisismico dell’Enea. «Si stima che un terremoto come quello accaduto in Emilia Romagna si verifichi ogni 2mila anni. Ma a noi ingegneri non viene chiesto di progettare edifici in vista di accadimenti così rari, perché costerebbe troppo. Il risultato è che lo scuotimento del terreno ha superato di molto quello previsto dalle normative. E a crollare non sono state solo le case, ma anche il sistema produttivo di una regione. Allora, è arrivato il momento di decidere se non convenga investire di più in prevenzione».

La Repubblica 10.06.12

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“Le aziende: riaprire subito i capannoni integri”, di Francesco Alberti

La fretta di ripartire. La vischiosità della burocrazia. L’esigenza della sicurezza. Dopo il terremoto e le morti, l’altro spettro che si aggira su questa porzione d’Emilia, che del Pil è un bel polmone, ha il suono aspro di una frase che in pochi osano pronunciare ma che staziona nelle menti di molti: desertificazione industriale. «Non partire adesso significa morire tra poco» è il mantra che da Carpi a Mirandola, da Cento a Finale, rimbalza da tutti i soggetti produttivi, piccoli e grandi. Ma riaccendere i motori delle fabbriche significa rientrare in quei capannoni, divenuti cimiteri per troppi lavoratori, che al 90 per cento non rispondono ai requisiti antisismici, dato che fino a pochi anni fa l’Emilia non era considerata a rischio. Inevitabile allora che il pressing delle organizzazioni di categoria si concentri sulle norme che ora regolano la riapertura degli stabilimenti. «Troppe rigidità, così si impedisce di fatto la ripresa delle attività anche alle aziende che non hanno subito danni» hanno denunciato in coro il presidente degli Industriali di Modena, Pietro Ferrari, quello di Confindustria Ceramica, Franco Manfredini e il direttore di Unindustria Ferrara, Roberto Bonora.
Le perplessità riguardano l’ordinanza del governo sulla ricostruzione, firmata 3 giorni fa dal presidente Napolitano, che, pur rendendo più elastiche le norme sull’agibilità rispetto al decreto del 2 giugno elaborato dal capo della Protezione civile, Franco Gabrielli, e anzi prevedendo l’introduzione di un’agibilità temporanea subordinata a misure di sicurezza minime (in pratica, l’imbullonatura delle strutture), non è ritenuto sufficiente dagli imprenditori per garantire un’immediata ripresa. «Il problema è la burocrazia — afferma il direttore dell’Associazione costruttori edili di Modena, Fausto Bedogni —: noi chiediamo che quei fabbricati che hanno superato indenni le scosse del 20 e del 29 (e sono moltissimi) possano riaprire subito con l’obbligo entro 3 o 6 mesi di effettuare le misure di sicurezza. Abbiamo calcolato che subordinare la ripresa anche solo all’imbullonatura dei capannoni significa perdere mediamente 3-4 mesi, considerando il tempo necessario per reperire gli ingegneri, i fabbri e le imprese di montaggio…». Anche gli agricoltori, alla parola burocrazia, vedono rosso: «È tale la vischiosità delle norme che non riusciamo nemmeno a fare solidarietà tra di noi» dice Mario Guidi, presidente di Confagricoltura (1 miliardo i danni solo nel Modenese). «Faccio due esempi. Sono talmente tanti i vincoli — aggiunge — che non è stato possibile stoccare, nelle celle frigorifere offerte dalle aziende dell’ortofrutta, le forme di Parmigiano Reggiano danneggiate. E anche solo per farsi prestare il trattore da un collega occorrono franchigie speciali».
Centrale la questione capannoni: «La raccolta dei cereali e della frutta è imminente e, se non disporremo di magazzini per lo stoccaggio, andrà tutto perduto». A Medolla, due giorni fa, le aziende della Food Valley hanno tenuto addirittura un convegno dal titolo «Tra emergenza e burocrazia» e alla fine non era chiaro se il nemico principale fosse il terremoto o «i troppi vincoli superflui che ci fanno perdere clientela».
In questo scenario, dove il rischio di stallo è più di un’ipotesi, si inseriscono poi dinamiche concorrenziali a dir poco discutibili. La Fiom-Cgil di Modena ha parlato di «sciacallaggio aziendale», accusando alcuni Comuni della Lombardia e del Veneto «di offrire condizioni agevolate alle nostre imprese per convincerle a trasferirsi definitivamente nei loro territori». Tutt’altra cosa invece le delocalizzazioni temporanee, con modalità condivise tra imprenditori e sindacati: alcune aziende hanno già imboccato questa strada, tra cui una multinazionale americana di San Felice sul Panaro che ha trasferito i 170 dipendenti in Lazio e Brianza.
E poi c’è chi si arrangia, pur di lavorare. Alla Blumarine, marchio della moda che fa parte del gruppo Blufin a Carpi (250 dipendenti), l’amministratore delegato Gianguido Tarabini ha piazzato all’esterno dei capannoni un tendone e sei container: «La produzione prosegue qui, in attesa che i nostri legislatori mi spieghino quando e con quali criteri potrò rientrare…». Invece Maria Gorni, presidente del Consobiomed, consorzio che riunisce una trentina di piccole e medie imprese del biomedicale a Mirandola, ha scelto la linea dura: «Noi non abbiamo aspettato le leggi, altrimenti saremmo spacciati: siamo entrati di notte nei capannoni senza avvertire i vigili del fuoco e abbiamo prelevato tutto quello che potevamo. L’abbiamo fatto a nostro rischio, nessuno dei dipendenti lo sapeva: i tempi dell’impresa non sono quelli della burocrazia».

