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"Figli ancora casa a 34 anni. Pochi matrimoni, più divorzi", di Lorenzo Salvia

È la molla che spinge i genitori a far studiare i figli, lo stimolo che porta ragazzi e ragazze a cercare un lavoro migliore. Fino agli anni Settanta ha funzionato, consentendo alle famiglie di salire qualche gradino, generazione dopo generazione. Adesso l’ascensore sociale si è bloccato. Anzi, va in direzione opposta, dall’alto verso il basso. Dice il rapporto Istat 2012 che se la «mobilità ascendente si è ridotta» è invece «aumentata la probabilità di sperimentare una mobilità discendente». Specie per i figli della «classe media impiegatizia e della borghesia». E non è certo l’unica notizia negativa che arriva dalle 300 pagine del lavoro presentato ieri dall’Istituto nazionale di statistica.
Figli a casa
Aumenta ancora il numero dei giovani che restano a vivere con i genitori: sono il 41,9% nella fascia che va dai 25 ai 34 anni, contro il 33,2% del 1993. Non chiamiamoli bamboccioni, però. La metà di loro, il 45%, resta da mamma e papà non per scelta ma perché non ha un lavoro e non può mantenersi, figuriamoci pagare un affitto. Aumentano anche i cosiddetti Neet, i giovani che non studiano e non lavorano: tra i 15 e i 29 anni hanno superato i 2 milioni, più di uno su cinque. Il guaio è che il momento del distacco si allontana sempre di più: se guardiamo la fascia d’età fra i 35 e i 44 anni, i figli che restano in casa sono arrivati al 7%, il doppio del 1993.
Matrimoni in calo
Scende di parecchio il numero delle coppie sposate che ha figli: appena il 33,7% nel 2010-2011 contro il 45,2% del 1993. La famiglia tradizionale diventa minoranza anche nel Mezzogiorno dove rappresenta poco più del 40% contro il 52,8% di vent’anni fa. Raddoppiano invece le nuove forme familiari: tra single, single con figli, convivenze e nuclei allargati siamo a 7 milioni su un totale di 24 milioni. I matrimoni sono in continua diminuzione: poco più di 217 mila nel 2010, nel 1992 erano 100 mila in più. Mentre aumentano le separazioni: ci si arriva tre volte su dieci, una proporzione raddoppiata in 15 anni. In media ci si separa dopo 15 anni di matrimonio: i mariti ci arrivano a 45 anni, le mogli a 41.
Donne come a Malta
Non c’è più l’alibi di un tempo quando il loro livello di istruzione era mediamente più basso. Ma ancora adesso per le donne il mercato del lavoro è più difficile. Siamo il Paese europeo dove è più alto il numero di coppie in cui la donna non ha uno stipendio. Il 33,7%, una su tre, come noi riesce a fare solo Malta. In un terzo delle coppie il lavoro domestico è tutto a carico della donna e spesso «tale asimmetria è associata con un più limitato accesso al conto corrente della famiglia, basse quote di proprietà dell’abitazione, scarsa libertà di spesa per se stessa, poco coinvolgimento nelle scelte importanti che riguardano il nucleo familiare». Una condizione di moderna schiavitù che può arrivare anche nel corso della vita: a due anni dalla nascita di un figlio quasi una madre su quattro (il 22,7%) ha lasciato il lavoro.
Povero Mezzogiorno
Bastano due numeri per capire come l’Italia sia ancora a due velocità: al Sud le famiglie povere sono 23 su 100, al Nord scendono a 4,9 su 100. Ed è proprio nel Mezzogiorno, dove ce ne sarebbe più bisogno, che i servizi sociali funzionano peggio. Qualche esempio. Gli asili nido ci sono soltanto in due comuni su dieci, nel Nord Est sono otto su dieci. Per i disabili i Comuni del Mezzogiorno spendono otto volte meno di quelli settentrionali. Più in generale la spesa sociale è scesa dell’1,5% al Sud, mentre nel resto d’Italia è cresciuta, fino a un massimo del 6% registrato sempre nel Nord Est.
Famiglie più povere
L’Italia produce più ricchezza ma le famiglie italiane sono diventate più povere. Sembra una contraddizione e invece è il succo, amarissimo, del confronto fra l’Italia di oggi e quella del 1992. Il primo indicatore da guardare è il Pil pro capite, il prodotto interno lordo che misura la distribuzione media della ricchezza in un Paese. In termini reali, cioè neutralizzando gli effetti dell’inflazione, dal 1992 al 2011 è cresciuto dell’11,6%. Il secondo indicatore, invece, è il reddito disponibile procapite, cioè i soldi che restano in tasca alle famiglie e che possono essere spesi davvero. Sempre in termini reali, tra il 1992 e il 2011, è sceso del 4%. Italia più ricca ma italiani più poveri, dunque. Come è possibile? In questi 20 anni sono aumentate tre voci che in qualche modo «dirottano» la ricchezza prodotta nel Paese, non la fanno arrivare nelle tasche degli italiani. «La prima — spiega il presidente dell’Istat Enrico Giovannini — è la pressione fiscale, ma poi ci sono le rimesse agli immigrati che spediscono nel loro Paese buona parte di quello che guadagnano da noi e soprattutto i profitti delle multinazionali che, su scala più vasta, fanno la stessa cosa».
Ultimi per la crescita
Negli ultimi dieci anni, in realtà, anche il Pil ha stentato parecchio. Tra il 2000 e il 2011 il Prodotto interno lordo è salito a un ritmo dello 0,4% l’anno, il più lento tra i 27 Paesi dell’Unione Europea. Anche se ci sarebbe da considerare pure l’economia sommersa che l’Istat stima nel 2008 pari a 275 miliardi di euro. Sarebbe il 17,5% del Pil, mezzo punto in meno rispetto al 2000. Ma l’istituto di statistica sottolinea che con la crisi il peso del nero si è «verosimilmente allargato».
Previsioni
Per la prima volta il rapporto annuale dell’Istat contiene anche le previsioni sull’andamento dell’economia nei prossimi mesi. Nel 2012 il Pil dovrebbe scendere dell’1,5% per poi risalire di mezzo punto nel 2013. Quest’anno scenderanno ancora i consumi delle famiglie, si prevede un meno 2,1%, e soprattutto gli investimenti per i quali viene stimato un crollo del 5,7%. L’unica voce a reggere sono le esportazioni con una domanda estera netta che dovrebbe far segnare un +1,2%. Mentre le importazioni continueranno a scendere con un -4,8%.
Ocse
Ancora peggiori le cifre che arrivano dall’Ocse, l’organizzazione che raggruppa 34 Paesi a economia avanzata. La previsione è che il Pil calerà di più nel 2012 (-1,7%) e continuerà a scendere anche l’anno prossimo con un flessione dello 0,4%. Per questo, sempre secondo l’Ocse, l’obiettivo del pareggio di bilancio è da rinviare almeno di un anno, al 2014. E anzi «potrebbe essere necessaria una manovra fiscale ulteriore, in considerazione della recessione prevista». Un’ipotesi che il presidente del consiglio Mario Monti dice di «non vedere all’orizzonte».

Corriere 23.5.12

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Precari, mai così tanti Dal ’93 saliti del 48%
di L. Sal.

