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"Solo prove orali, niente scritti modello L´Aquila per gli esami ed è polemica sui test dimezzati", di Luigi Spezia

Decine di migliaia di ragazzi e di famiglie in ansia non solo per il terremoto, ma anche per la difficoltà di sostenere scrutini ed esami. Dopo il primo terremoto gli studenti le cui scuole erano inagibili erano circa 18mila, dopo il secondo sono triplicati anche se non vengono dati numeri definitivi. Fino a ieri sera, le scuole con problemi di staticità sono oltre 220, nelle province di Modena, Bologna e Ferrara, comprese scuole “di tutti gli ordini e gradi” dei tre capoluoghi. Una decina sono nel Reggiano e una perfino a Colorno in provincia di Parma.
Si parla di “modello L´Aquila” per gli esami di Stato di terza media e delle superiori: niente scritti, solo prove orali più sostanziose. Ma siccome gli emiliani non amano copiare altri modelli, ma sperimentarne di nuovi magari da esportare, è scattata da giorni la gara contro il tempo per cercare di fare tutti gli esami come consuetudine laddove sia possibile e modificare la normativa solo nei casi difficili. «Le valutazioni saranno diverse comune per comune – dice l´assessore regionale alla Scuola Patrizio Bianchi, ex rettore di Ferrara – Gli scrutini credo che riusciremo a farli tutti nei tempi previsti, mentre per le modalità e i tempi degli esami dovremo vedere area per area. Stiamo facendo il possibile, anche grazie a dirigenti scolastici eccezionali».
Il direttore generale dell´Istruzione dell´Emilia Romagna, Stefano Versari, spiega che «non esiste ‘un modello L´Aquila´ perché non è detto che si debbano eseguire solo le prove orali. Si potrebbero seguire altri schemi, come ad esempio valutare di più le prove eseguite durante l´anno. Le decisioni non ci saranno prima di lunedì, siamo in contatto costante con il ministero».
A Mirandola, oltre alle scuole medie, sono inagibili i sei istituti superiori. Stavano cercando affannosamente le tende per far fare agli studenti le prove scritte e ieri pomeriggio l´assessore alla Scuola Lara Cavicchioli le ha trovate: «Qui ci diamo da fare». La professoressa Patrizia Vecchi, vicepreside dell´istituto che comprende classico, tecnico economico e professionale del commercio, ha già appeso al gazebo del servizio scuola del Comune, trasferito nel giardino delle medie Montanari, il 19esimo aggiornamento per informare in tempo reale le famiglie e gli studenti su scrutini ed esami.
I contatti tra professori e studenti viaggiano su Facebook, dove per esempio Beatrice, la figlia della vicepreside, costretta a preparare l´esame di quinta sotto il portico di casa, passa poi le notizie ai compagni di classe. «Il modello che seguiamo è l´ottimizzazione – dice la professoressa – . Abbiamo stabilito che sotto il tendone della mensa faremo le prove pratiche per i 130 ragazzi di terza delle professionali. Lì invece non possiamo far fare gli scritti per i 380 ragazzi delle quinte perché durano sei ore. A mezzogiorno arrivano gli sfollati a mangiare».

