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Terremoto, Bersani: "Misure governo primo segnale forte. Parlerò con ministro Passera per iniziative su attività produttive"

“Si vede un primo segnale forte da parte del Governo sulle priorità di intervento segnalate dalla regione Emilia Romagna. Naturalmente guarderemo nel dettaglio il provvedimento e daremo il nostro contributo sui contenuti”. Lo ha dichiarato Pier Luigi Bersani, segretario nazionale del Partito Democratico, commentando le prime misure per l’emergenza terremoto emanate oggi dal consiglio dei ministri.

“Nelle prossime ore riferirò al ministro Passera le impressioni che ho ricavato, anche durante la mia visita di ieri sui luoghi del sisma, sulla drammatica situazione delle attività industriali e gli presenterò alcune idee da attivare con la massima rapidità”.

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Queste le prime misure varate dal Governo per le popolazioni colpite dal terremoto emiliano:

– la concessione di contributi a fondo perduto per la ricostruzione e riparazione delle abitazioni danneggiate dal sisma, per la ricostruzione e la messa in funzione dei servizi pubblici (in particolare le scuole), per gli indennizzi alle imprese e per gli interventi su beni artistici e culturali;
– l’individuazione di misure per la ripresa dell’attività economica. In particolare sono previsti un credito agevolato su fondo di rotazione CDP e sul fondo di garanzia MedioCredito Centrale;
– la delocalizzazione facilitata delle imprese produttive nei territori colpiti dal terremoto.
– la proroga del pagamento delle rate del mutuo e la sospensione degli adempimenti processuali e dei termini per i versamenti tributari e previdenziali, degli sfratti.
– la deroga del Patto di stabilità, entro un limite definito per i Comuni, delle spese per la ricostruzione.

A copertura di questi interventi è stato deciso l’aumento di 2 centesimi dell’accisa sui carburanti per autotrasporto così come l’utilizzo di fondi resi disponibili dalla spending review.

Il decreto legge varato dal governo con il Consiglio dei ministri di oggi “segue ai primi interventi di soccorso predisposti ieri dal Comitato operativo della Protezione Civile, che aveva giá operato per gli eventi sismici dei giorni scorsi dal 20 maggio al 23 maggio”.

“Il Comitato – si legge nel comunicato finale di Palazzo Chigi – ha potenziato i Centri operativi per la gestione dell’emergenza con l’attivazione di un nuovo Centro Coordinamento Soccorsi a Bologna, che si aggiunge a quelli giá attivi. Il Capo del Dipartimento, accompagnato da un team di esperti, ha avviato un sopralluogo nei territori colpiti dal sisma”.

“Contestualmente – prosegue il comunicato di Palazzo Chigi – le strutture operative del servizio nazionale della Protezione civile continuano ad operare nel territorio con un ulteriore potenziamento delle forze. Le strutture di accoglienza giá attive sul territorio sono state potenziate ciascuna del 20% per un totale di ulteriori 1250 posti letto”.

L’eventuale restante fabbisogno assistenziale nelle aree colpite dal terremoto sarà soddisfatto, si legge nel comunicato finale del Consiglio dei ministri a Palazzo Chigi, con il ricorso alle strutture alberghiere presenti nel territorio regionale.

Tra le misure approvate, c’è l’istituzione di una giornata di lutto nazionale per lunedì 4 giugno. Durante la giornata di lutto, spiega il comunicato finale di Palazzo Chigi, le bandiere nazionale ed europea sugli edifici pubblici di tutta Italia saranno esposte a mezz’asta. Si osserverà un minuto di raccoglimento nelle scuole di ogni ordine e grado. Sono inoltre auspicate iniziative autonome da parte delle associazioni di categoria del commercio per la chiusura degli esercizi durante le esequie degli scomparsi e la modifica dei programmi televisivi nella giornata delle esequie.

Il Consiglio dei ministri di oggi ha esteso lo stato di emergenza in seguito al terremoto alle Province di Reggio Emilia e Rovigo. Al presidente della Regione, Vasco Errani sono affidati i compiti di Commissario per la ricostruzione. Ai sindaci dei Comuni colpiti dal sisma sono affidate le funzioni di vicecommissari.

“Le decisioni assunte stamani dal Consiglio dei Ministri sono coerenti con quanto discusso in questi giorni con il Presidente del Consiglio Monti e con il Sottosegretario Catricalá”. Il Presidente della Regione Emilia-Romagna, Vasco Errani, ha così commentato il decreto approvato dal Governo che prevede interventi concreti per affrontare i problemi conseguenti al terremoto.

“Ritengo – ha continuato Errani – che siano un passo in avanti importante, positivo, che da fiducia ai cittadini, ai sindaci, ai lavoratori e alle imprese, per avviare da subito la ricostruzione delle zone colpite dal sisma.
Continuiamo a lavorare insieme – Istituzioni, protezione civile, volontariato, forze dell’ordine e servizi che operano sui territori delle zone colpite – per affrontare le enormi difficoltà che dobbiamo superare per restituire serenità alle comunità”.

www.partitodemocratico.it

"L’economia emiliana rischia un duro colpo", di Massimo Franchi

Se fino a lunedì era in atto una gara da parte di piccoli e grandi imprenditori bloccati dal terremoto per chiedere alla burocrazia di ridurre i tempi dei dissequestri per poter riprendere la produzione, le scosse e il terrore di ieri hanno rimesso giustamente la sicurezza come questione prioritaria. E così dalla Fiat ai tanti leader della meccanica e della packaging valley che formano l’asse di una delle zone più industrializzate e ricche del Paese, adesso si invita alla prudenza e si sostiene, d’accordo con il sindacato, che qualsiasi produzione ripartirà solo dopo che «saranno accertate condizioni di massima sicurezza».
Chiusi immediatamente in via precauzionale gli stabilimenti produttivi di Ferrari, Maserati, Lamborghini e Ducati, tutti vicini alla zona interessata dal sisma. Evacuato anche lo stabilimento Magneti Marelli di Crevalcore (Bologna). Né a Maranello, né a Modena, né a Sant’Agata Bolognese, né a Borgo Panigale, comunque, sono stati rilevati danni alle strutture. Per oggi però «sarebbe saggio non lavorare in attesa di verifiche», suggerisce il segretario regionale della Fiom Bruno Papignani, mentre una nota della segreteria nazionale evidenzia «le gravi responsabilità rispetto all’inadeguatezza delle strutture industriali che si sono dimostrate non adatte a resistere in casi di terremoti di tali dimensioni e il cui crollo sta determinando tante vittime. È gravissimo – continua la nota – che si sia ripreso a lavorare dopo il primo evento sismico senza aver verificato le condizioni di sicurezza degli edifici industriali e ben sapendo che le scosse sarebbero continuate. Per queste ragioni – conclude la nota – riteniamo indispensabile che la ripresa del lavoro avvenga solo quando, dopo le necessarie e opportune verifiche, si sia certi che i capannoni industriali siano in sicurezza».
La notizia dell’evacuazione degli stabilimenti Ferrari e Maserati è stata data in mattinata dal presidente della Fiat John Elkann «per fare in modo – ha detto – che i lavoratori possano stare a casa, ma non c’è stato alcun danno». «Voglio rivolgere un pensiero alle vittime del terremoto che di nuovo ha scosso l’Italia. Mi auguro – ha affermato il presidente della Fiat – che non ci siano altre vittime».
Tra le zone più colpite c’è Mirandola, nel Modenese, comune che ospita un importante distretto biomedico, con 4mila persone che vi lavorano su 25mila abitanti. «A causa del terremoto sono crollati
o sono inagibili l’80% delle fabbriche della nostra zona, che è il primo polo europeo del settore biomedico – spiega l’assessore allo Sviluppo economico, Roberto Ganzerli – . Nella zona ci sono moltissime aziende, anche a livello europeo, come la Sorin, la Gambro, la Belco e la B-Brown. In molte aziende – ha aggiunto l’assessore – erano in corso le verifiche per poter riprendere la produzione e questo dava speranza».
AGRICOLTURA IN GINOCCHIO
In ginocchio sempre di più anche l’agricoltura. La Coldiretti stima in almeno mezzo miliardo i danni nel settore agroalimentare, dopo i terremoti di queste ultime settimane. Da un primo monitoraggio, emergono «nuovi crolli e lesioni degli edifici rurali, come case, stalle e fienili, di capannoni e stabilimenti di trasformazione, danni ai macchinari e un totale di circa un milione di forme di Parmigiano Reggiano e Grana Padano rovinate a terra», il 10 per cento dell’intera produzione annua. Coldiretti però plaude alle parole del capo della Protezione civile, Franco Gabrielli, che ha indicato tra le priorità dell’emergenza «la situazione degli agricoltori. A questi, «saranno destinate roulotte, tende e prefabbricati perchè non si possono allontanare dalle loro fattorie e abbandonare la terra e gli allevamenti, dove è necessario garantire la custodia e l’alimentazione degli animali». Insieme a questa necessaria azione di assistenza, però, «il Consiglio dei ministri deve fare presto nel varare provvedimenti di sostegno alle imprese», perché per le aziende agricole delle aree colpite dal sisma «ci sono almeno 150 milioni di euro di tasse in scadenza entro il mese giugno». Secondo Coldiretti, «oltre alla prima rata dell’Imu occorre intervenire sull’Iva, l’acconto 2012 e il saldo dell’Irpef o dell’Ires». Inoltre, «sull’Irap e sui contributi Inps in scadenza a giugno, senza dimenticare le rate dei mutui e dei prestiti che ci aspettiamo vengano prorogate». Intanto, per aiutare le imprese terremotate, Coldiretti ha avviato una vendita straordinaria di Parmigiano Reggiano caduto a terra nei magazzini. È nata «una vera gara di solidarietà, tanto che si è reso necessario aprire una e-mail (terremoto@coldiretti.it) per rispondere alle migliaia di richieste d’acquisto di Parmigiano Reggiano “terremotato” ed altri prodotti agroalimentari».

l’Unità 30.05.12

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“Una tragedia del lavoro”, di Susanna Camusso

