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"Le rovine culturali", di Salvatore Settis

I beni culturali, «binomio malefico, un buco nero, capace di inghiottire tutto, e tutto nullificare in vuote forme verbali; un enorme scatolone vuoto entro cui avrebbe dovuto trovar posto, secondo l´aulico programma spadoliniano, l´identità storica e morale della Nazione». «Salvo poi non aver saputo infilarci dentro che l´ultimo o penultimo dei Ministeri». Parole di Giovanni Urbani, grande direttore dell´Istituto Centrale per il Restauro, che nel 1983 dedicò un libro e una mostra alla Protezione del patrimonio monumentale dal rischio sismico. Quel concreto progetto, ispirato dalla semplice idea che prevenire è meglio che curare, stimava le spese (allora) in qualcosa come 2.700 miliardi di lire (5 miliardi di euro), ma cadde nel vuoto. Afflitti da amnesia cronica, i nostri governi fingono di ignorare che l´Italia è un Paese sismico, pronti a stracciarsi le vesti a ogni scossa o a inventarsi soluzioni-placebo. L´incapacità di prevenire i danni dei terremoti non si può certo attribuire all´attuale ministro Ornaghi, ma fa un certo effetto sapere che a coordinare gli interventi del suo ministero non sarà un Soprintendente ma un prefetto, e che dopo i primi ottimismi («numeriamo le pietre e ricostruiamo tutto», 21 maggio) si è passati alla disperazione («sospese le verifiche sui monumenti», 30 maggio). O che, dopo le lesioni alla Basilica del Santo a Padova e l´allarme sulla Cappella degli Scrovegni, le notizie “tranquillizzanti” vengano non da un Soprintendente, ma dal Comune, lo stesso che ha autorizzato a un passo dalla Cappella la costruzione di due alte torri residenziali, le cui fondamenta profonde accentueranno le infiltrazioni d´acqua, già presenti a pochi centimetri dagli affreschi di Giotto.
Ma la causa principale di queste e altre (peggiori) disfunzioni dei Beni culturali non è Ornaghi, bensì l´intrinseca debolezza di quel ministero. Inventato da (o per) Giovanni Spadolini nel 1975, si chiamò ministero per i Beni culturali e ambientali, dizione che restò in piedi fino al 1999, anche dopo il 1986 quando fu creato un separato ministero dell´Ambiente. Per tredici anni, dunque, vi fu sulla carta un “ambiente” (competenza di un ministero) senza “beni ambientali” (competenza di un altro ministero), e per converso i “beni ambientali” senza “ambiente”. In questo contesto traballante, i Beni culturali furono il fanalino di coda di ogni governo, con ministri e sottosegretari spesso imbarazzanti; è su questa scia di marginalizzazione ormai strutturale che, forse senza intenzione ma certo senza attenzione, Ornaghi divenne il solo ministro decisamente non-tecnico in un governo “tecnico”. Intanto, si gonfiava negli anni la struttura del ministero, moltiplicando burocraticamente le direzioni generali e aggiungendo le direzioni regionali. In compenso le soprintendenze, glorioso baluardo della tutela sul territorio, venivano minate e delegittimate (anche con pretestuosi commissariamenti), svuotate di personale, borseggiate di risorse, lasciate alla deriva.
Lo sfortunato ministero nacque dalla costola della Pubblica istruzione, dove a dire il vero stava molto bene: anche un ministro come Benedetto Croce, più interessato alla scuola, seppe varare la prima legge sulla tutela del paesaggio (1920). Si può ancora salvare un ministero ormai agonizzante? Tre proposte diverse sono state fatte negli scorsi anni. Lettera morta è rimasta la prima (Argan – Chiarante), che voleva accorpare i Beni culturali con Università e ricerca, altro “derivato” della Pubblica istruzione. L´idea era di puntare sull´intersezione fra professionalità e campi del sapere, esaltando la ricerca sul campo (essenziale alla tutela), la didattica (per esempio del restauro) e il valore educativo del patrimonio culturale. Passò invece la riforma Veltroni (1999), che ai Beni aggiunse le Attività culturali, intendendo per tali anche sport, spettacolo e turismo: infelice connubio, che comportò una nuova marginalizzazione del core business del ministero.
Resta in campo la terza proposta, che va anzi rilanciata con forza: formare un ministero forte e funzionale accorpando Beni culturali e Ambiente. Questo fu il progetto di Giovanni Urbani, teso a «una politica della tutela fondata sul rapporto fra beni culturali e ambientali» (1989). Io stesso l´ho riformulato, nel mio libro Paesaggio Costituzione cemento (2010) e altrove; e vi è tornato ora Gian Antonio Stella sul Corriere del 25 maggio, proponendo di aggiungere le competenze sul Turismo. L´accorpamento ambiente-paesaggio-beni culturali è ovvio: lo mostrano vicende recenti, dalla discarica che minacciava Villa Adriana a quelle a ridosso del Real Sito di Carditello o di Pompei. Lo mostrano le cento fragilità del Paese, dal rischio sismico a quello idrogeologico, che richiedono interventi organici e coordinati di recupero e prevenzione.
Ai disastri sismici stiamo reagendo in modo assai improprio, ridistribuendone i costi sui cittadini con l´aumento della benzina (“tassa sulla disgrazia”) e ipotizzando un´assicurazione obbligatoria contro i terremoti. Bizzarro palliativo, che comporta la finale abdicazione dello Stato al suo compito costituzionale primario, la messa in sicurezza del territorio. Il teatrino dell´”assicurazione obbligatoria” pretende di archiviare decenni di inadempienze dietro uno scaricabarile indegno di questo (e di qualsiasi) governo. Se lo Stato ha speso 137 miliardi di euro per i danni sismici negli ultimi 40 anni, quale compagnia privata di assicurazione coprirà cifre analoghe? E a quali costi per i cittadini? Che farà chi è troppo povero per pagare le alte tariffe che verrebbero richieste? E chi pagherà l´assicurazione degli edifici abusivi o fabbricati con materiali scadenti, il costruttore (colpevole) o il proprietario (spesso innocente)? Quale stato di polizia va instaurato per obbligare i riluttanti a pagare, anche se disoccupati, il dovuto balzello alle imprese private? 137 miliardi, dopo tutto, sono più o meno l´ammontare dell´evasione fiscale in un solo anno. 100 miliardi, ha dichiarato Passera pochi giorni fa, saranno spesi per le “grandi opere”: ma la prima e maggiore “grande opera” è la messa in sicurezza del territorio e del patrimonio culturale. O no?
La ventilata assicurazione obbligatoria contro i terremoti è una prova d´orchestra: se passa, la prossima mossa (inevitabile) sarà l´assicurazione obbligatoria sulla salute, cioè l´abolizione dell´assistenza sanitaria pubblica, la fine del diritto alla salute sancito dalla Costituzione (art. 32). Ma proteggere la vita dei cittadini, il paesaggio e l´ambiente è un valore costituzionale primario e assoluto. Richiede un´Italia memore di se stessa e non ansiosa di svendersi a compagnie private. Richiede un lavoro di prevenzione, necessariamente pubblica, che deve essere guidato da un forte ministero del Patrimonio, che unisca ambiente, paesaggio, beni culturali. Anche il turismo, purché ci ricordiamo che non è per i turisti, ma per noi stessi, che la Costituzione ci impone la tutela della nostra storia e del nostro territorio.