ROMA — Il Parlamento continua a discutere (faticosamente) la riforma del mercato del lavoro. E intanto l’Istat certifica che i precari non sono mai stati così numerosi. Dal 1993 ad oggi sono cresciuti del 48,4%, molto di più rispetto all’aumento dei numero dei lavoratori dipendenti, pari al 13,8%. E, forse non solo per la congiuntura economica sfavorevole, il primo contrattino funziona sempre meno come primo passo per trovare un lavoro vero.
Nei primi anni Novanta un terzo dei giovani con un contratto atipico ne trovava uno stabile nel giro di un anno. Adesso questa quota dei fortunati è scesa al 18,6%. Anzi, a dieci anni dal primo lavoro atipico quasi un terzo degli occupati è ancora precario mente uno su dieci è disoccupato. Ma sempre più spesso si comincia proprio da qui. Più di un terzo dei ragazzi fra i 18 e i 29 anni ha proprio un contratto flessibile o precario, mentre se guardiamo all’intera forza lavoro scendiamo al 13,4%.
Ha iniziato con un contratto atipico il 44,6% degli italiani nati dal 1980 in poi. Una fetta che scende al 31,1% per la generazione degli anni 70, al 23,2% per chi è nato negli anni ’60 e al 16% per le generazioni precedenti quando il termine precariato forse non si usava nemmeno.

Corriere 23.05.12

Il giudice cittadino. La parabola professionale e umana di Giovanni Falcone di Vincenzo Vasile

Assediati dalle immagini orribili di questi giorni, sfogliamo vecchi album della memoria. Non è questa, la storia di Giovanni Falcone, che avrete letto e riletto altrove in questi giorni di tragica ricorrenza, sono flash della memoria di quando Falcone non era ancora Falcone. Nella prima pagina dell’album c’è un ragazzo che s’affaccia al portone del liceo classico Umberto, in piazza sant’Anna. Nell’intervallo si sfama con il tipico cibo da strada palermitano, il pane e panelle, vitto interclassista. Di là dal marciapiede, sfila una carrozza tirata da due cavalli, un lussuoso landò. Si intravedono all’interno della vettura, mentre escono dal loro palazzo settecentesco, dirimpetto alla scuola, una donna, la principessa di Ganci, e il figlioletto, il principe Vanni Calvello di san Vincenzo.

Il palazzo davanti al liceo
Il ragazzo con il pane e panelle, diventato magistrato, lo farà arrestare tanti anni dopo, perché il giovane aristocratico poi sarebbe diventato socio del capomafia Francesco Di Carlo, e gli avrebbe messo a disposizione persino un castello a Trabia per summit criminali in cui si programmavano affari e delitti.

Il ragazzo delle panelle, ritratto in quella nostra istantanea del nostro album immaginario, che forse non fu mai scattata, si chiama Giovanni Falcone. Figlio di una corretta e decorosa borghesia tecnico-professionale che a Palermo oggi non esiste più – suo padre, Arturo, era il direttore del Laboratorio chimico provinciale – all’Umberto i professori lo citeranno ancora negli anni scolastici avvenire come un prodigio di serietà e applicazione negli studi – soprattutto le conferenze/ lezioni sulla Costituzione del professor Franco Salvo – e anche in palestra. In bacheca, anche quando la scuola cambierà sede – è un ricordo di qualche anno dopo, di chi frequentava lo stesso liceo – rimarrà per molto tempo una sua fotografia in tuta ginnica durante un partita di pallavolo, nella quale il ragazzo sfodera un sorriso gentile. Torniamo adesso in quel palazzo rococò che fronteggia il liceo di Falcone.

A palazzo Ganci, Luchino Visconti girò la scena clou che occupa un terzo del suo Gattopardo, tratto dal romanzo di Tomasi di Lampedusa: un interminabile “ballo” che dissanguò il produttore, Goffredo Lombardo, mandando in rovina la sua Titanus, ma che al regista occorreva dilatare perché quei sontuosi ambienti, vestigia di un glorioso passato, assistono – nel romanzo e ancor di più nel film – all’irruzione di una folla di personaggi mediocri, avidi e meschini: la borghesia mafiosa.

All’epoca dei primi sopralluoghi, con l’implacabile tassametro della principessa di Ganci che tormenta il produttore esecutivo Pietro Notarianni per l’affitto a giornata della sala in cui viene girato il valzer con Claudia Cardinale Burt Lancaster e una miriade di figuranti volontari delle buone famiglie palermitane, e poi al momento degli innumerevoli dei ciak che per quindici mesi sconvolgono tutti i ceti e i quartieri di Palermo, Falcone passa le sue giornate poco lontano, all’Università centrale, Facoltà di giurisprudenza, dove si laurea proprio nel 1961 con una tesi sulla «Istruzione probatoria in diritto amministrativo».

La passionaccia per il diritto penale viene dopo, nasce sul campo. Un campo minato: per breve tempo è pretore a Niscemi, per una dozzina d’anni sostituto procuratore a Trapani, città di mafia che nasconde la sua mafiosità. Anche qui c’è una foto, anzi una telefoto dell’Ansa, datata 1976: Falcone ha la barba e i capelli lunghi come si usava, sta scendendo sul molo dell’isola di Favignana dove c’è una delle carceri di massima sicurezza. Un detenuto dei Nuclei armati proletari reclama un giudice, è lui a offrirsi.

Con sangue freddo affronta un tipo che si definisce anarchico individualista ed è armato di un coltello, due tre ore di ansia, finisce bene. Nella foto Falcone rifà quell’enigmatico sorriso. Giovanni ha appena annunciato in famiglia, stupendo tutti i componenti di un nucleo di consanguinei molto conservatore, che stavolta voterà per la sinistra progressista, cioè per le liste del Pci.