Volti di lavoratrici e di lavoratori segnati dal pianto per i loro compagni di lavoro, una babele di lingue e provenienze: sono le immagini che rappresentano drammaticamente il terremoto di domenica 20 maggio e quello di ieri, che ha devastato l’Emilia e in particolare la zona del modenese. Immagini di capannoni che si sono sbriciolati, che sono crollati, di fabbriche e luoghi di lavoro fermati dai danni del sisma, di tante, troppe persone segnate dal lutto. Alle famiglie delle vittime, ai sindaci dei comuni colpiti ed a tutti gli operatori impegnati nei soccorsi vogliamo esprimere tutta la nostra vicinanza e solidarietà. Colpisce, in particolare, che tra le vittime di ieri ci sia anche chi era entrato nello stabilimento per controllarne l’agibilità. Le zone terremotate avevano provato a ripartire e invece appaiono adesso colpite così duramente da interrogarsi con preoccupazione sul futuro non solo immediato. Ma ora è necessario non arrendersi e fare di tutto per non disperdere i tanti luoghi di lavoro che costituiscono il grande patrimonio produttivo di quel territorio. Nei giorni scorsi si era anche ipotizzato di trasferire i macchinari degli stabilimenti colpiti dal primo terremoto in capannoni vuoti per non fermare e compromettere quelle possibilità di lavoro. Oggi, dopo il sisma di ieri, tutto questo appare lontano. Appare in tutta la sua crudezza quanto sia importante in termini di sicurezza la costruzione e la prevenzione antisismica anche per i luoghi di lavoro. Appare in tutta la sua crudezza la necessità di non lasciare sole le popolazioni ed i comuni colpiti, di decidere, insieme alle forme di raccolta e di solidarietà sulle quali ci siamo subito mobilitati, come cominciare a ricostruire. E, va detto con chiarezza, servono risorse per le popolazioni colpite, per la messa in sicurezza delle scuole, per intervenire sui danni subiti dal patrimonio artistico e per la ricostruzione dei luoghi di lavoro, rimettendoli in condizione di ripartire. Bisogna farlo subito, anche nelle ore della paura e dell’emergenza, perché quello che non deve succedere è che passi l’idea che non c’è futuro e non ci sarà lavoro. Quelle immagini del lavoro prima vittima, che hanno tanto colpito, devono tradursi nella scelta di misure concrete per accrescere la sicurezza e far ripartire il lavoro.

l’Unità 30.05.12

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Emilia, la nuova strage di operai nelle fabbriche appena riaperte “Non volevamo perdere il posto”, di Michele Smargiassi

Puntuale come un impiegato che timbra il cartellino. Ha fatto svelto, stavolta, una manciata di secondi, quota 5,8, quasi come l´altro. Ma nel nuovo triangolo della distruzione, tra Mirandola Cavezzo e Medolla, una mezza dozzina di capannoni si sono afflosciati come fisarmoniche. Hanno nomi pratici da laborioso benessere emiliano, Gambro, Arnes, Menu, Vam, molti fanno parte del distretto del biomedicale, qui si producono organi artificiali, pacemaker, macchinari da sala operatoria per gli ospedali di tutta Europa, è una beffa crudele che il terremoto uccida dove si fabbrica la salute.
Avevano riaperto tutti da un giorno. Perché questa è una terra che vuole lavorare e non si vuole fermare mai, neanche quando dovrebbe. «Venerdì abbiamo avuto l´agibilità, era tutto a posto, è successo qualcosa che non doveva succedere dove non doveva succedere», spiega a bassa voce Mattia Ravizza, figlio di uno dei titolari della Haemotronic di Medolla, immobile dietro la bandella biancorossa mentre tirano fuori dai calcinacci la prima vittima, Paolo Siclari. Un altro dirigente dell´azienda, Claudio Cona, è affranto: «Abbiamo altri due stabilimenti, a Mirandola, erano danneggiati e non li abbiamo riaperti, questo invece era intatto…». I cani antivalanga abbaiano isterici fra i calcinacci per cercare gli altri tre operai che mancano all´appello. Un loro collega, quando ancora la polvere volava, ha provato a chiamarli al cellulare: uno suonava, ma non ha risposto nessuno. Il cugino di un altro ripete, desolato: «Biagio non era per niente convinto di tornare al lavoro, ma non voleva perdere il posto…».
Li hanno fatti rientrare nelle fabbriche, eppure non li hanno lasciati rientrare nelle loro case. Centinaia tra i settemila sfollati erano tornati sul posto di lavoro. Molti degli operai morti dormivano da dieci giorni in macchina, o nelle tende, e poi andavano in azienda. Le case di muratura fanno paura, nel cratere del terremoto infinito. Ma i capannoni di muratura, non dovrebbero fare la stessa paura? Sì, ma le case sono state sfollate e le fabbriche no, perché «in una tenda puoi andare a dormire ma mica a lavorare», dice l´operaia Nadia dell´Eurostets, la sua fabbrica è rimasta in piedi ma lei non riesce a tornare a casa in bicicletta perché le tremano le ginocchia, e poi si ribatte da sola: «ma si lavora per vivere, mica per morire». Riccardo della Haemotronic se lo sentiva: «Appena arrivato, ho liberato un po´ posto sotto la pressa pensando: se tira anche oggi, mi riparo lì», e il presentimento gli ha salvato la vita. Un suo collega ha un piede ferito ma non vuole andare a farsi curare, «Hanno evacuato anche gli ospedali e poi c´è gente messa peggio di me», lo hanno tirato fuori dai calcinacci seminudo, «per fortuna avevo un cambio in macchina». Due operai con accento meridionale imprecano sottovoce, «i soldi, tutto per i soldi», «lavorare come cani e morire come cani».
Ma era obbligatorio, tornare lavorare così presto? Con la terra che ha i brividi cento volte al giorno? Dai leader sindacali nazionali, Bonanni, Camusso, parte l´accusa: troppa fretta. La Fiom del distretto dà disposizioni perentorie: nessun operaio torni in fabbrica. Era proprio necessario tornare subito sotto quelle travone di cemento tirate su che sembrano appena appoggiate alle colonne, pensate quando il nemico più forte si pensava fosse il vento, castelli di carte su cui già da giorni indagano le procure? «E lei quanto voleva aspettare per ricominciare a lavorare? Una settimana, un mese, un anno? Lei forse sa quando arriva la prossima scossa?», davanti alla “Bbg” di San Giacomo Roncole, impolverato, in maglietta, uno dei soci titolari, «mi chiamano tutti Ivan», non vuole andarsene anche se hanno già tirato fuori i tre sepolti, uno era suo socio. Suo figlio, Giacomo Busoli, inveisce contro «quelli di Roma, ci spremono di tasse, ci costringono a non perdere un minuto, a trovare i soldi da soli per dare lavoro alla gente… Poi arriva Monti e dove va? Va a visitare le chiese, ma cosa importa se crolla un campanile, la gente non ci mangia con le campane, invece senza fabbriche qui finisce tutto, tutto». Michail, polacco, scappato fuori appena in tempo, ha già capito come finirà lui: «Avevo trovato casa e lavoro e ho perso tutti e due, non c´è più futuro in Italia per me e mia moglie».
Alla Haemotronics neanche i cani servono, bisogna far venire una sonda elettronica per cercare i corpi. Ed ecco, all´improvviso, verso l´una e mezza, il demone dà un´altra botta, i moncherini di colonne sbatacchiano, crolla una parete, «Via via via!» grida il comandante dei vigili del fuoco ai suoi. «Non ci lascia più», scoppia a piangere un´operaia con il camice verde strappato. Non è uno sciame sismico, è un´orda di scosse – cento in un giorno – che vanno e vengono, illudono e fregano. Dieci minuti dopo, i pompieri sono ancora li, a cercare nella polvere. La gente viene dal paese a vedere. «È colpa delle trivellazioni», la voce corre di bocca in bocca e diventa spiegazione, qui non l´hanno mai digerito quel progetto di serbatoio sotterraneo di gas a Rivara per il quale da anni si fanno studi e prospezioni. È un guaio grosso, quando non ti fidi più della terra sotto i tuoi piedi. Gabriele, «padroncino» di camion, oggi gira in Vespa, «stamattina ho spedito moglie e figli sul, Garda dove abbiamo una casa, io forse li seguo». Per sempre? «Vedremo».
Alla Meta di San Felice, meccanica di precisione, i musulmani pregano faccia a terra in una lunga fila nel piazzale, tra ambulanze e auto della polizia, per il loro Mohamed che era un animatore della moschea di Finale. Più in là un gruppo di sikh con barbe e turbanti piangono il loro Kumar detto Goldi. Un pezzo di Emilia multietnica scopre l´appuntamento con la morte in un paese straniero. Anche qui avevano ripreso il lavoro da un giorno: c´erano consegne da fare, termini da rispettare. «Mohamed non voleva tornare al lavoro, lo hanno obbligato», accusa il cognato Abdelrahman. Anche Singh Jetrindra, rappresentante della comunità sikh, dice la stessa cosa: «Kumar è dovuto andare a lavorare perché non poteva perdere il posto´´. Pavel, romeno, alla Meta lavora da dieci anni: «Correvo, ma le gambe non toccavano il pavimento», è ancora scosso. Anche lui, che non si fida a dormire sotto un tetto, sotto un tetto è tornato a lavorare, perché? «Non mi hanno obbligato, ma come fai a dire di no quando anche il padrone va dentro?». È l´Emilia delle fabbrichette dove anche i padrone si tira su le maniche. È gravemente ferito quel padrone, e proprio di fianco a lui una trave ha sepolto l´ingegnere con cui stava studiando rinforzi strutturali.
Sulla Statale il Ciao bar è incredibilmente aperto, Sonia guarda i lampadari ogni minuto ma intanto inforna piadine per gli uomini con la pettorina fluorescente, «Qualcuno deve pur dargli qualcosa». All´hotel Cantina si scusano «se il servizio non è all´altezza del solito». È una terra generosa e orgogliosa l´Emilia. Ma il demone che ghigna nel sottosuolo, e non la smette, alla fine logora ogni resistenza. Carla è una donna solida, fa la camionista per la Meta, dorme in auto da una settimana e poi va a lavorare, ma se le dici Carla, come si ricomincia?, ti guarda e ti risponde: «E chi si fida più di questa cosa?», batte il tallone sull´asfalto, «appena mi lasciano rientrare in casa faccio una cosa sola, prendo il libretto degli assegni e chi s´è visto s´è visto».