La Repubblica 05.06.12

"Se Atene cadrà non sarà la sola", di Adriano Sofri

La Germania potrebbe forse salvare l´Europa ma non ne ha voglia. La Grecia non può salvare se stessa, ma forse salverà l´Europa. Il tempo è scaduto per i sondaggi greci. L´ultimo, dell´autorevole quotidiano conservatore Kathimerini, aveva dato Syriza, la coalizione di sinistra, in vantaggio di 5 punti. Alexis Tsipras è solo di fronte all´Europa ufficiale, e anche all´intera gamma di giornali e tv greche, e in questo è la sua forza. Il 7 giugno lo aspetta un faccia a faccia col leader di Nuova Democrazia, Antonis Samaras.
Samaras ci arriva dopo aver firmato a occhi chiusi il Memorandum e provocato la caduta del governo Papandreu col miraggio di prendere la maggioranza assoluta, per uscirne con un infimo 18,9 per cento. Penso che l´alleanza introvabile di gruppettari vincerà le elezioni del 17 giugno, e che questo risultato peserà sull´Europa almeno quanto l´esito delle presidenziali francesi. Ne parlo con Vassilis Moulopoulos, portavoce di Syriza, che ha 65 anni, e fu giovane studente e militante in Italia. C´è uno che ha l´acqua alla gola. Sta affogando. “Sto affogando”, grida. Poco più su c´è un altro, l´acqua gli arriva alla vita, si volta indietro e grida: “Io non sono mica come lui”. Dietro ce n´è un altro, ha già i piedi nell´acqua che monta ma sembra non accorgersene, guarda avanti, scuote la testa e dice: “Secondo me affogheranno tutti e due”. Parecchio più dietro, all´asciutto, anzi su una veranda panoramica, un martini in mano, c´è un altro che prende il sole e non sente il chiasso di sotto: forse si è addormentato. A guardare meglio, dal primo all´ultimo, da quello con l´acqua alla gola a quello del martini, sono legati insieme: all´inizio è una catena, poi diventa una fune, poi una cordicella. Il secondo no, ma il terzo è convinto di farcela a tagliare la corda, il quarto non se ne dà pensiero, può strappare il filo e lasciare che la marea se li porti. Mettiamo che questa sia l´Europa, dal suo nord continentale alle sue pendici mediterranee. Che quel filo che finisce in una catena arrugginita sia l´Unione europea. Che quello con l´acqua alla cintura sia l´Italia, che si lascia andare un po´ per scaramanzia, un po´ per disonore, al proclama: “L´Italia non è la Grecia!” Che la signora Christine Lagarde, nata Lallouette, già ministro dell´Economia francese, coi piedi a mollo, faccia sapere di essere più commossa dai bambini del Niger, come se avesse impiegato la sua vita e il suo patrimonio a soccorrere i bambini del Niger, piuttosto che i pensionati del Pireo. Ammetterete che equivoci ce ne sono stati parecchi, da quando la marea ha cominciato a salire. Il più grosso forse è stato questo: che il soccorso dovesse venire dal signore del martini, dalla sua veranda rialzata. Ma quando solo un dio può salvarvi, cercatelo in Grecia. Che sia un dio dell´espediente: si annega tutti nella stessa acqua, dirà, ma guarderà la cosa dall´altro capo. È in quello che affoga, quello con l´acqua alla gola, la salvezza. All´improvviso, dopo aver gridato: Aiuto! e avvisato che la marea monta, quello con l´acqua alla gola si mette a battere le mani e i piedi, “Eureka”, dice, sto galleggiando, e spiega agli altri come si fa. Così, la Grecia di questo giugno, forse porta tutti a fondo, forse inventa il nuoto, e gli altri dietro.
Se ne sono sentite, sulla Grecia. Che il governo finlandese volesse pignorare il Partenone. (Che quello inglese lo restituisca, spero che Syriza non smetta di chiederlo). Non c´è edificio di Atene sul quale non campeggi la scritta: Enoikiazetai – si affitta. Più raramente: Si vende nessuno ci spera più. Cambiare vita così di colpo, succede con le guerre, o con le catastrofi naturali. Però “cambiare vita” è esattamente quello che predichiamo necessario per scampare al vicolo cieco della storia da cui veniamo e che ci affanniamo a continuare: la metànoia, per dirla col greco dei vangeli. La conversione ecologica, e di un´ecologia mentale e morale, anche. La lezione è la stessa per le persone come per le comunità: niente cambia finché non ti cade addosso la disgrazia, e puoi esserne travolto, o provare a farne virtù. L´illusione, l´esorcismo, è che si tratti della sola Grecia, o delle sole Grecia Irlanda e Portogallo, o delle sole Grecia Irlanda Portogallo Spagna e Italia, e così via. Una periferizzazione del continente (e del mondo) risale verso il centro e lo accerchia. È amaro ammettere che i passi verso il cambiamento necessario siano stati fatti più dal centro che da quella periferia, che così si è tirata addosso il disprezzo dei forti. La Germania lascia il nucleare e moltiplica le sue reti elettriche alimentate dal vento del nord. Ma la salvezza della periferia sta nel ripensarsi secondo quella conversione necessaria: i miracoli