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Emergenza terremoto in Emilia

Domani provvedimento di Emergenza nazionale che sarà varato dal Consiglio dei Ministri. Dopo il forte terremoto che ha colpito le provincie di Modena e Ferrara alle 4,00 di domenica 20 maggio, il bilancio delle vittime è pesante: 7 persone decedute, tra le quali 4 operai travolti in fabbrica mentre svolgevano il turno di notte, 50 feriti, 4000 senza tetto, gravissimi danni al patrimonio artistico e monumentale delle zone colpite. E le scosse continuano.

“Ci sono vittime e tra l’altro gente che stava lavorando, ci sono danni seri, è stata una scossa molto forte, speriamo non ci siano altre sorprese negative nella fase dell’assestamento”. Aveva commentato il Segretario del PD, Pier Luigi Bersani, nella mattinata di domenica. “La protezione civile – ha aggiunto Bersani, che fu anche Presidente della Regione Emilia-Romagna – sta intervenendo con efficacia, il maltempo non aiuta, ho sentito il Presidente della Regione e so che la macchina dei soccorsi è in moto”.

A fare il punto della situazione dai microfoni di Radio Anch’io è proprio il Presidente della Regione Emilia Romagna, e della Conferenza delle Regioni Vasco Errani.

“Siamo in attesa del provvedimento di Emergenza nazionale che sarà varato martedì con il Consiglio dei Ministri. Stiamo assistendo la popolazione, preoccupata dalle continue scosse, per questo stiamo allestendo altri posti di assistenza per i cittadini. Abbiamo governato tutto il processo delle strutture sanitarie che per ragioni di sicurezza abbiamo chiuso, assistendo tutti i pazienti; ora anche con il contributo di altre regioni abbiamo in corso le valutazioni per le abitazioni, gli edifici pubblici religiosi e le imprese, allo scopo di fare una quantificazione dei danni, dopodiche si aprirà il grande tema della ricostruzione”.

Errani ha spiegato che effettivamente “ci sono zone sismiche, ma nessuno poteva prevedere un terremoto di questa intensità e così in superficie. Quanto ai capannoni di recente costruzioni crollati, valutazioni e verifiche – ha precisato – saranno fatte sulla base dei danni reali”.

Errani ha poi lanciato un appello contro il decreto del Governo di riforma della Protezione Civile, che deve essere confermato dal Parlamento, in base al quale lo Stato non pagherà più i danni ai cittadini, ma sarà previsto un meccanismo di assicurazione volontaria da parte dei cittadini delle proprie abitazioni, escludendo così l’intervento pubblico.

“E’ del tutto evidente – ha concluso il Governatore dell’Emilia – che questi eventi non possono essere interamente sulle spalle dei territori che già ne soffrono. Deve scattare una solidarietà da parte di tutto il Paese e questo lo ripetero con chiarezza al Governo”.

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Emergenza terremoto: il Partito Democratico dell’Emilia-Romagna, in collaborazione con la Segreteria nazionale del PD, ha promosso una raccolta fondi a sostegno delle comunità colpite dal sisma di domenica 20 maggio.

Si legge in un comunicato: “Il terremoto che ha colpito le province di Modena e Ferrara, causando sette vittime (tra cui quattro lavoratori impegnati nel turno di notte), feriti, migliaia di sfollati e ingenti danni alle abitazioni, agli impianti produttivi e al patrimonio storico e architettonico, si somma ora alle condizioni meteorologiche che stanno mettendo a dura prova le nostre comunità. Tuttavia la reazione immediata delle istituzioni e della protezione civile, insieme alla straordinaria rete di solidarietà attivata dalla stessa cittadinanza e dalle realtà produttive e associative dell’intera regione, sono state la dimostrazione che non siamo vinti e non ci arrendiamo.

Per questo, oltre ad unirci al dolore delle famiglie e dei compagni di lavoro e alle popolazioni dei Comuni colpiti dal sisma, come Democratici dell’Emilia-Romagna esprimiamo forte e convinta solidarietà e vicinanza e l’impegno a fare la nostra parte per contribuire all’opera di soccorso e alla ricostruzione. In collaborazione con la segreteria nazionale del PD è stata attivata una raccolta fondi a sostegno delle comunità colpite dal sisma di domenica 20 maggio e saranno promossi a ogni livello incontri e iniziative a supporto della sottoscrizione .

Di seguito gli estremi del conto corrente su cui effettuare le donazioni:

Conto corrente IT02 N031 2702 4100 0000 000 1 494
Presso UNIPOL BANCA
Intestato
“EMERGENZA TERREMOTO EMILIA-ROMAGNA”
Partito Democratico Emilia-Romagna

www.partitodemocratico.it

Errani: "la ricostruzione dovrà coinvolgere tutto il Paese", di Adriana Comaschi

«Ora è il momento di concentrare ogni sforzo sull’assistenza. Poi verrà la fase della ricostruzione. Ed è evidente che questo secondo problema non riguarda solo i cittadini, i Comuni, le province, la regione colpiti. Ma tutto il paese». Vasco errani non si è quasi fermato da ieri mattina, ancora nel tardo pomeriggio si sposta con il prefetto Franco Gabrielli in tutti i centri più colpiti dal sisma, sopralluoghi intervallati da riunioni per fare il punto della situazione. Si stende una tabella di marcia degli interventi. Sullo sfondo rimane la cosiddetta «tassa sulle calamità», contenuta nel decreto del Consiglio dei ministri che tanto ha fatto discutere, con l’ipotesi di un’accisa sulla benzina per le popolazioni delle regioni colpite appunto da catastrofi naturali. Errani (al terzo mandato come guida della giunta dell’Emilia-Romagna, presidente della Conferenza stato regioni) è uomo delle istituzioni da troppo tempo per anticipare i passaggi. Ma quando i tempi saranno maturi, spiega, occorrerà affrontare il tema della ricostruzione anche «con solidarietà».