Il Corriere della Sera 10.06.12

"E' necessario affrontare la verità", di Bill Emmot

Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano aveva ragione a dire, lo scorso novembre, al momento dell’insediamento del nuovo governo Monti, che era tempo di dire e guardare in faccia la verità. Purtroppo poche persone sembrano averlo ascoltato. Anche tra i governi leader della zona euro, dove è ancora più necessario affrontare la verità. La necessità di affrontare la verità sull’Eurozona è la più urgente, in Italia se si continua a non riconoscere la verità, il fallimento potrebbe rivelarsi ancora più tragico.

La verità sull’Eurozona comincia con la situazione attuale. Ovvero che fin dall’inizio della crisi del debito sovrano, circa due anni fa, le politiche condotte da Germania e Francia e seguite dal resto della zona hanno rappresentato dei tentativi di rinviare il problema, per guadagnare tempo. La speranza era che nel tempo così guadagnato il piccolo Paese problematico, la Grecia, sarebbe riuscito a stabilizzare le sue finanze pubbliche, e anche i grandi Paesi problematici, Italia e Spagna, avrebbero messo sotto controllo i loro debiti riuscendo anche a riformare il loro mercato del lavoro e a stimolare la competitività.

Questa politica è servita a guadagnare tempo, ma quel tempo ormai è esaurito, per cui la politica è diventata controproducente. I Paesi dell’Europa meridionale sono intrappolati in una spirale economica discendente, una spirale di morte: i tagli di bilancio fanno rallentare le loro economie, un processo che scoraggia le imprese dal prestare o investire soldi, indebolendole ulteriormente. Il risultato in Spagna e in Italia è che due Paesi europei che nel 2008-10 potevano vantare la buona organizzazione e la solidità dei loro sistemi bancari ora hanno banche deboli e fragili. Il mercato immobiliare spagnolo continua a generare debiti sempre più alti mentre l’economia declina, che è poi il motivo che ha costretto il governo spagnolo a chiedere fondi internazionali per ricapitalizzare le banche. Quelle italiane detengono troppi titoli di Stato nazionali sul cui valore i mercati ora s’interrogano, e i loro clienti sono sempre più deboli.