economici tengono dietro alla guerra, e qui c´è una crisi che vuole somigliarle. Gli avversari di Syriza, i partiti obbedienti cui l´Europa delle banche confida la stabilità, sono quelli che hanno portato a questo punto, e i loro cittadini li disprezzano. Se voteranno Syriza, non sarà solo per maledire le circolari europee, ma per la speranza di ricominciare da una strada nuova. Fanno impressione, i greci. Sono poveri, davvero. Quelli che guadagnavano poco, e ora pochissimo: pensioni dimezzate a 400, 300 euro, da tagli capricciosi. E quelli che guadagnavano molto, e avevano contratto mutui da generose banche europee, e ora non possono pagarli. Intanto i greci continuano a uscire, a stare al bar col frappé di cappuccino a un euro e venti. Cicale fino all´ultimo, agli occhi delle formiche ispettive (la signora Lagarde e i suoi ormai famosi 400mila euro esentasse). Come i cavalli dell´antica Sibari, che si misero a danzare sul campo di battaglia e la città fu cancellata. Ma la dolce vita di Atene è coraggiosa. Le prenotazioni turistiche dimezzate sono una penosa assurdità: il mare ha sempre il suo colore, gli oleandri fioriscono come se niente fosse, il sole ride calando di fronte al Capo Sunio, a prezzi stracciati. Nel programma di Syriza le tasse si pagano, armatori compresi. Può darsi che, così improvvisamente gonfiata, Syriza scoppi come la rana di Fedro. Ma può darsi il contrario. Ammesso che vinca, e arrivi a formare un governo con i partiti minori di sinistra, ciascuna delle sue fazioni avrà portato in parlamento i suoi maoisti e luxemburghisti e trotzkisti, ma un paio di milioni di elettori non avranno avuto niente a che fare con quelle categorie. Siamo già oltre, dice Moulopoulos. Non c´è più chi rivendichi l´uscita dall´Unione europea o il ritorno alla dracma. Cohn-Bendit se l´è presa con la rivendicazione del salario minimo a 1300 euro: ma quella stava nel programma del 2010, quando il governo negava la crisi e falsificava i bilanci, e nel programma del Pasok figuravano rivendicazioni più massimaliste. Noi chiediamo di riportare gli stipendi base dei dipendenti pubblici a 718 euro lordi! Chiediamo meno di quello che ebbe la Germania di Adenauer nel 1953, quando l´accordo di Londra (firmataria anche la Grecia) le concesse un taglio del 50 per cento sul debito (e del 70 sulle scadenze ravvicinate) e una moratoria di 5 anni. In quel dopoguerra, dico, c´era la ricostruzione, oggi c´è la retrocessione dell´Europa e dell´Occidente e la crisi finanziaria. A maggior ragione, dice. Ho sentito persone indipendenti dell´establishment, dico, convinte che gli americani (in nessun Paese l´antiamericanismo è stato accanito come in Grecia) non vedano di cattivo occhio la vostra vittoria, che segnerebbe uno scacco clamoroso per l´oltranzismo della signora Merkel. Se vinceste, come potreste arrivare a una maggioranza sufficiente a governare? Ci sono altre formazioni, come la Sinistra democratica di Kouvellis, che uscì da Syriza imputandole un antieuropeismo, e può sostenerla, ma potrebbe anche unirsi al Pasok di Venizelos, ormai irrilevante. Quanto ai comunisti del Kke, ottusamente ortodossi ma ancora forti fra gli operai, è probabile che la crisi metta in causa linea e dirigenza: è l´unico partito retto da una donna, Aleka Papariga, da più di ventun anni. (In Syriza si rispettano le quote rosa nella formazione delle liste, ma il risultato delle elette è lontano dalla decenza). Quanto all´Europa, il cambiamento di Syriza dovrà tradurre la formula dell´”Europa dei popoli” nelle istituzioni di un federalismo europeo democratico.
Un manifesto di intellettuali europei ha messo in guardia nei giorni scorsi dall´offensiva neonazista: “Siamo tutti ebrei greci”. I neonazisti di “Alba dorata” sono antisemiti e negazionisti, ma quella parola d´ordine non è inappropriata a una situazione in cui il bersaglio sono gli immigrati? Infatti – dice – a parte certi incidenti verbali, cercano di attutire l´antisemitismo, e compiono vere brutali cacce allo straniero. Chiedono di minare la frontiera con la Turchia, che il governo si accontentava di murare. Il problema degli stranieri ha un peso, anche elettorale, paragonabile a quello della crisi economica, cui è del resto legato, perché la destra fa dei migranti i capri espiatori. Otto su 10 ingressi “clandestini” in Europa, secondo l´Ue, avvengono alla frontiera greco turca: pakistani, afgani, iracheni, iraniani, africani. Il trattato di Dublino obbliga la Grecia a non dare visti di transito agli stranieri che entrano per raggiungere l´Italia o l´Austria e la Germania, e intanto, quando non sono espulsi a casaccio, restano nel Paese senza alcuna identità né protezione. “La prima cosa da fare è restituire loro un´esistenza legale. Non è questa la più elementare caratteristica della sinistra?”.