Presidente, questo è il secondo sisma che si abbatte sull’emilia-romagna in pochi mesi… «Sì, ed è stato molto forte, l’epicentro a soli sei chilometri dalla superficie ha prodotto danni ingenti e rilevanti a tutto il patrimonio artistico, alle imprese, alle abitazioni. Il mio primo pensiero però è naturalmente il cordoglio
per le vittime e le loro famiglie».
Lei monitora la situazione con Gabrielli: il primo punto fermo da mettere?
«la richiesta di stato di emergenza nazionale è già stata inoltrata, in accordo con la protezione civile. il nostro primo e comune obiettivo in queste ore è di mettere in sicurezza le popolazioni colpite, a chi ha dovuto lasciare le proprie abitazioni in modo che già da questa sera (ieri, ndr) possano trovare una soluzione: nelle tende allestite, negli alberghi o grazie alle proprie famiglie. Abbiamo affrontato il nodo del trasferimento dei pazienti degli ospedali, ad esempio a Mirandola nel modenese, abbiamo spostato gli anziani dalle residenze protette: il sistema sanitario ha funzionato perfettamente. Ogni giorno ha il suo problema, noggi affrontiamo quello dell’assistenza».
C’è già una stima dei danni? «è troppo presto, ma arriverà in tempi rapidi. attiveremo una verifica su case, luoghi pubblici, ditte, luoghi di culto».
Da domani quali saranno le priorità? «Dopo verrà la questione imprese, con il decreto che il governo approverà martedì. Noi censiremo le realtà produttive per individuare quelle che non sono nelle condizioni di ripartire immediatamente, il decreto prevede per loro la sospensione del pagamento dei tributi e degli oneri previdenziali. Quanto alla regione attiverà gli ammortizzatori in deroga e la cassa integrazione straordinaria, così da non creare per i lavoratori colpiti un’emergenza nell’emergenza. Solo dopo, in una seconda fase, si potrà affrontare il tema della ricostruzione».
Su quest’ultimo punto,cosa vi aspettate dal governo? Lei aveva definito anti-costituzionale una tassa sulle calamità…
«Non è questo il momento di parlarne. C’è un decreto del governo, che il parlamento deve discutere e valutare se approvare. Allora si affronterà la questione ricostruzione. E quando lo si farà, lo si dovrà fare con rigore, serietà, solidarietà. Perché è evidente che il terremoto non riguarda solo quei cittadini, quei comuni, quelle province, la regione che ne è stata colpita ma l’intero paese».
I contatti con l’esecutivo? «Il premier Monti mi ha chiamato per esprimere la sua solidarietà, e ho sentito il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Antonio Catricalà».

l’Unità 21.05.12

Radiografia di un disastro «Ma numeriamo le pietre e ricostruiamo subito», di Paolo Conti

L’elenco dei danni è provvisorio, nella sua devastante gravità, già lungo e dettagliato per la rapidità dell’intervento. Stavolta il dicastero per i Beni culturali si è mosso in tempo reale. Il ministro Lorenzo Ornaghi, a marzo, ha creato un’unità di crisi coordinata dal segretario generale Antonia Pasqua Recchia, in stretto contatto con la Protezione civile e i Vigili del fuoco per fronteggiare ogni emergenza. Ieri, amarissimo, concreto debutto. Il segretario generale Recchia si è alternata al coordinamento col neoprefetto Fabio Carapezza Guttuso, capo della Commissione sicurezza patrimonio. Il risultato operativo, per esempio, è stato il rapido arrivo dei Vigili del fuoco specializzati, gli stessi spediti a suo tempo a L’Aquila.
L’area modenese è la più colpita. A Finale Emilia crollata la Torre dei Modenesi, perduto il Mastio della Rocca Estense, danni alla Torre del Municipio e al campanile del cimitero monumentale, alle chiese di San Bartolomeo o della Buonamorte, del Rosario, dell’Annunciata (XVI e XVII secolo), giù il timpano e le navate interne del Duomo. Salva la pala del Guercino della chiesa del Seminario. Distrutta la chiesa di San Carlo, nel comune di Sant’Agostino, dove i Vigili hanno salvato la tela dell’altare con un’operazione spettacolare. Nella chiesa di Buoncompra, vicino Finale, metà della facciata è crollata.
Gravissimi danneggiamenti a un’altra Rocca Estense, quella di San Felice sul Panaro, con una storia che comincia nel 927 dopo Cristo. Di nuovo a San Felice crollata in gran parte la Chiesa Arcipretale del 1499 e lesionata la Torre dell’Orologio. In quanto a Ferrara, crollati alcuni cornicioni del Castello Estense, chiusi per precauzione i tre musei statali (Pinacoteca, Museo Archeologico, Casa Romei). Danni alle chiese di San Carlo e Santa Maria in Vado. Nel ferrarese crollata la torre dell’orologio del Castello Lambertini a Poggio Renatico (XV secolo), a Mirabello cedimenti all’oratorio di San Luca e alla chiesa di San Paolo, stessa situazione alla chiesa di San Lorenzo a Casumaro di Cento. Crollata la chiesa di San Martino a Buonacompra di Cento.
Dice Antonia Pasqua Recchia: «Impossibile procedere a una quantificazione economica. Ma il danno è vastissimo. La situazione dei beni culturali in quell’area è ancora più drammatica di quanto non emerga dalle immagini. Se pensiamo che solo a causa della neve sono stati necessari interventi per 20 milioni di euro, possiamo immaginare quanto denaro occorrerà. Il direttore regionale per i Beni culturali dell’Emilia-Romagna, Carla Di Francesco, che sta coordinando le operazioni in tarda serata mi ha parlato di un quadro disastroso». Aggiunge Andrea Carandini, presidente del Consiglio superiore dei Beni culturali: «Manca una completa mappatura del rischio sismico dei beni culturali. Mancano soprattutto i fondi. Quest’anno il ministero dispone di fatto di appena 85 milioni di spesa con un ulteriore taglio di 9 milioni. Una situazione drammatica, al limite del collasso».
La ferita alla cultura italiana è immensa, come spiega Andrea Emiliani, a lungo soprintendente in Emilia-Romagna: «L’area ferrarese e modenese ha un’importanza estrema sia per quanto riguarda l’architettura militare e di Signoria, quanto per l’intensità della vita intellettuale della corte estense che produsse una densa creazione architettonica e pittorica». Ecco perché tante chiese, tante strutture militari, questa fitta tessitura di bellezza architettonica sul territorio.
L’Italia, come teorizzava Cesare Brandi, è un grande museo diffuso sul territorio e un terremoto può devastarlo. Ma una volta tanto Vittorio Sgarbi non è catastrofista. Anzi: «Non ci sarà un altro Abruzzo, dove prevale una cultura assistenzialistica. La laboriosità degli abitanti della zona è famosa, non staranno lì ad aspettare gli aiuti dal cielo, si organizzeranno. Assisteremo a qualcosa di paragonabile a quanto avvenne in Friuli nel 1976».
Già si ipotizzano possibili ricostruzioni. Per esempio del simbolo dei danni culturali di questo sisma, la Torre dei Modenesi, o dell’Orologio, di Finale Emilia: data di nascita 1213, emblema secolare della zona. Dice Antonia Pasqua Recchia, segretario generale del Ministero per i Beni e le attività culturali: «È possibile immaginare un’operazione molto complessa ma realistica. Numerare le pietre e rialzare la torre per anastilosi», cioè ricostruire utilizzando i materiali originari accuratamente riordinati. C’è il precedente del duomo di Venzone, in provincia di Udine. Crollò nel terremoto del 1976 e fu ricostruito tra il 1988 e il 1995 proprio per anastilosi, pietra dopo pietra. Rialzare una torre è importante per una comunità, come spiega Luca Zevi, neoresponsabile del Padiglione Italia alla Biennale Architettura: «Parliamo di un simbolo fondamentale legato all’identità civile e territoriale, visibile da lontano, attorno al quale accorrere in caso di necessità.» Cominciare a recuperare immediatamente sarebbe importantissimo. Proprio per non riscrivere la catastrofica, tristissima pagina del centro storico dell’Aquila. Oggi nuove riunioni al ministero per organizzare squadre di storici dell’arte destinati all’inventario dei danni.