Nel 1979 il sorriso di Falcone ce lo troviamo al naturale, in una specie di cerimonia di presentazione che Rocco Chinnici capo dell’ufficio istruzione fa ai cronisti giudiziari, del suo nuovo pool, anzi dei suoi nuovi “pupilli”, c’è Peppino Di Lello, che è stato anche sindaco per una formazione di sinistra in un comune abruzzese, c’è Falcone, che viene da Trapani… In verità, da Trapani – poi sapremo – Falcone è dovuto andar via, chiedendo il trasferimento per prevenire un incredibile provvedimento “di ufficio” per incompatibilità ambientale generato da una lettera anonima riguardante la sua situazione familiare – sta divorziando dalla moglie – e che il procuratore generale ha trasmesso al Csm. A Chinnici lo stesso procuratore subito raccomanderà di sommergere la scrivania di Giovanni di bagatelle. In modo da distoglierlo da crimini del potere e di alta mafia che l’avevano eccessivamente impegnato a Trapani, con tutto il seguito conseguente di veleni. Un avvocato specializzato nella difesa di grossi latitanti al primo mandato di cattura con la sua firma, prende a soprannominarlo ’u farcuni, il falcone, come se la bestia rapace fosse il giudice e non la mafia. Poi si aggiungerà al gruppo Paolo Borsellino, che invece è un giovane magistrato dichiaratamente di destra, ed è sposato con la figlia di un giudice di alto grado e di vecchio stampo: e poi sapremo che Paolo è un amico di infanzia di Giovanni, nato a due passi, in via Alloro, altra famiglia piccolo borghese molto per bene, farmacisti. Al circolo giovanile del quartiere della Kalsa ogni tanto i due futuri protagonisti della battaglia antimafia da ragazzi giocavano a calcetto-balilla con un coetaneo che tra qualche anno interrogheranno, don Masino Spadaro, contrabbandiere di sigarette divenuto capo di Cosa Nostra, impelagato nel grande affare della droga. Uno che li provocherà, in manette: «…sono l’Agnelli di Palermo, do lavoro a ventimila persone».
L’IMPERMEABILEIMBOTTITO
Ci deve esser da qualche parte una foto di Chinnici che in quei giorni regala a l’Unità uno scoop, che il giornale non capì e non valorizzò abbastanza. Il ministro della giustizia Clelio Darida, uomo di fiducia di Andreotti – con tanto di bigliettino da controfirmare per ricevuta – ha mandato ai giudici palermitani più impegnati un “capo d’abbigliamento” che – scrive – dovrebbe essere gradito, un impermeabile imbottito, spacciato dal ministero per efficace protezione antiproiettile. Falcone con quel suo sorriso ironico prende l’impermeabile e porta gli agenti di scorta che ha appena ottenuto dopo un lungo tira e molla in campagna a provare: Montinaro e Di Cillio due pugliesi che si affezioneranno a Giovanni rimanendo con lui fino alla morte, sforacchiano a pistolettate come un colabrodo il soprabito. Chinnici filosofeggia
con parole amare: lo prendo come un regalo, in vista della stagione delle piogge. A Falcone e Borsellino, Rocco Chinnici ha affidato la gestione e lo sviluppo di un rapporto dei carabinieri
che durante la gestione precedente è stato insabbiato (doveva prendere quello che ora è il suo posto Cesare Terranova, ex giudice istruttore a Palermo, ex parlamentare della sinistra indipendente, trucidato alla vigilia del suo ritorno al palazzo di
giustizia, nell’83 Chinnici verrà massacrato da un’autobomba). Ne vien fuori un’inchiesta che prende di petto, tra le altre, le famiglie mafiose che hanno ospitato proprio in quei mesi il bancarottiere italo americano Michele Sindona a Palermo, in un viaggio che viene spacciato per sequestro, ma che nasconde trame golpiste e ricatti politico-finanziari.
Falcone una mattina pazientemente ci spiega: li ho individuati uno per uno, seguendo il filo degli assegni bancari, dei patrimoni, delle compravendite. Consegna ai pochi cronisti locali che seguono
questi argomenti fuori moda negli anni di piombo, un malloppo di migliaia di pagine, l’ordinanza di rinvio a giudizio del processo mafia e droga (Spatola, Gambino, Inserillo). A chi gli chiede anticipazioni di eventuali prossimi sviluppi indica la pagina di un’intercettazione in cui rispettabili professionisti legati agli esattori democristiani Nino e Ignazio Salvo attorno a cui ruota metà della finanza e della politica siciliana, e non solo, parlano a telefono con un misterioso «Roberto» in sud America e lo pregano di venire a mettere pace nella guerra di mafia che è scoppiata a Palermo. Roberto, Falcone lo sa già, ma non fa trapelare nessuna indiscrezione, è il nome di battaglia di Masino Buscetta, un protagonista della mafia degli anni ruggenti, da tempo assente da Palermo. Buscetta e i suoi amici mafiosi vengono segnalati attorno al 1969/1970 in Italia da un rapporto di polizia anch’esso sino allora trascurato.E Falcone fa osservare quel giorno che il 1970 è un anno importante, un anno di minacce alla democrazia, parlava del golpe Borghese, e qualche anno dopo Buscetta e Liggio gli spiegherano che la mafia era pronta a parteciparvi… Deve esserci da qualche parte la foto di Falcone che sorride, mentre ci invita – come un assistente universitario si rivolge a un laureando che chiede la bibliografia per la tesi – a “studiare attentamente” quelle carte.
E infine c’è, sicuramente giace in qualche archivio, la foto scattata in via Giuseppe Pipitone Federico, sotto casa di Chinnici, quando arrivammo la mattina rovente del 29 luglio 1983 assieme con il fotografo dalla redazione dell’Ansa e lui, Falcone, dal palazzo di giustizia: un’autobomba, brandelli di carne, una gamba smembrata sul ramo di un alberello, lì davanti. Non c’è la forza per piangere, l’odore acre dell’esplosivo e del sangue mozzano il fiato. Falcone sussurra: Palermo come Beirut. E quella frase finisce su tutti i telegiornali.

L’Unità 23.05.12

"Lo spiraglio della Corte", di Stefano Rodotà

La decisione della Corte costituzionale sulla legge in materia di procreazione assistita lascia aperta la questione della legittimità del divieto della fecondazione eterologa. Infatti, invitando i tribunali che avevano sollevato la questione a riesaminarla tenendo conto di una recente sentenza della Corte europea dei diritti dell´uomo, i giudici della Consulta hanno ritenuto necessario un ulteriore approfondimento, così mostrando di considerare insufficienti gli argomenti di chi aveva chiesto una sentenza che riaffermasse senz´altro la costituzionalità di quel divieto.
Come si sa, il divieto di ricorrere alla procreazione assistita è all´origine di un consistente «turismo procreativo», che obbliga ogni anno migliaia di donne italiane a recarsi in altri paesi per ricorrere ad una tecnica ormai accettata quasi ovunque. Non volendo continuare a subire questo stato delle cose, alcune coppie si sono rivolte ai tribunali che, non ritenendo infondata la questione di illegittimità riguardante quella norma, hanno investito del problema la Corte costituzionale.
L´ulteriore approfondimento richiesto ieri è basato su una sentenza della Corte di Strasburgo che, modificando un suo precedente orientamento, in un caso riguardante l´Austria ha riconosciuto agli Stati la possibilità di vietare la fecondazione eterologa.Molte sono le ragioni che inducono a ritenere che questo rinvio non possa essere inteso come il segno di un orientamento comunque negativo della Corte costituzionale di fronte alla richiesta di rimuovere quel divieto dal nostro ordinamento. Nella sentenza europea, tecnicamente assai complessa e che si è attirata critiche ben argomentate, si trova infatti più di un elemento che consente di darle una lettura non necessariamente preclusiva della possibilità di allineare il nostro agli altri sistemi giuridici, con una decisione rispettosa dei diritti fondamentali delle persone. Interpretando quella sentenza, e chiedendosi fino a che punto possa essere ritenuta vincolante in Italia, non si può dimenticare che, «laddove una aspetto particolarmente importante dell´esistenza e dell´identità dell´individuo sia in gioco, il margine consentito ad uno Stato sarà di norma limitato».
Queste sono parole contenute in altre sentenze della Corte europea, che i giudici di Strasburgo questa volta sembrano aver dimenticato e che, tuttavia, consentono di utilizzare brani dell´ultima sentenza in modo da poter giungere alla conclusione che essa non debba essere intesa come un via libera a qualsiasi divieto che il legislatore italiano voglia imporre. Pur non potendo qui analizzare nei dettagli tecnici quella decisione, si può ricordare che proprio la Corte di Strasburgo ha riconosciuto che le scelte procreative sono espressione del diritto al rispetto della vita privata e familiare, affermato dall´articolo 8 della Convenzione europea dei diritti dell´uomo. E che, in materie caratterizzate da forti dinamiche determinate dalle innovazioni scientifiche e tecnologiche, è indispensabile tener conto del contesto e della sue variazioni. Argomento non trascurabile in via generale, e che appare particolarmente rilevante in questo caso, visto che la legge austriaca era del 1999 e che in questi anni molte cose sono radicalmente cambiate nel mondo della procreazione assistita.
Ma vi è un altro punto, davvero essenziale, che non può essere trascurato.
Il riferimento alla sentenza di Strasburgo e il suo necessario approfondimento non cancellano il fatto che la legittimità del divieto impugnato deve essere valutata alla luce dei principi fondamentali della Costituzione italiana.
Principi che, questa volta, riguardano in particolare l´eguaglianza e il diritto fondamentale alla salute. L´eguaglianza è violata perché il divieto della fecondazione eterologa discrimina le coppie alla cui infertilità può essere posto rimedio solo con questa particolare tecnica, che offre loro la possibilità di rendere concrete le loro scelte procreative al pari di ogni altra coppia. La legge 40 sulla procreazione assistita, peraltro, è concepita come strumento per la «soluzione dei problemi riproduttivi derivanti dalla sterilità e dalla infertilità umana», ed è dunque collocata nel quadro della tutela della salute.
Poiché l´articolo 32 della Costituzione qualifica la salute come diritto «fondamentale», il divieto di accesso a determinate tecniche viola proprio questo diritto. Si deve aggiungere che, con la sentenza n. 151 del 2010, che ha dichiarato illegittime altre norme della stessa legge 40, la Corte ha ricordato che «la giurisprudenza costituzionale ha ripetutamente posto l´accento sui limiti che alla discrezionalità legislativa pongono le acquisizioni scientifiche e sperimentali, che sono in continua evoluzione e sulle quali si fonda l´arte medica; sicché, in materia di pratica terapeutica la regola di fondo deve essere l´autonomia e la responsabilità del medico che, con il consenso del paziente, opera le necessarie scelte professionali». Le pretese del legislatore-scienziato, che vuol definire che cosa sia un trattamento terapeutico, e del legislatore-medico, che vuol stabilire se e come curare, vengono esplicitamente dichiarate illegittime.
La Corte non ha deciso di non decidere, ma di avviare una fase di ulteriore riflessione, durante la quale le questioni qui accennate potranno essere meglio approfondite. Ma un Parlamento degno di questo nome, consapevole della continua delegittimazione che gli deriva dal fatto che una sua legge obbliga le persone ad aggirarla per far valere i propri diritti, dovrebbe esso stesso porre fino a questo stato delle cose. Che mortifica le persone e fa rinascere la cittadinanza «censitaria», perché solo chi è fornito di adeguate risorse finanziarie può recarsi all´estero e rendere effettivo un proprio diritto.