La repubblica 30.05.12

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Il presagio di Mohamad prima della tragedia “Ho troppa paura, voglio restare a casa”, di Luigi La Spezia

L´imprenditore, l´ingegnere, la segretaria: tutte le vite spezzate dal sisma. Il destino di Enzo, sfollato da giorni: era tornato nella sua casa lesionata, gli è crollata addosso. Operai, più di quanti ne morirono domenica 20 maggio, e imprenditori che cercavano di risollevarsi. E poi impiegate, pensionati, semplici passanti. La lista delle vittime del nuovo terremoto dell´Emilia arriva a quota 16 e ci sono ancora dei dispersi. I morti di questo nuovo tsunami terrestre sono tutti della provincia di Modena, mentre dopo le scosse di dieci giorni fa i morti si contavano solo in provincia di Ferrara. Il terremoto si è spostato più a Est. Cavezzo, Medolla, Mirandola, San Felice sul Panaro, Concordia, le vittime sono tutte di paesi e cittadine attorno alla statale 12 che porta alla città capoluogo, ora diventata una via tagliata dalle sirene incessanti di ambulanze e vigili del fuoco.
MAURO MANTOVANI
Il titolare della Aries di Mirandola, 64 anni, aveva un´impresa piccola, con venti dipendenti, ma attiva nel distretto del biomedicale, uno dei più avanzati d´Europa e deteneva alcuni brevetti che gli avevano consentito di superare la crisi di questi anni. È morto travolto dalla fabbrica già lesionata che aveva creato. «Era un bravo imprenditore e una persona incredibile, con tanti interessi. Tifosissimo dell´Inter, sapeva vivere con la sua famiglia. Grande lavoratore, non era sempre chiuso in azienda. Amava il mare e così aveva pensato di prendere una casa di vacanze in Sardegna». Lo ricorda Guido, che era compagno di scuola del figlio Maurizio, anche lui entrato a lavorare in fabbrica. Mauro Mantovani non si era dato per perso dopo i danni ai suoi capannoni del 20 maggio e per continuare a produrre in un settore che non si può fermare per le forniture agli ospedali, aveva già trovato un capannone nuovo.
MOHAMAD AZAAR
Marocchino, 36 anni, ma “cittadino italiano”, come precisa subito un suo amico davanti alla Meta di San Felice sul Panaro che gli aveva dato da vivere e sotto la quale è morto. Per ore, davanti alla fabbrica di meccanica di precisione sono sfilati gli amici della moschea e i parenti. Era diventato caporeparto, aveva famiglia a Finale Emilia, con un figlio di otto mesi e uno di cinque che la moglie piangente ha portato con sé tra la folla davanti al cancello della Meta. «Aveva paura, non voleva venire a lavorare, si vedeva benissimo che i capannoni non erano sicuri – protesta il cognato Abderraman Saoui – Su questo cellulare ho ancora le sue chiamate, lui pensava alla sua famiglia e chiedeva di poter stare a casa, ma diceva che era obbligato a lavorare».
KUMAR PAWAN
Aveva trentun anni ed era venuto dal Punjab a trovare fortuna in Italia. Abitava a San Felice sul Panaro da sette anni, insieme alla moglie e a due figli. È morto insieme al compagno di lavoro e di sventura Mohamad Azaar. Davanti ai cancelli della fabbrica si sono radunati anche parecchi indiani, con i loro copricapi colorati. «Si trovava a lavorare sotto il muro più vicino, quello che è crollato del tutto. C´erano anche molti scaffali su quel muro e lui è rimasto lì sotto», dice il cugino Chander Subhash.
GIANNI BIGNARDI
Ingegnere, è morto anche lui alla Meta, sotto una trave di una fabbrica che non era la sua, ma che era venuto a controllare per concedere l´agibilità, mentre gli operai – ma non tutti – continuavano a lavorare. Era di Mirandola, «un appassionato di fotografia e si era spinto a salire sui campanili delle chiese di Mirandola, che adesso sono tutti crollati, per scoprire delle immagini inedite. Le avevamo pubblicate sul giornale del Comune, l´Indicatore mirandolese», racconta l´addetto stampa del Comune.
EDDY BORGHI
Da qualche settimana c´era poco lavoro, per la sua impresa artigiana di pavimentazioni e aveva accettato di buon grado di andare a riparare il cartongesso devastato alla Bbg di San Giacomo di Mirandola, che sta per Bernini, Busoli, Grilli. «No, non posso credere che Eddy sia morto – piange un amico fuori della fabbrica di componentistica per conto terzi – Aveva 38 anni, ma era un ragazzo, sempre al centro degli scherzi, con i suoi capelli lunghi e il suo spirito». Lo ricordano come giocatore di calcio nella squadra amatori, il classico amico da compagnia nelle serate al bar del paese.
ENEA GRILLI
Contitolare della Bbg, 64 anni, tre figli. Lo ricorda con parole appassionate un socio sopravvissuto, Ivan Busoli, che era in fabbrica e ha «sentito la morte spingermi alle spalle»: «Avevamo 15 anni quando abbiamo cominciato a lavorare insieme. Abbiamo osato insieme: la nostra avventura dopo dieci anni da dipendenti si è trasformata nell´imprenditoria. Qui ci sono 40 anni di lavoro, ma non sarà la fine, riprenderemo anche in nome di Enea».
VINCENZO IACONO
Aveva 37 anni e da sempre lavorava alla Bbg. Lo ricorda Ivan Busoli: «Era un ragazzo splendido. Era venuto da Napoli con il treno, la valigia in mano e aveva bussato alla porta dell´azienda per chiedere di lavorare. Ci è piaciuto, gli abbiamo dato fiducia. Ora era il padrone della sua macchina a controllo numerico».
IVA CONTINI
Cinquantasei anni, è morta fuggendo dal capannone del magazzino di vernici Oece, nella zona artigianale di Cavezzo, dove stava lavorando. Nell´ufficio al piano di sopra sventrato, si vede sulla parete rimasta su una grande immagine di Gesù. Un addetto dell´azienda che viene a vedere i danni non vuol parlare, ma indica un paio di ballerine sopra il tetto di una macchina. «Quelle erano le sue scarpe». Una è rotta sul tallone. Con quelle ha cercato di fuggire senza riuscirvi.
DANIELA SALVIOLI
A 42 anni, è morta in un mobilificio sulla stessa via e a cento metri di distanza dalla Oece. Il mobilificio si chiama Douglas Mantovani, che il suocero della vittima, anche se è già in pensione e l´azienda è stata rilevata dal figlio Emanuele. Era al lavoro come sempre nell´amministrazione dell´azienda, dietro fatture e preventivi.
SERGIO COBELLINI
È stato colto dal terremoto per strada, nel centro di un altro paese devastato, dove non è rimasta in piedi nemmeno la caserma dei carabinieri, Concordia. Aveva 68 anni e due figli, pensionato della Landini Trattori di Fabbrico. La sua compagna russa, con la quale viveva da anni, Nina, si dispera sotto un albero, sfollata nel giardino accanto al condominio deserto: «Era uscito dicendo di andare al bar, me lo hanno riportato morto. Era un uomo semplice, l´unica passione che aveva era andare a pescare d´estate».
ENZO BORGHI
Ottantenne, era stato sfollato con la moglie dal 20 maggio nel campo della Protezione civile di Cavezzo, dove la sua casa era lesionata. Ieri mattina è andato nella vecchia casa di campagna, anch´essa danneggiata vicino alla quale curava un orticello. Era entrato in casa proprio quando è venuta la scossa più forte.
PAOLO SICLARI
Tutti morti nel crollo della Haemotronic di Medolla. Siclari è stato il primo ad essere recuperato dalle gru dei vigili del fuoco. Con lui, sono dispersi altri tre operai, due soli dei quali erano stati già individuati a tarda sera.
HOU HONGLI
Un cinese è l´ultima vittima il cui nome è stato diffuso in serata dalla Protezione civile.

La Repubblica 30.05.12

Volontari per forza. Il boom possibile del lavoro di pubblica utilità

Una serata con gli amici può costare anche molto cara se, dopo aver alzato il gomito, si viene fermati dalla stradale. Multe salate, confisca dell’auto e, nei casi più gravi, si può anche finire in carcere. Ma c’è un’alternativa che, però, non tutti conoscono: scontare la pena attraverso i lavori di pubblica utilità (Lpu), cioè svolgendo un’opera di volontariato non retribuita in favore della collettività. Un tipo di misura che, prevista per la prima volta con la legge sulla droga del 1990, sta conoscendo dal 2010 un incremento sostanzioso, anche se i numeri rimangono ancora di dimensioni ristrette rispetto alle potenzialità. Le persone ammesse agli Lpu sono state infatti 62 nel 2010 (anno dell’entrata in vigore delle nuove sanzioni del codice della strada), 830 nel 2011 e 1341 solo nei primi 4 mesi e mezzo del 2012, secondo i dati dell’Ufficio esecuzione penale esterna (Uepe) del ministero della Giustizia. Eppure si tratta di una soluzione molto vantaggiosa per il condannato: permette di non dover pagare l’ammenda, di non scontare la pena in carcere ma soprattutto di mantenere pulita la fedina penale. Un’inchiesta di Redattore sociale cerca di capire perché questo tipo di misure non decolla, quali sono i limiti nella gestione, ma anche di raccontare le storie di chi da volontario “per forza” ha poi scelto di continuare a mettersi al servizio della collettività.

I reati commessi. Su 1.341 persone che al 15 maggio 2012 hanno svolto lavori di pubblica utilità la maggior parte, ben 884, ha violato il codice della strada: è stato sanzionato, cioè, per guida in stato d’ebbrezza o sotto l’effetto di sostanze psicotrope. Ci sono, poi, 19 casi di persone condannate per spaccio e traffico di stupefacenti e altri 10 sempre per reati legati alla droga. Due per associazione a delinquere, altri due per associazione a delinquere legato al traffico di stupefacenti, due per reati legati all’uso di armi, una persona per lesioni, un’altra per furto e ricettazione. Ci sono poi altri 303 soggetti che hanno commesso reati di altro genere.

Uepe: “Una misura che stenta a imporsi: poche convenzioni, va promossa di più”. Sono solo poco più di mille in tutta Italia le persone che scelgono di dedicarsi alla collettività come pena alternativa. “È una misura che ha stentato a imporsi – sottolinea Luigia Mariotti Culla, direttore generale dell’Uepe presso il ministero della Giustizia – perché presuppone una competenza specifica anche dei presidenti dei tribunali che devono fare le convenzioni con gli enti territoriali e gli enti di volontariato. Abbiamo fatto due circolari per ricordare ai tribunali questa possibilità e degli incontri con l’ordine degli avvocati. E ora cominciamo a vedere i risultati: nell’ultimo periodo c’è stato, infatti, un vero e proprio incremento di questa misura.” Poche le convenzioni, ma anche poca informazione per una misura che, invece, secondo il dirigente dell’Uepe: “va promossa di più, perché ha un grosso rilievo pedagogico”. A pesare è anche la “diversa sensibilità” nelle diverse zone del Paese: con il Nord molto impegnato e le regioni del sud che registrano ancora pochi casi.