Il Corriere della Sera 21.05.12

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“Una ferita per la nostra storia” di Salvatore Settis

TORRI abbattute, chiese sventrate, centri storici mutilati: il terremoto dell´Emilia rinnova la tragedia che periodicamente colpisce il Paese. Con la perdita di vite umane, le distruzioni del patrimonio culturale sono la traccia più violenta che un terremoto si lascia dietro. Feriscono la memoria collettiva.
Feriscono l´accumulo di storia che i nostri padri ci hanno lasciato, e che la Costituzione ci impone di preservare per i nostri nipoti. Spesso ci vantiamo di quanto sia grande l´arte italiana. Dimentichiamo però quanto sia fragile, perché fragile è il nostro territorio, il più franoso d´Europa (mezzo milione di frane censite nel 2007), il più soggetto al danno idrogeologico e all´erosione delle coste, anche per «interventi sull´ambiente invasivi e irreversibili» sui due terzi del territorio (dati Ispra). È, anche, il più soggetto a sismi, recentemente censiti da E. Guidoboni e G. Valensise: dall´Unità d´Italia a oggi, 34 terremoti distruttivi e un centinaio di meno gravi, senza contare migliaia di piccole scosse. 1.560 i Comuni colpiti, non meno di 250.000 i morti, 120.000 solo a Reggio e Messina nel 1908. Avezzano 1915, Garfagnana 1920, Carnia 1928, Irpinia 1962, Belice 1968, Friuli 1976, Noto 1990, Umbria e Marche 1997, Abruzzo 2009: sono le date di altrettante battaglie, anzi di una guerra continua che l´Italia combatte contro i terremoti. Con che esito? È triste constatare che a ogni terremoto ci consumiamo di lacrime, per poi dimenticare e sbalordirci quando il sisma colpisce di nuovo, e sempre nelle stesse aree.
Resuscitare i morti è impossibile, ma sarebbe facile ridurne il numero, e insieme limitare i danni al patrimonio evitando i due principali fattori di rischio: il forsennato consumo di suolo che “sigillando” i suoli agricoli ne riduce l´elasticità e accresce gli effetti di frane e sismi; e l´addensarsi di edifici costruiti in spregio ai criteri antisismici “per risparmiare”, cioè perché guadagni di più chi costruisce, condannando a morte i cittadini (per esempio all´Aquila). L´amnesia collettiva che ci affligge spinge in direzione opposta, come mostrò il famigerato “piano casa” di Berlusconi (2009), che “semplificava” le norme antisismiche, invitando le Regioni a sostituire ogni garanzia preventiva con «controlli successivi alla costruzione, anche a campione» (art. 5). Il terremoto d´Abruzzo (due giorni dopo) bloccò l´approvazione della legge, mai varata anche se tutte le Regioni si affrettarono a fare le loro leggine. Il piano per la protezione del patrimonio monumentale dal rischio sismico messo a punto nel 1983 da Giovanni Urbani, grande direttore dell´Istituto Centrale per il Restauro, è rimasto lettera morta. Al contrario, il terremoto d´Abruzzo ha segnato una brusca inversione di rotta nella cultura italiana della tutela. Prima di allora (per esempio in Friuli e in Umbria), la ricostruzione dei centri storici era data per scontata: l´abbandono dell´Aquila (fino ad oggi, tre anni dopo) in favore delle new town amate da Berlusconi e dai costruttori ha calpestato le priorità costituzionali, condannando alla rovina il patrimonio culturale e il tessuto sociale della città.
Accadrà lo stesso in Emilia? Anche stavolta, come col “piano casa” di Berlusconi, la sequenza fra i provvedimenti del governo e gli eventi naturali è drammatica. È di questi giorni l´annuncio del ministro Passera, secondo cui 100 miliardi verranno spesi nei prossimi anni in “grandi opere” per rilanciare l´economia. Ottima notizia, se per “grandi opere” si intendessero le necessarie, urgentissime misure per mettere il territorio nazionale in sicurezza dalle sue mille fragilità e non, come sembra, per continuare in una spietata cementificazione, figlia della mitologia bugiarda di una crescita infinita imperniata sull´edilizia, a scapito dell´ambiente, del paesaggio, dei cittadini. Ma se tutte le “grandi opere” si facessero continuando a ignorare la fragilità del territorio, l´Italia ne uscirebbe più debole, e non più forte. E con essa il suo patrimonio artistico, di cui solo a parole ci vantiamo, abbandonandolo intanto al suo destino (nulla è stato fatto per rimediare agli insensati tagli di Tremonti ai Beni Culturali nel 2008).
Il Presidente Napolitano, in un discorso a Vernazza, la cittadina delle Cinque Terre colpita da alluvione (quattro morti), ha detto che «bisogna affrontare il grande problema nazionale della tutela e della messa in sicurezza del territorio, passando dall´emergenza alla prevenzione». Dopo questo saggio monito, l´unico provvedimento concreto è stato, con sinistro tempismo, la “tassa sulla disgrazia” istituita con decreto legge del 15 maggio: in caso di calamità naturali (come il terremoto dell´Emilia), lo Stato se ne lava le mani. Nessuno avrà più un centesimo, se non aumentando le accise sulla benzina, cioè ridistribuendo i costi fra i cittadini (anche i disoccupati, anche i poveri); i cittadini (meglio: chi può) sono inoltre invitati a stipulare un´assicurazione (privata) contro le calamità.
La domanda è dunque: può lo Stato abdicare al proprio compito primario di tutelare il territorio e l´eguaglianza dei cittadini? Può davvero promuovere, all´indomani di un terremoto, nuove cementificazioni e nuovi balzelli?