La Repubblica 02.06.12

"Quel tempo immobile che ha spezzato il nostro tran-tran", di Wu Ming 1

Si vuole ripartire subito, ma sarà il caso di cambiare meta e percorso e scendere da questo treno iperveloce. I bimbi dopo la chiusura delle scuole giocano nei parchi senza sosta. Hanno riscoperto il loro spazio. Da quando è iniziato il terremoto in Emilia, i giornali e siti di informazione (soprattutto quelli locali) pubblicano foto di orologi. Le torri degli orologi di Finale Emilia, San Felice sul Panaro e Ferrara; l´orologio della chiesa di Sant´Agostino, quello della chiesa di San Rocco a Cento… Quadranti danneggiati, spaccati, scomparsi. Qualcuno è rimasto intatto ma fermo, a segnare l´ora della scossa che lo ha bloccato. Chi come me vive a Bologna non può non pensare all´orologio della stazione, fisso sulle 10: 25 dalla strage del 2 Agosto.
Perché un orologio fermo diventa notizia? Perché ne guardiamo la foto? Forse perché in essa cogliamo qualcosa, un lampo di verità su noi stessi.
L´Evento che lacera la quotidianità si esprime per metafore. Come gli insorti della Comune di Parigi secondo Walter Benjamin, il terremoto ha «sparato sugli orologi». Non solo: ha causato il tracollo della rete telefonica mobile. Quale messaggio dovremmo cogliere?
Se chiedi a un bambino di disegnare una casa, disegnerà quasi sempre una villetta monofamiliare, anche se vive in un trilocale al decimo piano o in un brefotrofio. In modo analogo, il terremoto ha colpito gli orologi di torri e campanili, benché da tempo non siano più quelli a scandire la nostra giornata. L´odierna forma-orologio è onnipresente, incorporata in ogni nostro dispositivo: computer, tablet, telefonino, furbofono, cruscotto di auto «intelligente»… Oggi, almeno in Occidente, sappiamo tutti e sempre che ora è. Non era mai accaduto che la maggioranza dei membri di una società si percepisse e rappresentasse in ogni momento dentro un tempo scandito e strutturato. Bifo dice che il telefonino è una catena di montaggio mobile, dalla quale non puoi staccarti. Al tempo stesso, sei cronometrista della tua prestazione.
È forte la tentazione di maledire il sisma, descriverlo come «demone», «mostro», entità ostile. «Siamo in guerra con la terra», ha gridato a tutta pagina un quotidiano emiliano, ma non è la terra il nemico. È forse colpa della terra se viviamo, costruiamo, abitiamo, lavoriamo, obbediamo in un certo modo? A uccidere non è il sisma, ma la realtà su cui il sisma getta luce. A uccidere è l´illusione che si possa tornare subito al tran tran di prima, ai ritmi forsennati di prima. La spinta a ripristinare la «normalità» (la parola più ripetuta nelle interviste) è costata altre vite: le aziende non hanno atteso le verifiche e gli operai sono tornati a lavorare in capannoni a rischio, con le conseguenze che sappiamo. Dunque, l´unica «normalità» già ripristinata è quella dei morti sul lavoro per mancanza di sicurezza, delle famiglie devastate, dei figli rimasti orfani perché la macchina non poteva fermarsi.
Spesso, nelle città, i movimenti sociali rivendicano «spazi», ma avere spazi non cambia nulla se non si contestano i tempi. Ti riappropri degli spazi quando i tempi saltano e riprendi fiato, grazie allo zoccolo scagliato negli ingranaggi. È tragico che a gettare lo zoccolo sia stato un terremoto, ma la tragedia non deve ottenebrarci, renderci ciechi di fronte agli esempi.
Un amico mi racconta che, dopo l´ordinanza di chiusura delle scuole, i parchi del suo paese si sono riempiti di bande di bambini che giocano ad libitum. Non accadeva da anni, nemmeno nei giorni festivi. Oggi i bambini – anche in provincia – vivono «imbozzolati» in tempi infernali, con giornate piene di scadenze e impegni incastrati meticolosamente: scuola, piscina, lezione di questo e quello, catechismo… I pochi, interstiziali momenti di far-niente li passano davanti a uno schermo. L´Evento ha interrotto la sequela e fatto riscoprire uno spazio, lo spazio dei giochi per eccellenza.
In diversi stati, gli edifici delle università sono aperti anche di notte, a disposizione degli studenti. In Italia no, ma ci ha pensato l´Evento. La facoltà di Architettura di Ferrara è rimasta aperta di notte, per accogliere chi preferiva dormire fuori casa. Fino a trent´anni fa, quell´edificio di via della Ghiara ospitava un manicomio, grande macchina disciplinare, luogo di costrizione fisica e totale eterodirezione dei tempi.
Mentre scrivo, nelle province emiliane colpite dal sisma (Modena, Ferrara e Bologna) le scuole sono ancora chiuse e c´è chi propone di dichiarare terminato l´anno scolastico. Le scosse potrebbero susseguirsi per mesi, si capisce che la vita sarà diversa. Molti operai si rifiutano di rientrare nei capannoni. «La vita vale più dell´economia», ha dichiarato un dirigente della Fiom. È la frase più eretica che oggi si possa dire, ma la routine già incalza e preme, e presto tornerà a imporsi.
Il tran tran è astuto: si ammanta di straordinario, si traveste da finta discontinuità. Si pensi al «minuto di silenzio»: rituale rapido e innocuo, conferma che l´ordine regna e può permettersi di sprecare un minuto… al termine del quale approfitterà del momento, pigiando sull´acceleratore di strozzanti controriforme e imponendo la sua shock economy.
È vero, vogliamo «ripartire» (il verbo più usato nelle interviste). Tuttavia, sarà il caso di cambiare meta e percorso, saltando giù da questo treno iperveloce. Chiediamoci: questa velocità dove ci porta? «Lavorare con lentezza, chi è veloce si fa male», cantava Enzo Del Re. Chiediamoci, soprattutto: questa velocità a chi conviene? «Un ladro più veloce ruba meglio, e un fesso più veloce non diventa meno fesso», diceva Amadeo Bordiga.
Il tran tran si riaffermerà. Intanto, approfittiamo dell´Evento per respirare, pensare, prepararci a lottare.

La Repubblica 02.06.12

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“Nella tendopoli con arabi e sikh l´ultima scommessa multietnica”, di Michele Smargiassi