La Repubblica 05.06.12

"Che condanna essere stato il primo della classe", di Alberto Asor Rosa

Proprio perché ho pubblicato recentissimamente su queste colonne una specie di elogio della scuola pubblica italiana (“Tra quei banchi si vede l´Italia, la Repubblica, 2 giugno 2012), sono rimasto di stucco leggendo il giorno dopo sul medesimo giornale che l´attuale ministro della Pubblica istruzione, Profumo, ha inserito tra le misure più appariscenti della sua riforma l´incoronazione, istituto per istituto, dello “studente migliore dell´anno”. Ho passato la mia infanzia e la mia adolescenza a tentare di conseguire, dalla prima elementare alla terzo liceo classica (ahimè, riuscendovi) il riconoscimento, implicito, certo, ma anch´esso prestigioso, di “primo della classe”. So bene, dunque, di che si tratta. Solo quando sono arrivato all´Università ho capito che avere compagni migliori, e ne ho avuti, era molto meglio che dannarsi ad essere il migliore. Vorrei dire ora che tra le visioni della scuola (visioni del mondo?), che il ministro Profumo ed io nutriamo, c´è un abisso, anzi un antagonismo insormontabile. L´idea che si migliora la scuola trasformandola in una corsa a ostacoli è letale. L´impressione positiva che io volevo trasmettere, ricavandola dall´esperienza di passaggi (rapidi, ma non superficiali né da una parte né dall´altra) in quindici-venti istituti medi superiori italiani (ma ultimamente ho spiegato Dante anche in una scuola media unica di Roma!), era esattamente opposta. E cioè: ci sono, nella scuola pubblica italiana, masse di presidi e di docenti che si battono con silenziosa lena per “tirar su” classi intere di alunni, molto bravi, bravi e meno bravi, perché solo quello sforzo comune è scuola: e perché solo quello sforzo comune fa emergere le eccellenze vere (senza coltivazione di “migliorismi” di quarta generazione: sembra una novità assoluta, ed è un ritorno al più antico e deprecabile passato).
Se le cose in alto stanno così, l´idea con cui concludevo il mio precedente articolo, secondo cui sarebbe opportuno riaprire una grande discussione su cos´è e cosa dev´essere la scuola pubblica italiana, mi sembra meno fuori luogo oggi di ieri.

La Repubblica 05.06.12

"Da dieci giorni quell'auto è diventata il mio armadio", di Marco Alfieri

Migliaia di persone sono ancora sfollate, ma molte persone che avrebbero una casa agibile preferiscono dormire in auto. «La vede quell’auto blu? Da 10 giorni è il mio armadio…», sorride la signora Gianna, i capelli cenere raccolti con dignità in una retina. Vive nel condominio «Il Cristallo» di Novi ma da quel maledetto 29 maggio aspetta un sopralluogo per poter tornare in casa. Nel frattempo fa la spola con il market per comprarsi del sapone e lavarsi. «Che volete, cerchiamo di ripartire…»

Sotto la pioggia e le nuvole basse si tenta di vivere e lavorare. L’ultima botta di domenica con epicentro Novi-Concordia-San Possidonio ha ricacciato il modenese nell’incubo dello sciame infinito, ma non interrotto la voglia di normalità, annusata prima del ritorno del mostro. «C’è molto spavento tra i 16mila sfollati ufficiali, chi è organizzato in tende private, in auto o nei giardini e le centinaia di persone che stanno confluendo ai centri raccolta dopo l’ultima scossa», fanno il punto dalla protezione Civile.

Sulla Provinciale 8 che da Mirandola porta a Carpi la strada per Fossa è ancora chiusa dal 20 maggio ma alla Neri Trasporti e Depositi comunque si lavora. Forse non si potrebbe ma girando per il cratere se ne vedono molte di aziende in moto perpetuo.

In paese, a Concordia, via Carducci è sbarrata da domenica notte: si è crepata la torretta dei carabinieri che rischia di cadere. Al posteggio di via Angini ci sono tende ovunque, quasi un bivacco. «Qui abbiamo saltato parecchio», dice Carlo, attendato in giardino da 10 giorni. Verso le scuole spuntano banchi di frutta e verdura coperti da teli anti pioggia. Al centro sportivo Canova c’è invece la tendopoli della Croce Rossa da 400 persone. «Dopo l’ultima scossa in 50-60 sono venuti a chiederci tende e supporto psicologico», ragiona il capo campo Ignazio Schintu. In più «molti ci chiedono di cambiare orario dei pasti perché sono tornati a lavorare, buon segno».

Il tenace ritorno alla vita lo vedi anche da piccole cose come i cartelli attaccati con lo spago agli incroci dei paesi: «fornaio aperto», «Conad aperta», «farmacia in fondo alla via», «lavanderia di turno ogni mattina». Ci si organizza artigianalmente ma ci si organizza. Al bar ristorante «La dannata» prima di Novi l’altra sera erano aperti. «Dopo il botto siamo usciti tutti in strada», racconta Walter, il titolare. «Pensavo che stamattina non venisse nessuno, invece la sala è piena. C’è chi lavora e chi invece è in cassa integrazione per il terremoto ma vuole reagire». Fuori in veranda si prova persino a sdrammatizzare: «qui si serve il caffè con la scossa…».

Tra Concordia e Novi, il paese dove domenica è cascata la torre storica dell’orologio, la campagna si apre e sono tutti campi di granoturco, cereali e vigne. Alle 14 smette finalmente di piovere. In zona industriale, alla Ghidoni bevande, per non fermarsi hanno montato fuori dal capannone una tenda bianca: è il nuovo ufficio programmazione. Dietro al magazzino i camion caricano casse di acqua e bibite. Entrando in centro a Novi il giardino dell’asilo nido Mattei è pieno di tende e di gente che stende i panni. «Dopo ieri sera e la pioggia sono in aumento», confermano i volontari della Protezione Civile. «Anche chi potrebbe dormire in casa adesso ha più paura». Nel parco giochi di fronte gli sfollati si dividono in gruppetti: i pakistani vicino lo scivolo, i nordafricani vicino ai girelli, mamme con passeggini messe a cerchio vicino al pallone del tennis. Alla stazione mobile dei pompieri, inoltre, c’è la fila per le verifiche di casi e capannoni e il recupero degli effetti personali nelle abitazioni. È così fino a Carpi, il centro più grande.