Repubblica 23.5.12

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Il ginecologo Flamigni: la società civile italiana è più avanti della politica

“Ma la norma è destinata a saltare non possiamo isolarci dall’Europa”. Anche qui il concetto di genitorialità è cambiato. Essere padre o madre non è soltanto una questione di gameti
«Mi sa che vado a vivere a san Marino. Siamo un paese assurdo, siamo l´unica nazione in Europa, a parte forse Andorra, a vietare qualsiasi tipo di eterologa». Il professor Carlo Flamigni, tra i pionieri dalla fecondazione assistita e tra i primi a fare l´eterologa in Italia quando non c´era ancora la legge 40, scherza ma non troppo.
Cosa pensa della sentenza?
«Credo sia un modo di prendere tempo, vista la situazione internazionale l´Italia non può restare così al di fuori dell´Europa con una legislazione cosi profondamente diversa e lontana dalla società civile. Sono convinto che alla fine il divieto di eterologa salterà».
Società più avanti della politica?
«Non solo all´estero, anche qui è ormai cambiato il concetto di genitorialità, insomma essere padre o madre non è mica questione solo di gameti».
Ora cosa accadrà?
«Ripartiranno, a migliaia andranno all´estero con alti costi finanziari e umani, col rischio di finire in centri poco seri, come quella coppia che si è ritrovata sola in difficoltà con un figlio malato forse perché non gli hanno fatto gli esami giusti. E invece noi come Stato abbiamo l´obbligo di tutelare i nostri concittadini e non solo».
Non solo?
«Quando ci decideremo ad essere un stato veramente laico in cui i cittadini hanno diritti e libertà di scelta?»
E a chi parla di vendita di ovociti?
«All´estero in alcuni casi è vero. Da noi, prima che la legge 40 la vietasse, a Bologna per anni abbiamo fatto l´eterologa e le donazioni erano tutte gratuite, nessuna donna ha mai preso una lira. C´era il senso del dono, della solidarietà nel dare gli ovociti in sovrannumero, regalare speranza. Le venete erano le più generose».
(c.p.)

Repubblica 23.5.12
Roccella (Pdl): per chi vuole ribaltare la legge 40 la strada è in salita
“Troppa ideologia in quelle richieste ora non ci sono più appigli giuridici”
Può ancora accadere di tutto: da noi i magistrati pretendono di fare le norme invece di limitarsi ad applicarle
di Elena Dusi

ROMA – «Decisione molto ragionevole» è il commento a caldo di Eugenia Roccella, deputato del Pdl. «È la dimostrazione che i tribunali da cui il ricorso era partito hanno agito con troppa fretta. Una fretta che dimostra tutte le loro motivazioni ideologiche».
In realtà la Consulta non è entrata nel merito. Perché allora definisce la decisione ragionevole?
«Perché i tribunali avevano fatto ricorso sulla base di una sentenza della Corte Europea che nel frattempo è stata ribaltata. La prima decisione era favorevole all´eterologa, quella finale contraria. Come avrebbe potuto la Consulta accogliere il ricorso alla luce della nuova situazione? È logico che abbia restituito la palla ai giudici».
Però la Corte Costituzionale non ha chiuso definitivamente la porta all´eterologa.
«È vero, la porta non è chiusa, ma la strada per chi volesse presentare un nuovo ricorso si presenta ora molto in salita. Ribaltata la decisione della Corte Europea, non esistono più appigli giuridici per rimettere in discussione il divieto di fecondazione eterologa».
Perché si è arrivati a questo stallo?
«È evidente che i tribunali ricorrenti hanno agito su base ideologica. Altrimenti non avrebbero avuto tanta fretta e avrebbero atteso la sentenza definitiva della Corte Europea. Da noi i tribunali pretendono di fare le leggi, invece di limitarsi ad applicarle».
Forse i giudici volevano solo tutelare l´interesse di coppie per le quali il tempo è un fattore importante.
«Forse, ma non mi pare che ci siano riusciti. E comunque avrebbero dovuto agire seguendo la legge».
Cosa si aspetta ora?
«In questo paese dove i tribunali hanno tale eccesso di creatività può accadere di tutto. Ma ne sono convinta: per loro la strada ora è tutta in salita».

