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"La sfida del Pd riguarda i giovani", di Alfredo Reichlin

Sbaglia chi sottovaluta l’importanza della nostra vittoria elettorale. Capisco tutti i «se» e tutti i «ma» ma certi fatti sono impressionanti. Per esempio il fatto che tutte (o quasi) le città del Nord, il famoso Nord delle partite Iva e del triangolo industriale nel quale si diceva che la sinistra (questa sinistra così stupida, così antipatica, così inesistente) non poteva più mettere piede, sono governate dal Pd. Cambia qualcosa del volto dell’Italia. Vedo anche che questo Pd, così stupido, così antipatico, così inesistente, si colloca ormai al centro della situazione politica in quanto è il solo in grado di aggregare le forze democratiche e può portarle nella nuova corrente riformista che finalmente si sta formando in Europa e che ricomincia a vincere. Per cui cambiare diventa possibile.
Vedo tutto questo. Ma il risultato elettorale suscita in me anche altri pensieri. Il principale è se noi siamo all’altezza della situazione. In altre parole, se siamo in grado di rispondere all’interrogativo cruciale, davvero drammatico che si è riaperto a questo punto della nostra storia repubblicana. Dove va l’Italia? Il mio sia chiaro non è il dubbio di uno scettico. Io credo nel Pd. La mia domanda nasce dalla consapevolezza che la sfida del governo non si giocherà solo sul terreno delle tradizionali dispute politiche. La partita che la grande crisi ha aperto è quella della ridefinizione del destino della nazione. Si tratta quindi del futuro delle nuove generazioni.
A me sembra questo il problema centrale. Dove sta andando l’Italia? Fino a che punto la sua compagine statale e il tessuto dei valori civili che fino ad ora hanno garantito il nostro comune cammino sono in grado di reggere? Profondamente scossi come sono da qualcosa che è molto più grande della pochezza dei partiti (anche). È il fatto di cui le tv non parlano. È la grande questione della sopravvivenza della democrazia moderna e della civiltà del lavoro, del diritto delle persone e dei popoli di potersi realizzarsi e di decidere del proprio destino, che è minacciato dal potere inaudito e senza controllo di una oligarchia finanziaria che muove a suo piacere le ricchezze del mondo. Vogliamo chiederci chi sta muovendo la guerre alla costruzione europea, in quanto solo altro potere possibile?
Così io guardo all’Italia. C’è Grillo, c’è il qualunquismo, ci sono proteste distruttive. Ma non c’è solo questo. Dietro l’inquietudine profonda dei giovani e il loro distacco dalla politica, dietro il loro disprezzo per i vecchi partiti c’è il fatto come notava Ilvo Diamanti che si stanno facendo strada domande di segno nuovo. Le quali esprimono istanze critiche verso i valori del neo-liberismo imposti dai «mercati» finanziari globale. Io credo che noi sottovalutiamo questa grande novità non soltanto economica. L’avvento della finanziarizzazione ha creato un diverso e più stretto rapporto tra la nuda vita e l’economia. Si parla (giustamente) della pochezza e delle malefatte dei partiti.
Ma è evidente che la riduzione dello spazio della politica ha portato a un lento degrado morale e culturale, al declino delle protezioni sociali e alla crisi dei sistemi scolastici e formativi. Con l’indebolimento delle istituzioni e dello spazio pubblico, la cittadinanza è stata degradata al potere d’acquisto e la crescita degli esseri umani ridotta alla stimolazione degli istinti peggiori. In fondo, si riscopre una semplice verità. È vero che l’uguaglianza senza libertà dà luogo al dispotismo, ma la libertà senza uguaglianza crea sfruttamento, ingiustizia e regressione sociale, minacciando di spezzare la parabola della democrazia contemporanea.
Se questi sono i problemi come pensiamo di parlare ai giovani che protestano se non diamo un significato alla loro vita e al loro bisogno di libertà? È evidente che la nostra proposta politica deve tradursi chiaramente nell’appello anche di Napolitano perché siano i giovani stessi a prendere in mano il governo del Paese. Ha ragione D’Alema quando dice che la vittoria di forze come quelle di Grillo ci butterebbero fuori dall’Europa e condannerebbero l’Italia alla miseria e al fallimento. Ma tanto più allora spetta a noi, nel momento in cui diciamo alla povera gente che è giusto affrontare seri sacrifici, senza indicare uno scopo. Un grande scopo. Qui sta il punto. Il riformismo non è solo la concretezza ma è la combinazione di questa con l’utopia. Abbiamo tanto citato Max Weber e la sua etica della responsabilità ma forse ci siamo un po’ dimenticati dell’altro suo monito secondo cui nulla sarebbe possibile se non tentassimo l’impossibile. Senza cioè una visione nuova del mondo.
La sfida che il Pd lancia a tutti gli altri soggetti politici (Grillo compreso) non è la foto di Vasto o quella con Casini: è la ricostruzione su nuove basi del Paese. Ma ciò che io voglio sottolineare è che questa sfida, per funzionare, deve essere anche concepita come una sfida che riguarda la ricostruzione di noi stessi in quanto partito.
I partiti non possono più essere quelli di prima. È il loro rapporto con la società che è cambiata, nel senso che essi non sono più auto sufficienti ma devono misurarsi con il nuovo bisogno di protagonismo della società e quindi con le culture e i movimenti che la innervano. Il problema è come assolvere a questa funzione a fronte del cinismo della destra e del suo miserabile cotè giornalistico e intellettuale. Nella mia lunga vita (tranne l’8 settembre) non avevo mai visto un così grande sfascio, fino alla polverizzazione, di ciò che era stato per vent’anni ben più che l’alleanza tra 2 partiti (Lega Nord e Berlusconi).
Era stato l’asse del Nord. Quasi un blocco storico, sorretto da una idea sia pure meschina dell’Italia. Dopotutto Bossi e Berlusconi fornivano le truppe ma le idee erano quelle della vecchia classe dirigente: una casta volta a volta craxiana, leghista, ciellina con dietro la grande banca milanese e il salotto buono del Corriere della Sera. Un’idea meschina ed economicistica incapace di una visione nazionale: il Mezzogiorno, popolo di ladri e di sfaticati, visto come un peso insostenibile per il Nord che lavora.
Questa idea ha fatto fallimento e si è creato un vuoto. Io non so chi a destra occuperà questo vuoto. So che noi ci candidiamo a guidare il Paese in nome di un disegno di ricostruzione. Una unità d’Italia posta su nuove basi. Certo non potrà essere «un Paese per vecchi», né per soli uomini. Qui sta il mio assillo.
Un «partito della nazione» è tale solo se interpreta ed esprime gli interessi delle nuove generazioni. Io sono vecchio. I miei nipoti parlano perfino un’altra lingua: quella del web. Mi si consenta però una analogia. Io ricordo come parlò il Pci a noi giovani di allora. Ci chiamò a dare una risposta al grande interrogativo di allora, che però era simile a quello di oggi. Dove va l’Italia?