La Repubblica 21.05.12

"Pochi giorni per le riforme Pd: avanti col doppio turno", di Simone Collini

Domani alla Camera si comincia a votare il testo sul finanziamento pubblico ai partiti
Riprende l’esame delle norme anti-corruzione: ma pesano i veti e l’ostruzionismo del Pdl. Subito dopo i ballottaggi, dovrebbe chiudersi la partita della legge elettorale. Il Pdl favorevole al sistema francese ma solo col presidenzialismo. Andiamo avanti sul doppio turno, acceleriamo il dimezzamento dei rimborsi elettorali e teniamo duro sul provvedimento anti corruzione». Ecco le indicazioni che Pier Luigi Bersani dà ai suoi in vista delle ripresa a pieno ritmo dei lavori parlamentari. Il leader del Pd, consapevole del fatto che in queste ultime due settimane caratterizzate dalle presidenziali francesi e dal voto amministrativo i rapporti di forza all’interno della maggioranza hanno subito notevoli cambiamenti, nelle prossime 48 ore vedrà Mario Monti e volerà a Bruxelles per incontrare i leader dei partiti progressisti europei. Argomento, in entrambe le occasioni, come far fronte alla crisi economica e quali misure adottare per favorire la crescita. Ma Bersani sa che c’è anche un altro fronte sul quale bisogna intervenire e dare risposte in tempi rapidi, e che riguarda direttamente i partiti. Con i ballottaggi viene archiviata una tornata elettorale segnata da un forte tasso di astensionismo e dalla quale esce rivoluzionario il sistema politico italiano. Per rispondere alla montante marea di antipolitica, è il ragionamento che si fa al quartier generale del Pd, bisogna approvare quelle riforme di cui da troppo tempo si discute.
CORSA AD OSTACOLI
Il primo nodo da affrontare sarà la riduzione dei rimborsi elettorali ai partiti e il controllo dei loro bilanci. L’obiettivo del Pd è dimezzare già la tranche prevista per luglio. L’aula di Montecitorio inizia a discutere il provvedimento domani e nonostante l’azione di freno di Idv e Lega, per i quali i rimborsi vanno del tutto abrogati, la proposta di legge dovrebbe essere approvata giovedì. Ma il via libera della Camera sarà solo un primo passo, perché poi il testo dovrà passare al Senato, dove c’è un calendario fitto di discussioni delicate, a cominciare dalla riforma del lavoro (l’esame in aula comincia dopodomani) e dalle riforme istituzionali: il testo, secondo il presidente della Affari costituzionali Carlo Vizzini dovrebbe essere licenziato dalla commissione per venerdì, ma un’intesa tra le forze di maggioranza ancora non c’è.
A complicare ulteriormente le cose c’è il muro alzato dal Pdl nei confronti del provvedimento anti corruzione. Il rischio di una serie di veti incrociati è dato anche dalla contemporaneità delle discussioni. Domani infatti, mentre nell’aula di Montecitorio si comincia a votare il testo sul finanziamento pubblico ai partiti, nella Sala del Mappamondo si riuniranno le commissioni Affari costituzionali e Giustizia della Camera per riprendere l’esame del testo. A meno che oggi il Guardasigilli Paola Severino non presenterà a Pd e Pdl un testo che metta tutti d’accordo, la discussione riprenderà da dove si era interrotta giovedì, cioè dall’aumento delle pene minime e massime per il reato di «corruzione per atti contrari a dovere d’ufficio» (4 e 8 anni) grazie all’approvazione di un emendamento targato Pd e duramente contestato dal Pdl.
DOPPIO TURNO E PRESIDENZIALISMO
La speranza di Monti, che cioè le tensioni tra i partiti che gli garantiscono una maggioranza in Parlamento si allentino una volta archiviato il voto amministrativo, rischia di infrangersi contro un Pdl che sulla giustizia è pronto a giocarsi il tutto per tutto. Ma anche sulla legge elettorale, ammesso che questa discussione possa entrare nel vivo (il che presuppone un accordo sulle riforme istituzionali), non si registra una riduzione delle distanze tra le forze che sostengono l’esecutivo.
Bersani, già dopo aver incassato un buon risultato al primo turno amministrativo e dopo aver assistito agli avvenimenti di Francia e Grecia, ha rimesso in campo con maggior forza il doppio turno di collegio: «Non deve essere letta come la proposta del Pd ma come proposta utile per il Paese», è la formula utilizzata per convincere Alfano e Casini. Aperture dal Pdl sono arrivate nei giorni scorsi. Agli esponenti del Pd che stanno portando avanti le trattative è stato poi però spiegato che non se ne sarebbe fatto più nulla.
Il motivo, secondo quanto raccontato, è riconducibile a uno studio commissionato dal coordinatore nazionale Denis Verdini, dal quale è emerso che un simile sistema elettorale sarebbe in questa fase decisamente sfavorevole al Pdl. A meno che non si introduca una variabile tutt’altro che di poco conto. Quella rilanciata ieri pubblicamente da Osvaldo Napoli, per il quale il doppio turno è accettabile come «base di un edificio istituzionale sul cui tetto siede, come corollario istituzionale, un monarca costituzionale, vale a dire il capo dell’esecutivo eletto direttamente dal popolo: che sia al Quirinale o a Palazzo Chigi fa poca differenza».
Il Pd, che esce rafforzato dal voto e che ha incassato un’apertura da parte di Casini («sono disponibile a ragionare su tutto, anche sul doppio turno che non è certo il mio modello elettorale preferito») ora dovrà andare al confronto cercando di capire se il rilancio sul presidenzialismo sia il via ad una nuova fase del confronto o se sia soltanto un modo per far saltare il tavolo e tenere in piedi il Porcellum.