Tornando verso Cavezzo, Medolla e poi Finale Emilia, le bandelle biancorosse sono quelle dell’altro sisma. Non ci sono nuovi cascinali o fabbricati industriali lesionati, solo distacchi da strutture già rovinate. Anche nel polo ceramico (Panaria Group, Atlas e Moma) si sta tornando a lavorare. Nulla sembra cambiato con l’ultima scossa. Le attività piano piano riaprono: un parrucchiere, la farmacia, un negozio di elettronica, i Lidl e gli Eurposin. Alla Aermec di Finale invece Giuliana sta scrivendo al pc con la porta aperta. «Facciamo impianti di condizionamento. Serviamo tutta la Bassa, come si fa a fermarsi».

La Stampa 05.06.12

"Tempi lunghi per il tirocinio breve", di Mario D'Adamo

Di percorso di abilitazione semplificato e riservato ai docenti con esperienza lavorativa significativa alle spalle si riparlerà nel 2012/2013. In sede di programmazione del prossimo anno scolastico è intenzione del ministero far partire, in parallelo alla seconda tornata di tirocinio formativo attivo, un percorso abbreviato per consentire a questi docenti «di accedere direttamente alla formazione in aula e all’esame finale» per conseguire l’abilitazione di cui ora sono privi, nonostante abbiano prestato servizio in tutti questi anni.

Più verosimilmente la partenza avverrà con l’anno scolastico 2013/2014, visto che il prossimo anno sarà già occupato dall’espletamento del primo tirocinio formativo attivo che sarebbe dovuto partire già con quest’anno. In ogni caso, tempi, modi e requisiti di servizio dei partecipanti li dovrà stabilire un provvedimento ministeriale a integrazione di quello del 10 settembre 2010, n. 249, sulla formazione iniziale dei docenti. La precisazione viene dal ministero con un comunicato del 29 maggio scorso, con il quale si ammette che «l’avvio dei moduli aggiuntivi ai corsi di Tfa, riservati ai docenti non abilitati, con servizio, richiede una modifica del D.M. n. 249/2010 con un altro provvedimento regolamentare di pari rango». E qui si capisce che si è fatto valere il principio di gerarchia delle fonti, spesso e volentieri dimenticato, secondo il quale non basta la decisione di un ufficio, una circolare o un’ordinanza, per modificare un decreto.

il provvedimento

Occorre un provvedimento adottato allo stesso livello, in questo caso un altro decreto, per modificare le procedure sulla formazione iniziale dei docenti, altrimenti la Corte dei conti rifiuta la registrazione e bisogna ricominciare da capo. Prima occorrerà acquisire i pareri degli stessi organi sentiti per il primo: il Consiglio universitario nazionale, il Consiglio per l’alta formazione artistica e musicale, il Consiglio nazionale degli studenti, il Consiglio nazionale della pubblica istruzione, il Consiglio di Stato, le competenti commissioni parlamentari. Poi occorrerà anche sentire Mario Monti, nella sua qualità di ministro dell’economia e delle finanze, e Filippo Patroni Griffi, ministro per la pubblica amministrazione e l’innovazione. Se si aggiungono i tempi di registrazione, la procedura per far conseguire l’abilitazione ai docenti con servizio sarà sì abbreviata ma non sarà adottata in tempi altrettanto abbreviati. Il comunicato del ministero si può anche intendere come un indiretto invito ai docenti con servizio di insegnamento, ai quali sarà riservato il Tfa speciale, a non iscriversi entro il 4 giugno al Tfa ordinario. Se i docenti accolgono l’invito e il treno rapido non partirà o partirà con molto ritardo, essi avranno anche perso l’accelerato e rischieranno di non arrivare più a destinazione.

Il servizio

Mentre è abbastanza chiaro il percorso, formazione in aula ed esame finale, non altrettanto definiti sono i requisiti di servizio. Nello stesso comunicato del 29 maggio si fa riferimento, nel primo periodo, «ai docenti non abilitati, con servizio», che diventano, nel secondo, «docenti con tre anni di servizio». Gli stessi che, invece, nel comunicato dell’8 maggio scorso, erano «i docenti con 36 mesi». I docenti con servizio si possono intendere, come chiede ad esempio lo Snals, quelli che complessivamente hanno insegnato in più anni scolastici almeno trecentosessanta giorni. I docenti con tre anni di servizio sono quelli che, secondo la nostra legislazione, lo hanno fatto per almeno per 180 giorni consecutivi in ciascun anno scolastico, 540 in tutto. La durata di 36 mesi è un’altra cosa ancora, riferita alla direttiva comunitaria, che non fa dispute di calendario e intende proprio 1080 giorni, il doppio di quelli considerati dalla nostra più benevola legislazione. Il ministero, con tutta evidenza, non ha ancora maturato una linea chiara né si è ancora pronunciato sull’altra questione, se i servizi debbano essere prestati nello stesso ordine di scuola e nella stessa classe di concorso per la quale ci si intende abilitare o se sia sufficiente averli prestato in qualsiasi ordine e in qualsiasi classe di concorso. E a partire da quale anno scolastico. Senza contare che, contemporaneamente o prima ancora dell’attivazione dei percorsi abbreviati, entreranno in vigore le nuove classi di concorso con tanto di fase transitoria, che si sovrappone all’altrettanto transitoria fase dei Tfa speciali. Se poi si mettono in cantiere due concorsi ordinari, uno con le vecchie regole della legge 124 del 1999 e le vecchie o le nuove classi di concorso, l’altro con il nuovo regolamento e le nuove classi, l’ingorgo è assicurato.