La Repubblica 23.05.12

"La crisi di sistema", di Claudio Sardo

Le elezioni amministrative hanno certificato una crisi di sistema. Il bipolarismo della Seconda Repubblica – che Berlusconi era riuscito a modellare attorno al proprio impianto populista – si è sgretolato. Dove c’erano l’asse del Nord, il centrodestra senza confini a destra, il blocco sociale che contrapponeva la libertà alla stessa idea di «pubblico», ora c’è un grande vuoto. Il Pd, rimasto il solo partito nazionale tra le macerie, conserva una massa critica e una capacità di coalizione che appare oggi come la risorsa estrema, su cui ricostruire una competizione democratica. Il suo successo è indubbio, se misurato in termini relativi. Ma a nessuno sfugge che si tratta di un successo fragile.
Lo ha dimostrato anche la facilità con cui gli elettori del centrodestra e del centro hanno dirottato al secondo turno i loro voti sui candidati grillini. La protesta radicale, la carica anti-establishment, il rifiuto della mediazione politica sono un’onda montante: contengono certo una domanda di rinnovamento, ma la travalicano. Se non è stata la prima scelta, l’opzione Grillo è diventata quantomeno a Parma il second best per quasi tutti gli elettori non-Pd.
Si potrebbe dire che la cultura di Grillo è stata alimentata per anni dallo stesso Berlusconi. Che l’antipolitica da noi è arrivata al governo ben prima delle Cinquestelle: con un premier in carica che detestava pubblicamente la Costituzione e il «teatrino» dei partiti, con un leader che alzava l’ampolla del dio Po mentre era ministro della Repubblica, con una propaganda martellante sulle intenzioni anti-sistema, anti-euro, anti-tasse da parte di chi invece era chiamato a governare la cosa pubblica. Tutto questo è vero. Come è vero che Grillo, d’ora in avanti, dovrà amministrare da professionista della politica un partito vero e proprio. Ma ciò non consola, né indica la via d’uscita.
Non esiste una soluzione politologica alla crisi di sistema, perché questa è legata a una profonda crisi sociale. E la politica – prima ancora di mostrare la propria debolezza nell’esprimere alternative legittime, plausibili, europee da sottoporre agli elettori – appare anzitutto inefficace a ridurre le diseguaglianze, a regolare le forze del mercato, a sottomettere il potere della finanza, ad affrontare le crisi concrete delle persone, delle famiglie, delle imprese. È vero che la storia non si ripete, ma la fotografia di oggi ricorda quella del ‘93, quando il collasso del sistema politico si combinò con riforme incompiute, con l’emergere di nuovi partiti, con grandi sommovimenti sociali, con inedite minacce criminali.
Il Pd e il centrosinistra non devono ripetere oggi gli errori commessi allora da altri. La vittoria di Grillo e la sua totale ostilità ad ogni alleanza aiutano a tenere alta la guardia. E anche ad affrontare con umiltà le domande di cambiamento che provengono da ogni parte della società, a partire da quanti patiscono di più le ingiustizie della crisi. Nessuno può pensare di farcela da solo. Le riforme istituzionali ed elettorali sono necessarie e urgenti: tornare a votare con il Porcellum vuol dire, con ogni probabilità, condurre al fallimento anche la prossima legislatura. È un rischio democratico che nessuna persona responsabile può correre. Nelle classi dirigenti del centrodestra, attraversate dalla paura e certe della sconfitta, qualcuno spera che muoia Sansone con tutti i filistei. Ma i peggioristi vanno sconfitti. Meglio una riforma non perfetta che la conservazione dello status quo.
Il nodo più difficile da sciogliere tuttavia riguarda le politiche contro la crisi. Negli spazi angusti imposti dall’austerity europea c’è poco ossigeno per recuperare alla politica quell’utilità sociale che i cittadini giustamente pretendono. Il governo dei tecnici è nato in questa congiuntura, stretto tra una necessità (recuperare all’Italia un po’ di credito perduto) e una impossibilità (attuare davvero politiche di crescita). Ma ora, con la vittoria della sinistra in Francia e con il pressing di Obama sull’Europa, può aprirsi un campo più ampio di azione.
Il rinnovamento di cui tutti sentiamo il bisogno non ha solo un carattere generazionale. Il tema è cambiare insieme il contenuto delle politiche. Altrimenti se diventa solo un problema di maschere, il teatrino dei comici non darà risultati migliori del precedente. Crescita, equità, lavoro, forte legame con quella parte di Europa che punta all’integrazione e agli investimenti dopo il fallimento dei governi di centrodestra. Questa è la sfida. La priorità non è costruire uno schema astratto di alleanze, come i progressisti nel ’93: sulle macerie tutto diventa fragile e i vuoti possono essere occupati da nuovi avventurieri. La priorità non è neppure cercare nelle primarie una nuova fonte battesimale (stavolta si è dimostrato che le primarie possono anche produrre disastri quando vengono usate per regolare conflitti tra partiti o scelte tra coalizioni diverse). La vera priorità è il progetto per la ricostruzione del Paese. La leadership è la garanzia del legame con i progressisti europei. Il rinnovamento degli uomini e delle classi dirigenti, indispensabile come in ogni passaggio di sistema, non può, non deve essere disgiunta da una nuova idea di pubblico, di comunità, di Europa. La moralità dell’azione politica ovviamente comincia dall’uso trasparente e morigerato delle risorse, dal principio di legalità – e positive sono state ieri le votazioni alla Camera – ma la prova decisiva sarà nella capacità di ridurre davvero le diseguaglianze tra i cittadini.

l’Unità 23.05.12

"Italia più povera. Salari fermi risparmi in calo", di Roberto Giovannini

Un baratro tra Nord e Sud, tra classi sociali, tra chi ha un posto fisso e chi è precario, tra uomini e donne, tra chi studia e chi a malapena riesce a completare la scuola dell’obbligo. La fotografia che l’Istat scatta dell’Italia nel suo rapporto 2012 è quella di un paese spaccato da tante disuguaglianze. Diseguaglianze differenti, che percorrono trasversalmente il paese, aprendo la strada a scenari davvero preoccupanti. Nel corso dell’ultimo anno, spiega il presidente dell’Istituto di Statistica Enrico Giovannini, l’Italia ha scoperto di essere «più vulnerabile di quanto pensava». Una presa di coscienza che è servita a «mettere mano» su «numerose questioni irrisolte», ma comunque anche il 2012 è destinato ad essere «ricordato come un anno molto difficile». Un anno in cui in pratica l’Italia ha finito di «mangiarsi» l’intero dividendo dell’euro, pure conquistato con tanti sacrifici.

Un tratto unificante del Paese, se vogliamo, è quello del ritorno evidente della separatezza tra le classi sociali. Tra i trentenni, solo il 20,3% dei figli degli operai è riuscito ad arrivare all’università, contro il 61,9% dei figli delle famiglie agiate; ben il 30% dei ragazzi delle famiglie operaie abbandona la scuola superiore, contro appena il 6,7% dei figli di dirigenti, imprenditori, liberi professionisti. In altre parole, «la classe sociale di origine influisce in misura rilevante sul risultato finale, determinando rilevanti disuguaglianze nelle opportunità offerte agli individui», e «tutte le classi (in particolare quelle poste agli estremi della scala sociale) tendono a trattenere al loro interno buona parte dei propri figli e i cambiamenti di classe sono tanto meno frequenti quanto più grande è la distanza che le separa».

Sul fronte dei salari, tra il 1993 e il 2011 le retribuzioni contrattuali, in termini reali, sono rimaste ferme. Non è andata meglio per le retribuzioni di fatto, ovvero le buste paga, salite solo di quattro decimi di punto l’anno. Non stupisce dunque come il reddito reale disponibile delle famiglie sia diminuito nel 2011 per il quarto anno consecutivo, tornando ai valori di dieci anni fa. Dal 2007 a oggi la perdita è di ben 1.300 euro a testa. La propensione al risparmio delle famiglie consumatrici è scesa all’8,8% nell’ultimo anno, la percentuale più bassa dal 1990. In altri termini, le famiglie non solo non risparmiano più, ma dopo aver intaccato le loro riserve ora tagliano i consumi.