l’Unità 25.05.12

"La grande rovina di Villa Adriana", di Francesco Merlo

Trovo più facilmente la discarica di Corcolle che Villa Adriana. I pochi segnali stradali mi mandano sia a destra sia a sinistra ma finisco davanti a un muro cieco, dietro il quale non c´è ovviamente Villa Adriana ma ancora e sempre spazzatura. «Non vogliamo i rifiuti di Roma» annunzia il primo cartello veramente chiaro in questa giungla stradale che è fatta per perdersi, per non arrivare mai. Anche i presìdi di rivolta dei tivolesi non sembrano accampamenti ordinati a difesa delle vestigia dell´imperatore, ma una rimessa di rancori contro la metropoli che prima li ha espulsi e poi li ha chiamati burini: «Roma Zozzona, Tivoli non perdona». Di sicuro, adesso che è stata decisa, quasi tutti scaricano la discarica: il sindaco, la Regione… e anche il ministro Ornaghi che non si riconosce nella figura di Ponzio Pilato ma, proprio come il procuratore della Giudea, minaccia le dimissioni invece di darle. L´Italia, come si sa, è una discarica di dimissioni minacciate e mercoledì scorso Ornaghi, invece di visitare con Monti e con la Cancellieri le macerie della Torre dei Modenesi e quel che resta del Castello di San Felice sul Panaro e di decine di chiese, chiostri e conventi dell´Emilia Orientale terremotata, è andato a minacciare le dimissioni nel posto più spettacolare d´Europa: la Croisette di Cannes. Per la verità già lungo la Tiburtina capisco che prima di difendere Villa Adriana dalla futura discarica che la minaccia, bisognerebbe, come in un sogno, sottrarre l´Animula vagula blandula dalla presente discarica che la soffoca e la nasconde, che l´ammorba.
La Tiburtina è un serpente di spazio-spazzatura (junkspace) a una sola corsia, una zona suburbana di umanità confinata. Come unghiate sulla terra mi passano davanti le cave di quel travertino che abbellisce il “Getty Center” di Santa Monica ma qui abbrutisce il paesaggio già mangiato da case senza disegno, recinti di venditori/compratori di rottami di ferro, casermoni informi che sporcano anche la dolce linea dei colli. Qui c´è anche la discarica del sogno di sviluppo dell´informatica all´amatriciana che i romani chiamarono “Tiburtina Valley” e adesso è solo un altro fallimento industriale, un mondo dismesso ma attraversato da quell´Aniene che verso Roma diventa il feudo abusivo di Anemone e della cricca, le piscine-fantasma dei mondiali di nuoto del 2009.
Sono luoghi pasoliniani ma senza la poesia di Ostia o di Mamma Roma. E va bene che siamo abituati a vedere le vestigia in mezzo al degrado, rovina delle rovine, ma almeno a Pompei ci sono i turisti mentre qui i pochissimi visitatori, se non si perdono per strada, sono come i pellegrini provati dagli enigmi, fermati dalle sfingi, deviati da una toponomastica arrangiata e bizzarra. Sembrano i giocatori di una caccia al tesoro.
Poi, quando finalmente arrivo su “Piazzale Yourcenar” e trovo l´ingresso, quasi mi dispiace di non essere accolto dalla solita folla di questuanti, guide autorizzate e guide improvvisate, truffatori, scippatori, carrettini di panini immangiabili, venditori di souvenir e di paccottiglia d´ogni genere che in fondo rimandano all´archeologia del vivere. Quegli orribili mostriciattoli parassiti del sottosviluppo crescono insieme alla ricchezza, sono microrganismi e fermenti di una decomposizione sociale che è pur sempre vita, anche se andata male.
Invece oggi giovedì, ore 13, su questo piazzale non c´è nessuno. Solo una signora inglese, eroina dall´archeologia, che inutilmente boccheggia in cerca di un bar. Fa molto caldo ma non ci sono luoghi di ristoro, solo una fontanella. Mi sembra di essere a Morgantina dove la povera Venere patisce la solitudine della periferia dopo la folla eccessiva di Los Angeles. E con dolore rimpiango i centurioni con la scopa in testa: qui non vengono perché non c´è danaro da lucrare, non ci sono i turisti da spennare. Persino la grande promozione “Villa Adriana ad un euro” nel ponte del primo maggio è stata un triste fallimento.
