ambiente, attualità, cultura

Radiografia di un disastro «Ma numeriamo le pietre e ricostruiamo subito», di Paolo Conti

L’elenco dei danni è provvisorio, nella sua devastante gravità, già lungo e dettagliato per la rapidità dell’intervento. Stavolta il dicastero per i Beni culturali si è mosso in tempo reale. Il ministro Lorenzo Ornaghi, a marzo, ha creato un’unità di crisi coordinata dal segretario generale Antonia Pasqua Recchia, in stretto contatto con la Protezione civile e i Vigili del fuoco per fronteggiare ogni emergenza. Ieri, amarissimo, concreto debutto. Il segretario generale Recchia si è alternata al coordinamento col neoprefetto Fabio Carapezza Guttuso, capo della Commissione sicurezza patrimonio. Il risultato operativo, per esempio, è stato il rapido arrivo dei Vigili del fuoco specializzati, gli stessi spediti a suo tempo a L’Aquila.
L’area modenese è la più colpita. A Finale Emilia crollata la Torre dei Modenesi, perduto il Mastio della Rocca Estense, danni alla Torre del Municipio e al campanile del cimitero monumentale, alle chiese di San Bartolomeo o della Buonamorte, del Rosario, dell’Annunciata (XVI e XVII secolo), giù il timpano e le navate interne del Duomo. Salva la pala del Guercino della chiesa del Seminario. Distrutta la chiesa di San Carlo, nel comune di Sant’Agostino, dove i Vigili hanno salvato la tela dell’altare con un’operazione spettacolare. Nella chiesa di Buoncompra, vicino Finale, metà della facciata è crollata.
Gravissimi danneggiamenti a un’altra Rocca Estense, quella di San Felice sul Panaro, con una storia che comincia nel 927 dopo Cristo. Di nuovo a San Felice crollata in gran parte la Chiesa Arcipretale del 1499 e lesionata la Torre dell’Orologio. In quanto a Ferrara, crollati alcuni cornicioni del Castello Estense, chiusi per precauzione i tre musei statali (Pinacoteca, Museo Archeologico, Casa Romei). Danni alle chiese di San Carlo e Santa Maria in Vado. Nel ferrarese crollata la torre dell’orologio del Castello Lambertini a Poggio Renatico (XV secolo), a Mirabello cedimenti all’oratorio di San Luca e alla chiesa di San Paolo, stessa situazione alla chiesa di San Lorenzo a Casumaro di Cento. Crollata la chiesa di San Martino a Buonacompra di Cento.
Dice Antonia Pasqua Recchia: «Impossibile procedere a una quantificazione economica. Ma il danno è vastissimo. La situazione dei beni culturali in quell’area è ancora più drammatica di quanto non emerga dalle immagini. Se pensiamo che solo a causa della neve sono stati necessari interventi per 20 milioni di euro, possiamo immaginare quanto denaro occorrerà. Il direttore regionale per i Beni culturali dell’Emilia-Romagna, Carla Di Francesco, che sta coordinando le operazioni in tarda serata mi ha parlato di un quadro disastroso». Aggiunge Andrea Carandini, presidente del Consiglio superiore dei Beni culturali: «Manca una completa mappatura del rischio sismico dei beni culturali. Mancano soprattutto i fondi. Quest’anno il ministero dispone di fatto di appena 85 milioni di spesa con un ulteriore taglio di 9 milioni. Una situazione drammatica, al limite del collasso».
La ferita alla cultura italiana è immensa, come spiega Andrea Emiliani, a lungo soprintendente in Emilia-Romagna: «L’area ferrarese e modenese ha un’importanza estrema sia per quanto riguarda l’architettura militare e di Signoria, quanto per l’intensità della vita intellettuale della corte estense che produsse una densa creazione architettonica e pittorica». Ecco perché tante chiese, tante strutture militari, questa fitta tessitura di bellezza architettonica sul territorio.
L’Italia, come teorizzava Cesare Brandi, è un grande museo diffuso sul territorio e un terremoto può devastarlo. Ma una volta tanto Vittorio Sgarbi non è catastrofista. Anzi: «Non ci sarà un altro Abruzzo, dove prevale una cultura assistenzialistica. La laboriosità degli abitanti della zona è famosa, non staranno lì ad aspettare gli aiuti dal cielo, si organizzeranno. Assisteremo a qualcosa di paragonabile a quanto avvenne in Friuli nel 1976».
Già si ipotizzano possibili ricostruzioni. Per esempio del simbolo dei danni culturali di questo sisma, la Torre dei Modenesi, o dell’Orologio, di Finale Emilia: data di nascita 1213, emblema secolare della zona. Dice Antonia Pasqua Recchia, segretario generale del Ministero per i Beni e le attività culturali: «È possibile immaginare un’operazione molto complessa ma realistica. Numerare le pietre e rialzare la torre per anastilosi», cioè ricostruire utilizzando i materiali originari accuratamente riordinati. C’è il precedente del duomo di Venzone, in provincia di Udine. Crollò nel terremoto del 1976 e fu ricostruito tra il 1988 e il 1995 proprio per anastilosi, pietra dopo pietra. Rialzare una torre è importante per una comunità, come spiega Luca Zevi, neoresponsabile del Padiglione Italia alla Biennale Architettura: «Parliamo di un simbolo fondamentale legato all’identità civile e territoriale, visibile da lontano, attorno al quale accorrere in caso di necessità.» Cominciare a recuperare immediatamente sarebbe importantissimo. Proprio per non riscrivere la catastrofica, tristissima pagina del centro storico dell’Aquila. Oggi nuove riunioni al ministero per organizzare squadre di storici dell’arte destinati all’inventario dei danni.