Una situazione a macchia di leopardo. È nelle regioni settentrionali, infatti, che le persone scelgono di usufruire maggiormente di questo tipo di pena, svolgendo un’attività non retribuita verso la collettività. Al 15 maggio 2012 secondo i dati dell’Uepe il maggior numero di persone ammesse a svolgere sanzioni di pubblica utilità risiede in Piemonte e Valle d’Aosta (398) e in Lombardia (243), seguono la Liguria (104) e la Toscana (98), l’Emilia Romagna (89) e la Sardegna (67). Maglia nera alle regioni del Sud: solo 4 in Basilicata; 6 in Campania; 8 in Calabria e 14 in Sicilia. Non solo, ma spostandosi da regione a regione si registrano situazioni anche paradossali. Nella provincia di Milano, per esempio, sono solo 15 (11 associazioni e 4 Comuni), gli enti autorizzati ad accogliere i volontari. Con le liste d’attesa che si allungano sempre di più. Come succede anche a Bologna dove le richieste superano di gran lunga i posti disponibili. A Roma, invece, è principalmente il Comune, che fa la mediazione con gli enti, e a fronte di una convenzione stipulata negli ultimi 5 anni per 450 persone ha avviato ai lavori di pubblica utilità meno di una cinquantina di persone. Anche per quanto riguarda le convenzioni stipulate e l’effettivo svolgimento del lavoro di pubblica utilità lo scarto è evidente: in totale sono 2.893 i soggetti “ammissibili” a Lpu nel 2012 (cioè il numero potenziale per il quale il tribunale ha stipulato una convenzione con gli enti) ma di fatto sono poco più di 1300 i soggetti ammessi. Anche qui il divario tra le regioni è sostanziale: con il Triveneto che stipula convenzioni per 496 persone e la Lombardia per 336, in confronto alla Campania che lo fa per 10 persone o la Calabria per 57.

Storie di “volontari per forza” ma anche per passione. Il diverso approccio che sul territorio si registra nella gestione di questo tipo di misure alternative, ha anche un altro rovescio della medaglia: nelle regioni dove gli Lpu funzionano si trovano storie di chi da “forzato” della solidarietà è diventato un volontario convinto. È il caso di Mamadou, che sta scontando la pena alla Casa della carità di Milano e che ha espresso la volontà di continuare a prestare servizio anche dopo aver chiuso i conti con la giustizia. Così come un ragazzo di Bologna, che dopo aver ecceduto con alcune sostanze ora aiuterà il Centro di accoglienza La Rupe per i banchetti di informazione sulla prevenzione da alcol e droghe.

CHE COSA SONO I LAVORI DI PUBBLICA UTILITA’. L’ordinamento italiano conosce diverse tipologie di attività non retribuite in favore della collettività. Uno di questi è il lavoro di pubblica utilità (Lpu), che rappresenta una sanzione sostitutiva della pena detentiva attraverso la prestazione di un’attività non retribuita a favore della collettività da svolgere presso lo Stato, le Regioni, le Province, i Comuni o presso enti e organizzazioni di assistenza sociale o volontariato. Il vantaggio principale è che con il Lpu, oltre a non dover scontare la pena in carcere e a non pagare un’ammenda, si lascia la propria fedina penale pulita.

Le leggi. E’ stato introdotto per la prima volta dall’art. 73 comma 5 bis Dpr 309/90 (il Testo unico sulla droga), ma è nel 2000, con il decreto legislativo 274 (Disposizioni sulla competenza penale del giudice di pace, articoli 52, 54 e 55) che si è data la facoltà al giudice di pace, per i reati di sua competenza, di applicare su richiesta dell’imputato la permanenza domiciliare o il lavoro di pubblica utilità. A differenza delle pene alternative (che vengono applicate in fase di esecuzione delle pena) queste due misure vengono previste in fase di giudizio. La prestazione di Lpu viene svolta a favore di persone affette da hiv, persone con disabilità, malati, anziani, minori, ex detenuti o stranieri; nel settore della protezione civile, nella tutela del patrimonio pubblico e ambientale o in altre attività pertinenti alla specifica professionalità del condannato. Un forte impulso è avvenuto nel luglio del 2010, quando con la legge n.120 art. 33, sono stati previsti i lavori di pubblica utilità anche per reati legati alla violazione del Codice della strada (mediante l’inserimento del comma 9-bis nell’art. 186 e del comma 8-bis nell’art. 187). Il controllo è affidato all’Ufficio di esecuzione penale esterna (Uepe).

Chi è ammesso. La sanzione viene applicata per i reati previsti dal comma 5 dell’art. 73 del Dpr 309 (produzione, traffico e detenzione illecita di sostanze stupefacenti di lieve entità), quando non può essere concesso il beneficio della sospensione condizionale della pena; viene comminata in alternativa alla pena detentiva e alla pena pecuniaria, con le modalità previste dall’art. 54 del decreto 274/2000. A usufruire del Lpu sono, inoltre, tutti i condannati per il reato di cui all’art. 186 del Codice della strada (guida in stato di ebbrezza) o per il reato di cui all’art. 187 (guida sotto l’effetto di sostanza stupefacente) ai quali sia stato concessa la sostituzione. La legge prevede, però, due condizioni ostative: la ricorrenza dell’aggravante di cui al comma 2-bis (aver provocato un incidente stradale) e aver già prestato lavoro di pubblica utilità in precedenza (il Lpu si può svolgere una sola volta).

I tempi. La durata della sanzione sostitutiva è commisurata alla durata delle pena, in deroga ai limiti previsti dall’art. 54, comma 2 del decreto legislativo 274/2000 (da 10 giorni a 6 mesi) e a tal fine la legge prevede anche autonomi criteri di ragguaglio. In particolare, nel caso delle violazioni del codice della strada un giorno di arresto corrisponde a un giorno di Lpu (mentre, a norma dell’art. 58 del 274/2000 un giorno di pena detentiva corrisponde a 3 giorni di lavoro di pubblica utilità). Sempre nel caso di guida in stato d’ebbrezza o sotto l’effetto di sostanze psicotrope, un giorno di Lpu corrisponde a € 250 di ammenda (mentre l’art. 55, comma 2 d.lgs nr. 274/2000 prevede un criterio di ragguaglio di € 12).

Come si accede. La sanzione viene disposta dal giudice su richiesta dell’imputato, con la sentenza di condanna o di applicazione della pena su richiesta delle parti a norma dell’art. 444 del codice di procedura penale (patteggiamento). Con la sentenza di condanna il giudice individua il tipo di attività, nonché l’ente o l’amministrazione dove deve essere svolto il lavoro di pubblica utilità. La prestazione di lavoro non retribuita ha una durata corrispondente alla sanzione detentiva irrogata. Il giudice, con la sentenza di condanna, incarica l’Ufficio di esecuzione penale esterna (Uepe) di verificare l’effettivo svolgimento del lavoro di pubblica utilità. L’ufficio riferisce periodicamente al giudice.

Dove e come viene svolto. L’attività di lavoro non retribuita viene svolta presso gli enti pubblici territoriali e le organizzazioni di assistenza sociale e di volontariato individuati attraverso convenzioni stipulate dal ministero della Giustizia o, su delega di quest’ultimo, dal Presidente del tribunale, a norma dell’art. 2 del decreto ministeriale 26 marzo 2001. Nelle convenzioni sono indicate le attività in cui può consistere il lavoro di pubblica utilità, i soggetti incaricati di coordinare la prestazione lavorativa e le modalità di copertura assicurativa. L’elenco degli enti convenzionati è affisso presso le cancellerie di ogni Tribunale. L’attività viene svolta nell’ambito della provincia in cui risiede il condannato e comporta la prestazione di non più di sei ore di lavoro settimanale da svolgere con modalità e tempi che non pregiudichino le esigenze di lavoro, di studio, di famiglia e di salute del condannato. Tuttavia, se il condannato lo richiede, il giudice può ammetterlo a svolgere il lavoro di pubblica utilità per un tempo superiore alle sei ore settimanali. La durata giornaliera della prestazione non può comunque oltrepassare le otto ore. Le amministrazioni e gli enti presso cui viene svolta l’attività lavorativa, assicurano il rispetto delle norme e la predisposizione delle misure necessarie a tutelare l’integrità fisica e morale dei condannati.