Siamo un paese da record. Negativi. Negli ultimi dieci anni, tra il 2000 e il 2011, con una crescita media annua pari allo 0,4%, l’Italia risulta ultima tra i 27 stati membri dell’Ue. Il sommerso vale tra 255 e 275 miliardi, cioè il 16,3-17,5% del Pil. Sono 2,1 milioni i ragazzi che non studiano né lavorano, i cosiddetti Neet. D’altra parte per gli under 30 il tasso di disoccupazione ha raggiunto il 20,2%. Ma anche quando hanno un impiego i giovani sono penalizzati, infatti oltre un terzo degli under 30 ha un lavoro a tempo determinato (contro un valore medio del 13,4%). E a 10 anni dal primo impiego precario il 29,3% è ancora rimasto nell’inferno del lavoro insicuro, e circa il 10% non è più occupato.

Al Sud sono povere 23 famiglie su 100, al Nord soltanto 4,9. Sono le regioni meridionali quelle che offrono minori opportunità di lavoro, che scontano svantaggi nella dotazione di servizi sociali (dagli asili nido all’assistenza per gli anziani) sanitari e ambientali. Quanto alla famiglia, a parte il boom di single e convivenze, le donne continuano a essere penalizzate: a due anni dalla nascita del figlio quasi una madre su quattro in precedenza occupata non ha più un lavoro.

La Stampa 23.05.12

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“Salari e redditi fermi da 20 anni l´Italia si scopre più povera”, di Luisa Grion

Nel Mezzogiorno, sono in difficoltà 23 famiglie ogni cento contro le 4,9 del Settentrione. Nel 2011 l´export nazionale è cresciuto dell´11,4%, ma si è anche ridotta la nostra quota nel commercio mondiale. Finalmente il Paese ha compreso di essere vulnerabile, decisioni politiche più veloci e consapevoli. E´ l´anno più duro. L´Italia è quasi ferma, dalla crisi del 1992 a quella in corso, ha «vivacchiato», è cresciuta poco e nulla, si è trascinata dietro questioni antiche e mai risolte: il Sud, l´incapacità a valorizzare le donne, la resistenza a lasciar spazio ai giovani. Siamo un Paese che non si muove, dove è diventato più difficile, per i figli, fare un passo avanti rispetto ai genitori e dove scuola e merito non rappresentano un trampolino di lancio. Rispetto a venti anni fa c´è qualche laureato in più, ma ci sono anche parecchi bambini in meno. Non siamo morti: c´è chi ha ancora voglia di combattere e partire con la sua impresa alla conquista dell´export, ma la competitività è dura da raggiungere e la prestigiosa, vecchia manifattura ogni anno perde pezzi. Siamo proprio nel mezzo di quello che l´Istat, fin dalla prima riga del suo rapporto sul 2012, definisce «un difficile passaggio», ma il Paese – assicura il presidente Giovannini – «ha compreso la gravità della situazione» e «l´accelerazione decisionale che ne ha fatto seguito».
MENO CRESCITA, MENO REDDITI
Si sa che va male per tutti, ma per l´Italia va peggio: negli ultimi venti anni siamo rimasti quasi fermi. Dal 1992 al 2011 il tasso medio di crescita annua è stato dello 0,9 per cento mentre la Francia arriva all´1,6 e la Spagna, al di là del quadro attuale, è avanzata a colpi del 2,5. Tradotto in reddito reale e in potere d´acquisto delle famiglie ciò ha prodotto un balzo all´indietro. «Il 2011 è stato il quarto anno consecutivo in diminuzione – ha chiarito Giovannini – stiamo tornando ai livelli di dieci anni fa». Il reddito pro capite è inferiore del 4 per cento rispetto al 1992, del 7 rispetto al 2007. In quattro anni si sono persi 1.300 euro a testa e la propensione al risparmio è crollata dal 12,6 all´8,8 per cento.
L´ASCENSORE ROTTO
L´Istat la definisce «bassa fluidità sociale»: come nasci, così resti. Se tuo padre è notaio sarai notaio anche tu, se fa i turni in fonderia, probabilmente li farai anche. Solo l´8,5 di chi nasce in una famiglia operaia ce la fa a diventare dirigente e dalla scuola non arriva più la spinta. «Anche l´operaio vuole il figlio dottore» recitava «Contessa», colonna sonora del ‘68: dopo oltre quarant´anni, informa l´Istat, la classe sociale dei genitori continua ad influenzare i percorsi formativi dei figli. Fra i ragazzi degli anni 80 solo il 23 per cento dei nati nelle classi meno agiate è arrivato all´Università, contro il 61,9 di quelle agiate; nelle scuole superiori gli abbandoni, nel primo caso, arrivano al 30 per cento, nel secondo si fermano al 6,7.
POVERO SUD
La mai risolta questione meridionale affossa i redditi del Sud. Lì sono povere 23 famiglie su 100, contro le 4,9 del Nord. Sono le regioni meridionali quelle che offrono minori opportunità di lavoro e che scontano svantaggi nella dotazione di servizi sociali (dagli asili nido all´assistenza per gli anziani). Ed è li che i Comuni spendono meno in welfare: la media nazionale è di 116 euro procapite, ma va dai 295 della provincia autonoma di Trento ai 26 della Calabria, un divario che si va allargando. L´economia sommersa pesa come un macigno: vale 275 miliardi, il 17 per cento del Pil, rispetto al 2000 risulta contenuta, «ma con la crisi si è verosimilmente riallargata».
GIOVENTU´ PRECARIA
L´Italia non è un paese per giovani, lo ha dimostrato nei giorni scorsi lo studio della Coldiretti sull´avanzata età della classe dirigente, lo certifica l´Istat. Il risultato è che i figli restano tali più a lungo: fra i 25 e i 34 anni quattro su dieci vivono ancora in famiglia. «Bamboccioni» per forza: il 45 per cento vive con i genitori solo perché non può permettersi una vita autonoma e il lavoro precario avanza tagliando le ali. Dal 1993 al 2011 i dipendenti a termine sono cresciuti del 48,4 per cento. Nel 2011 l´incidenza del lavoro temporaneo sul complesso del lavoro subordinato è stata pari al 13,4 per cento, il valore più elevato dal 1993, ma ha supera il 35 per cento (quasi il doppio del 1993) fra i 18-29enni.
LA CRISI DELLE DONNE
La discriminazione femminile con la crisi è peggiorata. Quando lavorano le donne, guadagnano di meno (e la disparità cresce con l´aumentare del reddito), ma trovare un posto è già un´impresa: il 33,7 per cento delle italiane tra i 25 e i 54 anni non percepisce redditi (contro il 19,8 per cento nella media Ue). Studiano di più, ma «guai» a fare figli: il lavoro per le madri – rispetto ai padri – è 9 volte inferiore nel Nord, 10 nel Centro e 14 nel Mezzogiorno. Nelle coppie in cui lei non lavora (il 30 per cento sul totale) oltre il 47 per cento delle donne non ha accesso al conto corrente.
CHI CE LA FA
Eppure non tutto è nero: l´export italiano cresce (più 11,4 per cento nel 2011), anche se la competitività è in sofferenza. Negli ultimi dieci anni, sottolinea l´Istat «l´Italia ha rafforzato i processi d´internazionalizzazione ma esistono ancora spazi di miglioramento».