l’Unità 21.5.12

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“Meglio due turni, ma senza adottare il modello francese”, di Cristoforo Boni

L’APERTURA FATTA DA PIER FERDINANDO CASINI HA RIAPERTO IL CONFRONTO SUL DOPPIO TURNO. Non è detto che il Pdl offra analoga disponibilità: anzi, fin qui i segnali sono sempre stati negativi. Silvio Berlusconi oppone da anni uno sbarramento di principio al doppio turno. E il suo partito procede con inerzia, benché lo scenario si sia modificato e probabilmente anche a destra il doppio turno potrebbe offrire oggi uno strumento di ricomposizione politica. In realtà la Seconda Repubblica, dietro lo
schermo delle coalizione coatte, ha sempre alimentato la frammentazione, tuttavia le immagini che le amministrative proiettano sul futuro potrebbero diventare ancora più coatiche, avvicinando lo spettro della Grecia.
Il doppio turno è oggi un’opportunità. Anche perché sul tavolo non c’è la proposta di importare il modello delle legislative francesi, che in tutta evidenza si regge perché ha alle spalle un presidente della Repubblica eletto direttamente dal popolo. Sul tavolo c’è una proposta che rispetta l’autonomia delle forze intermedie (purché superino la soglia di sbarramento) e che recepisce alcuni elementi virtuosi del modello tedesco, riducendo i rischi di ingovernabilità o di Grande coalizione.
In sostanza, la competizione elettorale in Italia potrebbe svolgersi al primo turno come in Germania: candidati di partito nei collegi uninominali e nelle liste (corte) circoscrizionali; sbarramento al 5%, quota proporzionale vicina al 50%. Meglio che in Germania si potrebbe prevedere un solo voto anziché due: il voto disgiunto rischierebbe infatti di diventare un fattore di corruzione.
La novità decisiva rispetto al sistema tedesco starebbe però nello sviluppo su due turni della competizione uninominale. Se nessuno raggiunge al primo turno il 50% si procede a un secondo scrutinio, al quale vengono ammessi i candidati che hanno superato uno sbarramento non inferiore al 10-12% dei voti. Ed è fra il primo e secondo turno che potrebbero formarsi le coalizioni davanti agli elettori: con desistenze tra candidati nei collegi contesi. Dunque, non più coalizioni coatte, strumentali al mito dell’unto del Signore e incapaci di governare, ma alleanze funzionali a formare una maggioranza parlamentare. I partiti intermedi perderebbero, è vero, un po’ di rappresentanza a favore dei partiti maggiori. Ma non sarebbero minacciati nella loro autonomia, potendosi presentare al primo turno con il proprio candidato premier e il proprio programma. Il governo, in tutta evidenza, dovrebbe essere poi affidato al premier designato dal partito che ottiene la rappresentanza parlamentare più consistente e che risulta capace di formare una maggioranza coerente.
Senza doppio turno la frammentazione rischia di corrodere ciò che resta della credibilità delle istituzioni. E non si può pensare di risolvere il problema ancora con un premio di coalizione: il fallimento della Seconda Repubblica è sotto gli occhi di tutti. La vera soluzione alternativa sarebbe una riforma della Costituzione in senso presidenzialista: al di là di robuste obiezioni di merito, vorrebbe dire che non si cambierà il Porcellum prima delle prossime elezioni.

l’Unità 21.05.12

"Giovanni Falcone vent'anni dopo Lotta alla mafia e tranelli dello Stato", di Gian Carlo Caselli*