Revoca. In caso di violazione degli obblighi connessi allo svolgimento del lavoro di pubblica utilità, su richiesta del pubblico ministero, il giudice che procede o quello dell’esecuzione (con le formalità di cui all’art. 666 del codice di procedura penale), tenuto conto dell’entità dei motivi e delle circostanze della violazione, dispone la revoca della sanzione con il conseguente ripristino della pena che era stata sostituita. Avverso al provvedimento di revoca è ammesso il ricorso in Cassazione, che non ha effetto sospensivo. Il lavoro di pubblica utilità può sostituire la pena per non più di due volte.
Milano: troppe richieste e pochi posti. Roma: solo 45 persone coinvolte in un anno. Mamadou, 53enne di Brugherio, fermato in auto la sera di Capodanno nel Milanese per aver bevuto qualche bicchiere di troppo, è scampato a una multa salata e alla confisca dell’auto. Come? Grazie ai lavori di pubblica utilità, introdotti da un decennio, ma favoriti realmente dal 2010 come alternativa alla pena ‘tradizionale’ per chi viene sorpreso, tra l’altro, alla guida in stato d’ebbrezza. Non sono altro che un periodo di volontariato, stabilito in base alla sanzione (due ore di lavoro corrispondono a un giorno di reclusione e a 250 euro di multa), da svolgere in associazioni o enti pubblici convenzionati con il tribunale. Una pratica che ha riscosso successo tra i milanesi, che sempre di più scelgono quest’opzione. La conseguenza è che ci sono tante richieste a fronte di pochi posti. Nella provincia di Milano infatti sono solo 15 (11 associazioni e 4 Comuni), gli enti autorizzati ad accogliere i volontari e le liste d’attesa si allungano. “Nel 2011 – spiega Claudio Castelli, dell’ufficio del Gip di palazzo di Giustizia – le persone giudicate per questo reato sono state 2.254. Di questi circa 350 sono stati assegnati ai lavori di pubblica utilità”. L’intenzione però, afferma Castelli, è di “raddoppiare in tempi rapidi” il numero di enti disponibili. Diversa la situazione a Brescia, dove sono 45 gli enti convenzionati e non ci sono problemi di affollamento. Anche Mamadou ha avuto difficoltà a trovare un posto libero in cui svolgere le ore assegnategli dal tribunale. Da un mese lavora alla Casa della carità di Milano, dove oggi prestano servizio sette persone e altre nove sono in lista d’attesa. Per riavere patente e macchina il 53enne dovrà passare 250 ore con gli anziani ospitati dal centro. È lì da un mese ed è entusiasta. “Mi si è aperta una finestra sul mondo e una volta finito manterrò i rapporti” racconta. Anche altri due “volontari” scontato il periodo stabilito dal Tribunale hanno deciso di continuare a dare una mano alla Casa della carità. Mamadou ha tre figli e, spiega, la possibilità di rendersi utile per scontare la sua “disgrazia”, gli ha permesso di mantenere la serenità in famiglia e di non sentirsi un criminale. “Questa opzione, garantita a chi viene fermato in stato d’ebbrezza – sottolinea don Virginio Colmegna, fondatore dell’associazione – apre un tema centrale: la possibilità di gestire la pena in termini di utilità sociale”. Le uniche condizioni per poter svolgere i lavori di pubblica utilità sono: non aver provocato o essere stato coinvolto in un incidente ed essere stati fermati con un livello di alcol superiore allo 0,8 (la soglia massima consentita è 0,5). Una volta terminato il periodo di lavoro, che non può superare le sei ore alla settimana, vengono garantiti: l’estinzione del reato penale, la revoca della confisca dell’auto o della moto e il dimezzamento del periodo di sospensione della patente.
Dalla tutela dell’ambiente al servizio giardini, passando per l’arte-terapia. A Roma sono tanti gli ambiti in cui è possibile svolgere lavori di pubblica utilità, le attività non retribuite a favore della collettività, che sostituiscono alcune pene detentive (vedi scheda pubblicata). Nonostante siano misure vantaggiose per il condannato (perché permettono di non dover scontare la pena in carcere, pagare un’ammenda, e lasciano la fedina penale pulita) i lavori di pubblica utilità stentano, però, a diventare una prassi diffusa. Colpa delle lungaggini burocratiche ma anche di una cattiva informazione. Nella capitale a svolgere un ruolo di mediazione tra il Tribunale di Roma e gli enti è principalmente il Comune che si avvale per questo tipo di attività della cooperativa Pid (Pronto intervento disagio). Negli ultimi cinque anni (dal 21 maggio 2007 al 20 maggio 2012) il Campidoglio ha stipulato una convenzione per 450 persone. In realtà, spiega Silvia Giacobini, responsabile del progetto Lpu per la cooperativa Pid, i numeri di chi realmente ha usufruito del servizio sono molto più ridotti. “Nei primi anni erano due o tre le persone l’anno che svolgevano questa attività – afferma Giacobini –. Fino al 2010 il servizio non si è mai concretizzato in maniera massiccia. Poi nell’agosto 2010, con l’entrata in vigore delle nuove norme del codice della strada, in particolare per quanto riguarda gli articoli 186 e 187, le richieste sono aumentate. Abbiamo pensato quindi a un progetto ad hoc che è partito da gennaio 2011”. In tutto da gennaio 2011 al 30 aprile 2012 sono state avviate ai lavori di pubblica utilità attraverso la mediazione del Comune, 45 persone di cui 12 hanno già terminato il percorso, mentre 33 continuano a prestare attività non retribuita. Tre gli ambiti di impiego: la tutela ambientale e il servizio giardini; il Bioparco; le biblioteche e le attività connesse al dipartimento, soprattutto collegate alla rete della solidarietà (l’agenzia per le tossicodipendenze, i senza dimora, le case di accoglienza e i minori non accompagnati).

Ma queste attività hanno un reale valore educativo? “Molto è delegato alla persona – continua Giacobini – se pensa che si tratti di un percorso da cui poter imparare qualcosa, o se per lui è solo un’attività che ha l’obbligo di dover fare. In generale l’approccio è positivo rispetto alla sola repressione e soprattutto permette di avvicinare le persone a settori che prima non erano conosciuti, soprattutto in ambito sociale”. “In ogni caso si tratta un’esperienza forte – aggiunge -. Nel reato di guida in stato d’ebbrezza, per esempio, incappano spesso persone che non hanno avuto mai questo genere di problemi. C’è una sproporzione del danno”. Per ora al Comune non ci sono liste d’attesa di persone che vogliono svolgere Lpu. E le criticità maggiori risiedono soprattutto nella difficoltà a individuare un modello organizzativo tra le parti. “La legge presenta ancora alcune lacune – conclude la responsabile del Pid – non parla di chi dovrebbe fare cosa. E così ogni territorio si organizza a modo suo. L’altro problema riguarda la scarsa informazione”. Di cattiva informazione, parla anche Alfonso D’Ippolito, di Oikos, una delle tre associazioni oltre al Comune, ad aver stipulato convenzioni con il tribunale di Roma per Lpu. “C’è molta disinformazione in questo settore, anche da parte degli avvocati, che spesso non propongono questo tipo di misure”. In 12 anni, da quando cioè l’associazione ha iniziato a occuparsi dei lavori di pubblica utilità, l’utenza è molto cambiata. “Ci sono persone di estrazione sociale e cultura molto diverse – continua D’Ippolito – Per noi fare questo tipo di attività significa rispondere a un impegno sociale, fatto per aderire al principio di garantire una reale alternativa. Ma non è facile stare dietro a un’utenza così diversificata”. Di Art therapy si occupa, invece, Aletes l’associazione creata da Mario Salvo. “Lavoriamo nelle scuole con i ragazzi disabili, che cerchiamo di far partecipare ai nostri corsi di arte a seconda delle loro capacità – spiega Salvo – . Il mio motto è restituire i colori a chi li ha persi. E penso che l’arte sia un potente mezzo di comunicazione, integrazione e autostima”. L’associazione ha stipulato col Tribunale una convenzione nel 2011 per due anni, e attualmente ha avviato al lavoro di pubblica utilità due persone.

In Toscana oltre 100 persone svolgono Lpu, tanti i volontari all’Anpas e alle Misericordie. Sono oltre 100 le persone che svolgono lavori di pubblica utilità in circa 10 associazioni della Toscana evitando così il carcere attraverso la commutazione della pena. Si tratta in prevalenza di giovani ragazzi italiani (dai 20 ai 25 anni) in stato di fermo per reati relativi all’abuso di alcol e conseguente ritiro della patente. Rimangono solitamente a lavorare per una o due settimane, giusto il tempo per esaurire il tempo della pena (un giorno di carcere corrisponde a due ore di lavoro).

All’Anffas Toscana (Associazione Nazionale Famiglie di Persone con Disabilità Intellettiva e/o Relazionale) ci sono attualmente dieci persone che svolgono mansioni prevalentemente di accompagnamento di ragazzi disabili, attività di riabilitazione, giardinieri, operazioni di manutenzione, collaborazione con fisioterapisti, collaborazione nella musicoterapia. Non mancano quelli che svolgono mansioni da ufficio. All’Anffas, a differenza di molte altre associazioni, i giovani che scontano la pena lavorando sono soprattutto stranieri (circa il 60%). Anche in questo caso, il reato commesso è relativo all’abuso di alcol. Reati simili anche all’Anpas, dove si trovano soprattutto italiani. L’Anpas è una delle realtà associative toscane in cui ci sono più condannati: oltre 50 le persone che scontano la pena con mansioni di servizi di accompagnamento, centralinisti e addetti alle pulizie. Tante pene da scontare anche alle Misericordie: sono 6 le persone a quella di Firenze ma sono diverse decine quelle in tutta la Toscana. Anche qui le operazioni più frequenti sono il trasporto dei disabili. Sono invece 5 le commutazioni della pena in corso alla Caritas, dove i lavori sono i più disparati: centralinisti, lavori di segreteria, magazzinieri, addetti alla mensa. Anche qui, la maggior parte è costituita da ragazzi fiorentini che hanno alzato un po’ troppo il gomito. Infine, ci sono lavori di pubblica utilità anche all’Associazione Nazionale Tumori della Toscana, alla Polisportiva Silvano Dani e all’associazione Insieme.

“Misura utile, perché la gente corre meno per strada e muore di meno”. La testimonianza di una donna mestrina. Un brindisi e un gin tonic per festeggiare un matrimonio, il rientro a casa e l’etilometro della polizia che rovina la festa: sopra il limite, anche se di poco. Succedeva a una donna mestrina, T.T., di 38 anni. Quattro anni e un figlio dopo, arriva la sentenza di patteggiamento e la condanna tramutata in lavoro di pubblica utilità. Dalla sfortuna nasce un’esperienza di vita preziosa: 58 ore di servizio durante i weekend nella casa alloggio dell’Anffas di Mestre. “Un’esperienza fantastica” la definisce la donna, che annuncia di aver già chiesto il tesseramento poiché “è un’avventura che voglio proseguire. Si sono instaurati rapporti affettivi che intendo mantenere. Queste persone ti danno moltissimo, anche se tu non dai niente”. L’ Anffas di Mestre è una delle 15 realtà convenzionate con il Tribunale di Venezia, in larga parte comuni della provincia. “Conoscevo l’associazione perché in famiglia abbiamo avuto esperienze di servizio civile con loro – racconta -. Di fronte alla prospettiva di 4mila euro di multa ho preferito fare questa esperienza che mi ha arricchito. Tutti dovrebbero farla”. Ripensando a quella sera di quattro anni fa, T.T. spiega: “Non ho mai preso una multa in vita mia, eppure mi è successo questo. Sicuramente saranno molte le persone come me, catapultate in questa realtà. Comunque, ritengo che sia una misura utile, perché la gente corre meno per strada e muore di meno”. L’associazione mestrina ha all’attivo 28 richieste da parte di persone in attesa di sentenza. La convenzione con il tribunale risale a inizio anno ma la lista d’attesa è già lunga. “Abbiamo riscontri perfino da Belluno”, spiega la presidente Graziella Lazzari Peroni, che aggiunge. “Finora chi ha fatto quest’esperienza si è detto molto felice per aver conosciuto questo mondo di persone che troppo spesso sono invisibili e trasparenti”. A Padova gli enti convenzionati con il Tribunale sono circa 25, tutti comuni tranne qualche realtà come Ristretti Orizzonti, la rivista dal carcere di Padova. È lunga anche la lista di Treviso, con 46 convenzioni. Anche in questo caso, si tratta perlopiù di enti locali, a eccezione della Caritas di Vittorio Veneto e di tre cooperative sociali.