La Repubblica 23.05.12

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Istat, PD: “Penalizzati donne, giovani e Sud del Paese. Appello al governo per invertire la rotta”

La fotografia dell’Italia che ci restituiscono oggi i dati dell’Istat conferma quali devono essere le priorità di intervento per cambiare passo, per puntare alla ripresa economica e al rilancio dell’Italia. Sono necessari, non più procrastinabili, misure per le donne, per i giovani, per il Sud di questo Paese.

“L’Istat – ha commentato Anna Finocchiaro Presidente del Gruppo del PD al Senato.- certifica che, mentre negli ultimi 20 anni il tasso di scolarità si è innalzato proprio grazie al contributo femminile, purtroppo le donne restano discriminate sia nel mondo del lavoro che in famiglia. Sulle donne gravano i maggiori carichi famigliari e i più elevati livelli di disoccupazione e in questo l’Italia resta il fanalino di coda dell’Europa. Di più, a questo si associano i dati sulla natalità, sulla povertà e sulla situazione delle ragazze e dei ragazzi. Si conferma che l’Italia non è un Paese per giovani e per donne, specie al Sud”.

“In fondo alle classifiche europee per come considera e valorizza donne e giovani: è questo il quadro che emerge dai dati Istat resi noti oggi ed è la triste conferma di quello che già da qualche anno conosciamo bene. Un Paese dove chi vuole entrare nel mondo del lavoro fatica e se è dentro, proprio perché più indifeso, ne esce al primo battito di crisi. E le donne hanno pagato cara la crisi e le misure di risanamento”. E’ il commento di Roberta Agostini, Coordinatrice della Conferenza nazionale delle donne democratiche e membro della Segreteria Nazionale del PD.

“Noi insistiamo da tempo nel dire che un Paese che non investe su giovani e donne è un paese bloccato e fermo e che solo politiche di investimento e di sostegno al lavoro possono invertire una tendenza regressiva per l’intera comunità. Il lavoro delle donne – ha spiegato Agostini – chiama in causa la necessità di una visione integrata della vita sociale, familiare, produttiva e riproduttiva. Richiede riforme profonde sia sul terreno del mercato del lavoro, sia in materia di welfare: riduzione della giungla di tipologie contrattuali precarie, potenziamento dei servizi per l’impiego, misure finalizzate a sostenere il reddito delle lavoratrici o ad incentivare l’imprenditoria femminile”.

Agostini ha evidenziato quelli che dovrebbero essere “i cardini della crescita di un Paese: la tutela universale della maternità, a prescindere dalla tipologia contrattuale, e l’estensione dei servizi per l’infanzia, diritti fondamentali che rappresentano anche leve di crescita del Paese”.

Per questo il PD chiede al governo di farsi promotore di misure efficaci. “Nel provvedimento di riforma del mercato del lavoro all’esame del Senato, sono contenute alcune ma ancora insufficienti novità. E’ ora urgente una strategia politica e provvedimenti incisivi – ha concluso Agostini – per invertire la rotta descritta dai dati Istat”.

“Anche il Sud del Paese necessita un’inversione di rotta”, ha aggiunto la deputata del PD Luisa Bossa, a commento dei dati dell’ultimo rapporto Istat.

“Leggere che il meridione è alla deriva – ha proseguito la deputata napoletana – fa male. L’analisi, ovviamente, è incontestabile. Ma quei numeri sono una ferita aperta. Siamo chiamati in causa tutti, ciascuno per la sua parte. Il cambiamento parte da un’autocritica profonda e collettiva. Ma non si può non guardare alla responsabilità dei gruppi dirigenti. Per anni, il Governo Berlusconi ha spostato l’asse degli interventi da Sud a Nord, cancellando di fatto la questione meridionale e ribaltandola, con un assurdo paradosso, nella questione settentrionale. Invece, numeri e cifre, ci ricordano che esiste una drammatica condizione di sviluppo diseguale, che richiede politiche di segno diverso”.

L’appello di Bossa va anche al Governo Monti. “Il decreto per sbloccare quote di pagamento della Pubblica amministrazione verso le imprese non può escludere una regione come la Campania, solo perché esiste un Piano di rientro dal disavanzo. Con questo principio, si decide di aggravare ancora di più la situazione. La logica vorrebbe, invece, il contrario, e cioè che ci concentrassero risorse maggiore dove maggiori sono i problemi”.

www.partitodemocratico.it

"Come le donne possono difendersi", di Giovanna Zincone

L’ uccisione di donne non accenna a rallentare. Durante la presentazione del Rapporto annuale Istat si è evidenziata una diminuzione generale degli omicidi nell’ultimo ventennio, ma non di quelli femminili. Nel 2011 sono state 137 le vittime in Italia, dieci in più dell’anno precedente, e nei primi mesi del 2012, già più di 50 donne hanno perso la vita, uccise da un maschio. Quasi sempre da un marito, un compagno, un ex. Sono diminuiti alcuni reati, ma gli stupri sono aumentati. Stando a una ricerca del 2006, il rischio di essere oggetto di qualunque tipo di violenza cresce con il crescere della vicinanza del colpevole. Una donna su tre (tra i 16 e i 70 anni) è stata vittima di comportamenti lesivi più o meno gravi. La diffusa sopraffazione sulle donne costituisce non solo un terreno di coltura che può generare esiti letali, ma un male sociale in sé.

Si moltiplicano appelli e mobilitazioni contro questo intollerabile fenomeno. Ma perché abbiano un impatto rilevante non basta che risveglino le coscienze e attraggano la pigra attenzione dei media, devono anche informare le vittime sugli strumenti a loro disposizione, convincerle a reagire, spingere gli addetti a trovare nuovi strumenti di tutela. Inasprire ulteriormente le pene carcerarie è una scorciatoia inefficiente: i tempi di detenzione sono già stati allungati.

Nel 2009, con una maggioranza bipartisan, è passato il provvedimento contro la violenza sessuale che prevede da 6 a 12 anni di carcere. Sempre nel 2009 è stato introdotto con voto quasi unanime il reato di stalking (molestie di vario grado): il carcere va da 6 mesi a 4 anni, aumentabili fino a 6 se il colpevole è un partner o un ex, in larghissima maggioranza si tratta maschi. Le pene detentive non costituiscono un deterrente efficace e non arginano la forma estrema di violenza, l’omicidio, che prevede sanzioni ben più gravi.

Che fare? Partiamo dai casi che presentano maggiori rischi. In base alla legge anti-stalking, il giudice può imporre ai responsabili di atti persecutori l’obbligo di tenersi a distanza dalla vittima, ma ovviamente non si può contare sul fatto che proprio i soggetti più pericolosi lo facciano, né si può prospettare una sorveglianza continua e capillare delle forze dell’ordine. Nelle situazioni di maggior pericolo si potrebbero dotare le donne di strumenti di comunicazione semplice e immediata con il 113 o con lo speciale numero verde 1522 che, a sua volta, può attivare un intervento immediato. Occorre, però, che le donne stesse siano consapevoli dell’entità del rischio che corrono.

Questo vale anche per i casi, almeno inizialmente, meno gravi: l’1522 può metterle in contatto con i Centri antiviolenza specializzati nel seguire questi fenomeni. Nella quasi totalità dei casi le donne maltrattate non lo fanno. Molte evitano persino di parlarne con amiche e parenti.