Pago il biglietto anche se i tornelli d´ingresso non funzionano e dunque si può entrare gratis perché non c´è controllo. L´erba comincia a seccare e a diventare gialla. Gli ulivi sono bellissimi. Per terra ci sono, altro prologo di discarica o forse epilogo, sacchetti vuoti, bottiglie di plastica, cartacce. Sono rarissimi i cestini dei rifiuti. Sotto una quercia c´è posteggiata una Opel Astra, ma non è un´opera d´arte, non sono i baffi alla Gioconda, è proprio sciatteria ma, tanto, non la vede nessuno.
A Villa Adriana si sparpagliano solo le scolaresche “deportate” che sono quanto di più ostile all´idea del bello da godere: Villa Adriana per loro è come il Manzoni per i ginnasiali, un dovere persino noioso. Alle 14,30 i bambini di una scuola elementare fanno picnic sotto gli ulivi. «Vuole favorire?» mi chiede la maestra. Sono allievi della Granturco di Roma, via della Palombella, a due passi da quel Pantheon che fu costruito proprio da Adriano ed è l´unico edificio della Roma antica ancora in piedi dalle fondamenta al tetto. E a proposito di vanità sulla Croisette non fa male ricordare al ministro che Adriano non firmò il suo capolavoro ma vi lasciò per sempre il nome di chi lo aveva iniziato: «Agrippa fecit». La Yourcenar gli fa dire: «Ben pochi realizzano se stessi prima di morire: e ho giudicato con maggior pietà le loro opere interrotte». All´ombra della quercia c´è sempre l´Astra. È abbandonata? È targata CL558…
Avanza una signora con un cane. E vengo a sapere che gli animali sono ammessi anche se disturbano ed eccitano i randagi che qui vengono allevati e nutriti dai custodi. Al più grosso dei randagi hanno dato il nome Jack e la custode della mostra sull´amore di Adriano per Antinoo mi rassicura: «Er segreto è picchialli colle mani, mai col bastone».
Villa Adriana, si sa, è un posto dell´anima, il trionfo della voluttà architettonica, un florilegio dei capricci edilizi di un grande imperatore: la sala del banchetto, la piscina, il teatro marittimo, la piazza d´oro, il pecile, il canopo, le terme, la biblioteca…. E mi viene il pensiero semiserio che tra altri duemila anni anche la villa di Berlusconi in Sardegna sarà visitata da una signora dell´Oregon con la tuta a fiori alla ricerca della sala del bunga bunga o delle cucine ipogee del cuoco Michele, o ancora dell´approdo sotterraneo, un mondo di voluttà più per Trimalcione che per Adriano, più il Satyricon di Petronio che il romanzo della Yourcenar.
Villa Adriana non è una città in forma di palazzo e non è nemmeno un palazzo, forse è un edificio destrutturato, tante stanze slegate tra di loro che Adriano teneva in piedi per la memoria: appunto le stanze delle memorie di Adriano. Da solo il muro, con i suoi mattoni a rombi, varrebbe la visita purché qualcun spiegasse che era la misura della passeggiata. Per Adriano quei duecento metri erano lo spazio e il tempo giusti della filosofia peripatetica, dialoghi in cammino, il pensiero occidentale in cinque minuti. Le Corbusier ne fece uno schizzo magnifico: lo considerava il prototipo di tutti i muri.
Ebbene, il visitatore non capisce nulla di tutto questo. Le acque della piscina sono sporche e limacciose e non fanno certo pensare al rifornimento di pesce durante i banchetti. Brutte grate d´alluminio circondano il lago dove si organizzavano giochi di guerra navali. I pochi cartelli parlano di geometrie e non accendono mai la fantasia. Non c´è niente che indichi che da lì passavano le carrozze e si fermavano ai piedi di quelle scale. Nessuno può accorgersi che ci sono affreschi ancora stuccati, le grottesche che nel Colosseo e nella villa di Nerone sparirono alla fine del cinquecento.
Tornando a casa il visitatore si sente sperduto e anche io mi sento perduto. Mi sembra di aver fatto una passeggiata in campagna. È stato come visitare un bosco. L´architettura non parla, viene riassorbita dalla natura e diventa una massa informe come la Tiburtina, come i paesi e i quartieri che percorro all´incontrario e finalmente capisco che cosa mi ricordano: le strade di Favara e di Corleone. Si accendono le luci della sera e la Tiburtina si popola di prostitute e travestiti. L´Adriano della Yourcenar diceva: «Io sono il custode della bellezza del mondo». Ci facciano o no la discarica, chiunque abbia visitato Villa Adriana, quando va via si sente discaricato.