La disciplina fiscale, secondo le regole del Trattato di bilancio inter-governativo lanciato lo scorso dicembre, è la grande idea dell’Eurozona per affrontare questi problemi. Alcuni la definiscono «un’unione fiscale». Ma la verità è che non si tratta affatto di un’unione fiscale, che richiederebbe un ministero delle Finanze comunitario che da Bruxelles imposti una politica che rifletta le situazioni economiche nei 17 Stati dell’Eurozona. Al contrario, il Trattato stabilisce solo un insieme condiviso di regole fiscali, da applicare quasi a prescindere dalla situazione economica di ogni Paese.

È possibile che si possa guadagnare ancora un po’ di tempo: forse grazie agli elettori greci che potrebbero anche non scegliere un governo anti-austerità, ma piuttosto uno che sostenga ancora il corso attuale; e forse, anche già questo fine settimana, grazie a un accordo a sostegno delle banche spagnole, che eliminerebbe uno dei più grandi timori su ciò che potrebbe accadere se i greci votassero per il partito di estrema sinistra Syriza e finissero per non onorare i loro debiti. La Spagna, almeno, non collasserebbe.

Ma la spirale discendente continuerebbe. Perché non si è fatto nulla per fermarla? Non è perché i politici tedeschi o francesi o gli altri non capiscano la situazione. È perché non sono ancora riusciti ad affrontare la verità sull’euro.

Il fatto è che nel 1999 la moneta unica è nata all’insegna della solidarietà, ma in una realtà di responsabilità nazionali separate. La pretesa della solidarietà ha fatto sì che le regole macro-economiche che erano state stabilite nel Trattato di Maastricht del 1992 fossero immediatamente distrutte, dal momento che avrebbero dovuto impedire nel 1999 l’adesione dell’Italia e nel 2001 quella della Grecia. La realtà della responsabilità nazionale – ciascuno deve fare i conti con i propri debiti e il proprio sistema bancario – ha fatto sì che la solidarietà fosse una finzione.

La verità superficiale su questo punto è che i tedeschi vogliono che la responsabilità resti nazionale, così come gli olandesi e alcuni altri, e che i francesi vogliono una solidarietà più vera. Una cosa sorprendente dei mercati dell’Eurozona nel corso dei due anni di crisi – il fatto che non siano mai stati veramente boicottati dagli investitori preoccupati – si spiega con il fatto che abbastanza investitori sembrano aver creduto che, alla fine, la Germania avrebbe ceduto e accettato la solidarietà.

Può essere. Ma stiamo esaurendo il tempo per scoprirlo. E intanto il problema potrebbe essere che il gusto per la solidarietà in Francia e in altri Paesi della zona euro, tra cui probabilmente l’Italia, è in declino. In molti Paesi la politica nazionale si sta rivoltando contro l’euro e le sue regole di austerità. Uno scenario da incubo potrebbe essere quello in cui i tedeschi finalmente accettano la solidarietà, proprio quando gli altri grandi Paesi sono costretti nella direzione opposta dalla rabbia dei loro elettori.

Nel breve termine, una soluzione basata su una qualche forma di solidarietà appare inevitabile: un salvataggio internazionale per le banche spagnole: idealmente qualche stimolo fiscale nei ricchi Paesi del Nord Europa, una forma limitata di obbligazioni garantite collettivamente, dedicate o agli investimenti nelle infrastrutture o al ripianamento della fetta maggiore del debito irlandese, portoghese e spagnolo, per esempio. Eppure, è importante ascoltare con attenzione la cancelliera Angela Mer-kel. Lei dice che l’Europa deve avere una maggiore integrazione politica ed economica. Ciò suggerisce chi vede i controlli collettivi, una cessione di sovranità, come pre-condizione per la solidarietà. Se è così, questo potrebbe rallentare il decorso delle cose, così come verificare se gli elettori della zona euro sono veramente disposti a vedere scomparire una maggiore autonomia. Questa non sembra essere l’opinione di Beppe Grillo, in ogni caso.