Caro direttore, le ombre cupe che in vita si addensarono sulla testa di Giovanni Falcone, a causa dell’incisività della sua azione antimafia, sono storia. Spesso dimenticata ma storia. Ricordarla significa illuminare di luce vivida la straordinaria figura di un magistrato che per senso del dovere seppe perseverare con tenacia, nonostante fosse consapevole di rischiare la vita.
Ancora a metà degli anni Settanta c’era chi osava scrivere: «La mafia ha sempre rispettato la magistratura, si è inchinata alle sue sentenze e non ha ostacolato l’opera del giudice. Nella persecuzione ai banditi e ai fuorilegge ha affiancato addirittura le forze dell’ordine». E non erano parole di uno sprovveduto qualunque, ma di un alto magistrato della Cassazione, Giuseppe Guido Lo Schiavo. È evidente che «ragionando» così era sempre la mafia a vincere. Falcone la pensava diversamente e con gli altri magistrati del pool dell’Ufficio istruzione di Palermo, diretto da Nino Caponnetto, elaborò un metodo di lavoro imperniato su specializzazione e centralizzazione: il cemento armato di un capolavoro investigativo-giudiziario, il «maxiprocesso» del 1986. Per la prima volta nella storia d’Italia vengono portati alla sbarra — con prove sicure — mafiosi siciliani di primaria grandezza criminale che fino ad allora avevano potuto godere di una sostanziale impunità. La fine del mito dell’invulnerabilità di Cosa nostra: 475 imputati per associazione mafiosa, 120 omicidi e innumerevoli altri reati; 360 condanne per un totale di 2.665 anni di carcere e diciannove ergastoli comminati ad alcuni tra i boss più influenti di Cosa nostra.
Un’esperienza vincente del genere qualsiasi Paese l’avrebbe difesa con le unghie e con i denti. L’Italia invece no. Vergognoso ma vero, Falcone e il pool furono letteralmente spazzati via, professionalmente parlando, a colpi di calunnie ossessivamente ripetute: professionisti dell’antimafia; impiego spregiudicato dei «pentiti»; uso politico della giustizia. Guarda caso la tempesta si scatenò quando il pool cominciò a occuparsi — oltre che di mafiosi di strada — dell’ex sindaco di Palermo Ciancimino, dei cugini Salvo e dei cosiddetti Cavalieri del lavoro di Catania. Insomma di quella «zona grigia» che è la spina dorsale del potere mafioso, perché assicura coperture e complicità a opera di pezzi della politica, dell’economia e delle istituzioni. Sul banco degli imputati finì Falcone: osannato da morto, umiliato da vivo.
Un ruolo centrale, in questo quadro, ha avuto il Csm (Consiglio superiore della magistratura) quando anch’io ne facevo parte (1986-90). Nel 1987 Caponnetto decise di lasciare l’Ufficio istruzione di Palermo nella certezza che il suo successore naturale sarebbe stato Falcone. Non fu così. Alla candidatura di Falcone si contrappose Antonino Meli, magistrato di ben maggiore anzianità che di mafia però non si era mai occupato. E il Csm (ribaltando l’orientamento adottato qualche mese prima per la nomina di Borsellino a Procuratore di Marsala) scelse non il più bravo nell’antimafia, ma il più anziano, anche se digiuno di processi di mafia. Meli — si badi — aveva presentato anche domanda per la presidenza del Tribunale. Qualcuno però lo convinse a ritirarla per puntare tutto sul posto di capo dell’Ufficio istruzione, una sezione del Tribunale. Ora, il rapporto tra i due ruoli è lo stesso che può esserci tra la direzione di un grande quotidiano e la rubrica della posta del cuore su un foglietto parrocchiale. Non tanto perché l’Ufficio istruzione non fosse un posto importante, semplicemente perché si era alla vigilia dell’entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale (1989) che quell’ufficio avrebbe soppresso. La bagarre, dunque, non era tanto su chi dovesse succedere a Caponnetto. Anche, ma non solo. Un obiettivo di fatto era anche lo smantellamento del metodo di lavoro del pool, che aveva portato alla clamorosa vittoria del maxiprocesso e che difatti Meli (coerente col programma preannunziato allo stesso Csm) smonterà pezzo per pezzo. Invece di continuare lungo la strada della vittoria, lo Stato si ferma. Circondata la fortezza, si ritira rinunciando a espugnarla. Mentre sul Palazzo di giustizia di Palermo volano corvi che spandono veleni di ogni sorta su Falcone, calunniato per nefandezze varie. Ovviamente inesistenti. E fu allora (parole di Borsellino) che Falcone cominciò a morire.
Nel 1989 Falcone, soppresso l’Ufficio istruzione, concorre al posto di Procuratore aggiunto (una sorta di vicecapo) a Palermo. Questa volta ce la fa, ma sembra quasi una gentile concessione, mentre qualcuno dei suoi soliti nemici non esita a insinuare la calunnia che il fallito attentato dell’Addaura (una borsa imbottita di 58 candelotti di tritolo ritrovata il 21 giugno 1989 nei pressi della sua abitazione) se lo fosse organizzato da sé… per farsi pubblicità. In Procura Falcone non lo fanno letteralmente lavorare. Il capo lo ignora, lo umilia con ore e ore di anticamera. Falcone capisce che se vuole continuare a fare antimafia deve «emigrare» dalla Sicilia. Trova una specie di asilo politico-giudiziario a Roma, ministero della Giustizia, dove crea quei caposaldi della lotta alla mafia (in particolare Procura nazionale e Dia) che ancora oggi funzionano molto bene.
Il seguito della «storia» è tragicamente noto: sono le stragi di Capaci e via d’Amelio, le vite di Falcone e Borsellino, insieme a quelle degli uomini e delle donne che erano con loro il 23 maggio e il 19 luglio 1992, spezzate dalla feroce vendetta mafiosa. Comincia a farsi strada in me l’idea di andare a lavorare a Palermo. E quando deciderò di farlo davvero avrà un forte peso (lo dico senza alcuna retorica) il ricordo di quel che i due amici magistrati avevano dovuto patire in vita. Un ricordo intrecciato con il rimpianto di non essere riuscito — pur avendo sempre votato a loro favore — a convincere la maggioranza del Csm delle loro buone ragioni. Che poi erano quelle della lotta alla mafia nell’interesse della democrazia.