Il Corriere della Sera 21.05.12

******

“Una ferita per la nostra storia” di Salvatore Settis

TORRI abbattute, chiese sventrate, centri storici mutilati: il terremoto dell´Emilia rinnova la tragedia che periodicamente colpisce il Paese. Con la perdita di vite umane, le distruzioni del patrimonio culturale sono la traccia più violenta che un terremoto si lascia dietro. Feriscono la memoria collettiva.
Feriscono l´accumulo di storia che i nostri padri ci hanno lasciato, e che la Costituzione ci impone di preservare per i nostri nipoti. Spesso ci vantiamo di quanto sia grande l´arte italiana. Dimentichiamo però quanto sia fragile, perché fragile è il nostro territorio, il più franoso d´Europa (mezzo milione di frane censite nel 2007), il più soggetto al danno idrogeologico e all´erosione delle coste, anche per «interventi sull´ambiente invasivi e irreversibili» sui due terzi del territorio (dati Ispra). È, anche, il più soggetto a sismi, recentemente censiti da E. Guidoboni e G. Valensise: dall´Unità d´Italia a oggi, 34 terremoti distruttivi e un centinaio di meno gravi, senza contare migliaia di piccole scosse. 1.560 i Comuni colpiti, non meno di 250.000 i morti, 120.000 solo a Reggio e Messina nel 1908. Avezzano 1915, Garfagnana 1920, Carnia 1928, Irpinia 1962, Belice 1968, Friuli 1976, Noto 1990, Umbria e Marche 1997, Abruzzo 2009: sono le date di altrettante battaglie, anzi di una guerra continua che l´Italia combatte contro i terremoti. Con che esito? È triste constatare che a ogni terremoto ci consumiamo di lacrime, per poi dimenticare e sbalordirci quando il sisma colpisce di nuovo, e sempre nelle stesse aree.
Resuscitare i morti è impossibile, ma sarebbe facile ridurne il numero, e insieme limitare i danni al patrimonio evitando i due principali fattori di rischio: il forsennato consumo di suolo che “sigillando” i suoli agricoli ne riduce l´elasticità e accresce gli effetti di frane e sismi; e l´addensarsi di edifici costruiti in spregio ai criteri antisismici “per risparmiare”, cioè perché guadagni di più chi costruisce, condannando a morte i cittadini (per esempio all´Aquila). L´amnesia collettiva che ci affligge spinge in direzione opposta, come mostrò il famigerato “piano casa” di Berlusconi (2009), che “semplificava” le norme antisismiche, invitando le Regioni a sostituire ogni garanzia preventiva con «controlli successivi alla costruzione, anche a campione» (art. 5). Il terremoto d´Abruzzo (due giorni dopo) bloccò l´approvazione della legge, mai varata anche se tutte le Regioni si affrettarono a fare le loro leggine. Il piano per la protezione del patrimonio monumentale dal rischio sismico messo a punto nel 1983 da Giovanni Urbani, grande direttore dell´Istituto Centrale per il Restauro, è rimasto lettera morta. Al contrario, il terremoto d´Abruzzo ha segnato una brusca inversione di rotta nella cultura italiana della tutela. Prima di allora (per esempio in Friuli e in Umbria), la ricostruzione dei centri storici era data per scontata: l´abbandono dell´Aquila (fino ad oggi, tre anni dopo) in favore delle new town amate da Berlusconi e dai costruttori ha calpestato le priorità costituzionali, condannando alla rovina il patrimonio culturale e il tessuto sociale della città.
Accadrà lo stesso in Emilia? Anche stavolta, come col “piano casa” di Berlusconi, la sequenza fra i provvedimenti del governo e gli eventi naturali è drammatica. È di questi giorni l´annuncio del ministro Passera, secondo cui 100 miliardi verranno spesi nei prossimi anni in “grandi opere” per rilanciare l´economia. Ottima notizia, se per “grandi opere” si intendessero le necessarie, urgentissime misure per mettere il territorio nazionale in sicurezza dalle sue mille fragilità e non, come sembra, per continuare in una spietata cementificazione, figlia della mitologia bugiarda di una crescita infinita imperniata sull´edilizia, a scapito dell´ambiente, del paesaggio, dei cittadini. Ma se tutte le “grandi opere” si facessero continuando a ignorare la fragilità del territorio, l´Italia ne uscirebbe più debole, e non più forte. E con essa il suo patrimonio artistico, di cui solo a parole ci vantiamo, abbandonandolo intanto al suo destino (nulla è stato fatto per rimediare agli insensati tagli di Tremonti ai Beni Culturali nel 2008).
Il Presidente Napolitano, in un discorso a Vernazza, la cittadina delle Cinque Terre colpita da alluvione (quattro morti), ha detto che «bisogna affrontare il grande problema nazionale della tutela e della messa in sicurezza del territorio, passando dall´emergenza alla prevenzione». Dopo questo saggio monito, l´unico provvedimento concreto è stato, con sinistro tempismo, la “tassa sulla disgrazia” istituita con decreto legge del 15 maggio: in caso di calamità naturali (come il terremoto dell´Emilia), lo Stato se ne lava le mani. Nessuno avrà più un centesimo, se non aumentando le accise sulla benzina, cioè ridistribuendo i costi fra i cittadini (anche i disoccupati, anche i poveri); i cittadini (meglio: chi può) sono inoltre invitati a stipulare un´assicurazione (privata) contro le calamità.
La domanda è dunque: può lo Stato abdicare al proprio compito primario di tutelare il territorio e l´eguaglianza dei cittadini? Può davvero promuovere, all´indomani di un terremoto, nuove cementificazioni e nuovi balzelli?

La Repubblica 21.05.12