da ItaliaOggi 05.06.12

"La nostra vita come in guerra", di Gigi Marcucci

«Mi scusi, adesso devo piangere: mi hanno appena detto che la mia casa cadrà». Luisa Turci, sindaco di Novi, passa quasi senza soluzione di continuità dal coordinamento dei soccorsi al dramma personale. La sua voce si rompe, invoca una pausa. Poi il sindaco torna al lavoro, sotto la pioggia torrenziale che dalle prime luci dell’alba sta squassando la Bassa modenese, coprendo con un mantello liquido i teli a “igloo” e le auto trasformate in alloggi di fortuna, a pochi passi dalle casette geometrili; le tendopoli
ricavate nei campi sportivi; i gazebo sistemati davanti alle roulotte per sostituire cucina e sala da pranzo. L’ultima scossa è esplosa circa nove chilometri sotto questo paese di undicimila abitanti. Ha sferrato il colpo di grazia a edifici già compromessi. Tra le macerie questa volta è rimasta solo la speranza. Alimentata e, al tempo stesso, messa alla prova dalla cabala della classifica Richter. Due colpi durissimi il 20 e il 29 maggio, poi lo “sciame” in calando, infine, quando si cominciava a pensare che il peggio fosse passato, la sventola di 5.1 gradi, domenica sera. Ovviamente non prevista ma per la verità neppure esclusa dai simologi. Meglio perdere la fiducia che la vita? Certo, ma la vita è anche poter guardare avanti, sapere che un libro si può ancora sfogliare. La botta delle 21, quella che ha abbattuto la torre dell’orologio, simbolo di Novi, ha riportato tutti a pagina uno. Il terremoto è diventato guerra non convenzionale, cimento di nervi, conflitto psicologico. E il sindaco, che dopo 12 ore di lavoro dorme in una stanzetta alle materne comunali, spiega su Facebook come voltare pagina: «Pazienza se la torre è caduta, i nostri nuovi simboli sono i bambini, la comunità». E riparte da zero, con le verifiche sulla stabilità degli edifici fatte insieme a tecnici del Comune e vigili del fuoco.
Tensione e compostezza si alternano anche sul viso segnato di una giovane donna in attesa di un figlio: vive in auto con la madre e il padre, davanti alla villetta integra, dove però si entra solo per andare in bagno, contando sulla tregua concessa dal nemico invisibile. «Il parto è previsto per il 20 giugno, all’ospedale di Guastalla. Il mio problema è: dopo dove lo porto, in auto?». Ezio, in pensione da 19 anni, racconta come cambiano le abitudini al tempo del terremoto. Mostra le screpolature del suo palazzo, racconta che ora vive a Carpi in casa del figlio di 42 anni. Che mentre aspetta di sapere se l’azienda in cui è impiegato, la Angelo
Po, riaprirà i battenti, non fa altro che controllare se in casa l’impianto del gas è chiuso. «Lo fa anche due o tre volte, poi mi raggiunge e dormiamo in macchina».
Piazza Primo Maggio era il cuore di Novi, ora è un luogo fantasma. Di fianco alla Torre crollata c’è uno stabile grigio, con le finestre che nessuno ha potuto chiudere dopo il 20 maggio, il giorno della prima scossa. Giancarlo e la moglie, dalla macelleria poco distante, ai margini dellae zona rossa, invitano a trascurare un po’ i simboli e a occuparsi di più di ciò che rappresentano.
«La torre la rifaremo, ma con la scossa di martedì scorso io ho perso la mia macelleria. Questa è di mio figlio, stiamo qui con la luce accesa per dimostrare che la vita va avanti. E ce la possiamo
ricostruire solo noi, senza chiese e senza partiti, siano essi di destra o di sinistra»
«La mia casa è crollata una settimana fa, era rimasta danneggiata la prima domenica ma il 29, con il secondo sisma, è rimasto solo un cumulo di macerie. Ho perso tutto, tutto, non ho più nulla di mio. Cosa le posso dire di più?». Maurizio Cavazza, come il sindaco di Novi, è al tempo stesso sfollato e soccorritore. Vive a Cavezzo, dove è responsabile della protezione civile. Al paese si arriva da Novi percorrendo una ragnatela di strade sterrate, tra campi e canali alimentati dal Secchia. In mezzo a cascine crollate e altre miracolosamente rimaste in piedi, lasciandosi alle spalle capannoni sventrati dal sisma, con le forme di parmigiano esposte a sole, vento e rovesci. Il panorama è quello di una città bombardata e si sa che i carabinieri ora cercano negli uffici comunali le pratiche relative agli edifici crollati.Come quel palazzo del centro sopravvissuto a metà, da cui i vigili del fuoco cercano di estrarre le cose utili a chi martedì scorso era uscito per andare a scuola o al lavoro. Solo pochi minuti prima che
crollasse tutto. Roberto è uno dei condomini. Capo magazziniere alla Emotec di Medolla, azienda biomedicale con sede a poche centinaia di metri dalla Haemotronic, dove il 29 sono morti in quattro. «In ufficio è venuto giù tutto, per fortuna ero già in magazzino». Dopo l’ultima scossa, la vita di Roberto e della sua
famiglia è sospesa. Si aspettano notizie dell’azienda, che potrebbe riaprire a Poggio Rusco, pochi chilometri verso Mantova e intanto si cerca di capire chi pagherà la demolizione della casa,
il trasporto e lo smaltimento delle macerie. «Dicono che tocca a noi, ma io al momento ho solo la tuta che indosso: secondo lei posso permettermi di pagare grosse cifre».
Anche in questo caso, le brutte notizie sono arrivate a rate: il tempo di respirare prima del pugno nello stomaco che toglie il fiato. «Dopo la scossa del 20, il palazzo era rimasto in piedi», racconta Roberto, «ci avevano detto che sarebbero stati necessari dei lavori di ristrutturazione e consolidamento». Ma il terremoto del 29 è arrivato prima delle autorizzazioni. E il palazzo si
è afflosciato a metà. Al terzo piano si vede un letto di vimini perfettamente rifatto, affiancato da un baule. Accanto la struttura è integra, le tapparelle sono abbassate e i pompieri si danno da fare per tirare fuori le armi di Mauro Malavolti, un cacciatore. Qualcuno si spinge a fare delle ipotesi, su tralicci mal collegati alle solette, ma il punto ora è un altro. Di questo terremoto si continua a non vedere la fine, e pazienza. Ma dopo la scossa di domenica, ora la fine è difficile persino immaginarla.