La Repubblica 25.05.12

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“E il patrimonio violato ora preoccupa l´Unesco”, di FRANCESCO ERBANI

Il tempo stringe e si stringe anche il cappio intorno alla piccola comunità di Corcolle. Il ministro Lorenzo Ornaghi è piombato a sorpresa, ieri, nel sito dove dovrebbe spalancarsi la cava che ospiterà l´immondizia di Roma. Ha visitato anche Villa Adriana, che è lì a qualche centinaio di metri. Prima d´ora c´era stato da turista, adesso ha voluto rendersi conto di quale distanza separi il luogo della discarica da uno dei siti archeologici più pregiati al mondo, dove l´imperatore Adriano voleva fossero racchiuse le sue predilezioni culturali. Non ha cambiato idea: se si fa la discarica lui si dimette.
Oggi c´è un consiglio dei ministri, ma non è chiaro se si parlerà di Corcolle. Per il prefetto-commissario Giuseppe Pecoraro la partita è chiusa: «Le mie scelte le ho prese: ora tocca agli altri rispettarle o assumersi la responsabilità di fare andare Roma in emergenza». Pecoraro smentisce che ci saranno altre consultazioni, come aveva sostenuto il sindaco di Roma Gianni Alemanno. Si va, aggiunge, «verso la conclusione della conferenza dei servizi. Poi se ci sono degli ostacoli giuridici od opportunità me lo faranno sapere».
I no alla discarica fioccano da ogni parte e sovrastano il sì al quale si abbarbica Renata Polverini. La questione rimbalza sul governo. Ornaghi ha pronte le dimissioni. Clini è contrario. Severino e Cancellieri sono perplesse. E Monti? Se la sua opinione coincide con quella del sottosegretario Catricalà, per Corcolle non c´è speranza.
Dal punto di vista tecnico, la discarica potrebbe essere pronta entro un anno. Ma sarà sufficiente solo se i rifiuti sversati saranno pretrattati. E questa è ancora un´incognita, legata anche all´intensificarsi della raccolta differenziata in città (ma Roma è molto indietro). Si fa vivo Manlio Cerroni, proprietario di Malagrotta (che dovrebbe chiudere) e di altre aree prontamente acquistate e di nuovo offerte come sede di discariche (Pian dell´Olmo). Rendono ancora più complicato il cammino della discarica esposti e denunce penali. Le associazioni ambientaliste sono mobilitate. I comitati incalzano: «Corcolle sarà la nostra Tav».
Le procedure commissariali sembrano blindate. Si è proceduto in deroga, Pecoraro ha nominato suoi consulenti. Non sono stati considerati gli organi tecnici del ministero per l´Ambiente e di quello dei Beni culturali, che per prassi, in caso di una discarica, compiono valutazioni sulla tipologia e le quantità di rifiuti, sulla natura geologica del sito, sulle conseguenze sanitarie, sull´incremento di traffico, oltre alle analisi sull´impatto paesaggistico e archeologico.
E cosa farà l´Unesco, nel cui patrimonio è compresa Villa Adriana? Se ne parlerà al summit di San Pietroburgo a fine giugno. Ma, confermano fonti dell´organizzazione dell´Onu, sono arrivate segnalazioni, però non è stata avviata nessuna procedura che può portare all´esclusione del sito archeologico dalla lista di quelli protetti.

La Repubblica 25.05.12

"Il terremoto in Emilia: perché una politica di tutela del territorio", di Vanni Bulgarelli e Sergio Gentili

Ancora lutti, ancora distruzioni. Case, fabbriche, edifici sono crollati questa volta in Emilia. Qualche mese fa l’acqua e il fango avevano duramente colpito Genova e le Cinque Terre. Poi, a ritroso, altri terremoti, alluvioni, frane.
Viviamo in un Paese straordinario per natura, storia e cultura, ma fragile. Esposto più di altri alle calamità naturali. Tagli irresponsabili delle risorse per la difesa del suolo, malgoverno del territorio, forte urbanizzazione e incuria del patrimonio edilizio storico rendono gli eventi naturali estremi, nell’era dei cambiamenti climatici, più devastanti.
Lo diciamo ancora una volta: la manutenzione del territorio e dei suoi beni è tra le più importanti opere pubbliche, sono infrastrutture per lo sviluppo del Paese e la protezione delle persone. Eppure, in questi giorni si fanno ancora solo elenchi di strade e autostrade. Serve una politica nazionale di prevenzione e protezione dei territori, con un patto tra comuni, regioni e stato, per un governo integrato del suolo, limitandone l’uso a fini insediativi, con strategie condivise di recupero e tutela. È indispensabile ed urgente una politica nazionale per le nostre piccole e grandi città, che non possono essere lasciate sole, con sempre meno risorse e poteri, soprattutto in caso di gravi calamità. Il decreto per il riordino della protezione civile proposto dal Governo, va modificato e ripensato alla luce di un confronto più ampio con le regioni e gli enti locali.