“Niente tonno! Voglio il wurstel!” Ma un campo profughi non è un ristorante. I cinesi sono quasi tutti scomparsi, i tunisini a centinaia ritornano nel loro Paese. “Niente tonno! Voglio il wurstel!”. Ma la mensa di un campo profughi non è un ristorante, i cuochi fanno miracoli ma il menù non è infinito. «Voi cucinate solo cose che piacciono a quegli arabi!», gran pugno sul tavolo, le voci si alzano, poi qualcuno interviene, l´inizio di zuffa è sedato. «Poi quel signore si è pentito e ha offerto da bere», conclude il racconto Egidio Pellagatti, toscano, responsabile del campo Costa di Mirandola, affidato all´Anpas. «Ma se non stiamo attenti, ogni cosa è un pretesto». Per scongiurare la guerra etnoreligiosa del wurstel contro il tonno, del ragù contro le melanzane, ci vogliono doti che non facevano parte del bagaglio dei volontari della protezione civile, non prima di questo terremoto d´Emilia, il primo terremoto multietnico nella storia d´Italia.
L´Emilia è già una terra multicolore, e non da oggi. Qui a Mirandola la quota di immigrati è del 16%, ma ci sono comuni dove si sfiora il 20. Se poi conti solo i lavoratori, siamo già a un quarto del totale. Che tre dei dodici operai morti sotto le macerie fossero stranieri non è caso, ma crudele statistica. In più, il terremoto ha un suo modo di ribaltare le cifre, come ribalta le pareti. E adesso, nelle tendopoli di tela azzurra che hanno rimpiazzato i paesi rosso mattone, gli italiani sono finiti in minoranza. Anche in estrema minoranza, come qui al Costa, dove su trecento accampati solo ventotto hanno il passaporto tricolore. C´è una spiegazione, anzi più d´una. Negli edifici vecchi del centro storico ora devastato, più di una casa su tre era abitata da extracomunitari. Aggiungi che «gli stranieri non hanno legami affettivi con le loro case in affitto, non hanno problemi a lasciarle, e non hanno parenti che li accolgono», spiega Domiziano Battaglia, coordinatore dei campi per il comune, «così sono stati i primi, subito dopo il terremoto del 20, a rifugiarsi in massa nelle tendopoli».
Così, quando sono arrivati anche gli italiani stremati dalla seconda botta di martedì, hanno trovato campi già popolati da stranieri. «Avete dato la precedenza a loro!», gridavano giorni fa davanti al municipio da campo Ciro e Salvatore, fratelli di Acerra, che avevano dormito per una settimana in auto ai piedi della loro palazzina lesionata. La risposta in Comune è secca: «La regola è: entra chi è residente nel comune, noi non facciamo altre distinzioni». Ma certo bisogna evitare che le tendopoli diventino dei centri di prima accoglienza impropri. Tutti i campi ora hanno un pass, la Caritas controlla che non vengano forniti aiuti doppi alle stesse persone, «e di notte facciamo le ronde perché c´è sempre qualcuno che prova a scavalcare il recinto», ammette il volontario Antonio. È insomma una Italia multiculturale rovesciata, dai pesi ribaltati, quella che si è formata nelle tendopoli per una serie di eventi tragici e involontari. Ma a suo modo è un laboratorio, una prova da stress dei possibili scenari futuri della convivenza. Coi muri di cemento, il terremoto abbatte i muri invisibili che in una società complessa fanno da cuscinetto, tengono le distanze fra i gruppi e le culture. Niente porte blindate, niente quartieri separati nelle tendopoli. «Abbiamo tende da sei o da dieci letti e dobbiamo riempirle», spiega con la forza dell´evidenza Maria Zanot, coordinatrice del campo della regione Friuli. Ma quando hai una dozzina di nazionalità diverse, alcune ostili fra di loro, fare l´assegnazione dei posti è una specie di Risiko che richiede conoscenze geopolitiche non banali. «Che non devo mettere pachistani e indiani nella stessa tenda lo so già, ma potrò metterci sikh e islamici?».
Alcuni dilemmi si sono risolti da soli. I cinesi, seconda nazionalità per presenze, nei campi quasi non ci sono. «I cinesi sono spariti», ti dicono sorpresi i servizi anagrafe delle tendopoli. Non li trovi neanche in paese, nelle tende autogestite. Come se fossero svaniti assieme all´onda sismica. Probabilmente fuggiti altrove, in assoluto silenzio, in quel mistero che aleggia da sempre attorno alle loro correnti migratorie. I tunisini, invece, se ne vanno ufficialmente: il console in Italia è passato a offrire rimpatri gratuiti, e almeno trecento hanno già approfittato, «Domani parte una nave da Genova, andrei anch´io ma ho i documenti in questura che è crollata», racconta Edi, con stizza. Anche i consoli di Marocco e India hanno fatto offerte simili. I romeni sono partiti in pullman. Torneranno? Le fabbriche sono chiuse. Ma c´è da chiedersi se ci saranno abbastanza braccia per la frutta e la vendemmia, fra qualche mese. Le badanti dell´Est, invece, se ne stanno andando alla spicciolata, impaurite, magari con qualche scusa: «Sonja ha detto che le è morto uno zio, ma adesso come faccio con mia madre…», chiede aiuto disperata al desk comunale una signora, «proprio adesso…». Ma non bastano le fughe volontarie a riequilibrare la babele dei campi. A Cavezzo gli avvisi sono tutti in tre lingue, italiano arabo e hindi. Qui non ci sono tende, sono due campi da tennis coperti da una gran volta di legno e acciaio a prova di catastrofe. Una sola enorme camera da letto a trecento piazze. «Le famiglie marocchine, la sera della scossa grande, non volevano entrare, dicevano che le donne non possono dormire con gli uomini», racconta Francesco Gasperi detto Gas, 19 anni e pettorina da volontario, «ma pioveva e ho detto: c´è solo una scelta, asciutti o bagnati. Hanno discusso un po´ e sono entrati».
A Mirandola, invece, i musulmani chiedevano bagni separati, e qui Pelagatti che è un uomo tranquillo è sbottato, «e che, è una tendopoli o una bagnopoli?». Poi però ti confessa che «in realtà sono gli italiani che mugugnano di più». Per esempio Antonio e Sara: «Gli stranieri si lavano i piedi davanti alle tende». Bisognerebbe spiegare ad Antonio e Sara cosa sono le abluzioni rituali prima della preghiera del venerdì. Ma forse c´è chi lo può fare. Ecco Gurwinder Sikh detto Guru, ha solo 17 anni ma guai se non ci fosse, l´interprete del campo, in realtà il mediatore culturale, paziente, simpatico, «se parli le cose si risolvono» è il suo mantra. Ha organizzato una squadra di coetanei, sikh e indù, che aiuta a pulire i bagni e a servire alla mensa. Ecco, saranno forse i ragazzi come Apooraf, come Gurminder, immigrati di seconda generazione, né più stranieri né del tutto italiani, a costruire la convivenza difficile. Oppure quelli come Mohamed, imponente marocchino ottimista. In coda alla macchinetta del caffé sgrida bonario i connazionali maleducati: «in fila! Bisogna fare la fila!». In Italia da vent´anni, chiama «mamma» la signora Maria, vicina di casa sfollata anche lei. «Sai», ti dice conciliante, «bisogna avere pazienza, il terremoto scuote la terra e la testa». Vero, ma proprio per questo nel campo della provincia di Trento, a San Felice, ogni minima infrazione è una miccia: non svuotare subito la lavatrice, egemonizzare le prese per i cellulari, fumare in tenda. Luisa Zappini, ex infermiera, donna decisa, governatrice del campo, ha un metodo: «Agli ospiti diciamo: non è un albergo, è casa vostra, non siete serviti, datevi da fare». Ogni gruppo nazionale elegge un referente, e se qualcuno sgarra, è il referente che viene richiamato per rottura del patto. Certo, un campo profughi multietnico è la nostra società compressa in una provetta. Magari, questo esperimento non previsto e non voluto servirà perfino a imparare qualcosa.