Per spezzare il silenzio occorre partire dalla constatazione che parlare, a loro avviso, potrebbe avere costi troppo alti. Il primo costo, il più difficile da contenere è il rischio della perdita affettiva, la rinuncia a una relazione per quanto malata. Un secondo costo, temuto dalle vittime di aggressioni da parte di coniugi o conviventi, consiste nella perdita dello status sociale e della sicurezza economica garantiti dal partner. All’interno della coppia è ancora frequente uno squilibrio di genere di risorse e di status. Il rapporto annuale dell’Istat ha fotografato ancora una volta questo squilibrio. L’Italia è seconda solo a Malta per la presenza di famiglie in cui solo l’uomo lavora. La proprietà della casa in cui la coppia vive è più spesso del maschio. A picchiare non sono soltanto spiantati ubriaconi, ma anche individui benestanti, stimati lavoratori, professionisti apprezzati. E il divario di reddito tra maschi e femmine cresce con il crescere della posizione sociale. La legge prevede l’obbligo di versare un assegno periodico alle vittime di stalking, ma la denuncia, se si tratta di un convivente, potrebbe coincidere comunque con una rinuncia al benessere e alla considerazione sociale di cui la donna indirettamente gode. I centri anti violenza servono anche a far capire che le strategie sono molte e non necessariamente comportano una definitiva rottura. Perciò è necessario che i centri si rafforzino.

Per arginare i costi temuti che favoriscono il silenzio, bisogna evitare almeno nei casi meno gravi ricorsi troppo immediati al giudice e alle misure detentive. Quello che vale nelle relazioni conflittuali internazionali, può valere anche nelle relazioni conflittuali di genere. Funziona meglio l’escalation piuttosto che la deterrenza dell’arma estrema.

Occorre che le donne vittime di abusi sappiano che la normativa italiana prevede già la possibilità di chiedere aiuto senza pagare e far pagare subito costi troppo alti. Non infligge immediatamente ai colpevoli punizioni che le stesse vittime possono considerare troppo pesanti e con effetto boomerang.

La legge anti stalking è uno strumento flessibile. Quando le donne si rivolgono alle forze di polizia, invece di sporgere immediatamente querela, e con ciò attivare un procedimento penale, possono fare una richiesta di ammonimento. E il questore può cercare di dissuadere il responsabile attraverso questo strumento. Il questore può anche aprire un’istruttoria, convocare il colpevole e la vittima per approfondire la questione. In molti casi l’ammonimento ha dimostrato di funzionare. E, comunque, a fronte di recidiva o di comportamenti gravi, non occorre neppure la querela, scatta la denuncia di ufficio e si apre il procedimento penale.

Si potrebbe riflettere sulla possibilità di affinare ulteriormente le armi leggere di dissuasione, modulando ancora di più l’escalation: ad esempio, colpendo in misura crescente il capitale di onorabilità e di stima dei colpevoli.

Se il questore rafforzasse le misure di sorveglianza, questo servirebbe non solo a tutelare materialmente la vittima, ma anche a estendere la conoscenza dei misfatti. I vicini potrebbero interrogarsi sul perché una macchina della polizia si trova di fronte a quel portone. La stessa estensione della conoscenza potrebbe essere attuata attraverso un allargamento delle testimonianze nel corso dell’istruttoria. La possibilità di modulare il numero e il tipo di persone coinvolte offrirebbe al Questore uno strumento dissuasivo di potenza variabile ed eventualmente crescente. Ma la minaccia o l’attuazione di un danno di immagine è efficace solo a tre condizioni. La prima è che le vittime la mettano in moto: che si rivolgano al numero verde o alle forze dell’ordine, che accettino almeno questa modica sanzione per il colpevole. La seconda si collega alla prima: le donne abusate non devono vergognarsi di essere vittime. Purtroppo spesso capita. La vergogna dovrebbe essere monopolio assoluto dei colpevoli. La terza è forse la condizione chiave e si collega alla seconda: comportamenti come lo stalking e la violenza domestica dovrebbero essere considerati vergognosi persino a giudizio degli stessi autori, o almeno agli occhi della stragrande maggioranza dell’universo maschile. Ma lo sono?

La Stampa 23.05.12

"Senza equità e ricerca i giovani restano fuori", di Nicola Cacace

«I dati del rapporto non dicono nulla di buono. In Europa siamo primi per precarietà salari e pensioni perdono potere d’acquisto». Il presidente dell’Istat Giovannini ha dovuto sobbarcarsi l’ennesima fatica, quella del rapporto annuale, senza poter aggiungere niente di buono a quello che ci dice da anni. In Europa siamo ultimi per crescita del Pil, primi per precarietà dei giovani, ultimi per equità nella distribuzione di redditi e ricchezza, con salari e pensioni che da anni perdono potere d’acquisto e povertà crescente. L’Italia è il paese più vecchio del mondo, 44 anni di età media, contro i 20 anni del Magreb, che invecchia male perché da anni sacrifica l’unica risorsa scarsa e creativa, quella dei giovani. È infatti dal 1975 che, proprio per le politiche anti giovani è cominciato il dimezzamento delle nascite, da un milione a mezzo milione di nati ogni anno. E oggi abbiamo bisogno di almeno 200mila immigrati ogni anno per coprire i lavori più umili. Precarietà occupazionale, diseguaglianze crescenti tra redditi e ricchezze, scarsa innovazione delle produzioni che implica scarsa domanda di lavoro qualificato, assenza di futuro per le giovani generazioni che, nella società della conoscenza, diventa esiziale. Infatti la società della conoscenza vive e prospera su due fattori chiave, l’innovazione che è prodotta soprattutto dai giovani supportati da scuola e ricerca e l’equità, cioè una distribuzione di redditi e ricchezza a massima diffusione nella società. In entrambi questi fattori l’Italia da decenni marcia in senso contrario a quello verso cui marciano i paesi che ce l’hanno fatta, quelli dove i giovani sono valorizzati meglio e l’equità attentamente realizzata. Nessun paese al mondo ha avuto una regressione economica così continua da quarant’anni in parallelo con un accelerato processo di mortificazione dei giovani e di aumento delle diseguaglianze: il Pil era cresciuto del 3,8% annuo nel decennio settanta, del 2,4% nel decennio ottanta, dell1,6% nel decennio novanta e dello 0,2% nel decennio 2000-10. Poiché nel frattempo la popolazione è cresciuta dai 50 milioni del 1960 ai più di 60 di oggi, il Pil per abitante ha rallentato ancora più del Pil portando l’Italia tra i paesi più poveri d’Europa. La società globale fa avanzare i Paesi dove equità e innovazione e quindi i giovani, sono dominanti e fa arretrare gli altri. L’Italia deve invertire una direzione di marcia completamente sbagliata, coi giovani mortificati ed i vecchi dominanti anche grazie ad un’evasione fiscale ed una corruzione tra le più alte al mondo.Èdifficilemanon impossibile. Le radici di Paese vitale e creativo fanno sperare che si ritrovi la strada di politiche pro innovazione che rimettano il lavoro al centro, valorizzino istruzione e meriti e portino più giovani ad emergere. E soprattutto che si riducano le diseguaglianze. In questa crisi si è riscoperto che i paesi a minor diseguaglianza sono anche i più ricchi, Germania e Francia, Olanda e Danimarca, Austria e Svezia tra gli altri.È sperabile che la lezione di questi anni abbia insegnato qualcosa, a tutti.

L’Unità 23.05.12