Il finanziamento del sistema degli interventi di emergenza e ricostruzione non può avvenire solo a scala regionale, con altre tasse sulla benzina. L’assicurazione per i danni provocati a persone o cose non può essere un fatto privato e a carico dei singoli. Se viene meno la solidarietà nazionale, sarà più costoso per i cittadini assicurarsi e ricostruire. Più grave sarà l’onere per chi non potrà permetterselo o vive in zone, dove più forte è stata l’incuria dei pubblici poteri. Occorre per questo mantenere una dimensione nazionale degli interventi e dei finanziamenti, istituendo un sistema di assicurazione pubblico, compartecipato anche dai cittadini, magari utilizzando una quota delle tasse che già gravano sugli immobili come l’Imu, che integri i fondi per l’emergenza e garantisca uguali risarcimenti e aiuti, qualunque sia l’area interessata e il censo dei colpiti. Di fronte alle catastrofi naturali siamo tutti uguali e insieme dobbiamo prevenire, proteggere, ricostruire. Prevenzione e recupero Serve un patto tra comuni, regioni e Stato, per un governo integrato del suolo

l’Unità 25.05.12

"Quanto è "tech" la scuola italiana? Studenti promossi, prof rimandati" da repubblica.it

In una scuola, quella italiana, dove solo il 7% delle classi è coperto da una qualche connessione internet (in Inghilterra cento ogni cento, tutte sotto la banda larga), un sondaggio Ipsos commissionato dal Pd scuola rivela che i nostri insegnanti vorrebbero più tecnologia fra i banchi e sovrastimano le loro (basse) competenze digitali. Ancora, gli studenti pure vorrebbero più tecnologia a scuola, ma raccontano ai sondaggisti la verità sulle loro (alte) competenze digitali. I maestri e i professori italiani intervistati hanno consapevolezza che con il multimediale in classe le lezioni sarebbero più stimolanti, il loro status crescerebbe e dopo una decina di anni di sottovalutazione da parte della politica scelgono di rispondere difendendosi: siamo bravi, siamo pronti per la scuola 2.0. Un Invalsi della tecnologia, un test a controllare le loro attitudini e soprattutto l’applicazione di internet alla loro didattica, in verità potrebbe diventare una Waterloo per la classe insegnante.

Nello stesso sondaggio Ipsos, non è un caso, sono gli studenti a ridurre le potenzialità tecnologiche dei loro “prof”: se il 93% dei docenti si autostima molto o abbastanza abile la stima degli studenti, i veri docenti in questo campo, scende al 57%. Più veritiera. D’altronde, e questo lo dice l’Istat,

tra gli 11 e i 14 anni il 76% degli adolescenti è internauta. I genitori sono ancora più critici: secondo loro solo il 41% degli insegnanti dei loro figli si muove con consapevolezza fra i nuovi media.

Il 68% dei prof italiani almeno una volta a settimana va su internet, ma poi difficilmente trasforma questo atto in didattica applicata. E’ la chiave di lettura necessaria per leggere l’importante convegno che si aprirà domani al Tempietto di Adriano a Roma – “Un nuovo alfabeto per l’Italia”, conferenza nazionale Pd per la scuola dei nativi digitali – con la partecipazione del segretario Pier Luigi Bersani. Tutti vogliono aprirsi alle nuove tecnologie, dice l’Ipsos, studenti, prof, genitori. Ma in questa fase di contrazione economica e di ben più lunga sottostima politica della scuola italiana sono i docenti a faticare di più.

Intanto, e questo torna anche all’Istat, il sondaggio Ipsos dice che in pratica tutti gli insegnanti hanno un personal computer, un pc. Il 99 per cento. Diventa cento su cento nelle dichiarazioni dei genitori (su se stessi). Questo è un aspetto interessante perché altre ricerche hanno già dimostrato che chi ha figli minorenni, quindi presumibilmente scolari, usa computer e internet più di chi non ne ha (è il 24% in più).
Il web ha avvicinato i ragazzi ai problemi del mondo: oggi il 46% degli studenti accede ai siti di informazione (contro una percentuale di lettura abituale dei giornali pari a un terzo). Molti insegnanti, il 66%, dichiarano di utilizzare i “social network”, ma secondo un esperto come il professor Paolo Ferri, docente di Tecnologie didattiche all’Università Bicocca di Milano, “probabilmente si conteggiano quelli che hanno un account registrato, che si sono iscritti a Facebook negli anni in cui andava di moda, ma di fatto non chattano, non utilizzano i network sociali”.