l’Unità 05.06.12

"Il Pd incalza: c’è bisogno di molto altro" di Giuseppe Vittorio,

Continua la polemica sulla scuola. Il Pd non ci sta ad essere relegato nella parte di chi si oppone al merito: «Basta con le strumentalizzazioni, noi abbiamo sempre lavorato a favore del
merito e della serietà della scuola», dice Giuseppe Fioroni, ex ministro dell’Istruzione, che ricorda come l’obbligo del recupero dei debiti scolastici sia stato introdotto proprio dall’ultimo governo di centrosinistra «per evitare che, a prescindere dal merito, si possa essere tutti promossi». «Per fare questo – sottolinea Fioroni – abbiamo investito milioni di euro per consentire alle scuole di avviare percorsi di recupero per moltissimi ragazzi. Abbiamo introdotto noi i decreti sul merito favorendo la partecipazione alle varie competizioni e prevedendo
in bilancio finanziamenti per la formazione e master all’estero.
Abbiamo inserito il 100 alla maturità facendo una norma che impedisse ai meritevoli di essere esclusi dall’accesso alle facoltà con numero chiuso, perché i loro risultati non avevano valore. Peccato che l’entrata in vigore viene prorogata da quattro anni. Avevamo poi predisposto gli interventi per avviare l’aggiornamento e la riqualificazione obbligatoria in presenza
dei docenti, elemento indispensabile per la qualità della nostra scuola. Tutto questo – osserva – è stato archiviato dalla mannaia dissennata dei tagli lineari che hanno dato sempre di più l’idea di una scuola non come luogo educante, che incentiva meriti e
recupera chi è indietro, ma una scuola per le èlite e una di avviamento professionale di livello più basso per la stragrande maggioranza. Per non parlare del fatto che sono saltati completamente gli interventi a sostegno del diritto allo studio, come quelli per una valutazione seria delle nostre scuole in grado, una volta fatta la diagnosi, di attivare strumenti per recuperare chi resta indietro».
Francesca Puglisi, responsabile scuola del Pd aspetta il testo del ministro nero su bianco. Ma intanto incalza: «Siamo felici di apprendere dal ministro Profumo che i preliminari del provvedimento sul merito circolati in questi giorni non corrispondono ai contenuti finali».

STUDENTI CRITICI

La Rete degli studenti critica il ministro senza mezzi termini: «Dopo mesi di dialogo non ci aspettavamo l’ennesimo provvedimento di superficie, privo di qualunque consultazione preliminare e che lascia intatti gli enormi problemi della scuola italiana. Ci aspettavamo delle proposte che andassero nella direzione di quanto concordato nei momenti di confronto», si legge in una nota. «Le proposte del ministro – continua – appaiono deliranti se collocate nella realtà del nostro sistema formativo e denotano un’idea di merito a dir poco fuorviante. Non condividiamo minimamente la concezione di merito che emerge dal decreto che, anzi, ci ricorda proclami e slogan di gelminiana memoria: un merito che valorizza una scuola che lascia indietro chi è in difficoltà».

L’Unità 05.06.12

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Profumo: «La scuola premierà l’impegno», di Mariagrazia Gerina

Priorità, norme per bandire i concorsi universitari. Il provvedimento sul merito che il ministro dell’Istruzione Francesco Profumo intende portare domani in Consiglio dei ministri è ancora un work-in-progress. Molte cose stanno cambiando. Anche il titolo: «Misure per la valorizzazione dei capaci, dei meritevoli e della responsabilità educativa e sociale nei settori dell’istruzione, dell’università e dell’alta formazione artistica, musicale e coreutica».

Ministro Francesco Profumo, lei ha preparato una riforma per promuovere il merito nella scuola e nell’università, che ha già raccolto molte critiche, prima ancora di approdare in Consiglio dei ministri. Intende andare avanti? E come? Pensa ancora di procedere attraverso un decreto?

«Io credo molto negli organi collegiali. Presenterò mercoledì in Consiglio dei ministri un progetto complessivo: la forma e i dettagli del provvedimento dovranno essere decisi in quella sede».

Quale è l’urgenza di adottare un provvedimento sul merito?

«In questi mesi abbiamo fatto cose utili per la parte più debole del Paese, in termini di lotta alla dispersione scolastica e di diritto allo studio. Contemporaneamente però dobbiamo confrontarci con il mercato europeo. Nell’ultimo concorso bandito dal Consiglio delle ricerca francese, il 40% dei vincitori sono italiani. Quindi siamo bravi, però dobbiamo diventare davvero un Paese europeo. La commissaria Quinn che ha incontrato anche il presidente della Repubblica e il presidente Monti ha evidenziato quattro elementi di debolezza del Paese dal punto di vista dell’istruzione, dell’università e della ricerca. Uno riguarda la “speranza”: se pensiamo ai nostri concorsi universitari è difficile per un candidato che viene da un altro Paese avere le stesse chance di un candidato italiano. Il secondo è la “trasparenza”: i nostri bandi sono molto complicati, quasi sempre scritti soltanto in italiano. Il quarto sono i tempi: i nostri sono troppo lunghi. Il terzo è appunto il merito».

Quello che ci porta fuori dalle medie europee però sono i dati sulla dispersione scolastica, le iscrizioni alle università in calo del 10%, le borse di studio che l’Italia garantisce a un numero ancora molto ristretto di studenti. Secondo il Pd e i sindacati queste dovrebbero essere le priorità.