Perché a questo osservatore britannico sembra che in Italia la verità non sia stata accettata. Il governo Monti è in carica da sei mesi, il che potrebbe significare quasi due terzi del suo mandato, se i partiti politici insisteranno per elezioni anticipate a ottobre. Ma quante cose sono realmente cambiate?

Il principale risultato del governo Monti è stato quello iniziale: il rigore di bilancio. Questo è stato un grande obiettivo, che ha reso l’Italia l’unico Paese della zona euro davvero in grado di soddisfare le regole di bilancio. Ma non è stato accompagnato da alcuna sostanziale liberalizzazione del mercato, e neppure dalla pur molto discussa legge di riforma del mercato del lavoro. Gruppi di interesse di tutti i tipi, dai sindacati alle imprese agli stessi partiti politici, hanno bloccato il cambiamento.

Questa forse non è una sorpresa per gli italiani ormai logorati. Ma agli osservatori stranieri sembra una tragedia. Lo sarebbe davvero se l’Italia, già vulnerabile a causa del suo enorme debito pubblico, ponesse fine a quest’anno di governo tecnico con poche riforme sostanziali e un’economia e una società non meglio preparate ad affrontare qualunque tempesta possa arrivare dal resto dell’Europa.
Traduzione di Carla Reschia

La Stampa 10.06.12

"Il mio concerto per i terremotati", di Claudio Abbado

Il recente sisma in Emilia ha messo in ginocchio la vita culturale di un’intera regione. Ricostruire subito è ora il principale obiettivo ed è importantissimo che anche il patrimonio culturale sia fra le priorità. IL TEATRO Comunale di Ferrara e il Valli di Reggio Emilia, a cui sono profondamente legato, sono ora chiusi, e con loro molti altri teatri. La ricostruzione non deve tralasciare i luoghi d’arte e i teatri, perché la cultura è parte integrante e fondante di quel tessuto sociale che ora è lacerato dal sisma.
Assieme a tutti i musicisti dell’Orchestra Mozart, all’organizzazione e alla dirigenza, e grazie anche alla sensibilità dei solisti e del coro, abbiamo deciso di aprire al pubblico la prova generale di questa sera all’Auditorium Manzoni di Bologna, e con l’aiuto di Repubblica abbiamo organizzato una raccolta fondi. Le donazioni saranno devolute alla Regione Emilia- Romagna, che destinerà parte del ricavato anche al patrimonio artistico e ai luoghi della musica. Eseguiremo la prima messa scritta da Mozart, quando aveva solo dodici anni, e l’ultima composta da Schubert. Si tratta di due pagine molto diverse fra loro; da una parte c’è la sbalorditiva prova di un genio ancora bambino e dall’altra l’opera di grande profondità di un compositore al culmine della maturità. È un programma intenso, che si addice ad un’occasione di raccoglimento e di concreta vicinanza a chi ora è in difficoltà. Anche il Lucerne Festival, in occasione dell’inaugurazione ad agosto, darà vita ad un’iniziativa di solidarietà, in particolare a sostegno del Teatro Comunale di Ferrara, che riapriremo poi in settembre proprio con la Lucerne Festival Orchestra.

La Repubblica 10.06.12

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Finale-Ferrara, la faglia del terrore “Tutti in coda per le baracche di legno a casa nostra non vogliamo tornare”, di Jenner Meletti