*Procuratore della Repubblica
presso il Tribunale di Torino

Il Corriere della Sera 21.05.12

"Fuga dalle urne: 11 per cento in meno", di Lorenzo Fuccaro

Elezioni amministrative: ballottaggi in 118 Comuni, 100 dei quali in regioni a statuto ordinario e 18 in Sicilia. A Genova, Parma, L’Aquila e Palermo le sfide chiave. Alle 22 l’affluenza media è stata del 36,2% con una flessione dell’11,4% rispetto al primo turno quando ha votato il 47,6 degli aventi diritto. Se questa tendenza sarà confermata oggi, quando alle 15 chiuderanno i seggi, significherà che avrà votato più o meno la metà degli aventi diritto (circa 9 milioni sommando i due turni elettorali). Crollo dell’affluenza nel giorno dei ballottaggi che coinvolgono 118 Comuni, 100 dei quali in Regioni a statuto ordinario e 18 in Sicilia. A Genova, Parma, L’Aquila e Palermo le sfide chiave. Alle 22 l’affluenza media è stata del 36,2% con una flessione dell’11,4% rispetto al primo turno quando aveva votato il 47,6 degli aventi diritto, con l’eccezione dell’Umbria dove la percentuale è cresciuta arrivando al 50,7, (era il 49,7). Se questa tendenza verrà confermata oggi alla chiusura dei seggi, significherà che ogni più negativa previsione sulla disaffezione dei cittadini nei confronti della politica sarà stata superata dalla realtà perché avrà votato il 55% (contro il 66,88 di due settimane fa), e cioè più o meno la metà degli aventi diritto (circa 9 milioni sommando i due turni). Un dato questo quanto mai allarmante e che misura la disaffezione dei cittadini nei confronti delle istituzioni della democrazia rappresentativa, anche di quelle più vicine a loro come sono appunto le amministrazioni comunali. Certo si potrà osservare che una flessione tra il primo e il secondo turno è considerata fisiologica, perché chi non ha il proprio candidato al ballottaggio difficilmente va al seggio. È però l’ampiezza che colpisce e che i sondaggi avevano previsto, compreso l’affermarsi di forze nuove, come il Movimento 5 stelle. Nel pomeriggio di oggi, a spoglio ultimato, vedremo se tutto questo verrà confermato.
Entrando nei dettagli, Parma è la città dove meno si è registrato questo fenomeno: alle 22 aveva votato il 45,4% (contro il 49,8 del primo turno). Qui, a sorpresa, il grillino Federico Pizzarotti contende, sia pure con venti punti di svantaggio, la poltrona di sindaco al candidato del centrosinistra Vincenzo Bernazzoli. Ma l’affluenza superiore alla media fa pensare che parte degli elettori del centrodestra abbia scelto il grillino pur di non vedere salire in Municipio Bernazzoli. A L’Aquila, dove si sfidano Massimo Cialente del Pd e il centrista Giorgio De Matteis, la flessione è nella media nazionale registrata al ballottaggio: 39,56 contro il 51 di due settimane fa.
Molto più marcato invece è il fenomeno a Palermo e Genova. A Palermo si è recato ai seggi soltanto il 28,5% (era stato il 46,8), con un crollo rispetto al primo turno del 18,3, sono cioè mancati 100mila elettori. E laggiù lo scontro è tutto interno alla sinistra con Leoluca Orlando Cascio (Idv e Verdi) in competizione con Fabrizio Ferrandelli sostenuto dal Pd. Nella città della Lanterna, dove la corsa è tra Marco Doria, appoggiato da tutta la sinistra, e il centrista Enrico Musso, ha votato il 26,6% contro il 40,3 di due settimane fa, con una flessione del 13,7. Come spiegare tutto questo? Il momento difficile dell’economia? La sordità delle forze politiche alle richieste dei cittadini? «Certo — osserva Pier Luigi Bersani, segretario del Pd — sono tutti fatti che non ci tirano su il morale. Ma siamo un grande Paese che ha superato momenti difficilissimi. È vero, abbiamo un sacco di problemi ma abbiamo anche grandi risorse, ne verremo fuori». Realistico, ma meno incline all’ottimismo il commento di Osvaldo Napoli, vice capogruppo alla Camera del Pdl, che solleva un ulteriore interrogativo. «Oltre alla dimostrazione di una disaffezione verso le istituzioni più vicine ai cittadini — argomenta —, questo voto non offre un test attendibile sul piano dei risultati. Se un cittadino su due diserta le urne nessuno può dire di avere vinto». Insomma quello che doveva essere un passaggio delicato per comprendere l’orientamento degli elettori, di come il consenso fosse distribuito tra i partiti, ha fatto registrare una fuga nell’astensione a un anno dall’appuntamento delle politiche generali.

Il Corriere della Sera 21.05.12

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“Ballottaggi, l´affluenza crolla al 36,2%”, di Silvio Buzzanca