La Repubblica 02.06.12

Obama accusa la Ue "La crisi è colpa sua", di Federico Rampini

La grande fuga dall´euro è cominciata davvero. Non più solo risparmiatori greci e spagnoli che ritirano piccoli depositi dalle loro banche; non più solo capitali speculativi con le loro scommesse ribassiste. Stavolta si muovono le multinazionali dell´industria, della grande distribuzione, del turismo e dei servizi. Il deflusso dettato dalla paura coinvolge l´economia reale, non soltanto gli hedge fund e le banche di Wall Street. L´allarme sale di un livello, contagia multinazionali americane ma anche europee: tutte a preparare “piani A, B e C”, scenari-catastrofe, misure preventive per limitare i danni mettendo i capitali al sicuro. Nel giorno in cui torna a crescere la disoccupazione americana, mettendo in serie difficoltà Barack Obama, nessuno è più al riparo dal disastro dell´eurozona. Commentando la frenataccia dell´occupazione Usa, Obama punta un dito accusatore: «La causa sono i problemi dell´Europa». Si confermano anche i rallentamenti di Cina e India, provocati in buona dalla stessa causa: la caduta delle esportazioni verso l´Unione europea.
É il Wall Street Journal a rivelare i grossi nomi dell´industria che stanno “tirando i remi in barca”, spostano fondi per non tenere più liquidità in Grecia o altre nazioni considerate a rischio. C´è il colosso farmaceutico GlaxoSmithKline, c´è il gigante delle bevande Diageo. Ci sono fior di multinazionali europee come la Heineken olandese, il tour operator tedesco Tui, la catena inglese di supermercati elettronici Dixons. In media il 20% delle imprese tedesche ammettono di avere in corso una sorta di “piano di evacuazione”. Alcune società di consulenza come Roland Berger, o grandi studi legali internazionali come Linklaters, fanno gli straordinari per rispondere all´assedio dei clienti, cioè le multinazionali in cerca di aiuto su come smobilitare il più presto possibile dai paesi a rischio dell´eurozona. O quantomeno ridurre i danni, nell´eventualità peggiore. Gli scenari contemplati vanno “dalla paralisi dei pagamenti trans-frontalieri, all´anarchia civile in Grecia, fino alla disintegrazione generale dell´Unione monetaria europea”. Le misure precauzionali prese dai big dell´industria: «Al primo posto mettere in salvo il cash, per non vederselo trasformato in dracme, o congelato da improvvise restrizioni sui movimenti di capitali». L´allarme partito dalla Grecia lambisce già la Spagna, soprattutto dopo che la Bce ha bocciato il piano di salvataggio dell´istituto di credito Bankia: la tenuta dell´intero sistema creditizio spagnolo ora è più aleatoria.
Il Wall Street Journal spiega che i piani di evacuazione delle multinazionali dalla zona euro sono “gli stessi che furono messi a punto e collaudati più di un anno fa verso i paesi del Nordafrica coinvolti nella primavera araba”. Un paragone che certo non depone a favore di Atene e Madrid. Tra le misure già avviate dalle multinazionali più prudenti: “Esigere dai clienti locali dei pagamenti anticipati al 50%, accorciare l´incasso delle fatture a 15 giorni”. Lo chiamano “contingency plan” ma assomiglia di più ai preparativi di una ritirata strategica. Nel settore assicurativo, due colossi come Allianz Natixis avrebbero già sospeso le polizze di garanzia sulle esportazioni verso la Grecia, considerando troppo elevato il rischio che gli importatori locali non paghino più la merce, oppuro saldino i debiti in una nuova moneta locale pesantemente svalutata. Nella grande distribuzione, la catena francese degli ipermercati Carrefour avrebbe ridotto gli approvvigionamenti di beni di largo consumo dei marchi Nestlé, Danone, Procter&Gamble. E´ una spirale della sfiducia autodistruttiva, che si auto-amplifica: dal fuggi fuggi precauzionale delle multinazionali non può che venire un altro colpo alla fragilissima economia greca, già in caduta del 6,2% nel primo trimestre.