L’Ipsos conferma che anche sul fronte e-book, i libri elettronici, il mercato italiano è fragile e in generale tutti – prof, studenti e genitori – ritengono il libro tradizionale di migliore qualità e quello elettronico più funzionale, leggero, economico.

E’ drammatico il dato sui “libri misti”, che dal 2013 cancelleranno definitivamente i libri scolastici tout court dalle nostre aule (lo prevede un decreto Tremonti-Gelmini). I libri misti contengono rimandi a internet, link a siti generali e in particolare a piattaforme dello stesso editore che possono dare animazione e corpo al concetto espresso su carta. Alla domanda sull’utilità dei libri misti il 63% degli insegnanti esprime un triste “non so” (il 65% tra i maestri della primaria). Non li conosce, e nella scuola si è fatto davvero poco per diffonderli. Infatti, solo il 37% rivela di utilizzarli in classe.

Il fatto che gli insegnanti italiani ghettizzino l’uso della tecnologia al solo laboratorio fa tornare la ricerca al suo punto di partenza: internet è poco diffuso a scuola perché non ci sono stati investimenti per portare pc (e tablet) nelle scuole pubbliche, ma soprattutto perché mancano le connessioni con o senza fili. Gli insegnanti e i genitori hanno consapevolezza che non tutti gli insegnanti sono in grado di utilizzare le nuove tecnologie (molto d’accordo il 35% degli insegnanti e il 30% dei genitori) e che possono sentirsi a disagio di fronte a studenti più preparati di loro. La risposta finale, disincantata, del 68% dei docenti spiega perché gli stessi siano costretti a sopra-valutarsi a proposito delle loro abilità internettiane: “Sulle nuove tecnologie a scuola si sentono tanti buoni propositi, ma mancano i fondi e si realizzerà poco o nulla”. Non ci sono soldi, ministro Profumo: gli annunci in tromba non possono bastare

"Le astuzie dei falsi riformatori" di Ugo De Siervo

Come era immaginabile, l’adozione della nuova legge elettorale non solo ritarda, ma rischia di non avvenire, sia perché continuano a succedersi proposte eterogenee di nuovi sistemi elettorali (fatte e disfatte a seconda di quelle che sembrano le momentanee tendenze elettorali), sia perché l’opportuna riduzione del numero dei parlamentari comporta che si modifichino due articoli della Costituzione, dovendosi pertanto seguire una procedura più lenta.

In verità, anche la modifica della legge elettorale esige che la sua approvazione avvenga per tempo: volendo essere ottimisti, per applicare un nuovo sistema elettorale occorrono quanto meno quattro/cinque mesi per l’impegnativo lavoro di ridisegnare i confini dei nuovi collegi elettorali (le importanti circoscrizioni entro cui si svolge il confronto elettorale).

Ciò vuol dire che la legge elettorale dovrebbe essere adottata non oltre la fine del prossimo autunno; di conseguenza la riforma costituzionale che abbassa il numero dei parlamentari deve entrare in vigore poco dopo la ripresa dei lavori parlamentari.

In realtà quindi i tempi sono strettissimi.

Occorre che il Senato, che ha appena iniziato nella commissione Affari Costituzionali l’esame del disegno di legge di riforma costituzionale, adotti rapidamente un testo che possa poi essere pacificamente condiviso, dal momento che dovrà essere approvato senza modifiche dalla Camera e infine riapprovato da entrambi i rami del Parlamento, dopo il passaggio di tre mesi di tempo, come prescrive la Costituzione. Altrimenti non resterebbe che modificare la sola legge elettorale, senza ridurre il numero dei parlamentari, così però contraddicendo seriamente l’impegno assunto da molte forze politiche con l’opinione pubblica (il che non sembra affatto raccomandabile, in questo periodo).

Qui però si sconta il discutibile tentativo di alcuni parlamentari e di alcuni partiti di approfittare di questa occasione per cercare di rimettere mano anche a molti altri articoli della nostra Costituzione, forse alcuni dei quali meritano anche una revisione (ma certamente non tutti, come ad esempio la riduzione in sostanza di alcuni importanti poteri del Presidente della Repubblica!). Ma soprattutto per affrontare problemi del genere, occorre tutt’altro clima e più tempo a disposizione: qualche giorno fa giustamente Valerio Onida ha dimostrato che nel «pacchetto» di modifiche portato all’esame della commissione senatoriale vi è molto che non riguarda affatto la composizione del Parlamento ma, invece, l’accrescimento dei poteri del Governo e del presidente del Consiglio. Ieri addirittura sembra che l’ex-presidente del Consiglio abbia preannunciato la presentazione di emendamenti alla commissione senatoriale che proporrebbero l’ introduzione in Italia di un sistema semi-presidenziale, come in Francia; se la notizia fosse vera, si ipotizzerebbe una vera e propria profondissima riforma costituzionale, quale non era stata neppure tentata nella grande revisione costituzionale votata nel 2005 (e respinta a larga maggioranza dall’apposito referendum del 2006).