Meno 11 per cento rispetto al primo turno. Lega, slitterà il raduno di Pontida. Nell´Emilia Romagna però, nonostante il sisma, il calo è contenuto. Un altro tracollo. Alle 22 l´affluenza al secondo turno delle elezioni amministrative che interessano 118 comuni a livello nazionale si ferma al 36,25 per cento con un meno 11,37 per cento rispetto al primo turno. Un dato che preoccupa molto i partiti. Anche perché, nonostante l´importanza della posta in gioco, il calo è molto forte a Palermo e Genova. Nel capoluogo siciliano ieri si è presentato alle urne solo il 28,5 per cento degli elettori. Al primo turno il dato era stato del 33,5. Quindi meno 18,3 per cento. Non va meglio a Genova, dove lo scontro fra Doria e Musso non scalda il cuore degli elettori. Alle urne si è recato il 26,48 per cento, registrando così un meno 13,63 rispetto al primo turno.
Il dato peggiore in assoluto si registra però a Trapani dove rispetto al primo turno diserta le urne il 20,3 per cento degli elettori. La città siciliana è inseguita in questa classifica da Trani, dove i numeri dicono meno 18,77 per cento. Molto negativo anche il dato di Agrigento, il terzo capoluogo siciliano chiamato ad eleggere il sindaco: il calo è del 16,3 per cento.
Risalendo le penisola si trovano altri capoluoghi con percentuali di calo dell´affluenza a due cifre. Ecco allora Como con un meno 15,22 per cento. E Monza con un meno 11,90 per cento. Astensione alta ad Alessandria con un meno 14,45 per cento. Doppia cifra anche a Frosinone con meno 10,78 per cento e Taranto con meno 13,91 per cento. Cuneo batte entrambi con un calo del 14,90 per cento. Sfiora questo risultato negativo L´Aquila, altro comune dal voto molto simbolico, che lascia sul terreno il 14,36 per cento degli elettori. E la vicina Rieti si attesta a meno 10,95. Come Isernia dove diserta le urne il 10,55 per cento degli elettori.
La stessa percentuale si registra anche a Piacenza: meno 10,53. E questo è un dato un po´ in controtendenza. Perché nei comuni dell´Emilia Romagna chiamati al voto, nonostante il terremoto e la paura e le vittime che ha provocato, è andato a votare il 43,38 per cento degli elettori. Ovvero il calo è stato “contenuto” al 6 per cento. E proprio nel Ferrarese, la zona più colpita, l´affluenza è salita dello 0,5 per cento. La tendenza è stata rispettata anche a Parma, dove si consuma lo scontro fra il democratico Bernazzoli e il grillino Pizzarrotti : nella città ducale il calo dell´affluenza si è fermato a meno 4,44 per cento.
Tutti numeri che destano allarme nel leader politici e nei partiti, sempre alle prese con molti problemi. La Lega, per esempio, ha deciso di rinviare da giugno a luglio il tradizionale appuntamento di Pontida. Ufficialmente il motivo è la concomitanza del raduno leghista sul “sacro” pratone con lo svolgimento dei congressi in Lombardia e Veneto e di quello federale conclusivo. «Il raduno si farà certamente – spiega l´eurodeputato Matteo Salvini- ma c´è un problema legato alla tempistica. Stiamo pensando ad una data verso la metà di luglio».

La Repubblica 21.05.12

"I risarcimenti e la legge da cambiare", di Bianca Di Giovanni

Per una di quelle incredibili coincidenze della storia il sisma in Emilia-Romagnaha colpito a soli tre giorni dalla pubblicazione del decreto che riforma la protezione civile, con novità sostanziali sulla gestione delle emergenze. Il terremoto di ieri sarà il banco di prova di un decreto che ha avuto una gestazione sofferta (per due volte è stato sul tavolo del consiglio dei ministri) ed è stato accompagnato da un fiume di polemiche, soprattutto sull’ipotesi di nuove tasse sulle calamità e l’avvio di un sistema assicurativo privato che dovrebbe sostituire l’intervento pubblico.
Nel testo non mancano elementi positivi. Dopo mesi di incertezza, si fa finalmente chiarezza sulle funzioni affidate allo stato e quelle delle regioni. La nuova legge dispone infatti che a provvedere agli aiuti nei primi 100 giorni dell’emergenza (per l’esattezza 40 prorogabili di altri 60) sarà lo stato centrale attraverso il fondo della protezione civile. Dopo quella data, tuttavia, dovrà essere la regione colpita a occuparsi della ricostruzione, con fondi propri. E qui compare la facoltà (non l’obbligo) di azionare la leva fiscale, in sostanza la possibilità di aumentare le accise sulla benzina a livello locale. E non solo. Si procede all’avvio di un regime assicurativo privato «per la copertura di rischi derivanti da calamità naturali sui fabbricati a qualunque uso destinati». La norma prevede che «possono essere estesi ai rischi derivanti da calamità naturali tutte le polizze assicurative contro qualsiasi tipo di danno a fabbricati di proprietà di privati». La materia è ancora in via di definizione. L’Isvap (l’autorità di vigilanza delle compagnie assicurative) ha 90 giorni di tempo per emanare un regolamento, sulla base di alcuni criteri. In primo luogo si ipotizzano sgravi fiscali per chi si assicura, con la deducibilità anche parziale della polizza. Il secondo criterio prevede «l’esclusione anche parziale dell’intervento statale per i danni subiti dai fabbricati». Insomma, lo stato arretra, avanzano i privati. Per i cittadini significa sommare all’emergenza terremoto, il rischio caro-benzina e caro-polizza. Non sembra un gran passo avanti. Anzi. Anche se la disposizione che crea due step distinti nella gestione delle calamità punta a eliminare quella pericolosa commistione tra
emergenza, ricostruzione e grandi eventi che provocò un vortice di interventi impropri (e un fiume di denaro versato a gare sportive, processioni e feste patronali) durante la gestione di Guido Bertolaso. Un passo avanti è stato fatto, ora si tratta di farne un altro in favore delle vittime delle calamità. Certo, non è facile, considerano la storia travagliata della «questione emergenze». A dare il via alle proposte di cambiamento è stato Giulio Tremonti, sull’onda degli scandali della «cricca». Nel milleproroghe il Minsitro inserì la norma che obbligava le regioni colpite da calamità a imporre un aumento di accise sulla benzina per finanziare i soccorsi. Per accedere al fondo, le regioni dovevano prima assicurarsi un gettito pari alle somme da utilizzare, che poi avrebbero restituito. Ma quel testo è stato dichiarato illegittimo dalla Corte Costituzionale, a cui si erano rivolte alcune amministrazioni regionali. Solo qualche settimana dopo la sentenza, però, è il governo Monti a intervenire nel decreto semplificazioni inserendo la facoltà di imporre l’accise. Norma «recuperata» poi nella riforma della protezione civile.

l’Unità 21.05.12