Puglia in forte ritardo, ma Lecce dà l’esempio per recuperare. La Puglia sta cercando con una certa decisione di recuperare il ritardo nell’applicazione dei lavoro di pubblica utilità (lpu). Dal 2011 il Provveditorato regionale dell’amministrazione penitenziaria (Prap) la promuove in particolare per le due fattispecie introdotte più di recente nell’ordinamento italiano: la sanzione prevista dal 2006 nei confronti dei tossicodipendenti condannati per violazioni di lieve entità del divieto di produzione, traffico e detenzione di sostanze stupefacenti; la sanzione prevista dal 2010 dal nuovo Codice della strada per i reati di guida in stato di ebbrezza e sotto l’effetto di sostanze stupefacenti, se tale condotta non ha provocato un incidente stradale. Proprio lo scorso anno il Provveditorato ha condotto un progetto pilota di ricerca-intervento denominato “Utilmente” per contribuire all’ampliamento delle possibilità applicative in Puglia del lpu, attraverso la diffusione delle informazioni sulla sanzione e il confronto tra quanti vi sono impegnati sul versante istituzionale e sociale. La ricerca ha evidenziato che oltre il 70% degli intervistati (magistrati e operatori del settore) ritengono che l’insufficiente informazione sia causa della marginale applicazione della normativa. A valle di questo progetto che ha coinvolto numerosi enti istituzionali e non, allo scopo di sensibilizzarli e di divulgare l’informazione sulla misura, sono stati stretti diversi accordi e convenzioni tra gli Uffici di esecuzione penale esterna (Uepe) provinciali, i tribunali, le organizzazioni del terzo settore ed enti pubblici come comuni e province. A un anno da questa azione voluta dal Prap di Bari, la situazione sul territorio regionale rispetto agli accordi stretti è ancora a macchia di leopardo. A Lecce si registra il più consistente numero di convenzioni sottoscritte, 29 complessivamente, tutte a cavallo tra il 2011 e il 2012: 24 sono stipulate dai Comuni, equamente distribuiti tra alto e basso Salento, 3 con associazioni di volontariato, 1 parrocchia e 1 comunità riabilitativa. Molto differente è la situazione nelle altre province, dove i numeri calano vertiginosamente (ad esempio Brindisi con due convenzioni sottoscritte e Foggia con una sola). Ma, indipendentemente dal numero di convenzioni stipulate, è bassissimo il numero delle persone inserite nella misura del lavoro di pubblica utilità in Puglia. In tutto il territorio regionale si contano al 15 maggio 2012, solo 15 persone che beneficiano della misura e quasi tutte praticamente nella provincia di Lecce (80%), cui segue la provincia di Brindisi con 2 inserimenti e quella di Taranto con un solo beneficiario. È totale invece l’assenza nel capoluogo barese, nella provincia di Foggia e della Bat. Numeri ben distanti dalle regioni del Nord Italia (Piemonte e Valle d’Aosta assieme contano 398 inserimenti alla stessa data, Lombardia 243, Liguria 152, Triveneto 157) e segno che molta strada ancora c’è da compiere in Puglia per l’affermazione di un diritto spesso disatteso per scarsa conoscenza o per totale disinformazione. Non ha dubbi sui motivi di questa situazione Eustachio Vincenzo Petralla del Prap di Bari e direttore dell’Uepe: “Il ritardo è dovuto a responsabilità sia della magistratura, sia degli enti che dovrebbero ospitare queste persone, difficoltà e resistenze legate soprattutto alla resistenza culturale a entrare nell’ottica che la sanzione non è solo la pena detentiva, e che questo tipo di misure possono servire a ridurre la detenzione e soprattutto ad ampliare l’area delle sanzioni, soprattutto laddove non si parla di delinquenza tradizionale, ma di infrazioni più o meno gravi che sarebbe davvero poco adeguato punire con la detenzione”. Per questo, secondo Petralla, laddove quest’inversione culturale è avvenuta, si vedono i risultati: “Sulla zona di Lecce – spiega Petralla – hanno lavorato bene il privato sociale, l’amministrazione penitenziaria, cioè l’Uepe di Lecce e la magistratura, lavorando di concerto. Questo ha consentito di sottoscrivere molti accordi. In altri posti in Puglia, sono state soprattutto le difficoltà organizzative, la sotto dotazione di organico, a non giocare favorevolmente”.

da Redattore Sociale

"I contadini e gli operai della mia terra ferita", di Michele Serra

La sola cosa buona dei terremoti è che ci costringono, sia pure brutalmente, a rivivere il vincolo profondo che abbiamo con il nostro paese, i suoi posti, la sua geografia, la sua storia, le sue persone. Appena avvertita la scossa, se non si è tra gli sventurati che se la sono vista sbocciare proprio sotto i piedi, e capiamo di essere solo ai bordi di uno squasso tremendo e lontano, subito si cerca di sapere dov´è quel lontano. e quanto è lontano, e chi sono, di quel lontano, gli abitanti sbalzati dalle loro vite. Si misurano mentalmente le pianure o le montagne che ci separano dal sisma. Prima ancora che computer e tivù comincino a sciorinare, in pochi minuti, le prime immagini, le macerie, i dettagli, i volti spaventati, la nostra memoria comincia a tracciare una mappa sfocata, eppure palpitante, di persone, di piazze, di strade, di case. Una mappa che è al tempo stesso personale (ognuno ha la sua) e oggettiva, perché è dall´intreccio fitto delle relazioni, dei viaggi, delle piccole socialità che nasce l´immagine di un posto, di un popolo, di una società.
Leggo sul video Cavezzo e subito rivedo un casolare illuminato in mezzo ai campi in una notte piena di lucciole, ci abitava e forse ci abita ancora un mio amico autotrasportatore, Maurizio, non lo sento da una vita, cerco il suo numero sul web, lo trovo, lo faccio ma un disco risponde che il numero è sconnesso.
A Finale Emilia viveva, e forse vive ancora, la Elia, la magnifica badante che accompagnò mia nonna alla sua fine. Era nata in montagna, nell´Appennino modenese, faceva la pastora e governava le pecore, scendere nella pianura ricca a fare l´infermiera era stato per lei, come per tanti italiani nella seconda metà del Novecento, l´addio alla povertà, l´approdo alla sicurezza: ma ancora raccontava con gli occhi lucidi di felicità di quando da ragazzina cavalcava a pelo, galoppando sui pascoli alti. Molti degli odierni italiani di pianura hanno radici in montagna. L´Appennino ha scaricato a valle, lungo tutta l´Emilia, un popolo intero di operai e di impiegati. La sua popolazione, dal dopoguerra a oggi, è decimata: dove vivevano in cento oggi vivono in dieci, come nelle Alpi di Nuto Revelli.
Andai a trovarla a Finale, tanti anni fa, per il funerale di suo figlio, era estate e l´afa stordiva. Le donne camminavano davanti e gli uomini dietro, si sa che i maschi hanno meno dimestichezza con la morte. Non c´erano ancora i navigatori e arrivai in ritardo, in quei posti è molto facile perdersi, le strade sono un reticolo che inganna, è un pezzo di pianura padana aperto, arioso, disseminato di paesi e cittadine, ma non ci sono città grandi a fare a punto di riferimento (anche questo, penso, ha contributo a limitare il numero delle vittime). Se sei un forestiero e l´aria non è limpida, e non vedi l´Appennino che segna il Sud e – più lontano – le Alpi che indicano il Nord, ti disorienti, non sai più dove stai andando. Forse da nessun´altra parte la Pianura Padana appare altrettanto vasta e composita, non si è lontani da Modena, da Bologna, da Mantova, da Ferrara, ma neppure si è vicini. Anche per questo ogni paese ha forte identità: non è periferia di niente e di nessuno. Uno di Finale Emilia è proprio di Finale Emilia, uno di Crevalcore proprio di Crevalcore.
Crevalcore è bellissima, è uno di quei posti italiani dei quali non si parla mai, una delle tante pietre preziose che ignoriamo di possedere. La struttura è del tredicesimo secolo, pianta quadrata, città fortificata. Ci andai molto tempo fa per un dibattito, cose di comunisti emiliani, ex braccianti e operai che ora facevano il deputato o il sindaco e discutevano di piani regolatori ma anche del raccolto di fagiolini, facce comunque contadine con la cravatta allentata, seguì vino rosso con grassa cucina modenese perché Crevalcore è ancora in provincia di Bologna, l´ultimo lembo a nord-ovest, ma è a un passo da Modena, e dunque tigelle con lardo e aglio.
Non riesco a ritrovare, di quei posti, un solo ricordo che non sia amichevole, socievole, conviviale. Non è vero che è la natura contadina, ci sono anche contadini diffidenti e depressi. È piuttosto l´equilibrio fortunato, e raro, tra benessere individuale e vincoli sociali, sono paesi di volontari di ambulanza e di guidatori di fuoriserie, di bagordi in discoteca e di assistenza agli anziani.
La parola “lavoro”, da quelle parti, è diventata una specie di unità di misura generale: li avrete sentiti anche voi, gli anziani, dire ai microfoni dei tigì “mai visto un lavoro del genere”, il lavoro cattivo del terremoto. Come fosse animato da uno scientifico malanimo contro il luogo, ha colpito soprattutto i capannoni industriali, le chiese e i municipi. E quei portici, quei fantastici luoghi di mezzo tra aperto e chiuso, con le botteghe e i caffé, che sfregio vederli offesi, ingombri di macerie e sporchi di polvere. Sono stati colpiti, come in un bombardamento scellerato, tutti i luoghi dell´identità e della socialità. La fabbrica e la piazza, che nell´Emilia rossa sono quanto resta (molto) di un modello economico che ha prodotto meno danni che altrove. Vorticoso come in tutto il Nord, con qualche offesa all´ambiente come in tutto il Nord, con qualche malessere (le droghe, lo smarrimento, la noia) come in tutto il Nord, ma con una sua solidità, un suo equilibrio, una ripartizione intelligente tra industria e agricoltura, tra acciaio e campi.
A proposito, chissà se ha subito danni lo splendido museo Maserati che uno dei fratelli Panini ha eretto a Modena all´interno della sua azienda agricola. Lamiere lucenti in mezzo alle forme di parmigiano biologico (come quelle che la televisione mostra collassate, e sono un muro portante anche loro) e l´odore del letame che lega tutto, fa nascere tutto. I muggiti delle mucche, in mancanza di meglio, per simulare il rombo del motore. Per quanto il terremoto abbia fatto “un lavoro mai visto”, il lavoro di quei padani di buon umore (quelli di cattivo umore, si è poi visto, sono stati una novità perdente) rimetterà le cose a posto, prima o poi. Quando tutto sarà finito, i morti sepolti, i muri riparati, e i visitatori non saranno più di intralcio ai soccorsi, andate a Crevalcore, e ditemi se non è bella.