Dopo l’allarme della Protezione civile, viaggio nei paesi fantasma della Bassa. Ecco, ci mancava il crollo. Dal quarto voltone della facciata del municipio, in agonia da venti giorni, alle 14 e 54 minuti cadono altri quintali di pietre. La polvere si solleva in una piazza quasi vuota. C’erano almeno cento persone, fino a ieri, a guardare morire il Comune. Oggi sono in quattro, appoggiati alle biciclette, pronti alla fuga. «È come il gioco con i bastoncini dello shangai. Se ne fai cadere uno, perdi tutto. Se cade il municipio, la scossa fa crollare il campanile che cade sulla chiesa, e questa precipita sulla piazza e sui bar…». Meglio andare via, in questo giorno diverso. Ci sono frasi in testa che ormai tutti sanno a memoria. «È significativa la probabilità che si attivi il segmento tra Finale e Ferrara… ci possono essere eventi paragonabili ai maggiori registrati nella sequenza». Sì, dicono che può arrivare un’altra grande scossa e qui siamo a mezza strada fra Finale e la città degli Estensi. Oggi si riesce a «vedere» la paura. Tante strade deserte, piazze vuote come nei film western anni ‘70 prima dei duelli. C’è chi maledice l’allarme lanciato dalla Commissione Grandi Rischi. Ma qualcuno ringrazia. «Meglio essere informati», dice Cinzio Bregoli, che a Finale ha perso un palazzo del ‘600. «Vado subito a dormire a Riccione».
FINALE EMILIA
Trenta chilometri in tutto, la linea quasi retta che percorre la faglia della paura. Ma intorno ci sono altri paesi che tremano, come Sant’Agostino, San Carlo, Buonacompra, Bondeno, Pilastrello… Non ha dormito molto, Fernando Ferioli, sindaco di Finale Emilia. «Il telefono ha ricominciato a squillare alle 5 di stamattina. “Cosa dobbiamo fare, dobbiamo scappare via?”. Ci mancava anche la scossa del 2,9 arrivata alle quattro del mattino. Questo allarme, dal punto di vista della comunicazione, è stato una cavolata bestiale. Se dici che dopo alcune scosse ne possono arrivare altre, dici una banalità. Se invece precisi che il sisma può picchiare in un punto preciso, compreso fra la nostra città e Ferrara, crei un panico che non serve a nessuno». Mille domande a Fernando Ferioli e a tutti gli altri sindaci in prima linea. «Si
vede che gli scienziati hanno “visto” qualcosa nel profondo della terra e non hanno il coraggio di dirlo apertamente. Sindaco, cosa c’è oggi sotto i nostri piedi?».
Enzo Boschi, ex presidente dell’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia, dice che la Commissione Grandi Rischi o annuncia subito le misure da prendere per questo pericolo o ammette di avere sbagliato a dare l’allarme. «Hanno messo me e gli altri primi cittadini — dice il sindaco di Finale — in una situazione impossibile. C’è gente che piange, mentre mi chiede che fare. Io da una parte cerco di rassicurare, dicendo che l’allarme nasce da una ricerca statistica e non da analisi scientifica. Ma quando mi chiedono: “Tu escludi che ci possano essere altre scosse?”, non posso certo rispondere che sicuramente non ci saranno. E si torna a zero. Cosa faccio, dopo il comunicato? Faccio sfollare tutta la popolazione per tre giorni o per tre anni? Oppure, per tenere conto della statistica, per mille anni?».
Attorno al bar Fly i giovani del paese hanno messo le loro tende, e anche un cartello per chi volesse rubare qualcosa. «Avviso ai ladri. Non si fanno prigionieri». Si trovano ogni sera attorno a un’unica tavolata («Prepariamo noi, con le nostre mani e i nostri soldi») per parlare delle cose da fare, ascoltare musica, non sentirsi «sfollati» a casa propria.