E’ evidente che l’attuale situazione politica e parlamentare rende comunque impossibile l’accoglimento di proposte di grande revisione costituzionale e di tanta delicatezza; da ciò il dubbio se la loro proposta serva in realtà a creare ostacoli insuperabili alla revisione della legge elettorale o se proposte del genere addirittura anticipino temi della futura campagna elettorale od il tentativo di scaricare su asserite debolezze della nostra Costituzione la deludente inconcludenza del vecchio Governo.

Ma torniamo al punto di partenza: se si vuole mantenere l’impegno di modificare l’attuale legge elettorale, in primo luogo occorre che i gruppi parlamentari trovino davvero un’intesa su un nuovo sistema elettorale, smettendo tatticismi e tecniche degne degli esperti di «surplace».

In secondo luogo, occorre ridurre in modo drastico le pretese di approfittare dell’attuale contingenza per cercare di revisionare in modo incisivo ed ampio la Costituzione; occorre, invece, ridurre davvero al minimo indispensabile le modifiche costituzionali ed adottarle rapidamente.

Altrimenti diviene realistico temere che, in realtà, qualcuno abbia deciso che alle prossime elezioni politiche si debba andare a votare ancora con la pessima legge vigente. Ma allora sarebbe bene dirlo con chiarezza all’opinione pubblica.

La Stampa 25.04.12

"Il PD dopo lo tsunami", di Miguel Gotor

Il partito democratico ha vinto queste elezioni amministrative, ma… Ma da questo dato bisogna cominciare a ragionare, evitando di sopravvalutare le dimensioni del successo e soffermandosi sul contesto in cui esso è maturato e sulla fluidità del suo valore politico. Il Pd è sopravvissuto a uno tsunami e ora si trova nella poco invidiabile situazione di aggirarsi in un panorama di desolanti macerie, da solo contro tutti. Anzitutto è necessario concentrarsi sugli errori da non commettere.
Il primo è quello di sottovalutare il dato impressionante dell´astensionismo che rivela l´esistenza di una maggioranza di italiani ancora in attesa di decidere. Inutile nascondersi dietro a un dito: se il centrosinistra vuole vincere le elezioni politiche del 2013 dovrà porsi l´obiettivo di conquistare la fiducia di questo elettorato rimasto alla finestra. Alcuni dati invitano a relativizzare anche le vittorie a prima vista migliori. Prendiamo il caso di Genova: in una città con 500 mila elettori, Doria ha vinto le primarie con 11 mila voti, è diventato sindaco conquistando la fiducia di 114 mila cittadini e, tra il primo e il secondo turno, ha perso per strada oltre 13 mila voti. In una città con un´elevata tradizione di partecipazione civica e politica al ballottaggio ha votato soltanto il 39 per cento degli aventi diritto.
Queste semplici verità numeriche interrogano la qualità politica del risultato e invitano a ricordare che, già rispetto a un anno fa, ai tempi della bella vittoria milanese di Pisapia, il quadro è profondamente mutato. Quel 60 per cento di votanti che mancano all´appello a Genova, come a Como o a Monza, per citare altre importanti vittorie, tornerà in buona parte a esprimersi in occasione delle elezioni politiche, ma non è composto da elettori di centrosinistra e sarà bene averlo a mente. Ancora una volta, dunque, la questione riguarda quel voto inespresso e, per vincere nel 2013, il Pd dovrà guardare anche a quel mondo invisibile, ma presente, percorso da un processo di radicalizzazione, di smarrimento, di disaffezione e di polarizzazione forse senza precedenti, agli occhi del quale dovrà costituire un elemento di fiducia e di garanzia.
In secondo luogo non bisogna sottostimare le capacità di reazione della destra. Sarebbe da ingenui pensare che tra un anno lo scenario rimarrà questo. La destra in Italia, ce lo ha insegnato Aldo Moro, è stata sempre più forte della sua espressione parlamentare, e avrà tempo e modo per riorganizzarsi. Lo stesso forzato sostegno al governo Monti da parte del Pdl, così come la grande spinta mediatica che sta ricevendo il Movimento 5 Stelle da settori dell´opinione pubblica che si vorrebbero moderati e liberali hanno oggi l´evidente e preziosa funzione politica di lasciare il tempo alla destra di riprendere fiato e di definire una risposta in grado di rimobilitare il proprio elettorato. Non conosciamo ancora le forme e i volti di questa riorganizzazione, ma essa ci sarà e accentuerà la radicalizzazione dello scontro in un quadro di crisi economica sempre più soffocante. Mai come questa volta la sfida del 2013 sarà tra due concezioni dell´Italia, della democrazia e dell´Europa. Berlusconi non è più il pifferaio magico di un tempo, ma, come un caimano, si è nascosto sotto il pelo dell´acqua a guardare cosa accade senza il suo protagonismo: osserva compiaciuto la vittoria a Parma, grazie ai voti del suo elettorato, di un candidato di Grillo, scruta lo sgonfiamento del Terzo Polo che non riesce a essere l´ago della bilancia come Casini avrebbe sperato, studia l´emergere di nuovi aspiranti competitori che ambirebbero a sottrargli l´elettorato facendo però a meno di lui. Ma Berlusconi c´è, con i propri voti e il suo potere: e “Striscia la notizia”, ogni sera, come avviene da 24 anni, continuerà a fare lo stesso mestiere, ossia il suo gioco, davanti a milioni di telespettatori.
In terzo luogo il Pd non deve trascurare la domanda di partecipazione e di rinnovamento della politica che sale prepotente dall´opinione pubblica e che il Movimento 5 Stelle interpreta, ma certo non esaurisce. Chi si ferma è perduto, si vince nel dinamismo. Con un doppio movimento, che riguarda l´iniziativa parlamentare e quella politica. Proprio ieri, grazie soprattutto all´impegno del Pd, si è arrivati a una riforma della legge sul finanziamento dei partiti che riduce del 50 per cento la quota dei rimborsi; bisogna ora intervenire sul numero dei parlamentari e, anche nel caso in cui la legge elettorale non cambiasse in modo strutturale per il gioco dei veti incrociati, è necessario attivare lo stesso un meccanismo che, già nelle elezioni del 2013, restituisca agli elettori il diritto di scegliere i deputati perché solo così si potrà in parte recuperare la frattura tra Parlamento e cittadinanza che quella “porcata”, votata dalla Lega, Forza Italia, An e Udc, ha concorso a provocare.
Ma è soprattutto sul terreno dell´iniziativa politica che bisogna intervenire con una proposta di alleanza civica per la ricostruzione di questo Paese che veda il Pd aprirsi e non chiudersi, impegnandosi in modo generoso per una ricucitura dei rapporti tra partiti e cittadinanza. Bisogna avere senso del limite e al tempo stesso osare, perché solo chi osa sarà in grado di cambiare se stesso e gli altri. Chi punta a riproporre una contrapposizione pregiudiziale tra movimenti e partiti, società civile e “palazzo” sta nuovamente, come nel 1993-1994, lavorando per il re di Prussia. Soltanto nella buona volontà e nell´aiuto reciproco sarà possibile formare un fronte comune per riprendere in mano il filo di un Paese smarrito. Tessendo, quindi, non lacerando definitivamente la tela.
Negli anni Settanta Enrico Berlinguer disse: «Entrate e cambiateci», ma oggi quei tempi non ci sono più per tutti. Resta però l´idea e la necessità di un´alleanza per il cambiamento, ché altrimenti, nell´autoreferenzialità e nella rivendicazione di sterili orgogli (dei partiti, ma anche della società civile), si creeranno le condizioni ideali per favorire l´emergere di un rinnovato asse tra destra e moderati e così le premesse per una nuova storica sconfitta.