La Repubblica 30.05.12

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“Quei vecchi sperduti nella giungla di macerie”, di Jenner Meletti

FORSE l´epicentro è qui, attorno a questo tavolino di plastica rossa. Un cartello, scritto a mano, spiega che qui ci sono gli «elenchi delle persone trovate e della persone da cercare». Il terremoto uccide, ferisce e fa anche perdere la testa. «Sono già state portate da me almeno dieci persone – dice Monica Benati, funzionaria del Comune, ora seduta al tavolo – che non sapevano più dov´erano e chi erano».
«Anziani, soprattutto. Sono scappati di casa dopo la scossa e poi si sono persi in mezzo a una giungla di macerie e di sirene». Qualcuno li ha presi per mano, li ha accompagnati al tavolo rosso, nel prato della scuola media diventata il nuovo municipio. «Avevano perso ogni punto di riferimento: dove c´era il duomo ci sono solo macerie, i bar sono chiusi, il forno è crollato. Per questi anziani – ma c´erano anche persone con meno anni – è stato come camminare nella nebbia. Li abbiamo dissetati e portati alla mensa, e abbiamo cercato per loro un posto sicuro, lontano da qui».
È però difficile andare «lontano» e fuggire da un sisma che sembra avere preso il galoppo verso paesi e città che prima avevano avuto qualche crepa e che adesso sono diventati «zona rossa». Inizia a Cavezzo, questo che purtroppo è il secondo viaggio nel cuore del terremoto, otto giorni dopo quella sembrava essere la sola «grande scossa». E invece arriva alle 9 del mattino, il nuovo colpo di maglio che scuote la terra. Il sindaco, Stefano Draghetti, ha un occhio pesto. Si è preso un calcinaccio mentre usciva dal Comune, che è nuovo e sembrava essere agibile. «Cavezzo è un paese morto, devo fare l´evacuazione». Chiama i vigili del fuoco. «Staccate il gas, ma lasciate la luce elettrica, altrimenti stanotte si morirà di paura». Quando mancano cinque minuti all´una, un altro colpo. La grande ruspa che è in via Cavour sembra un giocattolo. Sobbalza, salta e a destra e sinistra. Il boato del terremoto si confonde con quello dei crolli. Altre tre case, dopo quelle cadute alle 9, si spaccano in via Primo Maggio.
«Sono morti tre operai nei capannoni industriali», dice Maria Cristina Ferraguti, assessore alle attività produttive. «È morta anche Daniela Malavasi, che faceva la maestra alla scuola materna. Le volevamo bene tutti. La scuola era chiusa, e allora lei era andata a trovare il marito che ha una falegnameria, crollata di colpo. Stiamo cercando un anziano che abitava in via Mazzini». Cavezzo, 7300 abitanti, è conosciuto in mezza Emilia e anche in Veneto perché qui si svolge «Il gran mercato della domenica», con centinaia di ambulanti». «Funziona dal 1767, si è fermato solo con le guerre». Si fermerà anche adesso, con la guerra che è partita da sottoterra. Nella piazza del Monumento c´è un palazzo a due piani, ma basta guardarlo meglio per capire che fino a stamattina di piani ne aveva quattro. «E pensare – dice l´assessore – che ieri sera quasi ci mangiavano la faccia, quando abbiamo ordinato lo sgombero di 6 palazzine. Erano intatte, ma vicino a case pericolanti. C´erano decine di famiglie che non volevano andarsene. E questa mattina quella palazzine, per fortuna vuote, sono cadute tutte».
Riesce a sorridere, l´assessore Ferraguti. «Ci è rimasta la campagna, per fortuna. Metteremo delle tende nei campi di mais, vicino a strade sicure e lontano da ogni casa. I pochi sfollati della prima scossa li avevamo messi al palasport, ma oggi anche lì c´è stato un crollo». Ma arriveranno domani, le tende. Stanotte, come in tutta questa Bassa devastata, si dormirà in macchina, nei parcheggi lontano dai palazzi. Anche i vigili del fuoco stanno in mezzo alla piazza, perché con le scosse continua non si riesce a lavorare. «Interveniamo solo se ci segnalano dei feriti».
Il disastro di Medolla è lontano dal centro storico. È nei capannoni industriali del biomedicale che cadono giù come foglie in autunno, e sotto ci sono gli operai chiamati al lavoro. Sono operai anche Juri Lolli e Adil Meziane, arrivati dalla ditta Rcm di Monteveglio, nel bolognese, e ora in piazza Garibaldi a distribuire cibo. «Anche noi abbiamo sentito la scossa, stamattina, e abbiamo deciso di uscire dalla fabbrica. Ma c´erano i pasti pronti per la mensa, e allora li abbiamo portati qui». Il sindaco, Filippo Molinari, è sotto un gazebo. «Avevamo messo il Coc, centro operativo comunale, dentro la scuola elementare, che al primo colpo aveva resistito bene. Adesso anche la scuola è danneggiata, il Coc è all´aperto. Ho mandato una macchina con gli altoparlanti per dire a tutti di non rientrare nelle case. Aspetto 450 tende per stanotte, spero arrivino».
A Mirandola sembra tornato il medioevo. Tutte le porte della città, tutte le strade di accesso, sono presidiate da vigili e carabinieri. I nastri biancorossi sostituiscono le antiche mura. Quello che resta dell´ospedale è all´aperto, ma sembra organizzato bene. Ci sono le tende per la diabetologia, per la cardiologia, un container per la radiologia. Era crollato un pezzo del tetto del Duomo, otto giorni fa. Oggi è venuta giù anche la facciata, e anche la chiesa di San Francesco – la seconda dedicata a questo Santo, dopo quella di Assisi – e quella del Gesù, assieme a centinaia di case e palazzi. Il sindaco, Maino Benatti, sta gridando al telefono per chiedere nuovi soccorsi. «Mi avevate promesso tre colonne e adesso mi dite che entro stasera ne arriva solo una. Dove metto a dormire la mia gente?». Venticinquemila abitanti e già prima della nuova scossa il 45% delle case erano non abitabili. «Stavamo controllando il centro pezzo per pezzo – dice Maino Benatti – per recuperare le case agibili. Adesso non è più possibile. Tutto il centro deve essere chiuso e non so quando potremo mettere mano a una zona rossa così grande».
Nel prato dove c´è il tavolo rosso con le «persone trovate» ci sono anche gli altri «uffici comunali». Impiegati e dirigenti che sono qui anche se la loro casa è distrutta. «Sulla mia – dice Fabio Montella – sta cadendo la torre dell´acquedotto. Anche la mia compagna ha la casa distrutta». Ma sono tutti qui, a prenotare tende per i cittadini, a ordinare altri pasti per chi stasera non avrà nulla da mangiare. A Concordia, 9000 abitanti accanto all´argine della Secchia, a sera sono ancora tutti a digiuno. «E nemmeno per il pranzo non è arrivato nulla. Per un solo giorno, non ne facciamo un dramma». Qui si vive nel parco davanti al municipio e la caserma dei carabinieri, ambedue crollati. «Se la prima scossa è arrivata a 10 – dice il sindaco Carlo Marchini – questa è arrivata a 100. Non c´è più una casa in piedi, nel centro, e anche in periferia ci sono abitazioni implose. Speriamo che domani arrivi una tendopoli con 250 posti, per mettere al riparo i malati e gli invalidi. Io e tutti gli altri dormiremo in macchina».
Sono arrabbiati, qui a Concordia, perché pensavano di esser «fuori» dal terremoto. Davanti al furgone dei vigili del fuoco c´è chi chiede di entrare in casa per prendere le medicine, e chi invece vorrebbe un aiuto per tirare fuori dalla stalla venti vacche. «Dobbiamo salvare gli uomini, prima di tutto». Si aspettava una giornata quasi normale, con le ispezioni ai palazzi che erano stati lesionati. E invece la scossa ha anche ucciso. Sergio Cobellini stava uscendo dalla banca della piazza quando è stato travolto da un comignolo. Nell´angolo dov´è morto, da lontano, si vedono solo calcinacci.

La Repubblica 30.05.12

"Quegli infiniti secondi di terrore", di Mario Tozzi

Esplode con la forza di cento ordigni nucleari, si nasconde nelle profondità della crosta terrestre spezzando le rocce più dure e frantumando case, strade e palazzi. Ci fa mancare la terra sotto i piedi e mina alla base la fiducia stessa nel pianeta che ci ha generati. A differenza degli altri eventi non si preannuncia in alcun modo, si approssima silenzioso e poi risuona con un rombo cupo che spaventa solo a ricordarlo. Dilata il tempo fino all’inverosimile: trenta secondi di scosse equivalgono a trenta minuti di terrore ancestrale. Finisce quando decide lui e poi riprende quando hai appena fatto in tempo a calmarti. E’ contrario al senso comune, che ti spinge a precipitarti fuori casa, quando dovresti, invece, restare lì, e accoccolarti sotto un tavolo o un’architrave. Massacra le consuetudini quotidiane, sconcia i ricordi e di notte fa perfino tremare i sogni. Avevano ragione gli antichi, il terremoto è la catastrofe per antonomasia nel senso etimologico del termine, cioè l’evento che stravolge, che rovescia l’ordine costituito, che rovina per sempre.

E’ molto probabile che la stessa grande struttura geologica sepolta sotto la Pianura Padana che ha scatenato il terremoto del 20 maggio, sia ancora la responsabile ultima di queste scosse micidiali. Si tratta di un frammento di Appennino nascosto che rimane intrappolato nella spinta del continente europeo contro quello africano. E che per questo si spacca lungo una faglia lunga almeno quaranta chilometri. Solo che non si frattura tutto insieme (e forse non è un male), ma a strattoni, e ogni volta che si aggiusta fa tremare come una gelatina i sedimenti sabbiosi poco compatti della Pianura Padana. Sono sismi superficiali e per questo più dannosi, che possono risentirsi fino a Milano e in tutto il Nord. E sono destinati a presentare scosse di replica per settimane se non per mesi.

E’ vero che nessuna spiegazione può bastare a chi ha perduto parenti o amici o ha visto sbriciolarsi sotto gli occhi la propria casa, ma forse è venuto il momento di renderci conto che il nostro è un territorio a elevato rischio naturale. E non importa se si tratta di eruzioni vulcaniche, alluvioni, frane o terremoti: comunque non riusciamo a trovare una via di convivenza che altre nazioni hanno intrapreso con successo. Certo, il nostro patrimonio costruttivo è antichissimo e non abbiamo uno skyline di grattacieli, ma di palazzi e chiese. Preoccuparsi dell’infragilimento di questo patrimonio non è solo questione di sicurezza, ma anche occasione di rilancio e di sviluppo ragionato. Invece in nessun programma politico locale o nazionale compaiono questi temi, nemmeno quando si ricorda che la nazione più grande del mondo ripartì proprio dalla messa in sicurezza del proprio territorio dopo la crisi del 1929, attraverso un New Deal incentrato sulla mitigazione del rischio idrogeologico (anche se fatto a colpi di acciaio e cemento).