«Molti di quelli che erano tornati in paese — dice Fernando Ferioli — sono andati via subito. Finale oggi è un paese fantasma. Certo, al sabato, tanti partono per andare a trovare i bimbi o i genitori anziani che hanno mandato al mare o dai parenti lontani, ma ho paura che lunedì non ritornino. Mi sembra di sentire le loro mogli. “Torni proprio a Finale, ma hai sentito che cosa ha detto la televisione”? Dovevano mandare più verificatori, altro che provocare il panico. Più uomini e più mezzi per potere dire a migliaia di cittadini: abbiamo controllato la vostra casa. È sana e robusta. Potrà resistere a mille scosse». Angelo Masi, dirigente di un’azienda pubblica, è uno di quelli che si dà da fare per evitare il terrore. «Dico che la Commissione si è auto tutelata, dopo il mancato allarme per L’Aquila. A dire la verità spero davvero che sia così, ma questo lo tengo per me».
CASUMARO
Sulla strada per Casumaro un grande striscione annuncia «Casette di legno. Pronta consegna». «Dopo ogni scossa — raccontano Barbara, Marco e Massimiliano Gilli, della falegnameria omonima — c’è il delirio. In venti giorni sono arrivati almeno 700 clienti. All’inizio hanno chiesto le casette più semplici ed economiche, usate per il riparo degli attrezzi. Ci puoi mettere a dormire tre-cinque persone con una spesa di 2.500- 3.000 euro. È solo un riparo, senza bagno, senza nulla. Adesso, soprattutto dopo questo allarme, arriva chi chiede una vera casa di legno, con bagno, elettricità e tutto. Hanno capito che purtroppo ci vorranno mesi e mesi, almeno per alcuni, per tornare a casa propria».
RENO CENTESE
Le mietitrebbia stanno già lavorando nei campi d’orzo. Sembrano tutte uguali, le strade del terremoto, con vista sulle case coloniche e i fienili crollati. A Reno Centese si protesta contro il campanile, che minaccia di cadere su abitazioni e negozi e anche sul deposito di gas che alimenta il paese. Gli abitanti vogliono abbatterlo, la Sovrintendenza dice no. A Casumaro il Time cafè è aperto, ma tutti stanno ai tavoli fuori o sull’uscio. «Io sono uno dei pochi — racconta Cesare Falzoni — a dormire in casa, anche per stare assieme a mia madre anziana. Ma quando entri non ti senti al sicuro. È come aspettarsi una persona nascosta, pronta a tagliarti la gola. Molti miei amici sono andati al mare. Resisti, resisti, poi la corazza si rompe». Alle 15.25 un’altra
scossa, magnitudo 3,4.
BUONACOMPRA
Era piena di vita, Buonacompra. La polisportiva gestiva la cucina, centinaia di persone stavano nel piazzale, accanto al loro parroco di 95 anni, a guardare la chiesa crollata. Oggi non c’è nessuno. Due operai sono lassù sul campanile e lo stanno spezzando pietra dopo pietra. Sono legati a una gru e la piattaforma per i rottami è appesa a un’altra gru. Forse qualcuno tornerà. Un cartello annuncia le «Sante Comunioni, domenica ore 9». Arriva un anziano che resta in auto. «Quando hanno cominciato a tirare giù il campanile, sono andati via tutti. È uno spettacolo troppo triste».
FERRARA
Finisce a Ferrara, la strada della faglia. Qui tutto sembra normale. Non ci sono tende nei giardini delle mura, né altri accampamenti. «Stiamo verificando — dice il sindaco Tiziano Tagliani — i danni alle case e ai monumenti. Abbiamo avuto 6.500 segnalazioni, fra edifici pubblici e privati. Il palazzo Diamanti è chiuso, come il Castello. Sì, sono in ufficio, come annunciato, nel palazzo storico quasi tutto agibile. Le cose da fare non mancano ». Sembrano lontani, i terremotati di San Carlo. I clown nella tendopoli della Prociv Arci cercano di fare ridere i bambini. «Abbiamo chiesto altre tende,
arriveranno domani». Nella piazza una voragine a fianco della chiesa mostra ancora il fango uscito dalle terra. Luigi Alpi, classe 1937, seduto con due amici sotto un tiglio, racconta che «qui è come in guerra». «Anzi, per certi aspetti è peggio. Io ero bimbo e sapevo che quando si vedeva il ricognitore Pippo, che con i suoi bengala illuminava la notte, dopo pochi minuti sarebbero arrivati i bombardieri. Scappavamo nelle campagne. Per il terremoto non c’è nessun Pippo. Quando senti il boato e la scossa, la “bomba”, purtroppo, è già arrivata».

La Repubblica 10.06.12