Perfino l´America è colpita in pieno dal ciclone dell´euro-sfiducia, e questo spiega il nuovo pressing di Obama nella teleconferenza di mercoledì sera con Angela Merkel, François Hollande e Mario Monti. Il dato sull´occupazione Usa a maggio è molto deludente: sono stati creati solo 69.000 posti aggiuntivi (al netto dei licenziamenti), meno della metà del previsto. Una crescita del lavoro così asfittica fa sì che il tasso di disoccupazione torni a risalire, dall´8,1% all´8,2%. Il dato di maggio è il peggiore dall´inizio dell´anno e il New York Times lo giudica “potenzialmente devastante per Obama”. Le sue chance di rielezione perdono quota, via via che l´opinione pubblica vede sfumare una ripresa che solo tre mesi fa pareva robusta. Per Obama questo è il “terzo remake” di un brutto film. Già nella primavera del 2010 e nella primavera del 2011 accadde lo stesso: un inizio di ripresa Usa, abortito per colpa dei venti di paura venuti dall´eurozona. Ora vi si aggiunge un effetto circolare: le potenze emergenti Cina, India, Brasile, perdono colpi tutte insieme. Non c´è una sola locomotiva di crescita nel mondo, che riesca a compensare lo shock depressivo generato dall´eurozona. Gli unici beneficiari sono i Bund tedeschi che ormai vengono collocati sul mercato a tasso zero. Ma il credito a buon mercato è un vantaggio modesto per la Germania, se i suoi sbocchi di esportazione si rattrappiscono: è quel che Obama ripete alla Merkel, tentando di far leva sull´interesse nazionale tedesco che pure finirà per pagare dei prezzi.

La Repubblica 02.06.12

"«Meno corruzione con più donne impegnate in politica» La crescita? Con l'occupazione femminile", di A. Bac.

Un capitolo tutto dedicato alle donne. Già questa è una novità degna di nota nella storia delle relazioni annuali di Banca d’Italia che, come istituzione, ha già approfondito il tema femminile in numerosi studi. Ma se i dati sul divario di genere sono per lo più quelli noti, e condannano l’Italia al 90° posto su 145 nella graduatoria dei Paesi che consentono alle donne pari partecipazione e opportunità economiche, coraggioso è l’approccio.
«A una più elevata presenza di donne tra gli amministratori pubblici corrispondono livelli di corruzione più bassi e un’allocazione delle risorse orientata alla spesa sanitaria e ai servizi di cura e istruzione» si legge in un passaggio della relazione, che cita «evidenze internazionali» in questo senso. E ancora: «Una maggiore occupazione femminile si associa – secondo la relazione – all’acquisto di beni e servizi, specie quelli di cura, altrimenti prodotti all’interno della famiglia, stimolando l’espansione di un mercato in Italia poco sviluppato». E in definitiva «può determinare una crescita complessiva del Pil».
La realtà però è un’altra: il tasso di occupazione femminile nel 2011 era inferiore di 21 punti rispetto a quello maschile; il divario salariale era in media del 6% tra il 1995 e il 2008; nelle imprese con almeno 50 dipendenti è donna il 12% dei dirigenti, mentre a ricoprire un ruolo di alta dirigenza nei cda di imprese con oltre 10 milioni di fatturato c’è solo un 9% di donne, con qualche miglioramento nell’ultimo anno nelle società quotate, grazie alla legge che impone le «quote rosa». Impressionante anche il dato relativo alle difficoltà di accesso al credito delle imprenditrici, che oltre a «dover fornire garanzie più frequentemente, pagano un tasso di interesse più alto sugli scoperti fino a 30 punti base».
Insomma, anche se ragioni legate all’etica e all’economia consiglierebbero un cambiamento, l’Italia si caratterizza ancora per un forte divario e «per la diffusione di pregiudizi valoriali non favorevoli alla presenza femminile nell’economia e nella società». Ma se questi pregiudizi vanno condannati, suggerisce Banca d’Italia, ci sono invece «diverse attitudini» da valorizzare. È questo forse il capitolo più curioso della relazione, laddove ci si spinge a sostenere che le differenze attitudinali tra i sessi «siano esse di origine biologica o culturale, sono ampiamente documentate». E le si elenca: «Le donne appaiono caratterizzate da una maggiore avversione al rischio, da una minore autostima, da una più accentuata avversione per i contesti competitivi». Se tutto questo è vero, allora, si osserva, si generano fenomeni di «discriminazione implicita» laddove «vengano premiate sul mercato del lavoro caratteristiche più diffuse tra gli uomini».