«Per essere più chiari, credo che sia necessario partire dai numeri. Abbiamo messo a disposizione della lotta alla dispersione scolastica oltre un miliardo».
Le risorse investite per promuovere il merito saranno circa 30 milioni. Qual è la priorità per il governo mi sembra evidente. La dispersione scolastica è la nostra prima preoccupazione, tanto
più che registriamo un incremento nelle aree di maggiore povertà. Non solo in Italia la dispersione è più forte che in altri Paesi ma è anche più concentrata in certe aree, al Sud e nelle periferie delle grandi città. Per questo l’azione messa in atto dal governo con i fondi per la coesione richiede una progettazione di dettaglio, sulla quale stiamo già lavorando e che non può passare attraverso un provvedimento legislativo.
Quanto al diritto allo studio abbiamo incrementato le risorse statali dai 110 milioni dello scorso anno a 150 e, grazie a un accordo politico, le Regioni aggiungeranno un altro 40%. In tutto, con le tasse, che rispetteranno un criterio di progressività rispetto al reddito, si arriverà a 360 milioni: significano circa 70mila borse.
Potremmo fare molto di più?
Certo. E lo dovremo fare ragionando, in termini più complessivi, di welfare dello studente: non solo borse di studio, ma servizi offerti da Comuni e Regioni, borse part-time messe a disposizione dalle università e anche un certo numero di prestiti d’onore. Ma quello che mi preme sottolineare è che il nostro è un progetto complessivo. L’obiettivo è avere un Paese migliore. E per questo è giusto alzare ancora l’asticella. Proseguendo sul doppio binario: da una parte promuovere l’equità, dall’altra valorizzare la capacità e l’impegno. Credo che questo non sia né di sinistra, né di destra».
La sua riforma ha scatenato molte reazioni anche solo a partire dal titolo del provvedimento: il merito…
«Il titolo abbiamo deciso di modificarlo. Per avere un linguaggio più corrispondente alle aspettative. Lo abbiamo intitolato: “Misure per la valorizzazione dei capaci, dei meritevoli e della
responsabilità educativa e sociale nei settori dell’istruzione, dell’università e dell’alta formazione artistica, musicale e coreutica”».
Nella sostanza cosa cambia?
«In questa settimana abbiamo fatto un lavoro molto accurato in modo da avere una condivisione complessiva».
A giudicare dalle critiche giunte sia dal Pd che dai sindacati non l’avete ancora raggiunta.
«Abbiamo avuto alcuni incontri con i parlamentari e con loro abbiamo messo sul tavolo alcune delle idee. Dopodichéì l’articolato su cui si sono appuntate le critiche non so da dove sia uscito. Io credo che si debba ragionare e giudicare sulla base di cose certe e non di ipotesi fluttuanti».
Ma molte delle contestazioni riguardano proprio il senso complessivo e l’aspetto simbolico di certi provvedimenti: davvero
eleggere uno “studente dell’anno” serve a migliorare la scuola nel suo complesso?
«Venerdì pomeriggio sono stato al Quirinale. Il presidente della Repubblica ha premiato alcuni ragazzi che hanno meno di diciotto anni. Il premio gli è stato attribuito per le loro capacità, il loro impegno nella scuola, nella creatività, nel sociale: non erano semplicemente i più bravi, alcuni di loro erano più deboli ma si erano impegnati molto. È questa l’idea che ho del merito e
della società. Siamo diversi, ma poi ciascuno ci mette la sua dedizione e questo va incoraggiato. Promuovere i più bravi aiuta la scuola nel suo complesso, se i bravi non sono bravi solo per se stessi ma anche per la società. Vogliamo un Paese trainato dai migliori».
Ma così non si fanno diventare più bravi solo quelli che già hanno gli strumenti?
«Nel mondo anglosassone in realtà esistono due tipi di merito. C’è l’impegno che permette di migliorare rispetto al punto di partenza e quello che consente di raggiungere gli obiettivi oggettivamente più elevati. Il Paese ha bisogno di entrambi».
A parte lo studente dell’anno, le master class estive,le olimpiadi scolastiche,una parte corposa del provvedimento che si accinge a portare in Consiglio dei ministri riguarda l’università. Qui l’urgenza è più chiara. I giovani ricercatori sanno bene che è tutto bloccato, da tempo.Come pensate di far ripartire concorsi e assunzioni?
«Come ci ha detto la commissaria europea, un fattore decisivo è il tempo. Noi dobbiamo dire ai giovani ricercatori quali saranno le prossime scadenze per dare loro delle opportunità. Presenteremo
un piano quadriennale, in due tempi. I primi concorsi partiranno già questa estate».
Ma l’abilitazione nazionale per accedere alla docenza universitaria, prevista dalla riforma Gelmini, ci sarà o sarà abolita?
«L’abilitazione c’è. In un primo tempo, procederemo con due bandi per individuare le commissioni nazionali e poi con quattro bandi per i candidati. Ovviamente, dobbiamo fare bandi più semplici, in lingua inglese e che consentano la partecipazione anche a chi è al di fuori del nostro sistema. In questo modo anche una parte di giovani capaci potranno partecipare all’abilitazione anche se non hanno una posizione acquisita. Il merito, appunto, sta nel fatto che i candidati saranno valutati in base ai risultati ottenuti con la ricerca».
Se state mettendo a punto nuove norme che riguardano il reclutamento significa che quelle fissate nella Gelmini non funzionano?
«Sull’università ci sono due problemi che ci preoccupano. Dobbiamo evitare di avere un listone unico in cui ci sono tutti gli idonei in tutti i settori disciplinari, perché altrimenti il rischio è che si scateni un contenzioso che finisca per bloccare tutto. L’altro problema riguarda gli abilitati: dobbiamo fare in modo che siano assunti, non possiamo creare aspettative che verranno poi deluse ».
Sta pensando a una abilitazione con un numero chiuso?
«No, a tutti va data l’opportunità di una chance ma con delle cadenze che dovremo fissare in base alle esigenze delle università».
Ma basteranno nuove norme per il reclutamento a sbloccare le assunzioni, quando i limiti di spesa a cui le università si devono
attenere hanno di fatto introdotto restrizioni forti rispetto al turn over?
«C’è un piano straordinario per gli associati, per cui sono state stanziate risorse importanti: 76 milioni lo scorso anno, 90 milioni per l’anno 2013-14, poi le università hanno le loro disponibilità. Io credo che con una continuità di programmazione il sistema possa ripartire».
Quanti giovani ricercatori precari ce la faranno a entrare?
Vi siete dati degli obiettivi numerici?
«La legge che regola tutto è la domanda che proviene dagli atenei: molti docenti stanno andando in pensione e dovranno essere sostituiti».
Ma le regole che vi state dando riusciranno a produrre il ricambio generazionale di cui c’è bisogno?
«Quello è il nostro intento».

l’Unità 05.06.12