La Repubblica 25.05.12

Bastico e Ghizzoni “Serve un dl per esodati e personale scuola”

“Quello che chiede il personale della scuola non è un privilegio, ma un diritto”. La senatrice Mariangela Bastico e la deputata Pd Manuela Ghizzoni si dichiarano totalmente insoddisfatte della risposta che il vice-ministro del lavoro ha dato in tema di pensionamento del personale della scuola: il Governo non ha intenzione di tenere conto delle specificità della situazione.
“Sono totalmente insoddisfatta della risposta data dal vice ministro al Lavoro Martone alla mia interrogazione sul pensionamento del personale della scuola, – dichiara la senatrice Pd Mariangela Bastico – a partire alla premessa su cui si basa che non esisterebbero specificità del personale della scuola tali da motivare una normativa differente rispetto agli altri lavoratori. Esistono, invece, e grandi: la più evidente e’ che tale personale può andare in pensione un solo giorno nell’anno, l’1 settembre, a prescindere dalla data in cui matura i requisiti per l’accesso alla pensione. Proprio per questa ragione le leggi hanno sempre differenziato la normativa relativa al personale della scuola rispetto a quello degli altri lavoratori pubblici e privati.”- continua la senatrice.

La senatrice Bastico e la deputata Ghizzoni ricordano, inoltre, le battaglie parlamentari a sostegno di quello che e’ un diritto, non un privilegio: lo spostamento della data di verifica dei requisiti del pensionamento al 31 agosto 2012, così come indicato nell’ordine del giorno accolto dal governo alla Camera e nell’emendamento al decreto Milleproroghe presentato dal Pd. Ricordano anche le aperture del ministro Fornero sul tema e le controversie con il Ministero dell’economia sui numeri degli interessati e sulle relativa copertura finanziaria.” Oggi apprendiamo dalla stampa che il provvedimento sugli esodati, entro il quale doveva trovare risposta anche il problema del personale della scuola, e’ alla firma del Presidente Monti come decreto interministeriale, cioè provvedimento puramente attuativo della normativa della legge Salva Italia: riguarderà quindi solamente 65.000 persone, rispetto alle molto più numerose che rimarranno senza stipendio e senza pensione, e non riguarderà nessuna altra materia.””Non condividiamo assolutamente questa scelta , non ci rassegnano a questa chiusura, che toglie prospettive a tante persone e famiglie, e continuiamo a chiedere al governo l’approvazione di un decreto legge, che, pur non cambiando i criteri fondamentali della riforma delle pensioni, ne modifichi alcune storture e discriminazioni, tra cui quella della scuola”.