Il COrriere della Sera 01.06.12

Ghizzoni presidente commissione cultura della Camera "Occorre archiviare la stagione dei tagli indiscriminati e prevedere un piano pluriennale di investimenti", di Nico Perrone

On. Ghizzoni, lei è il primo presidente di commissione del Pd, quali le priorità per il suo nuovo incarico?
Premetto che sono felice per la convergenza raggiunta dai gruppi parlamentari sul mio nome. La sostanziale unanimità che si è determinata consentirà di ricercare la più ampia condivisione sui tanti provvedimenti che dovremo affrontare in quest’ultimo periodo della legislatura: dalla scuola, ai beni culturali, allo sport, alla legge sullo spettacolo dal vivo, all’editoria. Tutte tematiche molto importanti che incidono fortemente sulle possibilità di crescita del paese.

La scuola, l’università, sui media si parla dei nostri ‘cervelli’ in fuga. Che cosa si puo’ fare, subito, adesso per arrestare il nostro impoverimento?

Occorre archiviare la stagione dei tagli indiscriminati a settori così fondamentali e prevedere un piano pluriennale di investimenti che possa aprire il nostro sistema della conoscenza. L’intenazionalizzazione è fondamentale, dobbiamo quindi prevedere politiche attrattive nei confronti dei giovani talentuosi non italiani e interventi concreti per trattenere i nostri. Si tratta in sostanza di invertire rotta rispetto ai tagli del passato e salvaguardare il grande investimento in conoscenza che altrimenti andrebbe disperso all’estero. Disinvestire in istruzione, università e ricerca è stato un vero e proprio suicidio. La prossima legge di bilancio dovrà sancire definitivamente questo principio.

La crisi, i tagli, i primi a cadere molte volte sono i settori culturali. Destino segnato?

La scelta dei tagli è stata una scelta politica, non certo tecnica. Si potevano raggiungere i medesimi obiettivi di bilancio con soluzioni diverse e soprattutto su altri capitoli di spesa. Ritengo irrinunciabile il potenziamento degli investimenti nei settori culturali: all’Italia di oggi spetta l’onere e l’onore di tutelare e valorizzare il proprio patrimonio culturale, storico e artistico. Anche perché ogni euro che verrà investito in questi settori avrà un elevato effetto moltiplicativo. Sono sempre più numerosi gli studi che dimostrano che la cultura fa da volano a molti altri settori del nostro sistema economico. Potremmo veramente essere un modello da imitare. Ma questo è un discorso che va oltre il mio nuovo incarico. In ogni caso, non mancherò di stimolare il dibattito e il dialogo con il governo. Anche perchè le sfide che ci attendono sono moltissime.

Una in particolare?

Bhè vede, in questi giorni non si può non pensare a quanto dovremo fare per i territori colpiti dal terremoto. La commissione farà certamente la sua parte per aiutare e sostenere il governo nelle scelte per la ricostruzione del patrimonio storico artistico e dell’edilizia scolastica con l’ambizione, nell’ultimo caso, che a settembre l’anno scolastico possa iniziare regolarmente anche in quei territori. Io provengo proprio da quelle zone martoriate e sento un particolare senso del dovere verso quelle comunità.

Sentirà in commissione alte personalità della cultura per individuare non solo i problemi ma anche le soluzioni?

Le modalità di lavoro verranno condivise con tutti i gruppi, è chiaro però che il confronto con il mondo della cultura è, di per se, fondamentale e cercherò di stimolarlo anche per sanare la frattura che errare politiche del passato hanno indubbiamente creato. Peraltro non è una novità per la commissione cultura di aprirsi ai contributi esterni, all’ascolto delle opinioni dell’eccellenza del nostro paese.

Agenzia Dire

E la campagna sprofonda nel passato "Come dopo la guerra, viviamo di baratti", di Luigi Spezia