E’ vero, il terremoto mette addosso una paura atavica, primordiale che sa di polvere e di battaglia, quella ancestrale degli uomini contro la terra che diventa inospitale. E invece il terremoto è solo una testimonianza sfacciata della forza dinamica di un pianeta che è vivo e che muta costantemente i suoi equilibri. E l’Italia è uno dei paesi più giovani e geologicamente attivi del Mediterraneo: sarebbe bene adattarsi a questa condizione che non dipende in alcun modo da noi. Mentre da noi dipende la possibilità di convivere armonicamente con la natura di questo paese, se non trascuriamo la memoria e se a ricordarcelo non fossero sempre e solo le vittime.

La Stampa 30.05.12

"Don Ivan che cercò di salvare la Madonna", di Fabrizio Ravelli

Adesso di don Ivan ricordano un ultimo sorriso e le ultime parole. Lui si mette il caschetto di plastica blu. Rosanna lo prende in giro: «Ivan, ti faccio una foto?». Lui che risponde: «Sei scema?». Nemmeno dieci minuti da quando è dentro, nella sua chiesa già danneggiata e inagibile, insieme con due vigili del fuoco, e alle 9 arriva la scossa. Il tuono sotterraneo che mette i brividi. E tutto che si muove. Rosanna terrorizzata scappa nel parcheggio, inforca la bici e corre a casa dal marito Gino e dai figli. «Gino corri, corri. C´è Ivan là sotto». Muore così un prete bravo, molto amato, muore per salvare le cose preziose della sua chiesa. Una statua della Madonna, due busti di San Pietro e Paolo. Quattro candelabri. Reliquie ed ex-voto di Santa Caterina d´Alessandria. Don Ivan Martini, 65 anni fra un mese, originario di Cremona, è la vittima simbolo di questo nuovo terremoto che abbatte chiese e campanili fra Lombardia ed Emilia. Sono importanti i campanili in questa terra piatta, li vedi da lontano e sai che lì sotto, bene o male, c´è una comunità, c´è vita.
L´ultima foto di don Ivan gliela scatta Salvatore: amico d´infanzia, quasi fratello, coinquilino e sorta di badante. Si vedono di spalle i due vigili del fuoco, e lui davanti pure di spalle, col suo caschetto blu, mentre entra in chiesa. Quando la terra si ferma, la nuvola di polvere si posa, un pompiere esce barcollando imbiancato dai calcinacci. Si guarda intorno. Rientra a cercare il suo compagno. Escono in due. «E il prete, e don Ivan?», c´è Salvatore disperato. I due pompieri tornano dentro, e devono cercare qualche minuto prima di trovarlo sepolto dalle macerie. Afferrano un tappeto, ce lo appoggiano sopra per trascinarlo fuori. Lì, sulla piazza Giovanni XXIII, c´è un gran silenzio dice Salvatore. Lui è attaccato al telefonino: «Chiamo il 118, l´ambulanza, ma le linee sono fuori uso».
Niente ambulanza, bisogna arrangiarsi. Corrono sotto il tendone che sta dietro alla chiesa, portano un tavolo pieghevole di legno chiaro, e ci adagiano il prete come se fosse una barella. Gino porta il suo vecchio furgone, un Renault Trafic bianco, ci caricano don Ivan. Poi via a tutta velocità verso l´ospedale di Carpi, con la jeep dei pompieri davanti che ha la luce lampeggiante. Racconta Gino: «Siamo arrivati al pronto soccorso, è salito un infermiere che gli ha messo due dita sul collo per sentire la pulsazione. Ha scosso la testa ed è sceso. Gli sono corso dietro: ma come, nemmeno provate con un massaggio cardiaco? Intanto gli abbiamo pulito la faccia, e l´hanno riconosciuto: ma è don Ivan! Eccome se lo conoscevano, era una specie di cappellano dell´ospedale. Ma insomma, morto era morto già, e forse fin da quando l´han tirato fuori dalla chiesa».
In piazza a Rovereto, davanti al monumento dei caduti, c´è un tabellone con foto dei danni che il terremoto del 20 maggio aveva fatto alla chiesa. Le crepe sui muri e sul tetto. Quasi niente rispetto a quel che si vede adesso. La chiesa è intonacata di rosa, l´abside è spaccato in più punti. Il campanile in mattoni è sfregiato da una spaccatura verticale che arriva quasi alla bifora in cima. La cupola conica di tegole è smozzicata. E qui intorno, in un raggio di 15 chilometri, sono in tanti a rimirare sconsolati i resti delle loro chiese, e dei campanili abbattuti. Il duomo e la chiesa di San Francesco a Mirandola. Poco distante, nel mantovano, sono colpiti i campanili di San Benedetto Po, San Giovanni del Dosso, Poggio Rusco, San Possidonio, e la chiesa di Moglia. A Mantova è crollato il cupolino del campanile della basilica di Santa Barbara, accanto a Palazzo Ducale.
Dicono che don Ivan, dopo il terremoto del 20 maggio, fosse come a lutto per la sua chiesa. Già una volta ci si era infilato per salvare qualcosa. Poi aveva chiesto alla Curia di Carpi l´elenco delle cose preziose. È morto per andare, coi vigili del fuoco, a fare il piano per un salvataggio di quel che si poteva. Qui a Rovereto era arrivato dieci anni fa, lui che era della diocesi di Cremona era stato spedito come fidei donum, “in prestito” per dirla brutalmente. Faceva anche da cappellano alle carceri di Modena, e sosteneva una missione in Malawi. Su un blog di Novi, il comune di cui Rovereto è frazione, l´avevano paragonato a don Camillo, e dicevano come fosse afflitto per la perdita della sua “casa”.
Adesso i suoi scout si danno un gran daffare, perché la gente abbia qualcosa da mangiare. Daniele Viacci, 55 anni, è in perfetta divisa: braghe corte e calzettoni, cappello di feltro, fazzoletto al collo. Sua moglie Agnese pure: «Stamattina ero al lavoro, una società di brokeraggio a Modena. Alla scossa, sono corsa a casa e mi sono messa in divisa. È importante farsi riconoscere». Spignatta pasta col ragù, una pentolata da campo via l´altra: «Lo faccio per egoismo, così non devo pensare a cosa saranno i prossimi giorni». C´è un grosso tendone dietro la chiesa, l´avevano montato per una festa in programma il prossimo fine-settimana: «Per pagare i lavori della chiesa».
Tutta Rovereto è in strada. C´è una casa crollata a metà su via Chiesa, accanto al bar Dal Vré: si vedono una cucina spaccata a metà, una cameretta da bambino piena di pupazzi. Molte case hanno crepe impressionanti, e anche la Camera del lavoro. Ma nessuno ha il coraggio di tornare a casa sua, anche se non si vedono danni. E i pompieri comunque l´hanno vietato. Ciò significa che più di tremila persone dormiranno all´aperto, forse si monteranno tende per 3-400. Una colonna della Protezione civile, data in arrivo, ancora non s´è vista. Intorno ai tendoni si aggira Salvatore: «Per me Ivan era più di un fratello. Ero bambino in istituto quando i suoi genitori mi hanno preso sotto protezione. Ora non ho più lui, non ho più un lavoro, non ho più niente».

La Repubblica 30.05.12

Terremoto distrugge capannoni e case: 15 morti. Lutto nazionale il 4 giugno

L’Emilia stravolta dal terremoto. Dopo la forte scossa registrata nella notte tra sabato 19 e domenica 20 maggio e che ha provocato 7 morti, stamattina il modenese è stato colpito da 40 scosse di magnitudo superiore a 2.0 della scala Ritcher, di cui 5 superiori a magnitudo 4.0. Secondo il sottosegretario Catricalà, sono almeno quindici le vittime accertate finora, sette i dispersi, circa 200 i feriti e altri 8 mila sfollati. L’epicentro è stato tra Carpi, Medolla e Mirandola. La più forte, di magnitudo 5,8, è stata registrata alle 9,03. Ben 32 scosse nella mattinata sono state di magnitudo superiore a 3.0, in base ai dati forniti dall’Istituto nazionale di Geofisica e Vulcanologia.

Alle 13 due forti scosse a distanza di quattro minuti l’una dall’altra, la prima di magnitudo 5,3 e la seconda di magnitudo 5.1, hanno colpito il modenese. L’epicentro è stato Novi di Modena. Le scosse sono state avvertite distintamente anche a Bologna, Milano e Firenze. Dopo le 13, la terra ha tremato altre 5 volte in venti minuti. L’emergenza si fa sempre più drammatica.

La zona colpita contava già circa 7mila sfollati che ora sono diventati – provvisoriamente – almeno 7.500. Il terremoto si è sentito in tutto il centro nord, dal Piemonte alla Liguria, da Venezia a Pisa e fino all’Austria. Un’ipotesi inquietante: si sarebbe aperta una nuova faglia.
Secondo la prefettura di Modena, i decessi sono stati registrati a Mirandola (due persone) a Finale Emilia (una persona) a San Felice sul Panaro (3 operai morti per i crolli dei capannoni dove lavoravano) e a Concordia sul Secchia (una). Anche a Medolla è stato estratto, senza vita, un operaio della azienda Emotronic dove risultano dispersi altri due lavoratori. È morto anche Ivano Martini, il parroco di Rovereto, paese del modenese.

Sempre più cittadini, impauriti dalle scosse sismiche, sono scesi in strada. Nuovi crolli sono avvenuti a Mirandola, Finale Emilia e San Felice sul Panaro. Diverse strutture pubbliche sono state evacuate in via precauzionale come, ad esempio, l’ospedale di Carpi e il palazzo del Comune di Bologna. La scossa più forte di questa mattina ha provocato il crollo di decine di capannoni a Medolla. All’interno di queste fabbriche si trovavano numerosi dipendenti che stavano tentando di riordinare i macchinari per ricominciare a lavorare dopo la scossa del 20 maggio.

Il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, in visita a Faedis, in provincia di Udine, ha auspicato che «la storia del Friuli, sconvolto dal sisma del ’76, sia un esempio per l’Emilia Romagna».

Il presidente del Consiglio, Mario Monti, in sala stampa a palazzo Chigi accanto al presidente della Regione Emilia Romagna, Vasco Errani, ha garantito l’intervento «in tempi brevi» e chiesto ai cittadini delle zone colpite di «avere fiducia». L’impegno dello Stato, ha detto Monti, sarà «garantito da subito», le istituzioni «non sono impreparate».

da unita.it