Basta lasciare la statale 12 che taglia in mezzo al terremoto e scendere in un angolo di campagna per tornare indietro nel tempo, scoprire storie che le statistiche della Protezione civile ignorano. Si fa il bagno nella vasca delle tartarughe, si piazzano i frigoriferi in mezzo all´aia, si affittano container per proteggere le cose strappate alle scosse, si ricorre al baratto, si invitano a cena i vicini che non sanno dove cucinare perché la casa è mezza distrutta. Un quadrivio di stradine a caso: via Di Mezzo, Via Personali, via Baccarella, via Margotta, nomi che non si trovano nemmeno sulle carte. Oltre gli alberi il campanile del Duomo di Mirandola rimasto in piedi, qua e là, sopra il grano quasi maturo, i capannoni rimasti in piedi della grandi multinazionali della biomedicina. Lontano dai riflettori e dalle discussioni sul terremoto, qui si è tornati all´economia di guerra, si scambiano le cose di prima necessità, ci si ingegna e arrangia come si può. «La spesa l´andiamo a fare nel mantovano, nei paesi qua attorno è tutto chiuso. Ieri al forno di San Possidonio ho comprato gli ultimi due chili di pane, il resto finito tutto. Ci arrangiamo con quello che c´è, una volta in fondo si viveva con molto meno».
Gente abituata a lavorare, investire, produrre, veder crescere famiglia e impresa si sente ora sprofondare nel passato. Nelle campagne, dove si lavora la terra ma magari si ha un posto in fabbrica, non c´è casa, corte o fienile che non abbia un danno. Claudio Bertoli mostra la schiera di magazzini ricamati di crepe. «Dormiamo fuori, come tutti. La paura non è passata. Abbiamo aggiustato una vecchia roulotte. Io e mio figlio abbiamo due officine a Concordia, crollate. A 54 anni posso pensare di investire ancora? Non lo so. Però si riscoprono tanti valori rimasti nascosti. Mio padre l´altra sera ha riunito la famiglia, ha detto: “Ci siamo tutti, conta questo. Il resto si risolve”. E qui ci diamo tutti una mano. Si va a casa dei vicini: cum´andemmia? Come andiamo? E se uno ha bisogno, si aiuta».
Claudia Busoli, la vicina, vive in tenda con la figlia e il marito. Piange: «La casa sembra intatta, ma la scala è crepata. La stalla e il capannone sono da buttar giù. Sono morte una trentina di galline. Io lavoro alla Bellco, è chiusa. Dopo il primo terremoto avevano previsto quattro mesi di cassa integrazione, ora chissà. Niente più tv, siamo riusciti a trovare qualche bottiglia d´acqua a Mirandola, la condotta per l´irrigazione è chiusa e il pozzo s´è riempito di sabbia. Nell´orto un po´ di insalata c´è, scorte ne abbiamo. Ma poi?». I due trattori del marito per curare i campi sono rimasti sotto le macerie. Poco più avanti passa una jeep dei vigili del fuoco e una donna corre verso il cancello agitando le mani. I vigili si fermano, ma non possono fare niente. La donna con gli occhi umidi implora che entrino a vedere i danni della casa, loro vengono da Asti, hanno un altro compito da svolgere. La casa della donna appena ristrutturata è piena di crepe, fuori e dentro. Il fienile e la lavanderia sono puntellati con grosse assi di legno. Tende nel giardino, dove dormono lei, il marito, i due figli e le fidanzate riparate in campagna. «Non abbiamo più niente per puntellare la casa – dice Santo Gallo, il capofamiglia – per cucinare usiamo le vecchie bombole del gas rimaste di una volta».
Bombole di gas non se ne trovano più, qualcuno le va a ricaricare nei distributori di gpl, che è proibito. La doccia è un traliccio coperto di teli con un bidone d´acqua sopra che si scalda al sole quasi estivo. I due ragazzi della famiglia hanno aiutato la vicina, Daniela Pareschi, a tirare fuori dalle macerie di casa il frigorifero salvavita: «Sì, è vero, sono diabetica e devo tenere al fresco l´insulina – raccolta lei – . Questa signora è mia madre che ha 91 anni e ha l´Alzheimer. La verranno a prendere in ambulanza per sistemarla in una casa protetta a Parma o al mare». La signora anziana è in carrozzina, messa dentro un carro coperto. «È una carovana, una volta si attaccava dietro al trattore e portava il gasolio per i lavori nei campi». Nemmeno Daniela ha più acqua per irrigare l´orto: «Questa è la vasca dove prima nuotava la tartaruga che avevo salvato in una discarica. Adesso io e mio marito la usiamo per lavarci. E quello è il water»: tre vecchi pneumatici impilati uno sull´altro. Daniela è stata aiutata ma avrebbe voluto anche lei fare qualcosa: «Mettere qui una tenda per mia mamma e gli anziani di due mie amiche che abitano in città». Poi alza la testa: «Guardi là, Prandini sta portando via i maiali».
Guido Prandini abita in fondo alla strada sterrata e la sua vecchia casa è messa molto male. Osserva con uno sguardo disperato. «Cento maiali li ho portati nell´altro stabilimento di Bastiglia, è più sicuro. Altri seicento sono ancora qui. Se siamo ancora vivi dobbiamo aiutarci. L´altra sera abbiamo cotto le braciole anche per i vicini e quando abbiamo avuto bisogno di pane ce l´hanno prestato». Anche Prandini dorme in tenda come il figlio e la compagna che allatta Giada, di 37 giorni. «Meno male che la putina sta bene, in tenda riesce a dormire. La mia paura era tutta per lei, è il nostro avvenire». A cento metri dell´incrocio ecco l´agriturismo “Da Frandull”, lo gestiscono le sorelle Franca, Deanna, Laura, Liliana e Ida. “Frandull” era il nonno, negli anni anteguerra fattore del conte Luigi D´Arco. Nel locale mostrano con orgoglio le foto storiche di una celebrità locale, Fatima Miris, grande allieva di Fregoli lodata da Matilde Serao. La casa di famiglia è lesionata nello spicchio di una delle sorelle, Ida sovrintende alla cucina: «Il ristorante è rimasto illeso, è l´unica struttura qui attorno costruita con criteri antisismici. Sotto la veranda apparecchiamo tutti i giorni per venti, trenta persone. Parenti e amici sfollati qui nel prato, vicini che non hanno più la cucina. Fino a che questo disastro non sarà passato, a casa mia mangiano tutti senza pagare».

La Repubblica 01.06.12

"Una psicosi più forte della paura", di Giovanni Cocconi

Non si parla della parata del 2 giugno tra i terremotati dell’Emilia. Non si parla dell’accise sulla benzina né dell’inchiesta aperta dalla procura di Modena. Si parla, invece, e molto degli “esperimenti con il gas” e non come di una leggenda metropolitana. Rivara è il nome chiave di una psicosi forte quasi come la paura di una nuova scossa, che racconta un caso da manuale dell’incrocio esplosivo tra storia della comunità locale, informazione in rete e opinione pubblica.
«C’è qualcosa che non va, non si è trattato di un semplice sisma» ripetono in tanti, tantissimi, qui tra le tende montate un po’ ovunque e nei centri di accoglienza.
Non convince, innanzitutto, una coincidenza assai rara come quella di due terremoti, terribili, a distanza di appena dieci giorni in una zona che non conosce eventi del genere da moltissimi anni, tanti che anche i vecchi non riescono a ricordare. E poi c’è la storia del rigassificatore di Rivara (in realtà un deposito per lo stoccaggio del gas), un progetto sempre osteggiato ma mai davvero tramontato, che ha inciso nel profondo delle vite delle popolazioni locali.
Tra San Felice sul Panaro e Cavezzo, tra Medolla e Finale Emilia, è impossibile non imbattersi nel cartello giallo “No gas” dei comitati civici nati per dare battaglia, con il consenso di amministratori pubblici e cittadini. «Ma non sono come i No Tav» ci spiega Francesco Pullè, ingegnere di San Felice sul Panaro, a pochi chilometri da Rivara. «Non c’è nessun collegamento tra il progetto e il terremoto, ma capisco perché in tanti qui lo facciano: nonostante non siano mai arrivate le autorizzazioni alle trivellazioni da parte della regione e nonostante il parere contrario della provincia e del comune di Modena sono convinti che gli esperimenti siano stati fatti».
E che esperimenti. Sì, perché – ci spiega Billè – il progetto Rivara prevede delle vere e proprie «prove sismiche» provocate artificialmente per verificare le reazioni a 2500-2800 metri di profondità. Lo si trova scritto anche sul sito della società Independent Gas Managament srl, quotata alla Borsa di Londra, che si è associata anche alla Erg per vincere le fortissime resistenze locali: «La fase di accertamento consiste nelle prospezioni sismiche 2D e 3D, nella perforazione di 3 pozzi e nelle analisi relative».
«A Crevalcore arrivano sia il gasdotto dall’Algeria che quello dalla Russia quindi c’è potenzialmente moltissima disponibilità di gas» continua Billé. Qui il rapporto con le estrazioni di energia è antico di cinquant’anni quando l’Eni di Enrico Mattei scoprì il famoso Cavone. Negli anni Ottanta, poi, altre esplorazioni dell’Eni hanno dimostrato l’esistenza di acqua calda a 2800 metri di profondità, dove si vorrebbe stoccare il gas nelle crepe e nelle fessure naturali presenti nella montagna sepolta sotto Rivara. La prima valutazione di impatto ambientale, però, ha bocciato il progetto. Un decreto del ministero dell’ambiente dello scorso 17 febbraio, invece, ha consentito l’apertura di alcuni pozzi esplorativi, ma non degli “esperimenti sismici”. Che, invece, secondo parte della popolazione, sarebbero già stati fatti, tenendo all’oscuro un po’ tutti.
«C’è qualcosa che non ci raccontano perché non possono» è la versione più accreditata tra gli sfollati. Qualcuno arriva anche a pensare che l’altro giorno non ci sia stato un vero e proprio terremoto naturale. Molti altri, più semplicemente, pensano che il sottosuolo sia stato danneggiato dalle esplorazioni della Independent rendendo ad alto rischio sismico una zona che non lo era mai stata. Naturalmente la psicosi è condita del classico strabismo delle fonti: la stampa scritta fornisce la versione “ufficiale” e mente, il web toglie il velo e racconta la verità.
Inutile dire che, dopo il terremoto, il progetto Rivara è tutto in salita. Anche il ministro dell’ambiente Corrado Clini ieri ha detto che «l’evento sismico ha cambiato i termini di riferimento perché si è realizzato quello che nel progetto iniziale in parte era immaginato, ma non in questi termini. È evidente che la situazione è molto più critica di prima». Il terremoto vero ha spazzato via tutto, anche quello finto.

da Europa QUotidiano 01.06.12